Trentasei opere, realizzate tra il 1967 e il 1994 (dalla prima personale torinese alla prematura scomparsa), ripercorrono l’eccentrica e caleidoscopica parabola creativa del maestro torinese, figura chiave del poverismo e protagonista indiscusso del concettualismo, recentemente celebrato da un’importante retrospettiva che ho toccato tre prestigiose sedi espositive estere: il Reina Sofia di Madrid, la Tate Modern di Londra e il MoMA di New York.
Emergono dai lavori selezionati per la mostra milanese, aperta fino a venerdì 22 marzo 2013, tutti quei temi che rendono ancora attuale la filosofia di Alighiero Boetti: la complessità del rapporto con l'altro e lo straniero, la mescolanza dei linguaggi e delle culture, il superamento dei confini, il ruolo della comunicazione e dell'immagine nella civiltà della riproduzione, la relazione tra locale e globale, tra microcosmo e macrocosmo.
L’artista torinese è stato capace di cogliere la complessità del mondo contemporaneo e di restituircela attraverso una pluralità di tecniche e di materiali che vanno dai disegni ai ricami, dai collage alle matite su carta, dagli acquerelli agli arazzi, icona più riconoscibile della sua versatile creatività. Non meno nota è quella firma ‘storpiata’, «Alighiero & Boetti», scelta come titolo della mostra milanese, che l’artista iniziò ad usare tra la fine del 1972 e il 1973 e che è cifra simbolica della sua ricerca sull’identità e sul suo doppio, del quale è noto il lavoro «Gemelli» del 1968.
«Alighiero -affermava lo stesso Boetti- è la parte più infantile, più estrema, che domina le cose familiari, Alighiero è il modo in cui mi chiamano e mi nominano le persone che conosco, Boetti è più astratto, appunto, perché il cognome rientra nella categoria, mentre il nome è unico il cognome è già una categoria, una classifica. Questa è una cosa che riguarda tutti. Il nome dà certe sensazioni di familiarità, di conoscenza, di intimità. Boetti, per il solo fatto di essere un cognome, è già un’astrazione, è già un concetto».
Acutissimo teorico senza per questo amare le teorie, pensatore zen, cantastorie di piccole verità in forma di enigma, e, soprattutto, titolista nato (rimane leggendario il suo «Mettere al mondo il mondo» del 1973-1979, diventato lo slogan del primo movimento femminista), il maestro torinese ha attraversato l'universo dell'arte e la vita stessa con la forza di un ciclone, come se sapesse di avere poco tempo a disposizione per lasciare la propria impronta, ironica e svincolata dalle convenzioni, nella storia del Novecento.
Qualche anno prima di morire, con il suo «Non parto, non resto» (1984), Alighiero Boetti aveva lasciato il suo testamento personale e aveva colto nel segno. La sua leggerezza creativa, la sua libertà di pensiero, il suo fare compositivo, comprensivo di tutti i fenomeni del vivere e intriso di elementi personali, ha trovato ‘seguaci’ in Stefano Arienti, Rirkrit Tiravanija, Felix Gonzales-Torres, Philippe Parreno e in tanti altri giovani artisti.
I veri protagonisti dell’esposizione sono, però, gli arazzi, che Alighiero Boetti fece realizzare in Afghanistan, Paese dove visse, periodicamente, dal 1971 fino all'invasione russa e dove aprì anche un piccolo albergo, lo «One Hotel». Accanto alle mappe, planisferi politici in cui ciascun territorio viene ricamato con i colori e i simboli della bandiera di appartenenza, ci sono i celebri ricami su tela con lettere dell’alfabeto, opere ricche di colori e di frasi che l’artista sceglieva personalmente, per poi farle tessere alle donne di Kabul.«Scrivere -era solito affermare- è disegnare. Le mie scritture sono tutte fatte con la sinistra, una mano che non sa scrivere, mostrano quindi anche una punta di sofferenza fisica, ma scrivere è un gran piacere. Ci sono parole che uccidono, parole che fanno un male tremendo, parole come sassi, parole leggerissime, parole reali come in numeri. Ma se vuoi veramente qualcosa mettilo per iscritto».
«Le infinite possibilità di esistere», «Nella tua vita errante o fratello mio fisso abbi sempre l'occhio alla ciambella e non al foro», «Sciogliersi come neve al sole», «Sragionare in lungo e in largo», «L'insensata corsa della vita delle parole e dei pensieri in giro per il mondo» sono alcuni dei titoli che Alighieri Boetti sceglie per questi suoi lavori, dimostrando quella sua doppia vocazione di «Shaman-showman» dell'arte: «sciamano perché sei sempre uno stregone quando lavori con la mano e la testa (…) showman perché ogni tanto ti tocca fare anche questo», come ebbe a dire a Maurizio Fagiolo dell'Arco in un’intervista per le pagine de quotidiano «Il Messaggero» (marzo 1977). Inarrivabile Boetti!