Prosegue la collaborazione tra la collezione Peggy Guggenheim di Venezia e l’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze. Dopo l’intervento conservativo dell’opera «Alchimia» di Jackson Pollock, avvenuto nel 2013, tocca ora all’opera «Scatola in una valigia (Boîte-en-Valise)», realizzata da Marcel Duchamp nel 1941, essere oggetto di un importante intervento di studio e conservazione.
Il lavoro è il primo di un’edizione deluxe di venti valigette da viaggio di Louis Vuitton, che raccolgono ciascuna sessantanove riproduzioni e miniaturizzazioni di celebri lavori del poliedrico e dissacrante artista francese. Con la «Boîte-en-Valise», Duchamp intraprese uno dei suoi progetti più ambiziosi: un museo portatile di repliche creato con l'aiuto di elaborate tecniche di riproduzione come il pochoir, simile allo stencil. In questo modo l’artista condusse fino alle ultime battute la rivoluzionaria operazione avviata attraverso i ready-made, dando il via a una parodia estrema dell'arte e dei meccanismi creativi, che colpisce al cuore l'idea stessa di museo.
Nell’edizione deluxe le venti valigie contengono, oltre alle riproduzioni in miniatura delle sue opere, un «originale» diverso per ogni valigetta, e differiscono tutte tra di loro per piccoli dettagli e varianti nel contenuto. L’ «originale» della valigia di Peggy è una riproduzione de «Le roi et la reine entourès de nus vites» (1912), colorata ex-novo per la valigia dallo stesso artista («coloriage original»). Si tratta di una dedica a Peggy Guggenheim, che sostenne economicamente Duchamp in questa sua produzione. L’opera include al suo interno, tra le varie riproduzioni, anche una miniatura del famoso orinatoio rovesciato, «Fontana», del 1917, e una riproduzione di un «ready-made rettificato» del 1919 raffigurante la Gioconda di Leonardo da Vinci, con barba e baffi e l’iscrizione «L.H.O.O.Q.». La sequenza delle lettere pronunciate in francese formano la frase «elle a chaud au cul», convenientemente tradotta da Duchamp come «c’è il fuoco là sotto». Nel corso della sua vita, Duchamp creò trecentododici versioni de «Boîte-en-Valise».
L’idea di creare delle scatole contenenti facsimili e schizzi risale già al 1914: esistono tre o cinque copie di questa prima edizione di scatole, le quali contengono i primi schizzi su carta fotografica di «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» (1915-23). Al momento si conosce l’ubicazione di solo due di queste scatole, una al Centre Pompidou a Parigi e l’altra al Philadelphia Museum of Art.
Prima che l’artista francese iniziasse a dedicarsi alle edizioni principali delle sue «Boîtes en Valise», creò un’ulteriore scatola contenente 93 documenti riguardanti le sue idee su «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» negli otto anni prima del suo completamento. Questa scatola si chiama «La Boîte Verte» (1934) e si trova al Tate Modern a Londra.
Nel 1935 Duchamp comincia a creare le versioni principali delle «Boîtes en Valise», che sono suddivise in sette serie. Nel 1966 creò un’ultima scatola che non è parte delle edizioni principali, «La Boîte Blanche». Si tratta di una scatola in plexiglas con una serigrafia di «Glissière Contenant un Moulin à Eau». Al suo interno ci sono settantanove facsimili realizzati tra il 1914 e il 1923. Questa scatola si trova al Philadelphia Museum of Art.
Ritornando all’opera-compendio conservata alla Peggy Guggenheim di Venezia, questo particolarissimo lavoro è stato realizzato su supporti molto diversi tra loro: pelle, carta fotografica con aggiunte a matita, acquerello e inchiostro. L’intervento sull’opera di Duchamp, dato il carattere polimaterico, sarà coordinato dal dipartimento di conservazione della Collezione Peggy Guggenheim e dal Settore materiali cartacei e membranacei dell’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze, i cui restauratori condurranno le varie fasi di interventi coadiuvati da esperti dei diversi settori dell’istituto che, a vario livello, saranno coinvolti per consulenze e per interventi mirati sui singoli elementi, presenti all’interno.
È prevista una campagna di indagini per l’identificazione delle tecniche grafiche e pittoriche usate, così come sul metodo di assemblaggio dei pezzi.
Trattandosi della prima della celebre serie di valigie deluxe della fine degli anni ‘30 del Novecento, obiettivi dell’intervento saranno, oltre alla risoluzione delle problematiche inerenti la conservazione e l’esposizione di un oggetto molto delicato quale essa è, conoscere meglio il modo di lavorare di Duchamp e il sistema «quasi industriale» che da questo momento attiverà per realizzare le altre serie prodotte.
Particolarmente interessante sarà anche, data la complessità dell’oggetto e la sua stratificazione di contenuti, studiare la resa tridimensionale e la modellizzazione virtuale dell’oggetto, così da permettere una visione «in differita» dell’opera, da offrire al grande pubblico che altrimenti non potrebbe apprezzarlo nella sua completezza.
Come è consuetudine, l’Opificio delle pietre dure si avvarrà, per le indagini diagnostiche e la restituzione virtuale dell’opera, della rete di istituti di ricerca, universitari e del Cnr, che collaborano con l’istituto fiorentino alla ricerca sui materiali dell’arte.
La collezione Guggenheim rinsalda così i fili di un’amicizia durata quasi una vita, quella tra la collezionista americana e Duchamp. I due si conobbero a Parigi, negli anni ’20, quando la mecenate si trovava in Europa insieme al marito, l’artista Laurence Vail.
Quando nel 1938 Peggy Guggenheim aprì la galleria d'arte Guggenheim Jeune a Londra, diede ufficialmente inizio a una carriera che avrebbe influenzato significativamente il corso dell'arte del dopoguerra. Fu Duchamp a presentarle gli artisti e a insegnarle, come lei stessa ebbe a dire nella sua autobiografia «Una vita per l’arte» (Rizzoli Editori, Milano 1998), «la differenza tra l'arte astratta e surrealista». Nello stesso libro, Peggy Guggenheim parlava anche dell’opera dell’artista francese, oggetto oggi di restauro: «Spesso pensavo che sarebbe stato molto divertente andare a trascorrere un fine settimana portandosi dietro quella valigia invece della solita borsa che si riteneva indispensabile».
Per saperne di più
www.guggenheim-venice.it
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
giovedì 28 marzo 2019
martedì 26 marzo 2019
«San Giorgio Cafè», La Mantia cucina per Venezia e gli art addicted
In primo piano le barche mollemente adagiate sulle acque della Laguna veneta e sullo sfondo la magnificenza del campanile di San Marco. È una location da sogno quella del nuovo ristorante di Filippo La Mantia, «oste e cuoco» palermitano -per sua stessa definizione- famoso per una cucina ricca di sapori genuini, profumi che rimangono impressi nella memoria e amore per materie prime come agrumi, finocchietto e pistacchi, fiore all’occhiello della sua Sicilia. Da sabato 6 aprile l’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia avrà, infatti, un nuovo spazio dedicato all’arte della cucina e alla cultura gastronomica italiana: il San Giorgio Café.
Il progetto, voluto dalla Fondazione Giorgio Cini nell’ambito delle attività di valorizzazione dell’isola lagunare, è stato progettato da D’Uva con Filippo la Mantia e sarà l’unico luogo di ristoro pubblico sull’isola. Una tappa, dunque, quasi obbligata per gli appassionati d’arte, soprattutto in vista dell’ormai vicina cinquantottesima edizione della Biennale.
Bar, café, bistrot e ristorante: sarà tutto questo il nuovo locale, collocato a fianco del complesso monumentale dell’isola benedettina, tra i principali promotori della vita culturale veneziana con il suo ricco calendario di iniziative, che spaziano dalla stagione concertistica dell’affascinante auditorium «Lo Squero» a importanti convegni e giornate di studio (tra cui si segnala per il 2019, dal 29 al 31 maggio, l’appuntamento internazionale «How Europe discovered the music of the World after World War II. Cold war, Unesco and ethomusicological debate»), senza dimenticare il sempre raffinato calendario espositivo.
Quest’anno, tra le mostre annunciate dalla Fondazione Cini per l’apertura della Biennale di Venezia, merita una segnalazione l’importante retrospettiva dedicata ad Alberto Burri (10 maggio - 28 luglio), realizzata con la collaborazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello.
La mostra, a cura di Bruno Corà, nasce dalla volontà di riportare a Venezia le opere più significative dell’artista, uno dei più grandi protagonisti dell'arte italiana ed europea del XX secolo, la cui ultima antologica risale al 1987.
L’esposizione, allestita negli spazi dell’Ala napoleonica, ripercorrerà così cronologicamente le più significative tappe del percorso del «maestro della materia» attraverso molti dei suoi più importanti capolavori: circa cinquanta opere, provenienti dalla Fondazione Burri, da musei italiani e stranieri e da collezioni private.
In primavera sull’isola di San Giorgio Maggiore sarà possibile vedere anche la nuova esposizione del progetto «Le stanze del vetro», iniziativa per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento nata dalla collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung: «Maurice Marinot. The Glass, 1911-1934» (25 marzo - 28 luglio), a cura di Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami.
L’esposizione, organizzata insieme al Museo delle arti decorative di Parigi, sarà il primo tributo internazionale a questo grande artigiano, protagonista di una rivoluzione, nella tecnica quanto nel gusto, ancora non pienamente conosciuta dal grande pubblico, che lo ha visto letteralmente inventare un nuovo tipo di vetro, spesso, pesante e come egli stesso lo definì «carnoso».
Dopo una formazione parigina, la carriera di Marinot prende avvio come pittore fauve, ma è col vetro, al quale si avvicina quasi casualmente nel 1911, che l'artista trova la via dell'unicità.
Le prime prove con questo materiale sono decorazioni a smalto di oggetti prodotti dalla vetreria industriale di alcuni amici a Bar-sur-Seine, nella regione dell’Aube.
Il rapporto col vetro diviene, negli anni, sempre più fisico, quasi una lotta a due con la materia. Marinot arriva a padroneggiare la tecnica e, a partire dal 1922-1923, soffia egli stesso creando pezzi unici dalle forme originali e dalle colorazioni raffinatissime. Passa da forme pulite dalle superficie lisce, che giocano con le bolle d’aria sospese nello spessore, a flaconi e vasi che incide con tagli profondi, o corrode con lunghi passaggi nell’acido.
Questa storia, che termina nel 1934, verrà raccontata attraverso duecento pezzi unici e centoquindici disegni, tra schizzi e progetti per oggetti e per allestimenti, provenienti da differenti musei francesi.
In autunno «Le stanze del vetro» proporranno, invece, la mostra «Thomas Stearns alla Venini» (9 settembre 2019 - 6 gennaio 2020), dedicata all’esperienza muranese dell’artista americano che giunse a Murano nel 1960. La mostra, e il relativo catalogo, metteranno insieme per la prima volta tutte le opere che si sono conservate e che in gran parte possono essere considerate pezzi unici.
Mentre l’Ala napoleonica della Fondazione Giorgio Cini vedrà un omaggio a Emilio Isgrò (29 agosto-24 novembre), focalizzato su un tema centrale nella poetica dell’artista, quello della cancellatura.
Sono tanti, dunque, gli appuntamenti d’arte pensati per godere appieno della bellezza dell’isola di San Giorgio Maggiore e ora, al calendario, si aggiunge anche la possibilità di gustare un pasto d’autore. Da qualche giorno è già possibile prenotare on-line il proprio tavolo sul sito www.sangiorgio.cafe, i cui contenuti saranno svelati alla stampa il prossimo 5 aprile. Una prima occasione, quella del sito e delle pagine social su Facebook e Instagram, per «cogliere -raccontano da Venezia- il significato profondo del rapporto integrato tra il San Giorgio Cafè e le tradizionali attività della Fondazione Giorgio Cini a sostegno e valorizzazione dell'Isola».
Informazioni utili
Per prenotazioni >>> booking@sangiorgio.cafe
Per informazioni >>> info@sangiorgio.cafe
Sito ufficiale >>> www.sangiorgio.cafe
Instagram >>> https://www.instagram.com/sangiorgiocafe
Facebook >>>https://www.facebook.com/sangiorgiocafe/
Il progetto, voluto dalla Fondazione Giorgio Cini nell’ambito delle attività di valorizzazione dell’isola lagunare, è stato progettato da D’Uva con Filippo la Mantia e sarà l’unico luogo di ristoro pubblico sull’isola. Una tappa, dunque, quasi obbligata per gli appassionati d’arte, soprattutto in vista dell’ormai vicina cinquantottesima edizione della Biennale.
Bar, café, bistrot e ristorante: sarà tutto questo il nuovo locale, collocato a fianco del complesso monumentale dell’isola benedettina, tra i principali promotori della vita culturale veneziana con il suo ricco calendario di iniziative, che spaziano dalla stagione concertistica dell’affascinante auditorium «Lo Squero» a importanti convegni e giornate di studio (tra cui si segnala per il 2019, dal 29 al 31 maggio, l’appuntamento internazionale «How Europe discovered the music of the World after World War II. Cold war, Unesco and ethomusicological debate»), senza dimenticare il sempre raffinato calendario espositivo.
La mostra, a cura di Bruno Corà, nasce dalla volontà di riportare a Venezia le opere più significative dell’artista, uno dei più grandi protagonisti dell'arte italiana ed europea del XX secolo, la cui ultima antologica risale al 1987.
L’esposizione, allestita negli spazi dell’Ala napoleonica, ripercorrerà così cronologicamente le più significative tappe del percorso del «maestro della materia» attraverso molti dei suoi più importanti capolavori: circa cinquanta opere, provenienti dalla Fondazione Burri, da musei italiani e stranieri e da collezioni private.
In primavera sull’isola di San Giorgio Maggiore sarà possibile vedere anche la nuova esposizione del progetto «Le stanze del vetro», iniziativa per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento nata dalla collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung: «Maurice Marinot. The Glass, 1911-1934» (25 marzo - 28 luglio), a cura di Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami.
Dopo una formazione parigina, la carriera di Marinot prende avvio come pittore fauve, ma è col vetro, al quale si avvicina quasi casualmente nel 1911, che l'artista trova la via dell'unicità.
Le prime prove con questo materiale sono decorazioni a smalto di oggetti prodotti dalla vetreria industriale di alcuni amici a Bar-sur-Seine, nella regione dell’Aube.
Il rapporto col vetro diviene, negli anni, sempre più fisico, quasi una lotta a due con la materia. Marinot arriva a padroneggiare la tecnica e, a partire dal 1922-1923, soffia egli stesso creando pezzi unici dalle forme originali e dalle colorazioni raffinatissime. Passa da forme pulite dalle superficie lisce, che giocano con le bolle d’aria sospese nello spessore, a flaconi e vasi che incide con tagli profondi, o corrode con lunghi passaggi nell’acido.
Questa storia, che termina nel 1934, verrà raccontata attraverso duecento pezzi unici e centoquindici disegni, tra schizzi e progetti per oggetti e per allestimenti, provenienti da differenti musei francesi.
Mentre l’Ala napoleonica della Fondazione Giorgio Cini vedrà un omaggio a Emilio Isgrò (29 agosto-24 novembre), focalizzato su un tema centrale nella poetica dell’artista, quello della cancellatura.
Sono tanti, dunque, gli appuntamenti d’arte pensati per godere appieno della bellezza dell’isola di San Giorgio Maggiore e ora, al calendario, si aggiunge anche la possibilità di gustare un pasto d’autore. Da qualche giorno è già possibile prenotare on-line il proprio tavolo sul sito www.sangiorgio.cafe, i cui contenuti saranno svelati alla stampa il prossimo 5 aprile. Una prima occasione, quella del sito e delle pagine social su Facebook e Instagram, per «cogliere -raccontano da Venezia- il significato profondo del rapporto integrato tra il San Giorgio Cafè e le tradizionali attività della Fondazione Giorgio Cini a sostegno e valorizzazione dell'Isola».
Informazioni utili
Per prenotazioni >>> booking@sangiorgio.cafe
Per informazioni >>> info@sangiorgio.cafe
Sito ufficiale >>> www.sangiorgio.cafe
Instagram >>> https://www.instagram.com/sangiorgiocafe
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domenica 24 marzo 2019
«Gauguin a Tahiti», al cinema per scoprire «il paradiso perduto» dell'artista
È il 1° aprile 1891 quando, a bordo della nave Océanien, Paul Gauguin (1848-1903) lascia Marsiglia diretto a Tahiti, in Polinesia. Ha appena ottenuto dal Governo francese una missione gratuita con lo scopo di «fissare il carattere e la luce della regione», allora molto pubblicizzata dagli opuscoli dedicati alle colonie francesi in Oceania. L’artista realizza così, a quarantatré anni, il suo sogno di abbandonare una realtà che sempre meno sembra essergli congeniale per luoghi che, attraverso la lettura del romanzo «Le mariage» di Pierre Loti, gli sembrano il paradiso in terra.
Quella giornata di inizio aprile del 1891 segna l’avvio di un viaggio che due mesi dopo, il 9 giugno, vedrà Paul Gauguin giungere agli antipodi della civiltà, alla ricerca dell’alba del tempo e dell’uomo.
Ai Tropici, l’artista resterà quasi senza intervalli fino alla morte, prima sull’isola di Tahiti, poi in quella di Hiva Oa, nell’arcipelago delle Marchesi, dove giunge il 16 settembre 1901.
Questi dodici anni vedono il pittore francese andare alla ricerca, disperata e febbrile, dell’autenticità di un luogo dalla natura lussureggiante e dai colori accesi, un vero e proprio Eden che farà di lui uno dei pittori più grandi di sempre tra quelli che si ispirarono alle Muse d’Oltremare.
A questa storia guarda il nuovo appuntamento del progetto «Grande arte al cinema»: «Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto», in cartellone il 25, 26 e 27 marzo.
Il nuovo docu-film, con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, è diretto da Claudio Poli, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, che firma anche la sceneggiatura, ed è prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo.
Ripercorrendo le tracce di una biografia che appartiene ormai al mito e di una pittura raffinatamente primordiale, il film-evento, che vanta una colonna sonora originale firmata dal compositore e pianista Remo Anzovino, guiderà lo spettatore in un percorso tra i luoghi che Paul Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori: New York col Metropolitan Museum, Chicago con il Chicago Art Institute, Washington con la National Gallery of Art, Boston con il Museum of Fine Arts.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio alla scoperta del «romantico dei mari del Sud» saranno anche gli interventi di esperti internazionali: Mary Morton, curatrice alla National Gallery of Art di Washington, Gloria Groom, curatrice all’Art Institute di Chicago, Judy Sund, docente della New York City University, Belinda Thomson, massima esperta di Gauguin, e David Haziot, autore della più aggiornata e accreditata biografia su Gauguin.
«Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto» trasforma in immagini quel libro d’avventura che fu la vita di Gauguin, ma è anche la cronaca di un fallimento. Perché Gauguin non poté mai sfuggire alle proprie origini, alle ambizioni e ai privilegi dell’uomo moderno. Fu sempre il cittadino di una potenza coloniale: dipinse tra le palme, ma con la mente rivolta al pubblico dell’Occidente, alla sua clientela con la malia dell’esotico. Un paradosso, questo, -raccontano da Nexo Digital- che «si riflette nel destino della sua opera, visto che i suoi quadri oggi sono conservati in grandi musei internazionali dove ogni anno milioni di persone si fermano di fronte alle tele di Tahiti, sognando il loro istante di paradiso, un angolo di silenzio in mezzo alla folla».
Ma da dove nasce la fascinazione di Paul Gaugin per i Tropici? Verrebbe da dire dalle sue stesse origini. L’artista, nato a Parigi il 7 giugno del 1848, a soli quattordici mesi viene portato dai suoi genitori -il giornalista Clovis Gauguin e la sudamericana Aline Marie Chazal- in Perù.
Qui, forse, prende il via la sua iniziazione tropicale: egli resterà, infatti, sempre fiero del suo sangue sudamericano, tanto da sostenere con fermezza una sua parentela con gli Aztechi.
Dopo il ritorno a Parigi, Paul Gauguin si avvicina alla pittura e all’Impressionismo, ma presto sente di dover cercare se stesso altrove. Parte così alla volta della costa bretone, un cuneo di roccia proteso sul vuoto dell'Oceano. In questi luoghi rudi, primitivi, malinconici, il pittore pensa di purificarsi dalla città e dalle mode artistiche parigine. Si mette alla ricerca delle forme ancestrali di una nuova pittura. Ed proprio qui, a Pont-Aven, che Gauguin dipingerà alcune delle sue opere più celebri, come il «Cristo Giallo», in cui riproduce un crocifisso ligneo ammirato nella cappella di Trémalo, o «La visione dopo il sermone», in cui il misticismo bretone trova forma nel cloisonnisme, con le sue campiture nette e stesure compatte di colore.
È qui, in Bretagna, che prende il via la sua meravigliosa avventura del colore, con il distacco dagli Impressionisti e dalle loro pennellate frammentarie, con i contrasti violenti con l’amico e collega Vincent Van Gogh e con l’approdo, poi, a un cromatismo nuovo, anti-naturalistico e legato ai movimenti dell’anima come quello di opere come «La orana Maria, Nafea faa ipoipo, Aha oe feii?» o «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Il racconto sarà accompagnato anche dalle parole dello stesso Gauguin, con brani tratti da testi autobiografici (come «Noa Noa» o «Avant et après»), dalle lettere a familiari, amici e alla moglie Mette, alla quale Paul scriverà: «Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire».
La storia di Paul Gauguin è, dunque, la storia -recita Adriano Giannini nel trailer- di «un uomo in fuga dall’arte accademia, dal male di vivere della modernità». È la storia di un ribelle che cerca pace in terre lontane. È la storia di un pittore che sembra aver capito ciò che è importante nella vita: «Quando, finalmente gli uomini comprenderanno -dice- il senso della parola libertà? Che mi importa della gloria? Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me».
Per saperne di più
www.nexodigital.it
Quella giornata di inizio aprile del 1891 segna l’avvio di un viaggio che due mesi dopo, il 9 giugno, vedrà Paul Gauguin giungere agli antipodi della civiltà, alla ricerca dell’alba del tempo e dell’uomo.
Ai Tropici, l’artista resterà quasi senza intervalli fino alla morte, prima sull’isola di Tahiti, poi in quella di Hiva Oa, nell’arcipelago delle Marchesi, dove giunge il 16 settembre 1901.
Questi dodici anni vedono il pittore francese andare alla ricerca, disperata e febbrile, dell’autenticità di un luogo dalla natura lussureggiante e dai colori accesi, un vero e proprio Eden che farà di lui uno dei pittori più grandi di sempre tra quelli che si ispirarono alle Muse d’Oltremare.
A questa storia guarda il nuovo appuntamento del progetto «Grande arte al cinema»: «Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto», in cartellone il 25, 26 e 27 marzo.
Il nuovo docu-film, con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, è diretto da Claudio Poli, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, che firma anche la sceneggiatura, ed è prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo.
Ripercorrendo le tracce di una biografia che appartiene ormai al mito e di una pittura raffinatamente primordiale, il film-evento, che vanta una colonna sonora originale firmata dal compositore e pianista Remo Anzovino, guiderà lo spettatore in un percorso tra i luoghi che Paul Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori: New York col Metropolitan Museum, Chicago con il Chicago Art Institute, Washington con la National Gallery of Art, Boston con il Museum of Fine Arts.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio alla scoperta del «romantico dei mari del Sud» saranno anche gli interventi di esperti internazionali: Mary Morton, curatrice alla National Gallery of Art di Washington, Gloria Groom, curatrice all’Art Institute di Chicago, Judy Sund, docente della New York City University, Belinda Thomson, massima esperta di Gauguin, e David Haziot, autore della più aggiornata e accreditata biografia su Gauguin.
«Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto» trasforma in immagini quel libro d’avventura che fu la vita di Gauguin, ma è anche la cronaca di un fallimento. Perché Gauguin non poté mai sfuggire alle proprie origini, alle ambizioni e ai privilegi dell’uomo moderno. Fu sempre il cittadino di una potenza coloniale: dipinse tra le palme, ma con la mente rivolta al pubblico dell’Occidente, alla sua clientela con la malia dell’esotico. Un paradosso, questo, -raccontano da Nexo Digital- che «si riflette nel destino della sua opera, visto che i suoi quadri oggi sono conservati in grandi musei internazionali dove ogni anno milioni di persone si fermano di fronte alle tele di Tahiti, sognando il loro istante di paradiso, un angolo di silenzio in mezzo alla folla».
Ma da dove nasce la fascinazione di Paul Gaugin per i Tropici? Verrebbe da dire dalle sue stesse origini. L’artista, nato a Parigi il 7 giugno del 1848, a soli quattordici mesi viene portato dai suoi genitori -il giornalista Clovis Gauguin e la sudamericana Aline Marie Chazal- in Perù.
Qui, forse, prende il via la sua iniziazione tropicale: egli resterà, infatti, sempre fiero del suo sangue sudamericano, tanto da sostenere con fermezza una sua parentela con gli Aztechi.
Dopo il ritorno a Parigi, Paul Gauguin si avvicina alla pittura e all’Impressionismo, ma presto sente di dover cercare se stesso altrove. Parte così alla volta della costa bretone, un cuneo di roccia proteso sul vuoto dell'Oceano. In questi luoghi rudi, primitivi, malinconici, il pittore pensa di purificarsi dalla città e dalle mode artistiche parigine. Si mette alla ricerca delle forme ancestrali di una nuova pittura. Ed proprio qui, a Pont-Aven, che Gauguin dipingerà alcune delle sue opere più celebri, come il «Cristo Giallo», in cui riproduce un crocifisso ligneo ammirato nella cappella di Trémalo, o «La visione dopo il sermone», in cui il misticismo bretone trova forma nel cloisonnisme, con le sue campiture nette e stesure compatte di colore.
È qui, in Bretagna, che prende il via la sua meravigliosa avventura del colore, con il distacco dagli Impressionisti e dalle loro pennellate frammentarie, con i contrasti violenti con l’amico e collega Vincent Van Gogh e con l’approdo, poi, a un cromatismo nuovo, anti-naturalistico e legato ai movimenti dell’anima come quello di opere come «La orana Maria, Nafea faa ipoipo, Aha oe feii?» o «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Il racconto sarà accompagnato anche dalle parole dello stesso Gauguin, con brani tratti da testi autobiografici (come «Noa Noa» o «Avant et après»), dalle lettere a familiari, amici e alla moglie Mette, alla quale Paul scriverà: «Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire».
La storia di Paul Gauguin è, dunque, la storia -recita Adriano Giannini nel trailer- di «un uomo in fuga dall’arte accademia, dal male di vivere della modernità». È la storia di un ribelle che cerca pace in terre lontane. È la storia di un pittore che sembra aver capito ciò che è importante nella vita: «Quando, finalmente gli uomini comprenderanno -dice- il senso della parola libertà? Che mi importa della gloria? Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me».
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