È lo strumento principe del jazz come documentano le esemplari interpretazioni di Ben Webster, Ornette Coleman, Charlie Parker, John Coltrane, Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Dexter Gordon. Stiamo parlando del sassofono, la cui invenzione si deve al flautista e clarinettista Antoine-Joseph Sax (Dinant, 6 novembre 1814 – Parigi, 7 febbraio 1894), detto Adolphe, membro di una famiglia franco-belga di costruttori di strumenti musicali in metallo.
Frutto del tentativo di migliorare il timbro del clarinetto basso, il sassofono fece la sua comparsa sulla scena musicale nel 1840; il brevetto dello strumento risale, invece, a sei anni dopo e porta la data del 28 giugno 1846.
Accolto con diffidenza nell’ambiente della musica accademica, tanto che il suo inventore trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, il sassofono venne usato dapprima nelle bande militari e solo in seguito si affermò nella musica colta grazie al lavoro di autori come Hector Berlioz, Jean-Marie Londeix, Georges Kastner e, poi, Georges Bizet, Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Camille Saint-Saëns, Armand Limnander e Jérôme Savari.
Il sassofono diventò presto anche materia di studio: le prime cattedre di questo strumento vennero istituite a Parigi, nel 1857, per volontà dello stesso Adophe Sax e al Conservatorio di Bologna, nel 1844, grazie alla geniale intuizione di Gioachino Rossini, che inserì questo strumento anche in una delle sue ultime composizioni: «La corona d’Italia».
Ma è Oltreoceano, nei primi anni del Novecento, che le note suadenti e malinconiche del sax incontrano il giusto riconoscimento, anzi entrano nella leggenda.
Lo strumento conosce, infatti, il suo periodo d'oro grazie ai ritmi sincopati del jazz e ai suoi principali interpreti, ovvero Lester Young e Coleman Hawkins, passando per Louis Armstrong, Charlie Parker, John Coltrane e Stan Getz, fino agli odierni «mostri sacri» Michael Breker o Joshua Reedman.
Tra i jazzisti e il sassofono è amore a prima vista e il motivo è semplice: «si può piangere e parlare e piangere e gridare nel sassofono, come si fa con la voce».
Al «tubo dal fascino imprescindibile» e a tutte le sue metamorfosi è stato da poco dedicato anche un museo, il primo nel panorama internazionale. Si trova alle porte di Roma -a Maccarese, una frazione di Fiumicino- ed è nato grazie all’amore, alla conoscenza e alla generosità del musicista e docente laziale Attilio Berni, che ha messo a disposizione la sua ricca raccolta, composta in oltre trent’anni, per «dare forma -spiega lo stesso collezionista- alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali».
Circa seicento pezzi (alcuni molto rari), oltre ottocento fotografie d’epoca, vinili, LP, spartiti, libri, documenti originali e, persino, cinquecento giocattoli a forma di sax compongono il patrimonio del Museo del Saxofono, che si sviluppa su trecentocinquanta metri quadrati di sale espositive e uno spazio esterno altrettanto grande per i concerti estivi, oltre a due sale archivio.
Dal piccolissimo soprillo di trentadue centimetri al gigantesco sax sub-contrabbasso di quasi tre metri, costruito dall’artigiano brasiliano Gilberto Lopes ed esposto nel 2014 al Louvre di Parigi in una mostra su Adolphe Sax, il percorso espositivo permette di vedere tante curiosità come i primi esperimenti dell’inventore belga, il Grafton Plastic, il mitico Conn O-Sax, il Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, il Jazzophone, i grandiosi Conn Artist De Luxe, i sax a coulisse, i saxorusofoni Bottali, il Tex Beneke, l’Ophicleide, il Tex Beneke e i tenori Selmer appartenuti a Sonny Rollins.
Quello di Maccarese è, dunque, un percorso che permette al visitatore di districarsi nelle innumerevoli metamorfosi del saxofono grazie al contatto diretto con i grandi capolavori delle fabbriche Conn, Selmer, King, Buescher, Martin, Buffet Crampon, Rampone, Borgani, Couesnon, seguendo un connubio tra arte e artigianalità, creatività e tradizione che dura da quasi centottant’anni.
Al Museo di Attilio Berni sono, inoltre, esposti anche strumenti posseduti e suonati da importanti personaggi e interpreti come Rudy Wiedoeft, Sonny Rollins, Adrian Rollini, Marcel Mule, Benny Goodman e Tom Scott.
Mentre la raccolta fotografica documenta la storia del sax, dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni Venti fino alle band degli anni Settanta. Tra i pezzi esposti ci sono fotografie originali di Sigurd Rascher, madame Helise Hall, Dorothy Johnson, del Schuster Sister Saxophone Quartet, dei Six Brown Brothers e delle gemelle Violet & Daisy Hilton.
Una segnalazione meritano, infine, i sax giocattolo, di vitale importanza per la diffusione della cultura dello strumento, che vennero fabbricati principalmente in America e nei Paesi dell’Est Europa.
Un percorso, dunque, interessante quello del museo di Maccarese per scoprire tutti i volti, anche i più giocosi, di uno strumento capace di dar voce alle emozioni. Uno strumento dal fascino particolare, di cui Charlie Parker diceva: «Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».
Informazioni utili
Museo del Saxofono, via dei Molini - Maccarese - Fiumicino (Roma). Orari: martedì - venerdì, ore 15.00 - 19:00; sabato - domenica, ore 10.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: adulti € 7,00, studenti e over 65, € 5,00, bambini fino ai 6 anni gratuito. Visite guidate: € 50,00 per minimo 12 persone. Informazioni: tel. 06.61697862. Sito web: www.museodelsaxofono.com.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 23 ottobre 2019
martedì 22 ottobre 2019
Leonardo500, in mostra a Milano «La Vergine delle Rocce del Borghetto»
È un’occasione da non perdere quella offerta dalla Fondazione Orsoline di San Carlo a Milano. In occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario leonardesco, la congregazione religiosa fondata da sant’Angela Merici apre le porte della sua sede davanti alla basilica di sant’Ambrogio, e più precisamente la chiesa di san Michele del Dosso, e rende accessibile al pubblico «La Vergine delle Rocce del Borghetto» (1517-1520).
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.
Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari
Informazioni utili
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.
Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari
Informazioni utili
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.
lunedì 21 ottobre 2019
«Ond'evitar tegole in testa!», sette secoli di assicurazione in mostra a Parma
È una storia che ha origini antiche e un primato tutto italiano. Furono, infatti, i mercanti genovesi e fiorentini del Trecento, per garantire un più sicuro sviluppo dei loro commerci, a dare vita al fenomeno assicurativo. I primi strumenti contrattuali noti riguardavano la spedizione di merci via mare verso l’Estremo Oriente. Questi viaggi erano, infatti, considerati pericolosi sia per l’impossibilità di prevedere con sufficiente anticipo l’arrivo di una tempesta sia per la presenza di pirati e corsari sulle rotte mercantili.
Il timore di perdere i guadagni ottenuti da questi commerci portò così i mercanti trecenteschi a inventare il «contratto assicurativo», un accordo scritto che trasferiva il rischio della perdita di un carico o della stessa nave ad altri che fossero disposti a prenderlo su di sé al fine di ottenere, a loro volta, un’analoga copertura per le loro spedizioni.
La polizza più antica, stilata da un notaio genovese, porta la data del 18 febbraio 1343 ed è proprio questa ad aprire il percorso espositivo della mostra «Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione», allestita nelle sale dell’APE Parma Museo, l’innovativo centro culturale e museale ideato e realizzato da Fondazione Monteparma nel cuore della città ducale.
L’esposizione, curata da Marina Bonomelli e Claudia Di Battista, presenta, nello specifico, duecentottanta pezzi, databili tra il Medioevo e i giorni nostri, tra cui quaranta testi antichi, ventisei polizze assicurative, centoventi targhe incendio prodotte negli ultimi due secoli e novantaquattro manifesti di compagnie italiane e straniere, realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’70 del Novecento.
Il percorso espositivo, che allinea materiale proveniente interamente dalla Fondazione Mansutti di Milano, si snoda seguendo due temi ben definiti.
La prima parte ricostruisce la storia dell’assicurazione negli ultimi settecento anni, presentando, tra l’altro, un focus sulla spinosa questione dell'usura: teologi e canonisti del Trecento e Quattrocento discussero, infatti, molto sulla moralità della polizza assicurativa.
A prova di questa stagione vi è il «De contractibus et usuris», un manoscritto su pergamena di San Bernardino da Siena, databile intorno al 1470, e in contrapposizione un trattato del teologo Konrad Summenhart che, al contrario di San Bernardino, pone sul medesimo piano l'aleatorietà del contratto assicurativo e la scommessa, quest'ultima condannata dalla Chiesa.
La mostra allinea anche opere sulla legislazione e sulla storia del diritto delle assicurazioni, tra cui il «Libro del Consolato de’ marinari» nell’edizione veneziana del 1549 e in quella olandese del 1704, il «Tractatus De assecurationibus» nella rara prima edizione del lusitano Pietro Santerna (1552) e il «De mercatura» di Benvenuto Stracca (1622).
Molto interessante è anche l’«Ordonnance de la Marine», promulgata da Luigi XIV nel 1681. Tra le sue norme vi è, ad esempio, quella che vieta l’assicurazione sulla vita delle persone, ma dà la facoltà di assicurare la vita degli schiavi che erano trattati alla stessa stregua delle merci trasportate sulla nave.
Un altro tema fondamentale dello sviluppo assicurativo è legato agli studi sul calcolo della probabilità e a quelli di matematica attuariale, come documenta l’«Ars conjectandi» di Jakob Bernouilli, pubblicato postumo a Basilea nel 1713.
La seconda parte della mostra segue, invece, l’evoluzione stilistica della grafica pubblicitaria assicurativa, attraverso manifesti, stampati nell'arco di oltre un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso.
Questi lavori regalano all'esposizione un valore artistico di grande impatto, oltre a rappresentare un filone a sé stante nell'ambito del mondo assicurativo, di cui costituiscono una testimonianza originale e fuori dal comune.
Le opere provengono in primis da Italia e Francia, dove il fenomeno della cartellonistica ha raggiunto livelli significativi, e a seguire da Svizzera, Belgio e Olanda; non mancano, però, esemplari provenienti anche da Germania, Spagna, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tra le firme più illustri, ritroviamo i triestini Marcello Dudovich e Leopoldo Metlicovitz insieme al loro maestro e mentore Adolf Hohenstein, il parmigiano Erberto Carboni, i romani Adolfo Busi e Gino Boccasile e persino Umberto Boccioni, in mostra con un raro manifesto. Tra gli artisti più recenti, ci sono, invece, i nomi di Savignac, Colin, Seneca, Piaubert e Ugo Nespolo, al quale è riservata una sezione con un originale e colorato omaggio al matematico svizzero Jakob Bernoulli e al suo teorema, conosciuto oggi come la legge dei grandi numeri.
Molte sono, inoltre, le curiosità disseminate lungo il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. Tra queste, c’è la polizza che Ernest Hemingway stipulò contro l’incendio e i cicloni per la sua casa cubana all’Havana, la «Finca La Vigìa», che aveva acquistato nel 1939 per 12.500 dollari e nella quale scrisse due capolavori della letteratura del Novecento come «Per chi suona la campana» e «Il vecchio e il mare».
Tra i pezzi da vedere si segnala anche la polizza che Marilyn Monroe stipulò contro il rischio d’incidenti automobilistici pochi mesi prima della sua morte.
Molto singolare è, infine, anche l'assicurazione sulla vita sottoscritta nel 1959 da Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, proclamato Santo l’anno scorso, con cui la compagnia, in caso di morte del cardinale in qualsiasi epoca dovesse avvenire, si impegnava a pagare agli eredi il capitale di un milione di lire.
Un percorso, dunque, articolato e completo quello della mostra in corso a Parma, che documenta l'evoluzione del settore assicurativo e il suo volto più artistico.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Manifesto di Briot per la Amicale des Mobilisés de l'Assurance, Parigi, 1933; [fig. 2] Manifesto di L. Edel per la Cassa mutua cooperativa italiana per le pensioni, Torino, 1895; [fig. 3] Manifesto della compagnia svizzera Zürich, Parigi, 1892; [fig. 4] Manifesto di U. Boccioni per la compagnia svizzera Helvetia, Milano, ca. 1914; [fig. 5] Manifesto di E. Carboni per la compagnia italiana La Cremonese, Parma, 1924
Informazioni utili
«Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione». Ape Parma Museo, via Farini, 32/a – Parma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.30. Biglietti: intero € 8,00; ridotto € 5,00 (over 65, persone diversamente abili e loro accompagnatori, gruppi di almeno 10 unità); ingresso gratuito scuole, under 18, studenti e personale dell’Università di Parma, guide turistiche e giornalisti. Informazioni: tel. 0521.2034; info@apeparmamuseo.it. Sito internet: www.apeparmamuseo.it; www.storiadelleassicurazioni.com. Fino al 15 gennaio 2020.
Il timore di perdere i guadagni ottenuti da questi commerci portò così i mercanti trecenteschi a inventare il «contratto assicurativo», un accordo scritto che trasferiva il rischio della perdita di un carico o della stessa nave ad altri che fossero disposti a prenderlo su di sé al fine di ottenere, a loro volta, un’analoga copertura per le loro spedizioni.
La polizza più antica, stilata da un notaio genovese, porta la data del 18 febbraio 1343 ed è proprio questa ad aprire il percorso espositivo della mostra «Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione», allestita nelle sale dell’APE Parma Museo, l’innovativo centro culturale e museale ideato e realizzato da Fondazione Monteparma nel cuore della città ducale.
L’esposizione, curata da Marina Bonomelli e Claudia Di Battista, presenta, nello specifico, duecentottanta pezzi, databili tra il Medioevo e i giorni nostri, tra cui quaranta testi antichi, ventisei polizze assicurative, centoventi targhe incendio prodotte negli ultimi due secoli e novantaquattro manifesti di compagnie italiane e straniere, realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’70 del Novecento.
Il percorso espositivo, che allinea materiale proveniente interamente dalla Fondazione Mansutti di Milano, si snoda seguendo due temi ben definiti.
La prima parte ricostruisce la storia dell’assicurazione negli ultimi settecento anni, presentando, tra l’altro, un focus sulla spinosa questione dell'usura: teologi e canonisti del Trecento e Quattrocento discussero, infatti, molto sulla moralità della polizza assicurativa.
A prova di questa stagione vi è il «De contractibus et usuris», un manoscritto su pergamena di San Bernardino da Siena, databile intorno al 1470, e in contrapposizione un trattato del teologo Konrad Summenhart che, al contrario di San Bernardino, pone sul medesimo piano l'aleatorietà del contratto assicurativo e la scommessa, quest'ultima condannata dalla Chiesa.
La mostra allinea anche opere sulla legislazione e sulla storia del diritto delle assicurazioni, tra cui il «Libro del Consolato de’ marinari» nell’edizione veneziana del 1549 e in quella olandese del 1704, il «Tractatus De assecurationibus» nella rara prima edizione del lusitano Pietro Santerna (1552) e il «De mercatura» di Benvenuto Stracca (1622).
Molto interessante è anche l’«Ordonnance de la Marine», promulgata da Luigi XIV nel 1681. Tra le sue norme vi è, ad esempio, quella che vieta l’assicurazione sulla vita delle persone, ma dà la facoltà di assicurare la vita degli schiavi che erano trattati alla stessa stregua delle merci trasportate sulla nave.
Un altro tema fondamentale dello sviluppo assicurativo è legato agli studi sul calcolo della probabilità e a quelli di matematica attuariale, come documenta l’«Ars conjectandi» di Jakob Bernouilli, pubblicato postumo a Basilea nel 1713.
La seconda parte della mostra segue, invece, l’evoluzione stilistica della grafica pubblicitaria assicurativa, attraverso manifesti, stampati nell'arco di oltre un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso.
Questi lavori regalano all'esposizione un valore artistico di grande impatto, oltre a rappresentare un filone a sé stante nell'ambito del mondo assicurativo, di cui costituiscono una testimonianza originale e fuori dal comune.
Le opere provengono in primis da Italia e Francia, dove il fenomeno della cartellonistica ha raggiunto livelli significativi, e a seguire da Svizzera, Belgio e Olanda; non mancano, però, esemplari provenienti anche da Germania, Spagna, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tra le firme più illustri, ritroviamo i triestini Marcello Dudovich e Leopoldo Metlicovitz insieme al loro maestro e mentore Adolf Hohenstein, il parmigiano Erberto Carboni, i romani Adolfo Busi e Gino Boccasile e persino Umberto Boccioni, in mostra con un raro manifesto. Tra gli artisti più recenti, ci sono, invece, i nomi di Savignac, Colin, Seneca, Piaubert e Ugo Nespolo, al quale è riservata una sezione con un originale e colorato omaggio al matematico svizzero Jakob Bernoulli e al suo teorema, conosciuto oggi come la legge dei grandi numeri.
Molte sono, inoltre, le curiosità disseminate lungo il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. Tra queste, c’è la polizza che Ernest Hemingway stipulò contro l’incendio e i cicloni per la sua casa cubana all’Havana, la «Finca La Vigìa», che aveva acquistato nel 1939 per 12.500 dollari e nella quale scrisse due capolavori della letteratura del Novecento come «Per chi suona la campana» e «Il vecchio e il mare».
Tra i pezzi da vedere si segnala anche la polizza che Marilyn Monroe stipulò contro il rischio d’incidenti automobilistici pochi mesi prima della sua morte.
Molto singolare è, infine, anche l'assicurazione sulla vita sottoscritta nel 1959 da Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, proclamato Santo l’anno scorso, con cui la compagnia, in caso di morte del cardinale in qualsiasi epoca dovesse avvenire, si impegnava a pagare agli eredi il capitale di un milione di lire.
Un percorso, dunque, articolato e completo quello della mostra in corso a Parma, che documenta l'evoluzione del settore assicurativo e il suo volto più artistico.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Manifesto di Briot per la Amicale des Mobilisés de l'Assurance, Parigi, 1933; [fig. 2] Manifesto di L. Edel per la Cassa mutua cooperativa italiana per le pensioni, Torino, 1895; [fig. 3] Manifesto della compagnia svizzera Zürich, Parigi, 1892; [fig. 4] Manifesto di U. Boccioni per la compagnia svizzera Helvetia, Milano, ca. 1914; [fig. 5] Manifesto di E. Carboni per la compagnia italiana La Cremonese, Parma, 1924
Informazioni utili
«Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione». Ape Parma Museo, via Farini, 32/a – Parma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.30. Biglietti: intero € 8,00; ridotto € 5,00 (over 65, persone diversamente abili e loro accompagnatori, gruppi di almeno 10 unità); ingresso gratuito scuole, under 18, studenti e personale dell’Università di Parma, guide turistiche e giornalisti. Informazioni: tel. 0521.2034; info@apeparmamuseo.it. Sito internet: www.apeparmamuseo.it; www.storiadelleassicurazioni.com. Fino al 15 gennaio 2020.
Iscriviti a:
Post (Atom)