ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 6 giugno 2019

«E…sperimentiamo», a Gallarate sei adolescenti raccontano il mondo del bullismo

Insulti, offese, prese in giro, fastidiosi nomignoli, intimidazioni, esclusione sociale, e, in alcuni casi, addirittura schiaffi e botte. In una parola bullismo, traduzione italiana del termine inglese «buylling», teorizzato negli anni Settanta dallo psicologo svedese Dan Olweus, con il quale si indica un comportamento aggressivo di natura fisica, verbale e psicologica, reiterato nel tempo, nei confronti di una persona incapace di difendersi. Stando agli ultimi dati Istat, presentati lo scorso 27 marzo dal presidente Gian Carlo Blangiardo nel corso di un'audizione alla Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, in Italia un ragazzo su due si dichiara vittima di episodi di bullismo o di cyberbullismo, fenomeno vessatorio, quest’ultimo, che si diffonde tramite Internet e i social network. L’età più a rischio è quella compresa fra gli 11 e i 17 anni.
I dati fotografano, dunque, una situazione emergenziale, che diventa ancora più preoccupante entrando nel dettaglio: una percentuale significativa del campione intervistato, quasi uno su cinque (19,8%), ha, infatti, dichiarato di aver subìto azioni tipiche di bullismo una o più volte al mese nell'ultimo anno; in circa la metà di questi casi (9,1%), ciò è avvenuto una o più volte a settimana. Un confronto fra i sessi mostra, inoltre, una prima differenza sostanziale: il 55% delle giovani contro il 49,9% dei loro coetanei maschi si è dichiarato oggetto di prepotenze. Le differenze sono considerevoli anche a livello territoriale, con una netta prevalenza del fenomeno nel nord del Paese, dove le vittime di azioni vessatorie rappresentano il 23% dei ragazzi tra gli 11 e 17 anni.
Il linguaggio teatrale con la sua capacità di parlare al cuore dei giovani e di farli entrare in empatia con i personaggi narrati rappresenta uno strumento utile non solo per formare il loro carattere, ma anche per promuovere la cittadinanza attiva e per contrastare atteggiamenti vessatori come quelli di cui tanto si parla in televisione e sui giornali. Lo dimostra chiaramente «E…sperimentiamo (sei ragazzi nel mondo del bullismo)», il saggio-spettacolo che gli «Attori in erba» porteranno in scena sabato 8 giugno, alle ore 21, negli spazi della Palestra Gallaratese di Gallarate (in via Pegoraro, 1).
Sul palco saliranno sei ragazzi dai 12 ai 16 anni: Giada Banca, Alice Capasso, Anita Croci, Camilla Dall’Aglio, Tiziano Locarno e Alerik Moisiu. La regia e la scrittura scenica sono a cura dell’attore professionista e insegnante Davide De Mercato.
Dopo la partecipazione al saggio «Coco e il dia dello spettacolo», andato in scena lo scorso 18 maggio al teatro Auditorium di Jerago con Orago, dove hanno interpretato una scena dedicata ai colori e alle atmosfere della festa messicana del giorno dei morti, gli adolescenti della scuola di teatro che «Culturando» cura artisticamente, da questa stagione, per la Palestra Gallaratese si confronteranno, dunque, con un tema di grande attualità, al quale guarda sempre più il mondo del teatro come dimostra il recente musical «Bulli Zoo» all’Olimpico di Roma.
Al centro della rappresentazione, ideata come una sorta di esperimento sociale dove i ragazzi vestiranno alternativamente i panni del bullo e del bullizzato, ci saranno sei improvvisazioni, frutto della fantasia degli «Attori in erba». A tessere la trama e l’ordito del racconto scenico saranno, poi, due storie vere che, attraverso parole, movimento e musica parleranno di giovani e di relazioni, di prepotenze e di paure, sia dal punto di vista della vittima (con la vicenda di Giancarlo Catino, resa famosa sul web dal monologo di Paola Cortellesi) che dalla prospettiva del carnefice, raccontata attraverso un episodio di cyberbullismo.
«Lo spettacolo -spiega Davide De Mercato- racconta tutte le classiche fasi del bullismo: dall’autocommiserazione della vittima alla sua volontà non soddisfatta di chiedere aiuto, sino all’evento scatenante che porta a un cambio di prospettiva e a una presa di coscienza della situazione. La rappresentazione non vuole, però, fornire soluzioni al problema o facili moralismi. Vuole proporre al pubblico un itinerario emozionale, che gli faccia sorgere domande, dubbi. Abbiamo, poi, voluto finire con un invito alla speranza, tutto da scoprire».
Che ad avere la meglio sia il «bullizzato»? Forse sì, ce lo ha insegnato Giancarlo Catino: un abbraccio può sconfiggere un bullo.

Informazioni utili 
«E…sperimentiamo (sei ragazzi nel mondo del bullismo)» è a ingresso gratuito. È gradita la prenotazione al numero 0331.792164 o all'indirizzo e-mail info@palestragallaratese.it. Per maggiori informazioni su «Culturando» è possibile consultare la pagina www.facebook.com/associazioneculturando/.

martedì 4 giugno 2019

Il Mapa di Gus & Waldo a Milano: due cuori e un museo al NYX Hotel Milan

Innamorati, giramondo e di successo. Stiamo parlando della coppia di pinguini Gus & Waldo, nata nel 2005 dalla matita di Massimo Fenati (Genova, 1944), architetto genovese trapiantato a Londra dal 1995, dove ha lavorato come pubblicitario per Nokia, Alessi e Cappellini e come designer negli studi di Jasper Morrison, Pentagram e David Chipperfield Architects, prima di dedicarsi al fumetto e all’animazione per ditte di produzione televisiva.
Con le loro oltre settantamila copie vendute con traduzioni in sei lingue (dal finlandese al tedesco), i due pinguini innamorati, che hanno conquistato anche i giornalisti di due importanti quotidiani britannici come «The Times» e «The Guardian», sono diventati, negli anni, dei veri e propri influencer, puntuali e graffianti, sui temi sempreverdi dell’amore e del sesso.
Gus & Waldo appaiono, infatti, come due perfetti esperti dell’argomento. Appartengono alla specie dei pinguini, una delle più fedeli nel mondo animale. Sono estremamente felici della loro vita insieme, iniziata con uno sguardo complice sulle scale di un centro commerciale. E sono disposti a tutto per riaccendere la scintilla del desiderio quando la quotidianità li mette a dura prova: fanno shopping insieme, vanno al ristorante, si scambiano regali griffati, viaggiano per il mondo e soprattutto accettano le diversità dei loro caratteri.
«Gus, quello col becco a punta, -raccontava nel 2011 Massimo Fenati a Raffaella Serini sulle pagine di «Vanity Fair»- è un maniaco del pulito, un po' nervosetto, legge romanzoni da seicento pagine e veste con stile. Waldo ha il becco arrotondato, un carattere più docile, è trasandato e incasinato. Divora riviste di gossip e ascolta musica pop».
I due teneri pinguini dal tratto morbido e leggero, diversi nei gusti e simili nella capacità di investire tempo ed energie sul loro legame, sono, dunque, una coppia fissa e inossidabile come tante altre e che siano etero o omosessuali poco importa perché -raccontava qualche anno fa, sempre a «Vanity Fair,» il fumettista genovese- «se Waldo si chiamasse Wanda e avesse lunghe ciglia da femme fatale, la loro storia non cambierebbe».
Ideati quasi per caso, quando da un piccolo scarabocchio su un post-it nasce in Massimo Fenati l’idea di realizzare un libro per festeggiare il primo anniversario con il compagno Walter, Gus & Waldo sono ora un vero e proprio brand, al centro di poster, magliette, libri di successo e anche cortometraggi animati, che hanno vinto premi al festival di animazione IRIS di Rio de Janeiro, al Queersicht Film Festival di Berna e al concorso Sub-It alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2009.
In Italia i due simpatici pinguini sono arrivati nel 2008, quando Tea ha pubblicato il volume «Il libro dell’amore di Gus & Waldo»; mentre le ultime strisce edite sono quelle di «Arte pinguina», un libro che ha visto la luce nel nostro Paese nel 2015. Si tratta di un omaggio, in chiave divertita e divertente, ai più grandi capolavori della nostra cultura visiva, simboli iconici di varie epoche, tutti conservati nell’immaginifico e inimitabile MoPa – Museum of Penguin Art.
Dalla Venere di Sandro Botticelli alle ballerine di Edgar Degas, dalla Gioconda di Leonardo da Vinci all’autoritratto di Vincent Van Gogh, senza tralasciare il Bacco di Caravaggio, Massimo Fenati non si dimentica proprio di nessuno nelle sue tavole. Dal 14 giugno al 31 ottobre i suoi lavori saranno in mostra a Milano, negli spazi del NYX Hotel Milan, albergo della catena Leonardo Hotels Group che si distingue per la sua attenzione alla street art e alla video art, con mostre curate, tra gli altri, da Iris Barak, curatrice della Dubi Shiff Art Collection di Tel Aviv.
L’esposizione di Massimo Fenati si avvale dell’organizzazione della galleria di arte diffusa Question Mark Milano di Daniele Decia e Stefania Sarri, che ha recentemente presentato le opere del fumettista genovese nella sua sede di via Briosi.
Le incursioni di Gus & Waldo nell’arte egizia e in quella bizantina, nelle tele del Rinascimento o in quelle degli impressionisti, nelle opere di contemporanei come Hopper e Magritte sono al tempo stesso pop, fumettistiche, poetiche e comunicano in modo leggero capitoli fondamentali della nostra cultura visiva.
Fa sorridere, per esempio, il pinguino impacchettato alla Christo e non intimorisce l’improbabile naufragio di Gus & Waldo su un gommone in mezzo al mare e con un piccolo ombrello a protezione degli schizzi d’acqua, timorosi per l’arrivo della grande onda di Katsushika Hokusai.
 Diverte la rivisitazione del celebre «Pomeriggio alla Grande Jatte» di Georges Seurat, in cui tutti i personaggi sullo sfondo si tramutano in oche, pappagalli e struzzi. Stessa sorte tocca alle donne de «Le déjeuner sur l'herbe» di Édouard Manet, trasformate in due bianchi volatili, totalmente disinteressati alla conversazione tra i due pinguini in abiti ottocenteschi.
Ma le sorprese non finiscono qui. Lungo il percorso espositivo, Waldo finisce con il travestirsi da Monna Walda e da sposa dei Coniugi Arnolfini di Van Eyck. Gus sfoggia lunghi riccioli rossi come Venere botticelliana e diventa anche un’icona pop di Andy Warhol. Entrambi fluttuano nell’immaginifico universo segnico di Mirò in «Due innamorati che guardano alla luna».
Una bella occasione, dunque, quella proposta dal NYX Hotel Milan per ripassare la storia dell’arte con il sorriso sulle labbra e dire «ah ma questo l’ho già visto!».

Informazioni utili 
Arte pinguina. Una mostra di Massimo Fenati. NYX Hotel Milan, piazza Quattro Novembre, 3 – Milano. Orari: 9.00 – 21.00. Ingresso libero. Inaugurazione: giovedì 13 giugno, ore 18.30, su invito. Catalogo: Tea edizioni (€ 13 - ISBN 8850241585). Dal 14 giugno al 31 ottobre 2019

Jean François Migno a Bologna: una danza di colori al Museo civico medioevale

Passato e presente si incontrano quest’estate al Museo civico medioevale di Bologna. Palazzo Ghisilbardi, una delle espressioni più significanti del Rinascimento nel capoluogo emiliano, apre le porte alla mostra «La forza del colore», prima personale in Italia dell’artista francese Jean François Migno. L’esposizione, a cura di Graziano Campanini e Riccardo Betti, prosegue il percorso di indagine sulle dinamiche di interazione tra le opere e i reperti di epoca medievale appartenenti al patrimonio museale della città felsinea e le espressioni della creazione artistica attuale. Dopo le rassegne di Gianni del Bue (estate 2018) e Bruno Ruspanti (estate 2017), è, dunque, la volta di Jean François Migno (Chatou, 1955), artista dalla formazione eterogenea -con alle spalle studi all’École des Beaux Arts di Parigi e all’École du Louvre in architettura, disegno e serigrafia-, interessato all’uso dei colori primari sulla tela e debitore nei confronti delle teorie dell’Espressionismo astratto americano, dagli Action Painting di Jackson Pollock ai Color Field di Sam Francis, e dell’Informale.
Il nucleo principale della mostra si trova racchiuso nella sala del Lapidario per, poi, espandersi all’interno di altre sale del museo: la sette, dominata dall’austera statua di papa Bonifacio VIII in lastre di rame dorato, la quattro, con le arche monumentali dedicate ai Dottori dello Studio bolognese, e la tredici, nel piano interrato, con le lastre di arte funeraria.
L’intera vicenda dell’artista francese, contrassegnata da una continua sperimentazione su diversi mezzi e materiali che rifiuta una piena e concreta definizione della sostanza in favore di un’astrazione dall’aspetto figurativo, viene ripercorsa attraverso una selezione di circa quaranta lavori, comprensiva dei principali cicli della sua produzione, come «Palissade», realizzato negli anni Novanta, e il più recente «Passages» degli anni Duemila.
Questi lavori testimoniano una pratica della pittura vissuta come confronto totalizzante con la tela, un corpo a corpo frontale -fisico, emotivo, intellettuale- in cui il gesto esplora nuove possibilità formali ed espressive di materie e incontri coloristici in convulse partiture spaziali cadenzate da spazi bianchi. Sulle superfici delle tele si scontrano forze e segni da cui si generano grovigli di pasta pittorica che attestano un profondo processo di assimilazione e superamento di alcune delle esperienze figurative più intense del Novecento: l’Informale, l’Espressionismo Astratto d’oltreoceano e la poetica di Henri Matisse, dichiarata fonte di ispirazione di Jean François Migno per la sensuale fisicità del colore e la creazione di una «pittura volumetrica», una sorta di scultura sulla tela, secondo la definizione del co-curatore Riccardo Betti, in cui l’acrilico si unisce alla caseina.
Ed è attraverso l’elemento cromatico, lavorato fino alla perdita percettiva dei suoi confini e movimenti sulla superficie, che la materia si accumula in aggètti grumosi attuando una vocazione alla terza dimensione e alla occupazione dello spazio reale in una sorta di corrida, in un’intensa «danza del colore», insieme «rituale e primitiva», come ricorda Thomas Michael Gunther nel suo testo critico per il catalogo pubblicato dalla Tipografia Bagnoli di Pieve di Cento.
«Il risultato finale -raccontano al Museo civico medioevale- è un'armonia impossibile, imperfetta come la vita stessa che, anche al di là delle contraddizioni, tende verso l'essenziale. Un vibrante inno alla pittura di cui Migno è il gioioso celebrante».
Particolarmente interessante nel lavoro dell’artista è la serie «Portovenere», dedicata al piccolo borgo ligure a picco sul mare, un tempo abitato da soli pescatori e fonte d’ispirazione per grandi poeti come Eugenio Montale e George Byron. Migno riesce a rendere sulla tela la bellezza insita nel luogo, caratterizzato da un'abbagliante luce mediterranea e da mare cristallino in cui ai giorni sereni estivi, con il tranquillo sciabordio delle acque contro gli scogli, se ne alternano altri, in cui la violenza e l’irrequietezza della tempesta la fa da padrona.
«I suoni, i colori e i profumi -scrive, a tal proposito, Riccardo Betti in catalogo- si corrispondono e si confondono, diventando una sola cosa; così come i suoni, i colori e i profumi di Portovenere si fondono sulla superficie bianca dello spazio. Nascono quindi immagini non convenzionali, che non soddisfano appieno le nostre aspettative, il cui disordine però è in grado di attivare in noi percorsi autentici e inaspettati capaci di riportare la nostra mente agli strilli e alle grida dei gabbiani, ai vivaci colori delle case del litorale e ai nostalgici profumi del mare ligure».
Interessante è anche la riflessione scritta da Graziano Campanini per il catalogo, nella quale si va alla ricerca dei debiti di Migno nei confronti della grande arte del Novecento: «Personalmente -scrive il curatore-, i suoi lavori mi ricordano opere di Emilio Vedova, come «Premier Passage», «Apesanteur» del 1990, «Palissa-des» del 1993 o «Collage» del 2009, per le tracce diagonali che sa mettere nelle sue tele, ma anche un altro grande pittore italiano come Giuseppe Santomaso, per l’uso sapiente dei colori, vedi «Avant l’apesanteur» del 1990, «Collage» del 1996 oppure «Passages» del 2014. Altre opere, in cui sono presenti in preponderanza bianchi e neri, riportano immediatamente alla mente Alberto Burri, come «Palissades» del 1991 e del 1997 e «Cercle, Apesanteur» del 1990».
Una mostra, dunque, interessante quella del Museo civico medioevale di Bologna che porta il visitatore a tu per tu con il colore, strumento principe nella ricerca di Migno, tanto che sembra impossibile non pensare a una frase di Paul Klee guardando le sue opere: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jean François Migno, Grand rouge, 2016. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 130 x 194; [fig. 2] Jean François Migno, Senza titolo, 2017. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 3] Jean François Migno, Passages, 2015. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 4] Jean François Migno, Colonnes, 2014. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 114 x 193

Informazioni utili
Jean François Migno. La forza del colore. Museo civico medievale, via Manzoni, 4 – Bologna.Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso i lunedì feriali. Ingresso: intero € 6,00 | ridot-to € 3,00 | gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e il giovedì nelle ultime due ore di apertura del museo. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito web: www.museibologna.it/arteantica. Fino all’8 settembre 2019.

martedì 21 maggio 2019

Da Merano a Fontanellato, otto labirinti da vedere

Il più leggendario è senz’altro quello di Cnosso, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal re Minosse, sull'isola di Creta, per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall'unione di sua moglie Pasifae con un toro.
L’ultimo nato in termini di tempo è quello ricreato da Milovan Farronato per il Padiglione Italia dell’attuale edizione della Biennale internazionale d’arte di Venezia, all’interno del quale si trovano le opere di Enrico David (Ancona, 1966), Liliana Moro (Milano, 1961) e della compianta Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017), scomparsa lo scorso anno.
Il labirinto è da sempre un luogo affascinante, carico di mistero e di simbologia, un viaggio del quale si conosce la meta, ma non la strada per raggiungerla.
Virail, la piattaforma che compara i diversi mezzi di trasporto per trovare la soluzione migliore per ogni esigenza, ha da poco proposto ai suoi utenti un percorso su e giù per l'Italia, nel quale perdersi e ritrovarsi, in mezzo alla natura, tra i dedali più belli del nostro Paese.
Il viaggio può partire da Kränzelhof, una delle cantine che puntellano l’area di Merano e che producono vini nella zona di Cermes, tra le montagne dell’Alto Adige.
La tenuta ha una storia antichissima, pare risalga addirittura al 1182, e oggi è famosa non solo per le bottiglie che vengono prodotte, ma anche per i suoi sette giardini. Uno di questi ospita un labirinto vinicolo, un’opera più unica che rara in Italia, realizzata con oltre dieci specie diverse di vitigni. Il percorso di 1500 metri fu voluto dal proprietario, il conte Franz Graf Pfeil, e, ogni anno, seguendo un tema specifico, viene decorato con opere d’arte diverse per arricchire la visita dei curiosi che vogliono perdersi e giocare tra le viti.
Rimanendo nel Nord-est merita una segnalazione il labirinto situato sull’isola di San Giorgio, a Venezia, raggiungibile in pochi minuti di vaporetto da piazza San Marco. Tra le mete più gettonate dagli amanti dell’arte, che in questi mesi potranno ammirare una bella retrospettiva di Alberto Burri alla Fondazione Cini e una raffinata personale di Sean Scully in Basilica, l'isola permette di avventurarsi, all'interno dell’antico convento, nel Labirinto Borges, costruito nel 2011 in omaggio allo scrittore argentino Jorge Luis Borges e alla sua opera «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Il percorso è creato con oltre tremila piante di bosco e si snoda per circa mille e centocinquanta metri, ma la vera sorpresa la si può scoprire solo guardando il dedalo dal campanile della chiesa di San Giorgio Maggiore: i sentieri, tra spirali e linee rette, danno vita ad innumerevoli parole e simboli da individuare, tra cui anche la parola Borges.
Rimanendo in provincia di Venezia un altro labirinto da visitare è quello di Stra, a Villa Pisani, una delle più famose residenze della Riviera del Brenta, punto di riferimento architettonico e artistico importante, ma anche meta perfetta anche per gli amanti dei giardini. Il suo dedalo in siepi di bosso, realizzato nel diciottesimo secolo come luogo di divertimento e corteggiamento, è un piccolo capolavoro: nella torretta centrale, ai tempi, una dama mascherata era solita aspettare il cavaliere alle prese con il complesso percorso, pronta per rivelarsi una volta raggiunta.
In Veneto ci sono altri tre labirinti da non perdere: due in provincia di Padova, uno nel Veronese. Quest'ultimo si trova a Valeggio sul Mincio, nel parco di Sigurtà, che dal 1978 ospita al suo interno specchi d’acqua, decine e decine di specie diverse di piante, un elegante castelletto, aree didattiche e un grande labirinto, composto da oltre mille e cinquecento piante di tasso che superano i due metri.
Ci sono voluti ben due anni per progettare questo dedalo e il doppio di tempo perché le piante raggiungessero l’altezza ottimale. La torretta al centro, meta finale di chiunque provi a risolvere il suo enigma, è ispirata a quella francese del parco Bois de Boulogne di Parigi: un dettaglio molto elegante che si sposa perfettamente con l’atmosfera del parco.
Nel Padovano merita, invece, una visita Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel cui giardino, ricco di alberi secolari da tutto il mondo, di fontane e di statue ospita c'è un grande labirinto in bosso: un dedalo quadrato che oggi è tra i più grandi realizzati nel XVII secolo e giunti fino a noi.
La maggior parte delle piante fu posizionata tra il 1664 e il 1669 e ha, quindi, oltre quattrocento anni: un dettaglio che rende l’esperienza ancora più autentica.
Il percorso, voluto dal cardinale San Gregorio Barbarigo, raggiunge in totale i 1500 metri e fu realizzato con un forte significato simbolico: il complesso cammino verso la perfezione e la salvezza.
I sei vicoli ciechi e il circolo vizioso rappresentano i vizi capitali e costringono i visitatori a tornare sui propri passi, una metafora che invita a riflettere sui propri errori per raggiungere la salvezza, ossia il centro del labirinto e il suo punto più alto.
Il giardino venne realizzato dalla famiglia Barbarigo come voto a Dio per sconfiggere la peste del 1631, l’epidemia che segnò anni molto difficili e dolorosi per Venezia.
Il labirinto, in particolare, intendeva trasmettere un messaggio positivo: la vita può essere complicata, ma tutto si risolve poiché c’è sempre una via d’uscita.
Dal 1929 il giardino è di proprietà della famiglia Pizzoni Ardemani, oggi giunti alla terza generazione, che come i proprietari precedenti si impegno ad essere custodi attenti e scrupolosi di questo luogo unico al mondo per varietà botanica e per la sua simbologia.
Sempre nel Padovano ci sono i labirinti del Castello di San Pelagio, nome con cui è conosciuta Villa Zaborra, al cui interno è conservato il Museo del volo, uno spazio espositivo dedicato alla storia dell’uomo e dell’aria, dai primi studi ai mezzi spaziali, passando per mongolfiere e personaggi che hanno compiuto imprese straordinarie.
La villa accoglie tre ben dedali, ognuno con un proprio tema: il Labirinto del Minotauro, di ispirazione mitologica, il Labirinto africano, arricchito con animali e maschere rituali, e il Labirinto del «Forse che sì forse che no», ispirato a un’opera di Gabriele D’Annunzio.
Nel Nord-ovest è, invece, immancabile una visita al dedalo del Castello di Masino a Caravino, una delle tante residenze aristocratiche del Piemonte. Un tempo dimora dei conti Valperga, l'affascinante edificio è oggi proprietà del Fai - Fondo ambiente italiano. Il suo dedalo si trova all’interno del parco e rappresenta il secondo labirinto botanico più grande della nostra penisola. È un percorso ricco di svolte e vicoli ciechi ricostruito secondo l’antico progetto settecentesco, quando il castello si trasformò da massiccia fortezza a elegante dimora nobile.
Chiede il percorso tra i labirinti italiani Fontanellato, in provincia di Parma, con il Labirinto della Masone, aperto ai visitatori nel 2015. Interamente realizzato con oltre duecentomila piante di bambù, l'intero percorso supera i tre chilometri e permette al pubblico di camminare affiancato da canne alte anche quindici metri. Quello voluto da Franco Maria Ricci non è, però, solo un dedalo nel quale vagare, ma anche un luogo dedicato all’arte e alla musica, agli eventi e agli incontri: un vero e proprio punto di riferimento culturale nel territorio.
Sono tante, dunque, le occasione che l’Italia offre per una giornata in mezzo alla natura, giocando a perdersi e a ritrovarsi cullati dalle suggestioni di un elemento come il labirinto di cui è in debito molta arte e letteratura.

Informazioni utili
[Fig. 1] Labirinto del Masone a Fontanellato, Parma; [fig. 2] Labirinto di Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia; [fig. 3] Labirinto di Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel Padovano;  [fig. 4] Labirinto Borges all'Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Ph Agenzia Vision. Courtesy Fondazione Giorgio Cini; [figg. 5 e 6] Labirinto Sigurtà a Valeggio sul Mincio; [fig. 7] Labirinto della Kränzelhof in Alto Adige

sabato 18 maggio 2019

Riaperto a Zurigo il Pavillon Le Corbusier

Zurigo ha da poco ritrovato uno dei suoi tesori artistici. La scorsa settimana ha riaperto al pubblico, dopo un importante lavoro di restyling del costo di circa cinque milioni di franchi, durato diciotto mesi e curato da Silvio Schmed e Arthur Rüegg, il Pavillon Le Corbusier, commissionato all’architetto, designer, urbanista e artista svizzero-francese negli anni Sessanta dalla collezionista Heidi Weber.
Situato sulla riva orientale del lago, nel quartiere di Seefeld, in una incantevole posizione a pochi passi dal centro storico della città svizzera, l’edificio, completato nel 1967, rappresenta l’ultima costruzione di Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Édouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 6 ottobre 1887 – Roccabruna, 27 agosto 1965), figura tra le più influenti della storia dell'architettura contemporanea, ricordato con Ludwig Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto come maestro del Movimento moderno.
Il Pavillon, che si sviluppa su due piani, è interamente costruito in vetro, acciaio, pannelli di vernice colorata e cemento armato, un elemento, quest’ultimo, che l’architetto svizzero-francese ha utilizzato più volte come un vero e proprio strumento di espressione come documentano, per esempio, la Cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp e Villa Savoye a Poissy, due dei suoi tanti edifici entrati a far parte del patrimonio Unesco.
Il padiglione espositivo -usato da Heidi Weber come spazio per i lavori artistici della propria collezione, dai dipinti a olio ai disegni, dai mobili alle sculture- segue, inoltre, appieno il sistema Modulor, una misura di grandezze sviluppata dall’artista sul rapporto di determinazione della sezione aurea, riguardo alle proporzioni del corpo umano, del quale egli stesso diceva: «è una scala di proporzioni che rende difficile l'errore, facile il suo contrario».
Il Pavillon ebbe una lunga esegesi come dimostrano numerosi schizzi e progetti realizzati a partire da metà degli anni Cinquanta. La realizzazione e poi il completamento dell'opera si devono molto alla pazienza e perseveranza di Heidi Weber. Fu, infatti, la collezionista e mecenate svizzera a ottenere dalla città di Zurigo il diritto di uso per cinquant'anni del suolo, il prato Blatterwiese, e fu sempre lei si adoperò per superare le molte difficoltà, prima fra tutte la morte dello stesso Le Corbusier. I lavori di realizzazione, iniziati nel 1964, furono, infatti, interrotti dalla morte del celebre architetto nell'agosto del 1965 e ripresero, quindi, con un nuovo team di progetto per terminare nel 1967.
Dal 2014 il padiglione, espressione perfetta di quella «sintesi delle arti» teorizzata da Le Corbusier, è entrato nelle disponibilità della città di Zurigo che, dal 2019, lo aprirà tutti gli anni da maggio a novembre. La gestione dell'edificio è stata affidata al Museo für Gestaltung, la più importante istituzione di design e di arte visiva in Svizzera con la sua collezione di oltre 500mila opere, che gestisce altri due musei cittadini.
Il Pavillon ospiterà, di anno in anno, mostre temporanee, manifestazioni e workshop tesi a illustrare le opere e l’enorme influenza dell'architetto franco-svizzero nel mondo dell’arte. La mostra d'apertura si intitola «Mon univers» ed è dedicata a una delle tante passioni di Le Corbusier: il collezionismo. Gli oggetti esposti, provenienti dalla fondazione intitolata all’artista e da importanti collezioni private, creano un dialogo tematico con il padiglione e sono presentati insieme con alcuni filmati dell’architetto e a una mostra permanente di fotografie realizzate dal celebre René Burri tra il 1955 e il 1965, nel suo ruolo di cronista visivo di Le Corbusier.
Da non perdere per chi si trova a Zurigo, oltre al rinnovato Padiglione in riva al lago, sono anche gli eventi promossi nelle altre due sedi del museo: la mostra dedicata a Sebastião Salgado, fino al 23 giugno, e la permanente «Collection Highlights», dove si possono ammirare icone del design svizzero quali il pelapatate Rex, il coltellino dell’esercito svizzero firmato Victorinox e anche il celeberrimo font «Helvetica».

Informazioni utili 
Pavillon Le Corbusier, Höschgasse 8 - 8008 Zürich. Orari: da martedì a domenica, ore 12.00 – 18.00; giovedì, ore 12.00 – 20.00. Informazioni: tel. +41434464468, welcome@pavillon-le-corbusier.ch. Sito internet: www.pavillon-le-corbusier.ch.

giovedì 16 maggio 2019

«Planet or plastic?»: a Bologna una mostra sull’uso consapevole della plastica

È la chiesa che custodisce il famoso «Compianto del Cristo morto», uno dei più vigorosi ed espressivi capolavori della scultura italiana, modellato in terracotta nella seconda metà del Quattrocento da Niccolò dell’Arca. Ma, da qualche settimana, è anche la sede di una mostra che propone una riflessione sull’uso consapevole e responsabile della plastica nell’ambito di una campagna internazionale lanciata dal National Geographic, che vede tra i testimonial italiani Marco Mengoni. Fino al prossimo 22 settembre Santa Maria della Vita, complesso monumentale fondato nella seconda metà del XIII secolo dalla Confraternita dei Battuti o Flagellati e gestito dal 2006 da Genus Bononiae, ospita la rassegna «Planet or plastic?», curata da Marco Cattaneo, direttore di National Geographic Italia, e dalla redazione, con la collaborazione della scrittrice e documentarista Alessandra Viola.
Leggera, resistente, economica: la plastica ci ha cambiato la vita. Dall'elettronica alla sanità fino ai trasporti e al più semplice oggetto di consumo oggi non possiamo più farne a meno, ma quella prodotta dalla sua invenzione a oggi, riciclata solo in minima parte, si sta accumulando nell'ambiente. Da quel giorno del 1954 ne sono stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate, di cui 6,3 sono diventati rifiuti che possono rimanere nell'ambiente anche per 400 anni o più. Perché le materie plastiche non sono biodegradabili. La plastica che finisce in mare mette in pericolo la vita degli animali marini, si accumula in grandi isole galleggianti, e con il tempo si rompe in pezzi sempre più piccoli che vengono ingeriti da pesci, cetacei, uccelli.
L’esposizione accompagna lo spettatore in un coinvolgente percorso articolato in una quarantina di foto e due video-installazioni volte a provocare una riflessione sul materiale che è diventato ormai sinonimo di degrado e distruzione del pianeta. Otto sono i grandi temi trattati dalla rassegna: dalla quantità di plastica prodotta nel mondo all’impatto sull’ambiente e sulla catena alimentare, dal riuso all’educazione individuale e collettiva.
Il percorso della mostra alterna le fotografie dei grandi reporter di National Geographic all'originale lavoro artistico di Mandy Barker, che ha scelto di raccogliere rifiuti di plastica da tutto il mondo per un progetto fotografico di eccezionale valore estetico e al tempo stesso di grande impatto emotivo. All’interno della rassegna è possibile, inoltre, ammirare l’installazione «Iceberg», di Francesca Pasquali, artista nota per rivalutare oggetti d’uso comune, come delle semplici cannucce di plastica per farne delle vere e proprie opere d’arte.
Completa il percorso la proiezione del documentario «Punto di non ritorno» del regista premio Oscar Fisher Stevens e dell'attore Leonardo Di Caprio: un affascinante resoconto sui drammatici mutamenti che si verificano oggi in tutto il mondo a causa dei cambiamenti climatici. ormai sinonimo di degrado e distruzione del pianeta. Otto i grandi temi in mostra, dalla quantità di plastica prodotta nel mondo all’impatto sull’ambiente e sulla catena alimentare, dal riuso all’educazione individuale e collettiva.
La mostra, che è interamente prodotta con materiali riciclabili come cartone alveolare e carta da parati, offrirà anche l'occasione per partecipare a un grande progetto collettivo. Ai visitatori è richiesto di portare a Santa Maria della Vita e lasciare in un grande contenitore le loro bottiglie di plastica, una per ciascuno di loro. Quelle bottiglie troveranno nuova vita in un’installazione architettonica itinerante che sarà l'oggetto del concorso internazionale di idee «Plastic Monument – Architectural Design Competition», che vedrà in giuria architetti del calibro di Kengo Kuma, Carlo Ratti e Italo Rota. Il concorso, bandito da YAC - Young Architects Competitions, vedrà giovani architetti sfidarsi per realizzare un'installazione destinata a farsi ambasciatrice internazionale dei valori di tutela e sensibilità ambientale propri della mostra.
La rassegna bolognese si propone così di dimostrare quanto sia opportuno gestire la plastica in maniera opportuna nel rispetto del nostro pianeta.

Informazioni utili 
Planet or Plastic?. Chiesa Santa Maria della Vita, via Clavature, 8-10 – Bologna. Orari: martedì - domenica, ore 10.00 – 19.00. Ingresso: intero 10,00 euro, ridotto 5,00 euro. Informazioni: tel. 051.19936343 - esposizioni@genusbononiae.it. Sito web: www.genusbononiae.it. Fino al 22 settembre 2019

martedì 14 maggio 2019

«You are Leo», un viaggio tra reale e virtuale nella Milano di Leonardo

È partito ormai da qualche giorno il conto alla rovescia per la presentazione di «You Are Leo», il primo virtual reality guide street tour dedicato a Leonardo da Vinci (1452-1519), in occasione dell’anniversario dei cinquecento anni dalla morte. La preview, prevista per la mattinata del 23 maggio alla Fonderia Napoleonica Eugenia di Milano, permetterà di scoprire tutti i segreti di questa inedita passeggiata nel centro di Milano, che è al contempo un viaggio nel tempo.
Grazie ad avanzate tecnologie immersive, il visitatore potrà ripercorrere i passidel genio vinciano, partendo dalla Fabbrica del Duomo passando, poi, per Palazzo Reale, nella cui Corte Vecchia c’era lo studio dell’artista, per proseguire, quindi, verso la Pinacoteca Ambrosiana, dove è conservato il Codice Atlantico, e la Porta Vercellina, con la vista medioevale del Naviglio di San Gerolamo e della campagna. La visita virtuale, realizzata da Way – We Augment You con Artem, si concluderà al complesso di Santa Maria delle Grazie, dove è conservato uno dei capolavori di Leonardo: l’«Ultima cena».
In seguito a un’importante ricerca scientifica per una corretta ricostruzione filologica, che ha guardato alle fonti letterarie e iconografiche legate alla storia del Rinascimento milanese legata al Ducato di Ludovico il Moro, è stato creato un virtual tour che mostra Milano come poteva essere ammirata dal maestro della «Gioconda».
Ne è nato un viaggio turistico reale attraverso la città e virtuale attraverso il tempo: «Leonardo da Vinci -raccontano a tal proposito gli ideatori del percorso- ci ha donato i suoi occhi per mostrarci la sua Milano, mettendo le persone al centro di un'esperienza totalmente immersiva nella Milano di allora». Per questo motivo nella realizzazione del progetto si è guardato anche all'architettura del Quattrocento ancora visibile nel capoluogo lombardo: l’Ospedale Maggiore, il Castello di Porta Giovia, i resti dell’antico Palazzo Ducale, come pure alle miniature di Cristoforo de Predis.
Verrà compiuto concretamente un percorso a piedi di circa un miglio lombardo (1,8 km) della durata di un’ora e quaranta minuti, durante la quale il visitatore vedrà ricostruirsi e animarsi l’area intorno a sé, così come le opere d’arte connesse alla narrazione, che verranno visualizzate e raccontate in ambienti limbo a 360°.
Ciascun partecipante verrà munito di un avanzatissimo visore VR, all’interno del quale si attiveranno le esperienze virtuali.
Ad accompagnare il viaggio sarà un esperto storico dell’arte, che accoglierà e guiderà il visitatore nel percorso e gestirà l’attivazione delle esperienze VR.
A quel punto la guida reale lascerà il posto a quella virtuale che offrirà gli occhi di Leonardo per immergersi nei suoi luoghi e vedere ciò che lui stesso vedeva. Un viaggio, dunque, tra realtà e virtuale che farà diventare lo spettatore Leonardo, come recita lo stesso titolo del progetto: «You are Leo».

Informazioni utili 
www.youareleo.com. Biglietti: intero € 25,00, ridotto € 20,00 per over 65 e under 18, famiglia adulto € 15,00, famiglia bambino € 15,00, gratuito fino a 6 anni, turisti stranieri € 30,00 (visita in inglese). Prenotazione gruppi e scuole, Ad Artem, tel. 026597728, info@adartem.it.

domenica 12 maggio 2019

Guala Bicchieri, la Magna Charta e il suo lascito a Vercelli

La concessione della Magna Charta Libertatum, strappata al re Giovanni Senzaterra dai baroni del suo Regno il 15 giugno 1215 a Runnymede, è uno dei grandi momenti della storia inglese e non solo.
Questo documento, scritto in latino, è, infatti, la prima carta di natura giuridica che elenca i diritti fondamentali del popolo, o meglio di una parte di esso (alto clero, nobili, baroni e funzionari di Stato), sancendo che nessuno, sovrano compreso, è al di sopra della legge e che chiunque, secondo il principio dell’habeas corpus integrum, ha diritto a un processo equo.
Per queste ragioni la Magna Charta viene ancora oggi ritenuta da molti studiosi il primo documento fondamentale per il riconoscimento universale dei diritti del popolo, nonostante fosse inscritta nel quadro di una giurisprudenza di tipo feudale, nonché il documento che ha decretato la nascita del moderno stato di diritto o per certi versi della forma moderna della democrazia.
Pochi, invece, sanno o si ricordano che dietro a questo testo c’è anche una mano italiana, quella del cardinale Guala Bicchieri (Vercelli, 1150 circa – Roma, 1227), in quegli anni legato pontificio alla corte inglese, che fece da «supervisore» al documento ponendo il proprio sigillo nelle versioni revisionate del 1216 e del 1217.
Questa terza variante del documento, solitamente conservata nel Capitolo della Cattedrale di Hereford, è esposta per la prima volta in Italia all’Arca di San Marco a Vercelli, in occasione delle manifestazioni per gli ottocento anni dalla fondazione dell’Abbazia di Sant’Andrea, la cui prima pietra venne posata il 19 febbraio 1219 proprio dal cardinale Guala Bicchieri.
L’importanza delle missioni affidategli dal pontefice e il ruolo che giocò sullo scacchiere internazionale, non fecero, infatti, mai dimenticare al prelato piemontese, tra l’altro tutore del giovane re Enrico III durante la reggenza di Guglielmo il maresciallo, il legame con la sua terra natale.
Al mecenatismo di Guala Bicchieri, la cui famiglia faceva parte dell’operoso ceto dei cives legato alla Chiesa vercellese, si deve, infatti, anche il sostegno economico per la realizzazione di Sant’Andrea, uno dei primi esempi di costruzione gotica in Italia, che vide la sua inaugurazione nel 1227.
A questa storia guarda la mostra «La Magna Charta - Guala Bicchieri e il suo lascito», prima tappa di un progetto espositivo corale e diffuso che coinvolge più realtà vercellesi, dall’archivio fotografico del Museo Borgogna per arrivare all’Archivio di Stato, senza dimenticare il Museo Francesco Leone e il Museo del Tesoro del Duomo.
L’allestimento scenografico nello spazio dell’ex chiesa di San Marco mette in luce le caratteristiche e l’importanza della Magna Charta e del cardinale Guala Bicchieri, permettendo ai visitatori di conoscere la storia del prelato, e il legame con la città di Vercelli, in un viaggio temporale attraverso il Medioevo e i secoli successivi.
Accanto alla pergamena della Magna Charta, che rappresenta uno dei momenti più importanti della nostra storia, la mostra accoglie opere di eccezionale valore storico-artistico, che raccontano la sensibilità e il gusto di Guala Bicchieri, come il prezioso cofano e gli smalti di Limoges, provenienti dal Palazzo Madama - Museo civico d’arte antica di Torino, o il raffinato coltello eucaristico, usualmente custodito dalle Civiche raccolte di arte applicata – Castello Sforzesco di Milano.
A completare il percorso espositivo, ideato da Daniele De Luca, sono due ritratti del XVII e del XIX secolo raffiguranti il cardinale, concessi in prestito dall’Asl-Ospedale di Sant’Andrea di Vercelli, e un nucleo di documenti inediti: codici, fogli e pergamene della Biblioteca diocesana agnesiana, oltre a documenti della Biblioteca civica di Vercelli, tra cui uno dei due codici detti «dei Biscioni».
Un’occasione, dunque, quella promossa dalla Città di Vercelli, con il polo universitario cittadino e con la collaborazione della Fondazione Torino Musei, per riannodare i fili della propria storia e per conoscere le vicende di un suo illustre concittadino, quel Guala Bicchieri, intelligente giurista e appassionato cultore dell’arte, «la cui missione inglese – scrive Gianna Baucero nel libro «In viaggio con il cardinale»- ha i contorni di un affascinante romanzo medievale nel quale intrigo, ardore militare e lotte religiose si stagliano contro lo sfondo della corte d'Inghilterra».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Magna Charta, redazione del 2017. Prestito concesso dal Capitolo della Cattedrale di Hereford, Regno Unito. Fronte del documento; [fig. 2] Magna Charta, redazione del 2017. Prestito concesso dal Capitolo della Cattedrale di Hereford, Regno Unito. Retro del documento; [fig. 3] Cofano di Guala Bicchieri. Limoges, 1220-1225 circa. Rame traforato, sbalzato, cesellato, stampato, inciso e dorato, smalto champlevé, paste vitree, legno di noce verniciato, tela di canapa grigia. Torino, Palazzo Madama – Museo civico d’arte antica; [fig. 4] Cofano di Guala Bicchieri. Limoges, 1220-1225 circa. Rame traforato, sbalzato, cesellato, stampato, inciso e dorato, smalto champlevé, paste vitree, legno di noce verniciato, tela di canapa grigia. Torino, Palazzo Madama – Museo civico d’arte antica 

Informazioni utili 
«La Magna Charta: Guala Bicchieri e il suo lascito. L’Europa a Vercelli nel Duecento». Arca - ex chiesa di San Marco, piazza San Marco 1 – Vercelli. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00. Ingresso: intero € 5,00; gratuito per giovani fino ai 24 anni, over 65, studenti universitari, Abbonamento Musei Piemonte, Abbonamento Musei Lombardia, Tesserati FAI, Soci Touring Club. Informazioni, prenotazioni e visite guidate gruppi: ATL Valsesia Vercelli, cell. 335.709.6337 o info@santandreavercelli.com. Sito internet: http://santandreavercelli.com. Fino al 9 giugno 2019

venerdì 10 maggio 2019

Un «tesoro ritrovato» al Musec di Lugano: in mostra nuove sculture della collezione Brignoni

Era il 1984 quando, grazie a una donazione di arte etnica di proprietà di Serge Brignoni, la Municipalità di Lugano decideva di inaugurare il Museo delle Culture.
La sede prescelta per ospitare questa nuova realtà fu l’Heleneum, una bella villa neoclassicheggiante in riva al lago, giusto all’inizio del sentiero che da Castagnola porta all’antico abitato di Gandria.
Cinque anni dopo, il 23 settembre 1989, il museo apriva i battenti.
Al suo interno si muovevano due differenti ideologie gestionali: Serge Brignoni, appassionato dell’art nègre con Giacometti e Miró, voleva dimostrare come le opere esposte fossero parte delle fonti che avevano rinnovato i linguaggi artistici del Novecento; i giovani studiosi che la Municipalità di Lugano aveva coinvolto nel progetto intendevano costruire principalmente un centro di competenza che si occupasse delle culture e delle società non occidentali.
I risultati dei primi anni di gestione della neonata organizzazione dimostrarono che ambedue le prospettive erano probabilmente troppo ambiziose per la realtà socio-culturale e per gli interessi locali di allora. Il museo finì per chiudere i battenti.
Solo nel 2005 la Municipalità di Lugano decise di ridare nuova linfa a quella realtà, tanto da trovargli due anni fa, nella primavera del 2017, anche una nuova sede negli spazi di Villa Malpensata.
Sin dalla riapertura il Museo delle Culture aveva un sogno: riunire l’intera collezione di Serge Brignoni. Delle originali ottocento opere che il collezionista aveva immaginato di donare a Lugano ne era arrivate 541 al momento dell’inaugurazione e altre 127 negli anni successivi.
Una parte abbastanza importante della raccolta era rimasta nella casa bernese di Brugnoni o era stata venduta o destinata altrove.
Il più importante dei nuclei non giunto a Lugano era stato donato, alla fine del 1998, al Kunstmuseum Bern che, a sua volta, poco tempo dopo, aveva deciso di depositarlo al Musée d’ethnographie di Neuchâtel.
Queste opere, in tutto venticinque, sono state da poco acquisite dal Museo delle Culture, dopo una trattativa con Berna iniziata dalla Fondazione Culture e Musei due anni fa, al tempo del passaggio del Musec a Villa Malpensata. Il Museo di Neuchâtel ha, infatti, riconosciuto Lugano come la sede migliore per ospitare anche quella parte della raccolta di Brignoni.
Le opere acquisite dal museo luganese diretto da Francesco Paolo Campione sono soprattutto sculture di legno provenienti dall’Indonesia, dall’Oceania e dall’Africa, che fanno sì che oggi il Musec abbia la più rilevante collezione al mondo di grandi sculture di legno del Borneo.
La nuova acquisizione è attualmente al centro di una mostra, aperta fino al prossimo 10 novembre, nello «Spazio Cielo» di Villa Malpensata nell’ambito delle «anteprime» organizzate in vista dell’inaugurazione ufficiale del “nuovo” Musec, fissata per l’aprile del 2019.
L’allestimento è particolare: le opere sono esposte come se fossero state appena disimballate e, per questo, accanto a ognuna di esse vi è una lunga descrizione. «Abbiamo immaginato -raccontano dal museo- il titolo della scheda per suggerire l’emozione di chi, dell’opera, percepisce prima di tutto un valore unitario. Il contenuto della scheda è stato, invece, immaginato per condurre per mano il visitatore alla scoperta di alcuni valori remoti dell’opera d’arte, quelli espressi dall’originario creatore e dal contesto culturale».
Tra i pezzi esposti è possibile ammirare una scultura balinese di legno nobile interamente rivestita di antiche monete forate al centro, raffigurante la divinità Sri Sedana, la cui immagine è associata alla ricchezza materiale e al sostentamento.
 Ci sono, poi, interessanti testimonianze di vari popoli locali: gli Abelam con una maschera di fibra vegetale, gli Asmat e i Toraja con la raffigurazione di un corpo finemente intarsiato con motivi geometrici a rilievo.
Merita, infine, una segnalazione il palo cerimoniale (sapundu) originario dell’isola del Borneo, realizzato nel XIX secolo, che veniva impiegato dal popolo Ngaju nelle feste di “seconda sepoltura” per immolare i bufali in onore dei defunti.
Un percorso, dunque, curioso e interessante quello proposto dal Musec, con l’intento anche di ricreare una gioia, quella di chi è riuscito a ottenere per Lugano questa raccolta e quella di Serge Brignoni, che con questi pezzi, espressioni creative di alto grado, è riuscito anche a trasmetterci le sue aspirazioni e gli ideali di un’intera generazione di artisti alla ricerca di una fuga dal realismo figurativo che aveva condizionato secoli di arte europea.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] cultura balinese di legno nobile interamente rivestita di antiche monete forate al centro. Raffigura la divinità Sri Sedana, la cui immagine è associata alla ricchezza materiale e al sostentamento. [Indonesia, Bali, XIX - inizio del XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 2] Parte alta di un palo cerimoniale (sapundu) originario dell’isola del Borneo. Era impiegato dal popolo Ngaju nelle feste di “seconda sepoltura” per immolare i bufali in onore dei defunti. [Indonesia, Borneo, XIX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 3] cultura raffigurante un antenato del popolo Asmat. [Indonesia, Papua, XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 4] Grande maschera di fibra vegetale intessuta, raffigurante un antenato del popolo Abelam. [Nuova Guinea, Maprik, XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano.

Informazioni utili 
«Un tesoro ritrovato. Nuove opere della Collezione Brignoni». MUSEC, Villa Malpensata, Riva Caccia 5 / Via Mazzini 5 – Lugano (Svizzera). Orari: tutti i giorni, dalle ore 14.00 alle ore 18.00, martedì chiuso. Ingresso: Chf 5.-. Informazioni: +41 (0)58 866 6964. Sito internet: https://www.mcl.lugano.ch/. Fino al 16 giugno 2019. Prorogata fino al 10 novembre 2019.

mercoledì 8 maggio 2019

58° Biennale di Venezia: l’arte e i nostri «tempi interessanti»

È una densa nube bianca che ammanta e quasi nasconde la facciata del Padiglione centrale ad accogliere il pubblico ai Giardini della Biennale per la cinquantottesima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte. Il vapore che si innalza dall’edificio è un omaggio dell’italiana Lara Favaretto (Treviso, 1973), veneta di nascita e torinese d’adozione, ad Alighiero Boetti e alla sua scultura-autoritratto «Mi fuma il cervello» (1993), dalla cui testa uscivano fumi prodotti da un dispositivo elettrico-idraulico, sintomi del pensiero. Questa nebbia, simbolo della nostra precarietà sociale e culturale, è la migliore introduzione possibile al composito progetto ideato da Ralph Rugoff, direttore dal 2006 della Hayward Gallery di Londra, uno degli spazi pubblici più importanti del Regno Unito, per l’evento espositivo veneziano, in programma dall’11 maggio al 24 novembre.
La mostra, che si intitola «May You Live In Interesting Times» (una frase, questa, spesso citata negli ultimi ottant’anni da importanti autori e politici come sir Austen Chamberlain, Arthur C. Clarke e Hillary Clinton, che ne hanno parlato come di «un’antica maledizione cinese», in realtà mai esistita), si propone, infatti, di raccontare il nostro tempo, pieno di sfide e di instabilità di varia natura, facendo vestire all’artista i panni di una cronista sui generis, capace di raccontare la realtà con occhio attento e insieme poetico.
L’accelerazione dei cambiamenti climatici, le violenze sociali, etnico-religiose o razziali, le migrazioni, la rinascita di programmi nazionalistici in varie parti del mondo, le crescenti disuguaglianze economiche sono solo alcuni dei temi trattati dai settantanove artisti invitati alla Biennale, che hanno portato in Laguna due loro lavori, uno per i Giardini e uno per l’Arsenale, delineando così una sorta di guida eterogenea per leggere il nostro presente.
«Le opere esposte nelle due sedi, insieme all’atmosfera che evocano, sono piuttosto diverse -racconta Ralph Rugoff nella presentazione in catalogo-, non tanto perché si sviluppano attorno a principi o concetti separati, bensì perché mostrano aspetti diversi della pratica di ciascun artista», offrendo così al pubblico «la possibilità di interpretare un tipo di opera alla luce dell’altra».
Tra gli artisti che cambiano registro narrativo nelle due sedi espositive c’è, per esempio, Shilpa Gupta (Mumbai, India, 1976). Ai Giardini il giovane indiano presenta un cancello elettrico residenziale che sbatte violentemente contro la parete, fino ad incrinarla e romperla, facendoci così riflettere sui confini geografici e sulle loro funzioni arbitrarie e repressive. Mentre all’Arsenale propone la stessa meditazione con la poetica installazione sonora «For, in your tongue, I can not fit» (2017-2018), composta da cento microfoni appesi al soffitto, ognuno con un verso stampato su carta e infilato su altrettante punte di metallo, dai quali esce una sinfonia di voci registrate che declamano e intonano i versi di cento poeti incarcerati a causa della loro produzione o delle loro posizioni politiche.
La divisione tra «Proposta A» e «Proposta B» (con questi nomi Ralph Rugoff differenzia i due percorsi) dipende anche dalla dimensione delle opere esposte ed è la prima volta che viene proposta nella storia della Biennale.
L’Arsenale, cuore dell’industria veneziana navale fondata nel XXII secolo, ospita, nei suoi rustici e suggestivi spazi, i lavori più monumentali a partire da «Barca nostra», la chiacchierata installazione dello svizzero Christoph Büchel (Basilea, 1966) che porta in Laguna la testimonianza del più grande naufragio avvenuto nel mar Mediterraneo, quello del 18 aprile 2015, nel quale morirono tra le settecento e le mille persone, facendoci così riflettere sui fenomeni migratori contemporanei e sulle politiche collettive che causano questo tipo di tragedie.
Di dimensioni monumentali sono anche le due opere proposte da Yin Xiuzhen (Pechino, Repubblica Popolare Cinese, 1963), entrambe caratterizzate da una forte sensazione di pessimismo e apprensione: «Nowhere To Land» (2012), con due pneumatici di un jet avvolti in un tessuto nero e appesi al soffitto, e «Trojan» (2016-2017), con un enorme passeggero-pupazzo di stracci rannicchiato sul sedile di un aereo nella posizione indicata dalle istruzioni di sicurezza.
Tessuti di varie fogge vengono messi in mostra anche dall’inglese Ed Atkins (Oxford, Regno Unito, 1982) con il suo guardaroba di vecchi costumi teatrali, parte della complessa installazione «Old Food» (2017-2019), carica di storicità e malinconia, che evoca rovine, paesaggi sospesi, atmosfere medioevali, personaggi in lacrime e cibi immangiabili.
Di grande impatto scenografico è anche il progetto presentato da Tavares Strachan (Nassau, Bahamas, 1979) sulla figura di Robert Henry Lawrence Jr, un astronauta afro-americano che morì l’8 dicembre 1969, durante un incidente di volo. L’installazione è composta da una scultura luminosa e fluttuante raffigurante uno scheletro e da un breve necrologio formato da luci al neon, che svela il razzismo di cui l’astronauta è stato vittima.
L’inglese Jesse Darling riflette, invece, sulla precarietà del nostro tempo attraverso «March of the Valedictorians» (2016), un raggruppamento di sedie rosse delle scuole elementari, con gambe sottili e oblunghe, che riescono a stare in piedi solo sostenendosi reciprocamente. Le sedie sono al centro anche del progetto di Augustas Serapinas (Vilnius, Lituania, 1990), che si è ispirato a quelle dei bagnini sulla spiaggia per creare delle inedite sedute per i sorveglianti della mostra.
Lungo gli spazi dell’Arsenale attraggono, inoltre, l’attenzione del visitatore anche più disattento la scultura di ventisei metri in vetro e marmo, «Veins Aligned» (2018), di Otobong Nkanga (Kano, Nigeria, 1974), il mercato di Zhanna Kadyrova (Brovary, Ucraina, 1961), la grande ruota incatenata di Arthur Jafa (Tupelo, Usa, 1960), i coralli all’uncinetto (presenti anche ai Giardini) di Christine e Margaret Wertheim (Brisbane, Australia, 1958) e, per finire, il lavoro del duo formato da Sun Yuan (Pechino, 1972) e Peng Yu (Pechino, 1974): una poltrona romana in silicone bianco, alla quale è legato un tubo di gomma che sbatte producendo un grande frastuono.
I due artisti sono al centro anche della proposta più intrigante dei Giardini: «Can’t Help Myself» (2016), una bloody clean machine che pulisce senza sosta, con gesti meticolosi o con la rabbia di un animale in gabbia, il sangue (inchiostro rosso) sparso all’interno di un cubo ermetico dalle pareti in acrilico.
Scenografica è anche l’installazione proposta da Nabuqi (Ulanquab, Repubblica Popolare Cinese, 1984): «Do real think happen in moments of rationality?», riproduzione di una mucca in vetroresina a grandezza naturale, posizionata su un binario circolare in acciaio inossidabile, che si muove accompagnata da una colonna sonora di sample registrati nella natura, per strada e nei bar.
Ritornando all’inizio della mostra, all’ingresso del Padiglione centrale, Antoine Catala (Tolosa, Francia, 1975) propone un’interessante riflessione sul tema della comunicazione con la sua opera «It’s Over» (2019), nove pannelli ricoperti di silicone dai colori pastelli che si gonfiano e si sgonfiano ritmicamente facendo apparire messaggi come «Dont’ Worry» (Non ti preoccupare), «It’ s Over» (è finita), «Tutto va bene, hey, relax». Ryoji Ikeda (Gifu, Giappone, 1966), con il suo «Spectra III», un corridoio di tubi luminosi fluorescenti, manda, invece, in cortocircuito la nostra capacità di processare ciò che vediamo, generando paradossalmente una tabula rasa sensoriale.
Passeggiando tra le sale labirintiche del Padiglione centrale si possono, poi, incontrare anche i sacchi dell’immondizia di Andreas Lolis (Argirocastro, Albania, 1970), le sculture di frammenti corporei di Yu Li (Shangai, Repubblica Popolare Cinese, 1985), i cestini della spazzatura a forma di gabbia toracica di Andra Ursuta (Salonta, Romania, 1979), i pastori tedeschi in ceramica di Kemang Wa Lehulere (Città del Capo, Sudafrica, 1984), la placenta umana immersa in formalina di Alexandra Bircken (Colonia, Germania) e, per finire, il video «Leonardo’s Submarine» (2019) di Hito Steyerl (Monaco, Germania, 1966), nel quale il genio vinciano viene raccontato attraverso il prototipo di sottomarino inventato nel 1515 per difendere Venezia dagli attacchi dell’Impero ottomano.
Come consuetudine la Biennale d’arte apre anche molti spazi della città per accogliere due progetti speciali, da quello di Ludovica Carbotta (Torino, 1982) a Forte Marghera a quello sulle arti applicate del Victoria and Albert Museum di Londra, ventuno eventi collaterali, come la bella mostra di Baselitz alle Gallerie dell’Accademia, e alcuni dei novanta Padiglioni nazionali di questa edizione, che vede la partecipazione per la prima volta di Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Ricco è anche il cartellone di eventi proposto dalle varie sedi espositive cittadine, a partire dalla raffinata mostra di Alberto Burri alla Fondazione Cini o da quella, altrettanto interessante, di Jannis Kounellis alla Fondazione Prada.
Venezia diventa così, con questa nuova Biennale, uno straordinario palcoscenico per riflettere sul nostro presente, sui «tempi interessanti» che stiamo vivendo, carichi di problemi, ma sicuramente germinativi per chi si occupa d’arte.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lara Favaretto, Thinking Head, 2018; [Fig. 2] Sun Yuan and Peng Yu, Dear, 2015; [fig. 3] Andreas Lolis, Untitled, 2018; [fig. 4] Tavares Strachan , Robert, 2018; [fig. 5] Shilpa Gupta, Untitled, 2009; [fig. 6] Nabuqi, Do real think happen in moments of rationality?, 2018; [fig. 7] Yin Xiuzhen , Trojan, 2016-2017; [fig. 8] Shilpa Gupta, For, In Your Tongue I Cannot Fit, 2017-2018; [fig. 9] Opera di Kemang Wa Lehulere al Padiglione centrale
 
Informazioni utili
«May You Live In Interesting Times». 58. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì, escluso il 13 maggio, il 2 novembre e il 18 novembre. Ingresso: intero plus € 35,00, ridotto plus € 25,00, intero regular € 25,00, ridotto regular € 22,00 o € 20,00, i costi degli altri biglietti sono disponibili sul sito internet. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Marsilio editore, Mestre. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Dall’11 maggio alo 24 novembre 2019.