Condizione difficile quella di chi si ritrova in sorte come padre un genio. Ma Giandomenico Tiepolo (1727-1804), figlio dell'ineguagliabile Giambattista Tiepolo (1696-1770), il grande pittore del Settecento al cui «miracoloso pennello» si devono alcuni tra i più noti cicli decorativi che glorificano, nelle residenze di tutta Europa, i potenti del tempo, seppe «fare di necessità virtù». L’artista, nipote dei vedutisi Francesco e Gianantonio Guardi, rinunciò, infatti, alla soluzione più ovvia -scegliere una professione differente da quella paterna- e decise di intraprendere la strada della pittura, copiando diligentemente ogni schizzo del padre e assimilandone così perfettamente la cifra stilistica, tanto da rendere talvolta difficile distinguere le rispettive mani nelle opere che videro entrambi al lavoro.
Lo stretto rapporto con il genitore, che Giandomenico non mancò di coadiuvare nella realizzazione di importanti imprese decorative come quelle della residenza di Carlo Filippo Greiffenklau, principe vescovo di Würzburg, e del Palazzo Reale di Madrid (1762-70), dove venne dipinta la «Glorificazione della Spagna» per re Carlo III Borbone, non deve, però, trarre in inganno.
«Tiepoletto» (la definizione, affettuosa, è dell'erudito Francesco Algarotti) fu sì deferente al modello paterno, ma seppe anche ritagliarsi una propria autonomia pittorica, purtroppo riconosciutagli dalla critica solo in epoca recente, quanto meno a partire dal 1941, quando Antonio Morassi restituì alla sua mano gli affreschi conservati presso la foresteria della villa Valmarana di Vicenza. Un’opera, questa, databile al 1757, che viene considerata oggi uno dei grandi capolavori di quel secolo a livello europeo, con la sua magnifica serie di raffigurazioni sulla vita dei contadini e sulle passeggiate dei nobili, con le fantastiche immagini di vita orientale e del «Mondo novo».
A «volare con le proprie ali» -memore della lezione del padre, ma interessato più alla «commedia» umana, alla tradizione goldoniana, che al dramma eroico- Giandomenico iniziò, in realtà, giovanissimo. Lo documenta chiaramente la sua opera prima, la Via Crucis dell'Oratorio del crocifisso nella chiesa di san Polo, a Venezia, realizzata appena ventenne, nel biennio 1747-1749. Un’opera, questa, della quale il compianto Adriano Mariuz, uno dei più grandi studiosi novecenteschi dei Tiepolo, sottolineò la straordinaria originalità compositiva, caratterizzata da un ritmo narrativo estremamente serrato e di intensa drammaticità, lontano dalla retorica sfavillante di Giambattista.
In questo ciclo aurorale, che dal 2003 ha un nuovo allestimento grazie al lavoro del restauratore Paolo Marzi, il modellare figurativo di Giandomenico ha, infatti, «il carattere del reportage, della cronaca che registra i fatti in coincidenza con il loro svolgersi»; appare, inoltre, evidente nelle quattordici Stazioni tiepolesche l'osservazione attenta del comportamento umano, costante di tutta la produzione successiva dell'artista. Un’attenzione che, qui, trova la sua massima espressione nella partecipazione emotiva della folla alla tragica vicenda del Cristo e alla sua lenta andata al Calvario. Gli schizzi preparatori di questi lavori, conservati presso i Musei civici veneziani, in seguito alla donazione di Lorenzo Gatteri (trecentododici le carte dell’intera famiglia Tiepolo custodite in Laguna, alcune delle quali vergate su entrambi i versi), dimostrano, poi, che i soggetti da raffigurare furono oggetto di uno studio quasi maniacale da parte di Giandomenico, che si concentrò principalmente sulla rappresentazione delle parti anatomiche considerate più difficoltose da trasporre sulle pareti come mani e piedi, e sulla resa delle luci e delle ombre.
Interessanti per conoscere l’arte del giovane Tiepolo sono anche gli affreschi della villa di Zianigo, splendido ciclo pittorico che venne strappato dalla sua collocazione originaria nel 1906 e che sfuggì al pericolo della dispersione nel mercato antiquario grazie alla lungimiranza del Municipio di Venezia che, dal 1908, ne iniziò l'acquisto per conto dei locali Musei civici.
Questi lavori per la casa del Miranese, oggi conservati negli spazi della veneziana Ca’ Rezzonico, possiedono almeno due elementi di straordinarietà: sono stati prodotti in un lungo arco di tempo che va dal 1757 al 1797, e hanno la rara caratteristica di non essere stati realizzati dal pittore per un committente, ma per se stesso e in assoluta libertà di ispirazione. Gli affreschi, sottoposti nel 2000 a una attento restauro conservativo da parte di Ottorino Nonfarmale, sono, dunque, importantissimi strumenti di studio per cogliere lo svilupparsi dell'arte di Giandomenico e il suo constante interesse per il mondo contemporaneo. Lo provano inequivocabilmente i manierati spaccati di vita quotidiana de «Il mondo novo», con le sue passeggiate galanti e i suoi giochi di classe, dai quali emerge chiaramente la capacità corrosiva di rappresentare in chiave grottesca la società del tempo. Ma lo documentano anche le meravigliose scene dedicate alla vita di Pulcinella, il goffo personaggio in bianco e nero della Commedia dell'arte che tenne compagnia all'artista fino alla sua morte, quasi un doppio dell'uomo comune, quintessenza del vivere quotidiano e amara raffigurazione della risibilità della Storia.
La celebre maschera napoletana è, infatti, anche la grande protagonista del ciclo «Divertimento per li regazzi», un album originariamente di centoquattro disegni, smembrato tra più proprietari nella vendita all'asta che si tenne a Parigi nel 1921. In questi lavori -alcuni dei quali furono esposti alla Fondazione Cini di Venezia nel 2004, in occasione del duecentesimo anniversario della morte dell’artista- i riflettori vengono puntati sulla vita ridicola dell'antica maschera della commedia «all'improvviso», Pulcinella, qui moltiplicato pirandellianamente in un popolo, così da poterne evocare la vita di ogni uomo: «al solo scopo, si direbbe, di svelarne –dichiarò Adriano Mariuz– «tutta la comica assurdità».
Il capriccio, l'ironia, il gioco e l'umorismo velato da una lieve malinconia sono le corde fatte vibrare dal giovane Tiepolo anche negli affreschi di villa Valmarana di Vicenza o, per rimanere a Ca’ Rezzonico, in «Minuetto in villa» (1791-1793) e «Passeggiata» (1791-1793). Opere, queste, emblematiche di una stagione pittorica, nella quale dominò la raffigurazione di cicisbei dalle parrucche incipriate o dalle lunghe code di cavallo, cortigiane dai modi frivoli e vacui, dame dalle smisurate cuffie piumate e fronzute, contadini goffamente agghindati nei loro abiti campagnoli, figurine comiche e inermi, dai cui gesti si avverte inconfondibile la nota struggente degli addii.
E' nella «smagliante partitura segnica» di questi ultimi lavori sui protagonisti del tempo e su Pulcinella, che vibra con più forza il sorriso beffardo dell'autore nei confronti dell'intera società contemporanea, della quale viene tracciata, con acuto spirito d'osservazione e fluente brio narrativo, una cronistoria fatta di esseri grotteschi. Giandomenico si fa così testimone disincantato di una società morente e tuttavia inconsapevole della propria fine. Omaggia un'epoca che sta per salutare il palcoscenico della Storia, per lasciare il passo alla Rivoluzione francese e ai suoi ideali. Un’epoca che poteva specchiarsi in Pulcinella, in quella maschera dal «ghigno indecifrabile fra il riso e il pianto», ignara e indifferente ai presagi di un Mondo Nuovo alle porte.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Giandomenico Tiepolo, «Pulcinella innamorato», 1797. Affresco strappato, cm. 196 x 147. Venezia, Ca’ Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano, Villa di Zianigo-Camera dei Pulcinella. Inv: Cl. I n. 1751; [fig. 2] Giandomenico Tiepolo, «L'altalena dei Pulcinella», 1783. Affresco strappato, cm. 200 x 170. Venezia, Ca' Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano, Villa di Zianigo-Camera dei Pulcinella. Inv: Cl. I n. 1753 a; [fig. 3] Giandomenico Tiepolo, «Minuetto in villa», 1791-1793. Affresco strappato, cm. 200 x 150. Venezia, Ca' Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano, Villa di Zianigo-Portico. Inv: Cl. I n. 1743; [fig. 4] Giandomenico Tiepolo, particolare della «Via Crucis», 1747-1749. Venezia, Chiesa di San Polo.
Informazioni utili
Via Crucis di Giandomenico Tiepolo. Chiesa di San Polo (Oratorio del crocifisso), Campo S. Polo, 2102 – Venezia. Orari: lunedi-sabato, ore 10.00-17.00, domenica chiuso. Ingresso: € 2.50. Informazioni: tel. 041.2750462, info@chorusvenezia.org. Sito internet: www.chorusvenezia.org .
Gli affreschi di Giandomenico Tiepolo dalla villa di Zianigo. Ca' Rezzonico, Dorsoduro, 3136 - Venezia. Orari: dal 1° aprile al 31 ottobre, ore 10.00–18.00 (biglietteria: ore 10.00–17.00); dal 1° novembre al 31 marzo, ore 10.00–17.00 (biglietteria: ore 10.00 – 16.00), chiuso martedì,il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 8,00; ridotto € 5,50. Informazioni: tel. 041.2410100. Sito internet: http://carezzonico.visitmuve.it.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 25 aprile 2012
A Venezia, sulle tracce del giovane Tiepolo
martedì 24 aprile 2012
Wolfgang Alexander Kossuth e l’arte sacra
«La pittura, la scultura, la letteratura e la musica sono molto più vicine l'una all'altra di quanto generalmente si creda. Esprimono tutte la gamma dei sentimenti dell'animo umano nei confronti della natura». Queste parole dell'impressionista August Rodin ben definiscono la ricerca espressiva di Wolfgang Alexander Kossuth (Pfronten, 1947- Milano, 2009), artista tedesco al quale Città della Pieve dedica una piccola, ma raffinata mostra negli spazi del Museo civico diocesano di Santa Maria dei Servi.
Lo scultore, la cui opera «Maternità» è simbolo Unicef presso la Repubblica di San Marino, ha, infatti, sempre realizzato opere plastiche di suggestiva bellezza, nelle quali ha riversato le proprie conoscenze del mondo antico e la straordinaria sensibilità musicale, frutto degli studi di violino, composizione e direzione d'orchestra, condotti tra Napoli e Milano negli anni Settanta, e che, nel giro di pochi anni, lo portarono addirittura sul palco del teatro alla Scala.
Hanno avuto così origine lavori di elevata maestria tecnica e di accurata attenzione al particolare, che non solo sono un vero e proprio omaggio alla bellezza della figura umana e alla grazia evanescente dei movimenti del corpo, ma che sono anche un atto d’ossequio alla tradizione scultorea dell'antica Grecia. Basti pensare a opere come il raffinato «Adone» (2002), i sensuali «Dafne e Apollo» (2002), l'imponente «Salomè» (1992) e lo struggente «Giobbe» (1998), raffiguranti eroi dell'Antico Testamento e miti dell'Olimpo ellenico, o a lavori in bronzo, terracotta e resina dedicati a personaggi della nostra contemporaneità, quali i busti di Mario Soldati (1981), Alessandra Ferri (1994) e di Giorgio Strehler (2000), nonché la scultura a figura intera di Roberto Bolle (2003).
Come ben documenta la monografia pubblicata nel 2002 dalla milanese Skira, al cui interno sono presenti saggi di Michael Engelhard, Vittorio Sgarbi e Mario De Micheli, molte sono, poi, le opere di Wolfgang Alexander Kossuth che rendono omaggio alla danza classica. E’ il caso di «Minuetto» (1995), «Emanuela con la sfera» (2002) e «Ginnasta» (1993), ma anche di «Innamorata» (1994), «Maternità» (1992) e «Lettura» (1994), tutte figure della nostra quotidianità che evocano per la loro leggiadria la postura delle ballerine.
In questi lavori, nei quali compaiono spesso aggraziati corpi femminili e virili nudi maschili, si ravvisa un messaggio ricco di pathos, dove gioia, amore, pietà, lussuria e dolore vengono manifestati in chiave ora estatica ora sensuale, sempre intima e raccolta.
L’artista tedesco offre, dunque, ai nostri occhi vere e proprie poesie della forma, sinfonie della materia. A questa lettura non si sottraggono le opere sacre esposte a Città della Pieve per iniziativa dell’assessore Maria Luisa Meo, di Valerio Bittarello e di Marco Possieri, operatori culturali e tecnici che si sono avvalsi per l’allestimento della preziosa collaborazione della moglie dell’artista, Giuliana Alzati.
La mostra, visibile fino a domenica 3 giugno, presenta, nello specifico, due gruppi scultorei in resina, «La Pietà» (1998) e «Maria Maddalena sotto la croce» (1997), posti suggestivamente in dialogo con gli spazi dell’ex chiesa di Santa Maria dei Servi, costruita nella seconda metà del XIII secolo e rinnovata in stile barocco tra XVII e XVIII secolo. Una chiesa, al cui interno sono custoditi, sopra l’altare maggiore, un’antica «Pietà» di origine nordica e, nella cappella a destra dell’entrata, «La deposizione dalla croce», pregevole affresco del Perugino.
La mimica dei corpi di questi due lavori -esposti anche a Torino nella mostra «Il sepolcro vuoto», proposta in occasione dell’ostensione della Sacra Sindone- esprime forza e dolore, ma la dolcezza dei gesti e la purezza della resina bianca trascendono questo forte sentimento in una rappresentazione di bellezza assoluta. Ne «La Pietà», la sofferenza non si delinea dai volti delle due Marie, nascosti allo sguardo del visitatore, ma dalla linea curva dei loro corpi, che sembrano portare sulle spalle tutto il male del mondo. Nell'altra opera esposta, Maria Maddalena ci appare addirittura raggomitolata su stessa, tanto è insopportabile il dolore che sta provando. La donna è ritratta ai piedi della croce, stretta nel proprio strazio, ma ugualmente legata a Colui che l'ha salvata. Il capo piegato del Cristo e il braccio di lei si tendono l’uno verso l’altro e questo gesto ha una tenerezza e una forza tale che chi guarda non può non partecipare al loro silente «dialogo». Un dialogo che riporta alla mente le parole di Platone: «L’arte è espressione della bellezza, e la bellezza è lo splendore della verità».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Wolfgang Alexander Kossuth, «La Pietà», scultura in resina, 1998; [fig. 2] Wolfgang Alexander Kossuth, «Maria Maddalena sotto la croce», scultura in resina, 1997; [fig. 3] Pietro Vannucci detto il Perugino, particolare dell’affresco «La deposizione dalla croce», 1517
Informazioni utili
Sculture sacre di Wolfgang Alexander Kossuth. Museo civico diocesiano di Santa Maria dei Servi, via Beato Giacomo Villa – Città della Pieve (Perugia). Orari: martedì-domenica, 9.30-12.30 e 15.30-18.30. Ingresso (comprensivo della visita al museo): € 3,00. Info: tel. 0578.299375 e promopieve@cittadellapieve.org. Fino a domenica 3 giugno 2012.
Lo scultore, la cui opera «Maternità» è simbolo Unicef presso la Repubblica di San Marino, ha, infatti, sempre realizzato opere plastiche di suggestiva bellezza, nelle quali ha riversato le proprie conoscenze del mondo antico e la straordinaria sensibilità musicale, frutto degli studi di violino, composizione e direzione d'orchestra, condotti tra Napoli e Milano negli anni Settanta, e che, nel giro di pochi anni, lo portarono addirittura sul palco del teatro alla Scala.
Hanno avuto così origine lavori di elevata maestria tecnica e di accurata attenzione al particolare, che non solo sono un vero e proprio omaggio alla bellezza della figura umana e alla grazia evanescente dei movimenti del corpo, ma che sono anche un atto d’ossequio alla tradizione scultorea dell'antica Grecia. Basti pensare a opere come il raffinato «Adone» (2002), i sensuali «Dafne e Apollo» (2002), l'imponente «Salomè» (1992) e lo struggente «Giobbe» (1998), raffiguranti eroi dell'Antico Testamento e miti dell'Olimpo ellenico, o a lavori in bronzo, terracotta e resina dedicati a personaggi della nostra contemporaneità, quali i busti di Mario Soldati (1981), Alessandra Ferri (1994) e di Giorgio Strehler (2000), nonché la scultura a figura intera di Roberto Bolle (2003).
Come ben documenta la monografia pubblicata nel 2002 dalla milanese Skira, al cui interno sono presenti saggi di Michael Engelhard, Vittorio Sgarbi e Mario De Micheli, molte sono, poi, le opere di Wolfgang Alexander Kossuth che rendono omaggio alla danza classica. E’ il caso di «Minuetto» (1995), «Emanuela con la sfera» (2002) e «Ginnasta» (1993), ma anche di «Innamorata» (1994), «Maternità» (1992) e «Lettura» (1994), tutte figure della nostra quotidianità che evocano per la loro leggiadria la postura delle ballerine.
In questi lavori, nei quali compaiono spesso aggraziati corpi femminili e virili nudi maschili, si ravvisa un messaggio ricco di pathos, dove gioia, amore, pietà, lussuria e dolore vengono manifestati in chiave ora estatica ora sensuale, sempre intima e raccolta.
L’artista tedesco offre, dunque, ai nostri occhi vere e proprie poesie della forma, sinfonie della materia. A questa lettura non si sottraggono le opere sacre esposte a Città della Pieve per iniziativa dell’assessore Maria Luisa Meo, di Valerio Bittarello e di Marco Possieri, operatori culturali e tecnici che si sono avvalsi per l’allestimento della preziosa collaborazione della moglie dell’artista, Giuliana Alzati.
La mostra, visibile fino a domenica 3 giugno, presenta, nello specifico, due gruppi scultorei in resina, «La Pietà» (1998) e «Maria Maddalena sotto la croce» (1997), posti suggestivamente in dialogo con gli spazi dell’ex chiesa di Santa Maria dei Servi, costruita nella seconda metà del XIII secolo e rinnovata in stile barocco tra XVII e XVIII secolo. Una chiesa, al cui interno sono custoditi, sopra l’altare maggiore, un’antica «Pietà» di origine nordica e, nella cappella a destra dell’entrata, «La deposizione dalla croce», pregevole affresco del Perugino.
La mimica dei corpi di questi due lavori -esposti anche a Torino nella mostra «Il sepolcro vuoto», proposta in occasione dell’ostensione della Sacra Sindone- esprime forza e dolore, ma la dolcezza dei gesti e la purezza della resina bianca trascendono questo forte sentimento in una rappresentazione di bellezza assoluta. Ne «La Pietà», la sofferenza non si delinea dai volti delle due Marie, nascosti allo sguardo del visitatore, ma dalla linea curva dei loro corpi, che sembrano portare sulle spalle tutto il male del mondo. Nell'altra opera esposta, Maria Maddalena ci appare addirittura raggomitolata su stessa, tanto è insopportabile il dolore che sta provando. La donna è ritratta ai piedi della croce, stretta nel proprio strazio, ma ugualmente legata a Colui che l'ha salvata. Il capo piegato del Cristo e il braccio di lei si tendono l’uno verso l’altro e questo gesto ha una tenerezza e una forza tale che chi guarda non può non partecipare al loro silente «dialogo». Un dialogo che riporta alla mente le parole di Platone: «L’arte è espressione della bellezza, e la bellezza è lo splendore della verità».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Wolfgang Alexander Kossuth, «La Pietà», scultura in resina, 1998; [fig. 2] Wolfgang Alexander Kossuth, «Maria Maddalena sotto la croce», scultura in resina, 1997; [fig. 3] Pietro Vannucci detto il Perugino, particolare dell’affresco «La deposizione dalla croce», 1517
Informazioni utili
Sculture sacre di Wolfgang Alexander Kossuth. Museo civico diocesiano di Santa Maria dei Servi, via Beato Giacomo Villa – Città della Pieve (Perugia). Orari: martedì-domenica, 9.30-12.30 e 15.30-18.30. Ingresso (comprensivo della visita al museo): € 3,00. Info: tel. 0578.299375 e promopieve@cittadellapieve.org. Fino a domenica 3 giugno 2012.
lunedì 23 aprile 2012
Henri Cartier-Bresson, uno sguardo sul Novecento
E’ stato il maestro del «momento decisivo», ma anche l’«occhio del secolo». Stiamo parlando di Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 22 agosto 1908 – L'Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004), fotoreporter al quale Torino rende omaggio con un’ampia retrospettiva antologica allestita, per volontà di Silvana editoriale e grazie alla collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson e con Magnum Photos, nei prestigiosi spazi di Palazzo Reale.
Centotrenta fotografie in bianco e nero, scattate fra i primi anni Trenta e la fine degli anni Settanta, puntano i riflettori su uno dei più appassionati e intelligenti testimoni di quello che Eric J. Hobsbawm ha definito il «secolo breve». Dalla seconda guerra mondiale alla rivoluzione cinese, dalla guerra civile spagnola all'assassinio del Mahatma Gandhi, da Marilyn Monroe a De Gaulle, da Che Guevara a Picasso: sono, infatti, pochi gli avvenimenti o i grandi della storia che, a partire dagli anni Trenta, sono sfuggiti all'obbiettivo di Henri Cartier-Bresson e della sua inseparabile Leica.
Nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup, un villaggio alle porte di Parigi, da una famiglia alto-borghese dell'industria tessile, il fotografo noto per aver fondato, con Robert Capa e David «Chim» Seymor, la Magnum Photos si interessa fin da ragazzo all'arte, e in particolare alla pittura, grazie a uno zio, allora considerato una sorta di padre spirituale. Diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote. Frequenta i caffè della capitale francese, partecipando alle discussioni dei surrealisti. Nel 1930, dopo un viaggio in Costa d'Avorio, decide di abbandonare pennelli e colori per la fotografia. Così, anni dopo, spiegò la sua svolta: «L'avventuriero che è in me si sentì obbligato a testimoniare con uno strumento più immediato di un pennello le ferite del mondo».
Da quel momento, Cartier-Bresson, l'uomo che Jean-Clair ha definito come «l'occhio più giusto che la fotografia abbia mai rivelato», ha percorso il pianeta in lungo e in largo, riempiendo il suo «diario di bordo» non con le parole, ma con le immagini. Ai primi anni Trenta risale il suo viaggio alla scoperta del sud della Francia, della Spagna, dell'Italia e del Messico, prima tappa di un lungo itinerario a caccia di sguardi, volti, attimi che non ritornano. La curiosità insaziabile che caratterizzerà tutta la sua carriera lo conduce, poi, negli Usa, dove nel 1935 lavora per il cinema con Paul Strand.
Tornato in Francia, Cartier-Bresson continua, per qualche tempo, a lavorare per la «settima arte» con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi foto di reportage. Un genere, questo, nel quale l’artista di Chanteloup-en-Brie ha avuto modo di mettere in atto la sua poetica del «kairòs», la sua celebre filosofia del «momento decisivo», una filosofia che ne ha fatto il maestro del carpe diem fotografico. Nasce così uno stile inimitabile di documentazione della realtà, che immortala un momento qualsiasi. Un momento rubato, «preso in trappola», colto all'insaputa dei suoi stessi attori. Ma un momento che è essenza di una situazione e della stessa vita. Un momento che è espressione di uno stato d'animo, o -come diceva il «genio francese della fotografia»- è «l'unione dell'istante e dell'eternità».
Chiamato alle armi nel 1939, Cartier-Bresson viene fatto prigioniero dai tedeschi e rimane in un campo di concentramento in Germania dal 1940 al 1943. Dopo trentacinque mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce ad evadere e con il gruppo clandestino Mnpgd fa ritorno a Parigi, dove -fra i primi- ne fotografa la Liberazione. Finita la guerra si dedica nuovamente al cinema e dirige il film «Le Retour», documentario sul ritorno dei prigionieri francesi dai «campi dell'orrore». Nel 1946 è, ancora, negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per la rivista «Harper's Bazaar». Qui, l'anno successivo, al Museum of Modern Art di New York, viene allestita, a sua insaputa, una rassegna «postuma»: si era diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra. Ma il fotografo, che ci ha lasciato l'immagine di uno Chagall dallo sguardo «fanciullo» tra i fiori di casa e quella di un Beckett che sembra una scultura di Giacometti, c'è e aiuta il museo americano a completare l'allestimento. E' la definitiva consacrazione.
Il 1947 passerà, però, alla storia soprattutto per un altro evento importante: insieme ai suoi amici Robert Capa, David «Chim» Seymour, George Rodger e William Vandivert, Cartier-Bresson fonda la Magnum Photos. La cooperativa creata da quelli che lo stesso fotografo definì come un «gruppo di avventurieri mossi dall'etica», con la convinzione che la fotografia può essere «visione», una visione tanto speciale quanto universale della realtà, e che la paternità artistica di un'immagine va tutelata era destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo. Nello statuto c'è la risoluzione etica di documentare la realtà contemporanea, una risoluzione che era l'assioma dell'operare di Cartier-Bresson: «si deve fotografare sempre nel grande rispetto del soggetto e di sé stessi» o, ancora, «fotografare: è porre sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere».
Dal 1948 al 1950 il maestro francese viaggia in Estremo Oriente, tra India, Birmania, Pakistan e Cina. Documenta la vita quotidiana delle persone. Coglie con il suo obbiettivo donne e bambini durante gli ultimi giorni del Guomindang a Pechino, nel 1949. Nel 1952 si dedica a un'altra impresa: pubblica «Images a la sauvette», una raccolta di sue foto, con copertina di Henri Matisse, che ha una vasta eco internazionale. Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, una mostra che farà poi il giro del mondo.
Dopo una serie di viaggi a Cuba, in Messico, in India e in Giappone, a metà degli anni Sessanta, Cartier-Bresson comincia a mostrare insoddisfazione nei confronti del suo lavoro, fino ad arrivare a distruggere alcune immagini. Nel 1966 abbandona la Magnum da lui stesso fondata, deluso soprattutto dalla sempre più imperante commercializzazione della fotografia, e ritorna al suo primo amore, al disegno e alla pittura, convinto -come lo è sempre stato- di essere un «fotografo improvvisato» e un «grande disegnatore misconosciuto». Stranezze dei grandi, perché è innegabile che Cartier-Bresson sia stato il padre del fotogiornalismo e della fotografia cronachistica d’arte, con i suoi scatti dalla perfetta armonia formale, frutto non solo di una grande pazienza, ma anche di una saggia discrezione, che non lo faceva mai irrompere sulla scena da fotografare, per non interferire con gli accadimenti.
«Per quel che mi riguarda -spiegò il maestro francese, durante la sua lunga vita- fare foto è un mezzo per capire che non può essere separato dagli altri mezzi di espressione visiva. È un modo di urlare, di liberarsi, non di provare o far valere l'originalità di qualcuno. È un modo di vita». «Il mio unico segreto – dichiarò un'altra volta– è quello di prendermi il tempo di vivere con la gente e poi di dimenticarmi di me stesso». Cartier-Bresson amava il mondo e il mondo lo amava.
Le sue immagini sono diventate icone del nostro immaginario collettivo. La sua Leica è stata una sorta di bloc notes per ‘appuntare’ scampoli fugaci di vita da lasciare all'eternità, perché -si sa- l'uomo muore, l'arte rimane. Ecco così foto come quello dei due giovani che si baciano al tavolo di un Cafè parigino o quello di una coppia che si abbraccia a Times Square la notte di Capodanno o, ancora, quello di un «Che» straordinariamente sorridente. Scatti che rimarranno, per sempre, nella nostra Storia.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Henri Cartier-Bresson, «Derrière la Gare Saint-Lazare», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos [fig. 2] Henri Cartier-Bresson, «Belgium. Brusseles», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos
Informazioni utili
Henri Cartier- Bresson. Photographe. Palazzo Reale, piazzetta Reale, 1 - Torino. Orari: martedì-domenica 9.30 - 18.30 (ultimo ingresso: ore 18.00); chiuso il lunedì; la mostra resterà aperta nelle giornate del 25 aprile, del 20 aprile e del 1° maggio. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 011.4361455. Fino al 24 giugno 2012.
Centotrenta fotografie in bianco e nero, scattate fra i primi anni Trenta e la fine degli anni Settanta, puntano i riflettori su uno dei più appassionati e intelligenti testimoni di quello che Eric J. Hobsbawm ha definito il «secolo breve». Dalla seconda guerra mondiale alla rivoluzione cinese, dalla guerra civile spagnola all'assassinio del Mahatma Gandhi, da Marilyn Monroe a De Gaulle, da Che Guevara a Picasso: sono, infatti, pochi gli avvenimenti o i grandi della storia che, a partire dagli anni Trenta, sono sfuggiti all'obbiettivo di Henri Cartier-Bresson e della sua inseparabile Leica.
Nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup, un villaggio alle porte di Parigi, da una famiglia alto-borghese dell'industria tessile, il fotografo noto per aver fondato, con Robert Capa e David «Chim» Seymor, la Magnum Photos si interessa fin da ragazzo all'arte, e in particolare alla pittura, grazie a uno zio, allora considerato una sorta di padre spirituale. Diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote. Frequenta i caffè della capitale francese, partecipando alle discussioni dei surrealisti. Nel 1930, dopo un viaggio in Costa d'Avorio, decide di abbandonare pennelli e colori per la fotografia. Così, anni dopo, spiegò la sua svolta: «L'avventuriero che è in me si sentì obbligato a testimoniare con uno strumento più immediato di un pennello le ferite del mondo».
Da quel momento, Cartier-Bresson, l'uomo che Jean-Clair ha definito come «l'occhio più giusto che la fotografia abbia mai rivelato», ha percorso il pianeta in lungo e in largo, riempiendo il suo «diario di bordo» non con le parole, ma con le immagini. Ai primi anni Trenta risale il suo viaggio alla scoperta del sud della Francia, della Spagna, dell'Italia e del Messico, prima tappa di un lungo itinerario a caccia di sguardi, volti, attimi che non ritornano. La curiosità insaziabile che caratterizzerà tutta la sua carriera lo conduce, poi, negli Usa, dove nel 1935 lavora per il cinema con Paul Strand.
Tornato in Francia, Cartier-Bresson continua, per qualche tempo, a lavorare per la «settima arte» con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi foto di reportage. Un genere, questo, nel quale l’artista di Chanteloup-en-Brie ha avuto modo di mettere in atto la sua poetica del «kairòs», la sua celebre filosofia del «momento decisivo», una filosofia che ne ha fatto il maestro del carpe diem fotografico. Nasce così uno stile inimitabile di documentazione della realtà, che immortala un momento qualsiasi. Un momento rubato, «preso in trappola», colto all'insaputa dei suoi stessi attori. Ma un momento che è essenza di una situazione e della stessa vita. Un momento che è espressione di uno stato d'animo, o -come diceva il «genio francese della fotografia»- è «l'unione dell'istante e dell'eternità».
Chiamato alle armi nel 1939, Cartier-Bresson viene fatto prigioniero dai tedeschi e rimane in un campo di concentramento in Germania dal 1940 al 1943. Dopo trentacinque mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce ad evadere e con il gruppo clandestino Mnpgd fa ritorno a Parigi, dove -fra i primi- ne fotografa la Liberazione. Finita la guerra si dedica nuovamente al cinema e dirige il film «Le Retour», documentario sul ritorno dei prigionieri francesi dai «campi dell'orrore». Nel 1946 è, ancora, negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per la rivista «Harper's Bazaar». Qui, l'anno successivo, al Museum of Modern Art di New York, viene allestita, a sua insaputa, una rassegna «postuma»: si era diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra. Ma il fotografo, che ci ha lasciato l'immagine di uno Chagall dallo sguardo «fanciullo» tra i fiori di casa e quella di un Beckett che sembra una scultura di Giacometti, c'è e aiuta il museo americano a completare l'allestimento. E' la definitiva consacrazione.
Il 1947 passerà, però, alla storia soprattutto per un altro evento importante: insieme ai suoi amici Robert Capa, David «Chim» Seymour, George Rodger e William Vandivert, Cartier-Bresson fonda la Magnum Photos. La cooperativa creata da quelli che lo stesso fotografo definì come un «gruppo di avventurieri mossi dall'etica», con la convinzione che la fotografia può essere «visione», una visione tanto speciale quanto universale della realtà, e che la paternità artistica di un'immagine va tutelata era destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo. Nello statuto c'è la risoluzione etica di documentare la realtà contemporanea, una risoluzione che era l'assioma dell'operare di Cartier-Bresson: «si deve fotografare sempre nel grande rispetto del soggetto e di sé stessi» o, ancora, «fotografare: è porre sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere».
Dal 1948 al 1950 il maestro francese viaggia in Estremo Oriente, tra India, Birmania, Pakistan e Cina. Documenta la vita quotidiana delle persone. Coglie con il suo obbiettivo donne e bambini durante gli ultimi giorni del Guomindang a Pechino, nel 1949. Nel 1952 si dedica a un'altra impresa: pubblica «Images a la sauvette», una raccolta di sue foto, con copertina di Henri Matisse, che ha una vasta eco internazionale. Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, una mostra che farà poi il giro del mondo.
Dopo una serie di viaggi a Cuba, in Messico, in India e in Giappone, a metà degli anni Sessanta, Cartier-Bresson comincia a mostrare insoddisfazione nei confronti del suo lavoro, fino ad arrivare a distruggere alcune immagini. Nel 1966 abbandona la Magnum da lui stesso fondata, deluso soprattutto dalla sempre più imperante commercializzazione della fotografia, e ritorna al suo primo amore, al disegno e alla pittura, convinto -come lo è sempre stato- di essere un «fotografo improvvisato» e un «grande disegnatore misconosciuto». Stranezze dei grandi, perché è innegabile che Cartier-Bresson sia stato il padre del fotogiornalismo e della fotografia cronachistica d’arte, con i suoi scatti dalla perfetta armonia formale, frutto non solo di una grande pazienza, ma anche di una saggia discrezione, che non lo faceva mai irrompere sulla scena da fotografare, per non interferire con gli accadimenti.
«Per quel che mi riguarda -spiegò il maestro francese, durante la sua lunga vita- fare foto è un mezzo per capire che non può essere separato dagli altri mezzi di espressione visiva. È un modo di urlare, di liberarsi, non di provare o far valere l'originalità di qualcuno. È un modo di vita». «Il mio unico segreto – dichiarò un'altra volta– è quello di prendermi il tempo di vivere con la gente e poi di dimenticarmi di me stesso». Cartier-Bresson amava il mondo e il mondo lo amava.
Le sue immagini sono diventate icone del nostro immaginario collettivo. La sua Leica è stata una sorta di bloc notes per ‘appuntare’ scampoli fugaci di vita da lasciare all'eternità, perché -si sa- l'uomo muore, l'arte rimane. Ecco così foto come quello dei due giovani che si baciano al tavolo di un Cafè parigino o quello di una coppia che si abbraccia a Times Square la notte di Capodanno o, ancora, quello di un «Che» straordinariamente sorridente. Scatti che rimarranno, per sempre, nella nostra Storia.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Henri Cartier-Bresson, «Derrière la Gare Saint-Lazare», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos [fig. 2] Henri Cartier-Bresson, «Belgium. Brusseles», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos
Informazioni utili
Henri Cartier- Bresson. Photographe. Palazzo Reale, piazzetta Reale, 1 - Torino. Orari: martedì-domenica 9.30 - 18.30 (ultimo ingresso: ore 18.00); chiuso il lunedì; la mostra resterà aperta nelle giornate del 25 aprile, del 20 aprile e del 1° maggio. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 011.4361455. Fino al 24 giugno 2012.
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