Erano gli anni della Belle Èpoque, momento irrepetibile della storia europea. Un'incrollabile fede nel progresso faceva credere che ogni cosa sarebbe stata possibile. La luce elettrica annullava le differenze tra il giorno e la notte, facendo sfavillare i cafè chantant, i teatri, i cabaret e i cinema. Astuti intrecci amorosi, arguta ironia e imprescindibile gioia di vivere animavano i salotti del tempo. Donne ammiccanti e maliziose, eteree e aristocratiche facevano a gara per mettersi in posa davanti a pittori famosi come Toulouse Lautrec e Giovanni Boldini. Denaro e ottimismo sembravano destinati a non finire mai e a garantire l'appagamento di ogni voglia. Persino le malattie facevano meno paura grazie alle continue scoperte della scienza.
A Parigi si innalzava la Tour Eiffel e si vivevano i fasti dell'Esposizione universale. Un milione di chilometri di binari attendeva merci e viaggiatori; mentre nuovi e lussuosi modelli di automobili sfrecciavano lungo strade piene di vita, rese ancora più colorate dai grandi manifesti che affermavano il nuovo modo di vendere e di vivere.Euforia e frivolezza dominavano, insomma, in ogni dove, anche se sotto la superficie serpeggiavano i virus di un malessere che sarebbe sfociato nel dramma della Grande Guerra.
In questo clima spensierato, apriva, nel 1912, l’hotel «Trieste» (oggi conosciuto come «Trieste e Victoria», in ricordo di Gabriele D’Annunzio), il gran decano degli alberghi termali di Abano Terme, che nei suoi cent’anni di vita ha avuto ospiti noti come papa Giovanni XXIII, i presidenti della Repubblica Antonio Segni e Giuseppe Saragat, i politici Alcide De Gasperi e Aldo Moro.
Il termalismo, tra le sale e le stanze fatte costruire da Quinto Mazzuccato, diventava soprattutto un'occasione mondana: l'acqua calda delle sorgenti, perfetta per le cure, o i fanghi erano spesso pretesto per incontri, amori e passioni. Ma c'era anche chi sceglieva il piccolo borgo ai piedi dei Colli Euganei per ritemprarsi da fatiche di lavoro e di mondanità, per volersi bene e farsi coccolare.
Ai bei tempi, magici e unici, che videro la nascita del prestigioso albergo veneto, ora appartenente al gruppo Borile, è dedicata la mostra «Le belle della Belle Èpoque», ideata e curata da Massimo e Sonia Cirulli.
L'esposizione racconta, lungo il fil rouge del ritratto femminile e non solo, le mode e le pose, le pause dell'intimità e i momenti pubblici con le escursioni al parco, alle riviere o alle terme, le promenade e i rendez-vous, le sfilate di moda, le gite al lago o al mare. Ma anche la vita notturna nei teatri e nei tabarin, i veglioni, i casinò, le passeggiate a cavallo, i riti mondani, le galanterie, i vizi e gli eccessi degli anni tra Otto e Novecento. Al centro sempre loro, le donne. Tra vanità e seduzione, tra l'autoreferenzialità del lusso, fantasie e vanità senza freno e gli estremi dell'alcol e della morfina.
Alla divulgazione e alla formazione di miti e modelli provvedevano gli affichistes, in primis Leonetto Cappiello. I suoi cartelloni, colorati e accattivanti, insieme a opere di Achille Beltrame, Aleardo Terzi, Marcello Dudovich, Leopoldo Metlicovitz, Gino Boccasile, Erberto Carboni, Lucio Fontana e Bruno Munari, tutti materiali di proprietà del Cirulli Archive di Bologna – New York, saranno esposti, da sabato 12 maggio e fino a lunedì 30 luglio, nelle fastose sale di ricevimento dei cinque hotel del gruppo Borile: Grand Hotel Terme Trieste e Victoria, Abano Grand Hotel, Hotel Terme Due Torri, Hotel Terme Metropole, Hotel La Residence e Idrokinesis.
Le opere esposte, documentate anche in un bellissimo catalogo in cinque lingue, raccontano un passato carico di ottimismo e vitalità, con l'intento di trasmettere questo sentimento a chi oggi gode dell'ospitalità del «Trieste e Victoria», scegliendo magari di soggiornare nella camera 110, monumento alla storia d'Italia nella quale albergò il generale Diaz durante la prima guerra mondiale, o di sedersi sulle scrivanie dei salottini riservati, dove D'Annunzio progettò il volo su Vienna.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Marcello Dudovich, E. e A. Mele e Ci. Napoli. Mode e Novità, 1907, 200x140 cm. Officine G. Ricordi e C. - Milano litografia a colori su carta; [fig. 2] Leopoldo Metlicovitz, Distillerie italiane, 1905 c., 140x100 cm. Officine G. Ricordi e C. - Milano litografia a colori su carta
Informazioni utili
«Le belle della Belle Èpoque». Grand Hotel
«Trieste e Victoria» e altri alberghi del gruppo Borile - Abano Terme (Padova).Orari: aperto 24 h su 24. Ingresso: libero e gratuito. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: numero verde 00800.88118811 o info@gbhotelsabano.it Sito Web: www.gbhotelsabano.it. Da sabato 12 maggio a lunedì 30 luglio 2012.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 9 maggio 2012
lunedì 7 maggio 2012
Giuliano Vangi, sculture e disegni sull’uomo e sul vivere quotidiano
Giuliano Vangi (Barberino di Mugello, 1931) è uno degli scultori italiani più conosciuti a livello internazionale. Negli ultimi anni, il suo nome è assurto più volte agli altari delle cronache artistiche per la realizzazione di prestigiose commesse pubbliche: dalla «Lupa» (1996) per il Comune di Siena alla «Donna albero» (1999) per la sede romana della Banca d'Italia, dall’imponente e avveniristico «Crocifisso» per la Cattedrale di Padova (1995) alla scultura «Varcare la soglia della speranza» (1999) per il Vaticano, senza dimenticare i recenti interventi artistici nella Cattedrale di Arezzo (2012).
Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1995, quella curata di Jean Clair, la strada dell'artista toscano è stata costellata anche da importanti affermazioni fuori dai confini nazionali. Si ricordano, a tal proposito, la personale russa, all'Ermitage di San Pietroburgo, del 2001, e l’inaugurazione, l’anno successivo, dell’imponente museo giapponese a lui dedicato dal magnate Kiichiro Okano. L’edificio, costruito dall'architetto Munemoto a Mishima (non lontano da Tokyo e a contatto visivo col monte Fuji), si configura come una modernissima struttura, a picco sul mare, di circa 30.000 metri quadrati (dei quali 2000 coperti e 28.000 in forma di parco), al cui interno sono allocate oltre cento opere della vasta produzione marmorea e non di Vangi, vincitore di svariati premi internazionali, tra i quali il «Premium Imperiale» della Japan Art Association, una sorta di Nobel per pittori e scultori, assegnato in passato anche a Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Christo e Jean Claude.
In occasione dell’inaugurazione del nuovo presbiterio per la Cattedrale di Arezzo (una mensa quadrata in candido marmo bianco di Carrara, sorretta da un angelo in volo fuso in una lega di bronzo e nikel), l’artista di Barberino del Mugello espone, fino a domenica 3 giugno 2012, una selezione di sue opere negli spazi del Mudas Museum.
In cinque sale del primo piano del Palazzo vescovile aretino sono allineate, in un allestimento curato da Daniela Galoppi, con l'interior design Luisa Danesi Gori e l'architetto Gianclaudio Papasogli Tacca, diciassette sculture in marmo, bronzo, avorio e legno e una dozzina di disegni e bozzetti preparatori.
L’insieme delle opere esposte, realizzate tra il 1987 e il 2012, offre una panoramica a tutto tondo sull'arte di Vangi, sulla sua capacità di coniugare il meglio della tradizione figurativa italiana con una ricerca stilistica contemporanea, inserita nel proprio tempo, il cui soggetto ispiratore è l’uomo, con le sue angosce, le sue inquietudini, le sue delusioni, le sue speranze, il suo vivere quotidiano. Emerge, dunque, nei lavori in mostra quella che Franco Russoli ha definito come un'impellente «necessità di dare forma a un'idea della condizione umana moderna, intesa come solitudine, ansia, muta domanda senza risposta».
Le statue del maestro toscano -«solide, compatte e rigorosamente chiuse in se stesse», come ebbe a scrivere Dino Buzzati– diventano biografia della sofferenza e della disperazione leopardiana del nostro tempo, metafore del disorientamento che ci coglie davanti al mistero dell'universo e paradigma del nostro smarrimento di fronte all'imperversare di uno stile di vita sempre più caratterizzato dal motto, di hobbesiana memoria, «Homo homini lupus est». Emblematici, in tal senso, sono la scultura «Stazzema» (2008) e i suoi disegni preparatori, ricordo delle vittime dell’eccidio nazi-fascista del 12 agosto 1944, nel quale è raffigurato un uomo con, in braccio, il suo bambino morto. Guarda, invece, alla storia più recente il disegno «Katrina» (2007), di chiara ispirazione goyesca, piccolo tassello dell’ampio lavoro che l’artista ha dedicato al violento uragano che, nel 2005, devastò New Orleans e la Florida.
Non manca, poi, in mostra un omaggio alla figura femminile, con opere come il marmo policromo «Giulia vestita di verde» (1990) e la scultura in legno «Lucia» (2009), ma centrale è la tematica religiosa con lavori quali «San Giovanni» (1996), «Angelo» (2008) e gli studi preparatori e le due sculture sul tema del «Crocifisso» (1998), senza dimenticare i ritratti a matita e tecnica mista di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Vangi ci parla, dunque, ancora una volta dell'uomo contemporaneo. Crea immagini che ci sorprendono e commuovo, che ci fanno meditare e che, nello stesso, ci trascinano fuori dal mondo. Immagini che, come ebbe a dire Dino Carlesi, rendono «irreale la realtà […] leggero il peso del dolore».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Giuliano Vangi, «Angelo», 2012. Particolare del presbiterio della Cattedrale di Arezzo; [fig. 2] Giuliano Vangi, «Giulia vestita di verde», 1990;[fig. 3] Giuliano Vangi, «Stazzema», 2008
Informazioni utili
Vangi. Sculture e disegni. Mudas Museum – Museo diocesano d’arte sacra c/o Palazzo vescovile, piazza Duomo, 3 - Arezzo. Orari: lunedì-domenica, 10.00-18.30. Ingresso: intero € 2,00, ridotto € 1,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 0575.4027268. Sito web: http://www.diocesiarezzo.it/. Fino a domenica 3 giugno 2012.
Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1995, quella curata di Jean Clair, la strada dell'artista toscano è stata costellata anche da importanti affermazioni fuori dai confini nazionali. Si ricordano, a tal proposito, la personale russa, all'Ermitage di San Pietroburgo, del 2001, e l’inaugurazione, l’anno successivo, dell’imponente museo giapponese a lui dedicato dal magnate Kiichiro Okano. L’edificio, costruito dall'architetto Munemoto a Mishima (non lontano da Tokyo e a contatto visivo col monte Fuji), si configura come una modernissima struttura, a picco sul mare, di circa 30.000 metri quadrati (dei quali 2000 coperti e 28.000 in forma di parco), al cui interno sono allocate oltre cento opere della vasta produzione marmorea e non di Vangi, vincitore di svariati premi internazionali, tra i quali il «Premium Imperiale» della Japan Art Association, una sorta di Nobel per pittori e scultori, assegnato in passato anche a Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Christo e Jean Claude.
In occasione dell’inaugurazione del nuovo presbiterio per la Cattedrale di Arezzo (una mensa quadrata in candido marmo bianco di Carrara, sorretta da un angelo in volo fuso in una lega di bronzo e nikel), l’artista di Barberino del Mugello espone, fino a domenica 3 giugno 2012, una selezione di sue opere negli spazi del Mudas Museum.
In cinque sale del primo piano del Palazzo vescovile aretino sono allineate, in un allestimento curato da Daniela Galoppi, con l'interior design Luisa Danesi Gori e l'architetto Gianclaudio Papasogli Tacca, diciassette sculture in marmo, bronzo, avorio e legno e una dozzina di disegni e bozzetti preparatori.
L’insieme delle opere esposte, realizzate tra il 1987 e il 2012, offre una panoramica a tutto tondo sull'arte di Vangi, sulla sua capacità di coniugare il meglio della tradizione figurativa italiana con una ricerca stilistica contemporanea, inserita nel proprio tempo, il cui soggetto ispiratore è l’uomo, con le sue angosce, le sue inquietudini, le sue delusioni, le sue speranze, il suo vivere quotidiano. Emerge, dunque, nei lavori in mostra quella che Franco Russoli ha definito come un'impellente «necessità di dare forma a un'idea della condizione umana moderna, intesa come solitudine, ansia, muta domanda senza risposta».
Le statue del maestro toscano -«solide, compatte e rigorosamente chiuse in se stesse», come ebbe a scrivere Dino Buzzati– diventano biografia della sofferenza e della disperazione leopardiana del nostro tempo, metafore del disorientamento che ci coglie davanti al mistero dell'universo e paradigma del nostro smarrimento di fronte all'imperversare di uno stile di vita sempre più caratterizzato dal motto, di hobbesiana memoria, «Homo homini lupus est». Emblematici, in tal senso, sono la scultura «Stazzema» (2008) e i suoi disegni preparatori, ricordo delle vittime dell’eccidio nazi-fascista del 12 agosto 1944, nel quale è raffigurato un uomo con, in braccio, il suo bambino morto. Guarda, invece, alla storia più recente il disegno «Katrina» (2007), di chiara ispirazione goyesca, piccolo tassello dell’ampio lavoro che l’artista ha dedicato al violento uragano che, nel 2005, devastò New Orleans e la Florida.
Non manca, poi, in mostra un omaggio alla figura femminile, con opere come il marmo policromo «Giulia vestita di verde» (1990) e la scultura in legno «Lucia» (2009), ma centrale è la tematica religiosa con lavori quali «San Giovanni» (1996), «Angelo» (2008) e gli studi preparatori e le due sculture sul tema del «Crocifisso» (1998), senza dimenticare i ritratti a matita e tecnica mista di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Vangi ci parla, dunque, ancora una volta dell'uomo contemporaneo. Crea immagini che ci sorprendono e commuovo, che ci fanno meditare e che, nello stesso, ci trascinano fuori dal mondo. Immagini che, come ebbe a dire Dino Carlesi, rendono «irreale la realtà […] leggero il peso del dolore».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Giuliano Vangi, «Angelo», 2012. Particolare del presbiterio della Cattedrale di Arezzo; [fig. 2] Giuliano Vangi, «Giulia vestita di verde», 1990;[fig. 3] Giuliano Vangi, «Stazzema», 2008
Informazioni utili
Vangi. Sculture e disegni. Mudas Museum – Museo diocesano d’arte sacra c/o Palazzo vescovile, piazza Duomo, 3 - Arezzo. Orari: lunedì-domenica, 10.00-18.30. Ingresso: intero € 2,00, ridotto € 1,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 0575.4027268. Sito web: http://www.diocesiarezzo.it/. Fino a domenica 3 giugno 2012.
domenica 6 maggio 2012
Carlo Mattioli, nature morte come stati d’animo
Carlo Mattioli (Modena, 1911–Parma, 1994) «taglia, scava, ingozza, incide, pugnala, opera, affonda, offende, strazia, sgualcisce». Giorgio Morandi (Bologna, 1890–1964) «accarezza, modula, sfiora, sfiorisce, sfiata, sfarina, dilava, abbandona, congeda, smaterializza». E’ un approccio diverso alla pittura -lo delineano efficacemente le parole del critico d’arte Marco Vallora- quello dei due artisti emiliani che il Mambo di Bologna mette a confronto, negli spazi del Museo Morandi, a chiusura delle celebrazioni per il primo centenario dalla nascita del maestro modenese, autore noto anche per aver dato vita iconica a opere come «I Ragionamenti» di Pietro Aretino, il «Canzoniere» di Francesco Petrarca, il «Decameron» di Giovanni Boccaccio e la «Divina Commedia» di Dante Alighieri.
Dopo le antologiche di Marsala, negli spazi del Convento del Carmine, e di Roma, nel Braccio di Carlo Magno, tese a focalizzare l’attenzione su tematiche conosciute quali il paesaggio, il ritratto e il nudo, Carlo Mattioli viene, dunque, omaggiato dalla città felsinea con una mostra, molto ricercata e dall’allestimento elegante, che allinea, nelle due sale centrali del museo di Palazzo d’Accursio, una quarantina di sue «Nature morte», per lo più realizzate negli anni Sessanta, nella stagione che precede i più celebri «Notturni». Si instaura così un dialogo silente, intessuto di citazioni e di scontri in punta di pennello, con Giorgio Morandi, le cui opere, comprese le quattro tele della collezione privata di Luciano Pavarotti, recentemente concesse in comodato temporaneo dalle figlie dell’artista, sono visibili nelle sale successive.
Carlo Mattioli guarda al maestro di Bologna, uno dei più eccellenti interpreti dello still life pittorico, come un precedente ineludibile. Ne sono prova i due oli su tela degli anni Trenta esposti, «Senza titolo» (1937) e «Natura morta» (1938), entrambi di impronta morandiana che, pur nei loro risultati ancora accademici, rivelano una notevole abilità tecnica e una raffinata sensibilità cromatica. L’ammirazione per Giorgio Morandi si evince anche dai cinque ritratti che l’artista modenese dedicò al maestro, a partire dal 1969, lavorando sulla memoria di qualche lontano e sparuto incontro. In uno dei primi, il maestro di via Fondazza appare ricurvo su se stesso, con in volto una smorfia amara e triste. La stessa smorfia che anima l’«Autoritratto al chiaro di luna» del 1971, dove Carlo Mattioli dà corpo, con tocchi di ocra, nero e grigio bluastro, al suo carattere schivo, ombroso e saturnino.
Ad accomunare i due artisti non era solo la loro anima malinconica, ma anche un modo simile di intendere il «compito dell’artista»: l’«indefesso lavorare entro una “logora solitudine”» e il rigore etico, inteso «in senso arcangeliano di “intima libertà” e di “costume civile”», sono -per usare le parole di Simona Tosini Pizzetti, curatrice della rassegna bolognese- i fili che tessono le affinità elettive di ricerche che hanno scelto di dialogare con la realtà attraverso il genere della natura morta.
Per il resto, tutto è diverso: alle ordinate e misteriose bottiglie e brocche di Giorgio Morandi, alla sua celebre compostezza formale, Carlo Mattioli risponde con tele logorate da colpi di pennello, scavate da veloci spatolate, abitate da densi e magmatici grumi di colore, impastate con una tavolozza spenta, giocata su poche tonalità: ocra opachi, grigi polverosi, bruni soffocati e qualche, raro, tocco di bianco.
L’artista modenese, con i suoi simulacri di forme e i suoi oggetti dai contorni disfatti (perfetto racconto dell’inquietudine che anima l’uomo contemporaneo), sembra guardare all’esperienza dell’espressionismo astratto americano e all’informale europeo. «Le sue tangenze significative –scrive, infatti, Simona Tosini Pizzetti- sono da ricercarsi in artisti come Fautrier, Dubuffet, De Staël». Non a caso Cesare Garboli ha evidenziato che Mattioli era un «anti-Morandi».
Per i diversi stili di vita, per il mondo di approcciare al genere della natura morta, per la tavolozza cromatica, potremmo forse dare ragione al critico toscano. Ma per l’assoluto che l’arte è stata nella vita di entrambi, sicuramente no.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Veduta della mostra «Carlo Mattioli al Museo Morandi», 2012. Foto: Matteo Monti; [fig. 2] Carlo Mattioli, «Autoritratto al chiaro di luna», 1971. Olio su tela, cm 70x80. Collezione privata; [fig. 3] Carlo Mattioli, «Natura morta», 1965. Olio su tavola, cm 40x25,5 - Collezione Privata
Informazioni utili
Carlo Mattioli al Museo Morandi. Museo Morandi c/o Palazzo Accursio, piazza Maggiore,6 – Bologna. Orari: martedì-venerdì 11.00-18.00, sabato, domenica e festivi: 11.00-20.00; chiuso i lunedì non festivi. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Mi). Informazioni: tel. 051.2193338. Fino al 6 maggio 2012.
Dopo le antologiche di Marsala, negli spazi del Convento del Carmine, e di Roma, nel Braccio di Carlo Magno, tese a focalizzare l’attenzione su tematiche conosciute quali il paesaggio, il ritratto e il nudo, Carlo Mattioli viene, dunque, omaggiato dalla città felsinea con una mostra, molto ricercata e dall’allestimento elegante, che allinea, nelle due sale centrali del museo di Palazzo d’Accursio, una quarantina di sue «Nature morte», per lo più realizzate negli anni Sessanta, nella stagione che precede i più celebri «Notturni». Si instaura così un dialogo silente, intessuto di citazioni e di scontri in punta di pennello, con Giorgio Morandi, le cui opere, comprese le quattro tele della collezione privata di Luciano Pavarotti, recentemente concesse in comodato temporaneo dalle figlie dell’artista, sono visibili nelle sale successive.
Carlo Mattioli guarda al maestro di Bologna, uno dei più eccellenti interpreti dello still life pittorico, come un precedente ineludibile. Ne sono prova i due oli su tela degli anni Trenta esposti, «Senza titolo» (1937) e «Natura morta» (1938), entrambi di impronta morandiana che, pur nei loro risultati ancora accademici, rivelano una notevole abilità tecnica e una raffinata sensibilità cromatica. L’ammirazione per Giorgio Morandi si evince anche dai cinque ritratti che l’artista modenese dedicò al maestro, a partire dal 1969, lavorando sulla memoria di qualche lontano e sparuto incontro. In uno dei primi, il maestro di via Fondazza appare ricurvo su se stesso, con in volto una smorfia amara e triste. La stessa smorfia che anima l’«Autoritratto al chiaro di luna» del 1971, dove Carlo Mattioli dà corpo, con tocchi di ocra, nero e grigio bluastro, al suo carattere schivo, ombroso e saturnino.
Ad accomunare i due artisti non era solo la loro anima malinconica, ma anche un modo simile di intendere il «compito dell’artista»: l’«indefesso lavorare entro una “logora solitudine”» e il rigore etico, inteso «in senso arcangeliano di “intima libertà” e di “costume civile”», sono -per usare le parole di Simona Tosini Pizzetti, curatrice della rassegna bolognese- i fili che tessono le affinità elettive di ricerche che hanno scelto di dialogare con la realtà attraverso il genere della natura morta.
Per il resto, tutto è diverso: alle ordinate e misteriose bottiglie e brocche di Giorgio Morandi, alla sua celebre compostezza formale, Carlo Mattioli risponde con tele logorate da colpi di pennello, scavate da veloci spatolate, abitate da densi e magmatici grumi di colore, impastate con una tavolozza spenta, giocata su poche tonalità: ocra opachi, grigi polverosi, bruni soffocati e qualche, raro, tocco di bianco.
L’artista modenese, con i suoi simulacri di forme e i suoi oggetti dai contorni disfatti (perfetto racconto dell’inquietudine che anima l’uomo contemporaneo), sembra guardare all’esperienza dell’espressionismo astratto americano e all’informale europeo. «Le sue tangenze significative –scrive, infatti, Simona Tosini Pizzetti- sono da ricercarsi in artisti come Fautrier, Dubuffet, De Staël». Non a caso Cesare Garboli ha evidenziato che Mattioli era un «anti-Morandi».
Per i diversi stili di vita, per il mondo di approcciare al genere della natura morta, per la tavolozza cromatica, potremmo forse dare ragione al critico toscano. Ma per l’assoluto che l’arte è stata nella vita di entrambi, sicuramente no.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Veduta della mostra «Carlo Mattioli al Museo Morandi», 2012. Foto: Matteo Monti; [fig. 2] Carlo Mattioli, «Autoritratto al chiaro di luna», 1971. Olio su tela, cm 70x80. Collezione privata; [fig. 3] Carlo Mattioli, «Natura morta», 1965. Olio su tavola, cm 40x25,5 - Collezione Privata
Carlo Mattioli al Museo Morandi. Museo Morandi c/o Palazzo Accursio, piazza Maggiore,6 – Bologna. Orari: martedì-venerdì 11.00-18.00, sabato, domenica e festivi: 11.00-20.00; chiuso i lunedì non festivi. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Mi). Informazioni: tel. 051.2193338. Fino al 6 maggio 2012.
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