Per quasi quarant’anni ha svolto un ruolo fondamentale nella divulgazione e promozione della musica jazz in Italia. Sofisticato intenditore musicale, impeccabile organizzatore di concerti, saggista e giornalista di settore tra i più autorevoli al mondo, Arrigo Polillo (Pavullo nel Frignano, 12 luglio 1919 - Milano, 17 luglio 1984) è stato tra le persone che hanno portato il grande jazz in Italia. C'è, infatti, il suo nome dietro a tante trasferte sui palcoscenici italiani, già a partire dai primi anni Cinquanta, di importanti protagonisti della scena internazionale, da Louis Armstrong a John Coltrane, da Ornette Coleman a Duke Ellington, da Ella Fitzgerald a Miles Davis e Thelonious Monk.
Quella passione per le note suadenti del jazz Arrigo Polillo è riuscito a trasmetterla anche al figlio Roberto, fotografo e informatico milanese, classe 1946, autore di progetti come «Impressions of the World», un viaggio in immagini attraverso venticinque Paesi di tutto il mondo, e «Future and The City», studio di ipotesi visive sulle città del futuro.
«Sono cresciuto con mio padre tra giradischi a tutto volume -racconta, infatti, Roberto Polillo- e fu proprio lui a incoraggiare la mia passione: la sua rivista («Musica Jazz», di cui fu caporedattore dal 1945 al 1965 e direttore dal 1965 al 1984, ndr), aveva bisogno di immagini. Così a 16 anni mi regalò una buona macchina fotografica e mi mise al seguito dei musicisti americani in tournée. Mi ritrovai a fotografare praticamente ogni icona jazz del Novecento. Stavo sempre con loro, ma li inquadravo quando non se ne accorgevano, mimetizzandomi sul palco o nei camerini».
Parte di quelle immagini sono ora in mostra a Milano, negli spazi della Galleria Aprés-coup Arte, nata due anni fa nel cuore del quartiere Porta Romana per iniziativa di David Ponzecchi, grazie alla collaborazione della Noema Gallery, realtà diretta da Aldo Sardoni nel cuore di Brera, che rappresenta il fotografo milanese in Italia.
«Jazz Icons of the ‘60s», questo il titolo della rassegna, è inserita nell’ambito degli eventi collaterali per la quarta edizione della rassegna «JazzMi», in programma a Milano fino al prossimo 10 novembre, che festeggia così i cento anni dalla nascita di Arrigo Polillo e i tre quarti di secolo di «Musica Jazz», la più longeva pubblicazione europea del settore.
L’esposizione, visitabile fino al 10 gennaio, allinea una quarantina di immagini, molte di grande formato, scattate durante una serie di concerti tenutisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta a Milano, San Remo, Bologna, Lugano, Pescara, Juan-Les-Pins, Montreaux e in molte altre città.
A selezionare gli scatti, ristampati a partire dai negativi originali dell’epoca, è stato il musicologo Francesco Martinelli, che per l’occasione si è avvalso del contributo del critico e storico della fotografia Roberto Mutti.
Davanti agli occhi del visitatore scorrono i volti dei più grandi interpreti del jazz: Louis Armstrong, Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk, Ella Fitzgerald, Ray Charles, Gerry Mulligan e Charles Mingus.
Non mancano lungo il percorso espositivo le foto di due tra gli interpreti di questa edizione del festival milanese «JazzMi»: Herbie Hanckock e Archie Shepp, che Roberto Polillo ha ripreso rispettivamente nel 1972 e nel 1974 in due concerti a Bergamo.
Ci sono in mostra alla Galleria Aprés-coup Arte anche alcuni scatti iconici della storia della musica di quegli anni, tutti ormai entrati nell'immaginario collettivo. È il caso della fotografia che ritrae il primo concerto di John Coltrane e del suo quartetto in Italia, al Teatro dell’Arte di Milano. È il 2 dicembre 1962.
Per Roberto Polillo, che ha iniziato la sua attività al settimo festival del jazz di Sanremo, è il vero inizio di un’avventura nel mondo della fotografia di musica. «Ricordo ancora distintamente, a distanza di anni -scrive il fotografo nel libro «Swing Bop and Free. Il Jazz degli anni ‘60»-, l’impressione fortissima di quel concerto: la musica e l’uomo Coltrane che, a due metri dalla mia macchina fotografica, in smoking, urlava con il suo strumento grondando rivoli di sudore, totalmente assorto in una rappresentazione quasi mistica, quale mai si era vista prima nel jazz».
Porta la data del 1962 anche un altro scatto di John Coltrane firmato da Polillo, che ha fatto il giro del mondo: il celebre e intenso profilo del musicista, con il sigaro in bocca. «Tutti -svela il fotografo milanese-hanno pensato che in questa foto Coltrane avesse uno sguardo particolarmente profondo, mistico...invece stava aspettando le valigie a Linate ed era in preda al jet lag».
Da allora Roberto Polillo segue sempre il padre nelle sue trasferte e scatta immagini che servono alla rivista «Musica Jazz»: ritratti dei musicisti più importanti al loro arrivo negli aeroporti, in teatro durante le prove e i concerti, e qualche volta fuori dal palco, dietro le quinte. È il caso dei due scatti di Miles Davis e Dizzy Gillespie presenti in mostra, nei quali i due musicisti sono fermati dall'obiettivo poetico e discreto di Roberto Polillo durante due concerti a Milano, il primo tenutosi nel 1964 al Teatro dell’Arte, il secondo al teatro Lirico nel 1966.
Il fotografo milanese -le cui opere sono esposte stabilmente alla Fortezza medicea di Siena, sede dell’Accademia nazionale del jazz- è protagonista, in questo inizio di novembre, anche della mostra collettiva «Milano Anni 60 - Storia di un decennio irripetibile», per la curatela di Stefano Galli, allestita negli spazi di Palazzo Morando a Milano.
È qui che si trova uno dei suoi scatti più belli: l'immagine di Miles Davis "beccato" a suonare un sassofono, e non l’inseparabile tromba. «Questa è una foto speciale –ha rivelato Roberto Polillo- e la situazione in cui fu scattata è stata raccontata da mio padre nel suo libro «Stasera Jazz». Miles si era molto arrabbiato, perché un giornalista lo aveva disturbato in teatro, subito prima dell’inizio del concerto, per un’intervista. Il giornalista fu cacciato in malo modo, e Davis per ripicca annunciò a mio padre (che organizzava il concerto) che non avrebbe più suonato. Tutto però alla fine si risolse per il meglio, e la foto documenta il momento della pace: Davis, scherzando con mio padre (che si vede sullo sfondo), imbracciò un sassofono imitando i movimenti impacciati di un sassofonista drogato. Io, che assistevo alla scena, riuscii a scattare al volo questa foto, mossa e sfuocata. Probabilmente l’unica foto esistente in cui Davis suona (o finge di suonare) un sassofono».
Uno dei tanti aneddoti, questo, che Roberto Polillo può raccontare, svelando il volto sconosciuto del periodo d’oro del jazz e quello dei suoi protagonisti, virtuosi della tromba, del sax, del pianoforte, ma soprattutto geni dell’improvvisazione.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Roberto Polillo, John Coltrane, Milano 1962; [fig. 2] Roberto Polillo, Ella Fitzgerald, Milano 1968; [fig. 3] Roberto Polillo, Duke Ellington, Milano 1966; [fig. 4] Roberto Polillo, Miles Davis e Arrigo Polillo, Milano 1964; [fig. 5] Roberto Polillo, Herbie Hancock, Bergamo 1972; [fig. 6] Roberto Polillo, Thelonious Monk, Milano 1964; [fig. 7] Roberto Polillo, Archie Shepp, Bergamo 1974
Informazioni utili
Roberto Polillo. Jazz Icons of the ‘60s. Galleria Aprés coup Arte, via Privata della Braida, 5 - Milano. Orari:dal martedì al sabato, dalle ore 11.30 alle 23.00. Ingresso libero. Sito: http://www.apres-coup.it/. Fino al 10 gennaio 2020.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 6 novembre 2019
martedì 5 novembre 2019
Sandro Becchetti e i «protagonisti» della nostra storia
Centinaia di grandi protagonisti dell’arte, della letteratura, della musica, del cinema, dello sport e della cultura sono passati per quattro decenni, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, davanti alla lente delle sue fotocamere per, poi, finire sulle pagine di importanti periodici e quotidiani nazionali, da «La Repubblica» a «Il Messaggero», da «L’Unità» a «L’Espresso», da «Paese Sera» a «Il Secolo XIX».
Sandro Becchetti (Roma, 25 dicembre 1935 – Lugnano in Teverina - Terni, 5 giugno 2013) non era un fotografo da appostamenti, scatti rubati e scoop scandalistici. È stato l’anti-paparazzo per eccellenza. Per lui un ritratto, rigorosamente in bianco e nero, era un incontro, una relazione tra esseri umani, anche se era ben consapevole che un clic, così come una chiacchierata superficiale, non avrebbe mai potuto raccontare l’intensità e la verità di una persona e della sua esistenza. Anzi.
«Intorno ad ogni foto -diceva, infatti, Becchetti- ciascuno può costruire la propria menzogna. Perché questa per me è stata la fotografia: la menzogna, una componente essenziale della verità. Le mie macchine fotografiche contenevano –per me, intendo dire– tutte le immagini possibili, ma come le platoniche ombre contenevano anche il loro contrario».
Al ritratto come «specchio dell’anima», dunque, il fotografo romano, che aveva scelto di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in Umbria, non ha mai creduto: «i segni di una faccia -diceva- dissimulano più che rilevare» e la fotografia è «un inganno mediocre: non condensa mai una vita».
Di certo le immagini in mostra fino al prossimo 8 dicembre a Castiglione del Lago, negli spazi suggestivi del cinquecentesco Palazzo della Corgna, «condensano», invece, puntualmente la storia e la cultura del nostro Paese a partire dagli anni Sessanta, quando Sandro Becchetti si muove sulla strada del reportage militante documentando la realtà sociale, politica e culturale dell'Italia. Tutto cambia con il servizio fotografico per i funerali di piazza Fontana a Milano. Il disgusto per un Paese «assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e l’indifferenza» gli fanno cambiare idea sul suo futuro: «nel profondo -racconta ancora Becchetti- cessai lì di essere fotografo e diventai ritrattista».
Davanti alla sua Leica passano tutti i grandi personaggi del tempo. Il celebre scatto con lo sbadiglio annoiato, per non dire sbeffeggiante, di Alfred Hitchock, risposta alle domande della stampa italiana, porta la firma del fotografo romano. Suoi sono anche il ritratto del pugile argentino Carlos Monzón, il cui volto reale non è il viso ma il pugno chiuso che lo ha reso un campione, e quello di un pensieroso Pier Paolo Pasolini, immortalato con l’amata madre.
È di Sandro Becchetti anche una delle fotografie più iconiche del cinema mondiale: Dustin Hoffman, solo, in un corridoio di un albergo romano ai tempi del film «Uomo da marciapiede».
Significativo è anche il suo ritratto di Moira Orfei, il cui viso è immortalato su un manifesto affisso a un bandone, ovvero l’icona che forse identifica più di tutte l’artista con il circo.
Nella mostra sul lago Trasimeno scorrono sotto gli occhi del visitatore anche le immagini di tanti altri protagonisti del Novecento: una giovanissima e suadente Claudia Cardinale, un furente Federico Fellini, un concentrato Giorgio Strehler, un giovanissimo Christo mentre lavora ad impacchettare un edificio e, poi, Andy Warhol, Joe Cocker, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Valentina Cortese, Dacia Maraini, Ornella Vanoni e tanti altri ancora.
I loro ritratti, nei quali si respira quello che Sandro Becchetti chiamava l’«inganno del vero», si alternano a volti di perfetti sconosciuti, mettendo a fuoco sguardi, particolari dell’abbigliamento o della corporeità, in un racconto che focalizza l’attenzione sulla partecipazione sociale e sul mondo del lavoro con i suoi disagi.
Il fotografo romano rende così immortale l’attimo fuggente dell’attualità, la nostra Storia, con le piccole e grandi battaglie quotidiane. Ed è su queste che Sandro Becchetti si concentra in quello che sembra essere il suo testamento artistico: «ho ricevuto molto più di quanto abbia dato. Sono cresciuto, grazie all’esperienza fotografica, soprattutto umanamente. Ritengo di essere diventato una persona migliore, perché migliore era il mondo che i protagonisti delle mie foto si auguravano e per il quale si battevano. Di questo non potrò mai ringraziarli abbastanza».
Informazioni utili
Sandro Becchetti. Protagonisti. Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago (Perugia). Orari: ore 10.00-17.00; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. È possibile prenotare l’apertura straordinaria per visite riservate. Ingresso (comprensivo di ingresso anche alla Rocca del Leone): intero € 8,00; ridotto A € 6,00 (gruppi +15; fino a 25 anni); ridotto B € 3,00 (6-17 anni); gratuito bambini fino a 5 anni, residenti Comune di Castiglione del Lago. Visite guidate: in italiano € 80; in inglese € 100. Al costo si aggiunge il biglietto ridotto. Informazioni, visite guidate e laboratori per le scuole: Palazzo della Corgna, tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Prenotazioni: Call center 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-13.00), callcenter@sistemamuseo.it. Fino all’8 dicembre 2019
Sandro Becchetti (Roma, 25 dicembre 1935 – Lugnano in Teverina - Terni, 5 giugno 2013) non era un fotografo da appostamenti, scatti rubati e scoop scandalistici. È stato l’anti-paparazzo per eccellenza. Per lui un ritratto, rigorosamente in bianco e nero, era un incontro, una relazione tra esseri umani, anche se era ben consapevole che un clic, così come una chiacchierata superficiale, non avrebbe mai potuto raccontare l’intensità e la verità di una persona e della sua esistenza. Anzi.
«Intorno ad ogni foto -diceva, infatti, Becchetti- ciascuno può costruire la propria menzogna. Perché questa per me è stata la fotografia: la menzogna, una componente essenziale della verità. Le mie macchine fotografiche contenevano –per me, intendo dire– tutte le immagini possibili, ma come le platoniche ombre contenevano anche il loro contrario».
Al ritratto come «specchio dell’anima», dunque, il fotografo romano, che aveva scelto di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in Umbria, non ha mai creduto: «i segni di una faccia -diceva- dissimulano più che rilevare» e la fotografia è «un inganno mediocre: non condensa mai una vita».
Di certo le immagini in mostra fino al prossimo 8 dicembre a Castiglione del Lago, negli spazi suggestivi del cinquecentesco Palazzo della Corgna, «condensano», invece, puntualmente la storia e la cultura del nostro Paese a partire dagli anni Sessanta, quando Sandro Becchetti si muove sulla strada del reportage militante documentando la realtà sociale, politica e culturale dell'Italia. Tutto cambia con il servizio fotografico per i funerali di piazza Fontana a Milano. Il disgusto per un Paese «assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e l’indifferenza» gli fanno cambiare idea sul suo futuro: «nel profondo -racconta ancora Becchetti- cessai lì di essere fotografo e diventai ritrattista».
Davanti alla sua Leica passano tutti i grandi personaggi del tempo. Il celebre scatto con lo sbadiglio annoiato, per non dire sbeffeggiante, di Alfred Hitchock, risposta alle domande della stampa italiana, porta la firma del fotografo romano. Suoi sono anche il ritratto del pugile argentino Carlos Monzón, il cui volto reale non è il viso ma il pugno chiuso che lo ha reso un campione, e quello di un pensieroso Pier Paolo Pasolini, immortalato con l’amata madre.
È di Sandro Becchetti anche una delle fotografie più iconiche del cinema mondiale: Dustin Hoffman, solo, in un corridoio di un albergo romano ai tempi del film «Uomo da marciapiede».
Significativo è anche il suo ritratto di Moira Orfei, il cui viso è immortalato su un manifesto affisso a un bandone, ovvero l’icona che forse identifica più di tutte l’artista con il circo.
Nella mostra sul lago Trasimeno scorrono sotto gli occhi del visitatore anche le immagini di tanti altri protagonisti del Novecento: una giovanissima e suadente Claudia Cardinale, un furente Federico Fellini, un concentrato Giorgio Strehler, un giovanissimo Christo mentre lavora ad impacchettare un edificio e, poi, Andy Warhol, Joe Cocker, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Valentina Cortese, Dacia Maraini, Ornella Vanoni e tanti altri ancora.
I loro ritratti, nei quali si respira quello che Sandro Becchetti chiamava l’«inganno del vero», si alternano a volti di perfetti sconosciuti, mettendo a fuoco sguardi, particolari dell’abbigliamento o della corporeità, in un racconto che focalizza l’attenzione sulla partecipazione sociale e sul mondo del lavoro con i suoi disagi.
Il fotografo romano rende così immortale l’attimo fuggente dell’attualità, la nostra Storia, con le piccole e grandi battaglie quotidiane. Ed è su queste che Sandro Becchetti si concentra in quello che sembra essere il suo testamento artistico: «ho ricevuto molto più di quanto abbia dato. Sono cresciuto, grazie all’esperienza fotografica, soprattutto umanamente. Ritengo di essere diventato una persona migliore, perché migliore era il mondo che i protagonisti delle mie foto si auguravano e per il quale si battevano. Di questo non potrò mai ringraziarli abbastanza».
Informazioni utili
Sandro Becchetti. Protagonisti. Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago (Perugia). Orari: ore 10.00-17.00; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. È possibile prenotare l’apertura straordinaria per visite riservate. Ingresso (comprensivo di ingresso anche alla Rocca del Leone): intero € 8,00; ridotto A € 6,00 (gruppi +15; fino a 25 anni); ridotto B € 3,00 (6-17 anni); gratuito bambini fino a 5 anni, residenti Comune di Castiglione del Lago. Visite guidate: in italiano € 80; in inglese € 100. Al costo si aggiunge il biglietto ridotto. Informazioni, visite guidate e laboratori per le scuole: Palazzo della Corgna, tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Prenotazioni: Call center 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-13.00), callcenter@sistemamuseo.it. Fino all’8 dicembre 2019
lunedì 4 novembre 2019
«Modulazione Ascendente», una nuova vita per la scultura di Fausto Melotti alla Gam di Torino
Con il passare del tempo il sole e la pioggia avevano ossidato e annerito il rame di cui è composta. «Modulazione Ascendente» di Fausto Melotti (Rovereto, 8 giugno 1901 – Milano, 22 giugno 1986), l’opera che accoglie, dal 1993, i visitatori all’ingresso della Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, meritava da tempo un serio intervento di restauro.
A compiere i lavori di pulitura e ripristino, durati circa tre mesi, è stato Federico Borgogni, con la supervisione di Elena Volpato, conservatore del museo, e con la collaborazione della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Torino.
L’intervento è stato reso possibile grazie alla generosità della Compagnia De’ Juliani, associazione no profit, nata nel 2001, con la missione di dare un contributo sempre maggiore al territorio di appartenenza, attraverso iniziative di valore sociale e culturale.
«Modulazione Ascendente» ha ritrovato così il suo colore ramato originale e la sua leggiadra poesia, frutto di un gioco di sottili lamine metalliche, per un totale di quattro lastre e ventuno elementi a forma di stella, freccia e mezzaluna, che vanno a formare un segno zigzagante, ritmico e aereo, proteso verso il cielo.
Ideata nel 1977 da un Fausto Melotti ormai in età matura, l’opera è giunta alla GAM - Galleria civica d'arte moderna e contemporanea nel 1992, dopo essere stata acquisita e concessa in comodato d’uso dalla Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, ente che dalla sua fondazione, nel 1982, ha incrementato significativamente le collezioni del museo torinese con disegni, pitture e sculture dell’Ottocento e Novecento, firmate, tra gli altri, da Palagi, Hayez, Pellizza da Volpedo, Morbelli, Balla, Casorati, de Chirico, de Pisis, Morandi, Vedova, Burri.
La scultura, che emana tutta la tensione musicale fatta di vuoti e pieni che è la cifra dell’artista roveretano, è stata riposizionata negli spazi della Gam a metà ottobre in una posizione nuova rispetto al passato: non più al centro del giardino, ma davanti ai bambù, così da poter essere ammirata in tutti i suoi dettagli e da non confondersi con la struttura architettonica del museo.
Prima dell’intervento di restauro, l’opera mostrava problemi di «corrosione dalla colorazione chiara», c’erano incrostazioni, patine di colore scuro e lievi fenomeni di esfoliazione.
Nello specifico, «tutte le superfici -raccontano dalla Gam- risultavano interessate da diffusi depositi di particellato atmosferico e di aggregati di diversa natura e coerenza, per lo più aderenti al substrato. Le parti maggiormente esposte all’azione degli agenti atmosferici e degli inquinanti, come le lastre dove alloggiano gli elementi che costituiscono l’opera, mostravano corrosione dalla colorazione chiara; le zone in sottosquadro, al riparo del dilavamento, erano, invece, prevalentemente interessate da incrostazioni e patine di colore scuro».
Il restauro -spiegano ancora dal museo torinese- è stato condotto con due metodi differenti. «Nella prima fase è stata eseguita una pulitura meccanica, mediante l’utilizzo di spazzole di cotone sulle quali veniva steso uno strato di cera con ossidi di metallo sotto forma di macro sfere. Successivamente, dopo aver rimosso le ossidazioni di colore verde, è stata eseguita una pulitura chimica a tampone con soluzione di Edta (sale bisodico e tetrasodico)».
Si rinnova, dunque, il biglietto da visita della Gam, che in questi giorni di inizio novembre presenta più di un motivo per una gita fuori porta. Sempre nel giardino è possibile, per esempio, vedere, fino al prossimo 19 gennaio, l’installazione site-specific «The Caliph seeks Asylum (Il Califfo cerca Asilo)» dell’artista saudita Muhannad Shono (Riyadh, Arabia Saudita, 1977), inaugurata nei frenetici giorni di Artissima. Si tratta di un’opera realizzata con tremilacinquecento tubi in pvc nero, decorati con minute raffigurazioni tratte dagli antichi volumi miniati della cultura arabo-islamica andati distrutti nella caduta di Baghdad, disposti come un accampamento di fortuna.
Internamente, negli spazi dedicati alle esposizioni permanenti, è, invece, allestita una mostra antologica di Paolo Icaro (Torino, 1936), sempre per la curatela di Elena Volpato, che racconta cinquantacinque anni del lavoro dell’artista, dal 1964 al 2019, compendiati in una cinquantina di opere, alcune realizzate appositamente per l’esposizione.
Mentre in Videoteca, spazio che compie quest’anno vent’anni dall’apertura, è visibile fino al prossimo 8 marzo un omaggio a Gino De Dominicis, prima di sei esposizioni, a cura di Elena Volpato, che indagheranno anche la ricerca video di Giuseppe Chiari, Alighiero Boetti, Claudio Parmiggiani, Vincenzo Agnetti e Jannis Kounellis, promosse dal museo torinese in collaborazione con l’Archivio storico della Biennale di Venezia. Per l’occasione sarà possibile vedere due video che affrontano in modo diverso il tema dell’eternità: «Videotape» del 1974, con una donna che ci guarda e che si sente a sua volta guardata, e «Tentativo di volo» del 1969, che si propone come verifica dell’immortalità filogenetica, parlando di un compito impossibile passato da padre a figlio.
Nella Wunderkammer, infine, è stata da poco inaugurata la mostra «Primo Levi. Figure», a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio, con una selezione significativa dei lavori in filo metallico, realizzati dal grande scrittore e intellettuale torinese tra il 1955 e il 1975. Gli animali sono la prima fonte di ispirazione, ma non mancano le creature fantastiche e la figura umana.
Accostarsi a questi lavori, esposti fino al prossimo 26 gennaio con il progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià e la collaborazione di Anna Rita Bertorello, consente di aprire una straordinaria finestra sul mondo di Levi (nella foto accanto, in uno scatto di Mario Monge): un mondo di competenze e di sensibilità molteplici e ricchissime, ben al di là dell’immagine univoca, più nota e diffusa, di testimone della persecuzione e della deportazione. Ne emerge una figura ricca e complessa, nella quale convivono la formazione del chimico, una solida cultura letteraria classica, la passione per le lingue, le etimologie e i giochi di parole, l’alpinismo, il fantastico, l’ironia e l’umorismo, una curiosità aperta per le più recenti espressioni artistiche, un interesse vivo e competente per la matematica, la fisica, le scienze naturali.
Un calendario di appuntamenti, dunque, ricco quello della Gam di Torino per le prossime settimane, che si arricchisce tutti i sabati e ogni primo martedì del mese di visite guidate alle proprie collezioni, dove si possono ammirare opere di Morandi, Casorati e De Pisis, con testimonianze delle Avanguardie storiche internazionali, tra cui opere di Paul Klee e Picabia fino ad arrivare alle sperimentazioni dell’Arte Povera con i lavori di Boetti e Pistoletto.
Informazioni utili
GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, via Magenta, 31 – Torino. Orari: martedì – domenica, ore 10.00-18.00, chiuso lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingressi: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni. Informazioni per il pubblico: tel. 011.4429518. Sito Internet: www.gamtorino.it.
A compiere i lavori di pulitura e ripristino, durati circa tre mesi, è stato Federico Borgogni, con la supervisione di Elena Volpato, conservatore del museo, e con la collaborazione della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Torino.
L’intervento è stato reso possibile grazie alla generosità della Compagnia De’ Juliani, associazione no profit, nata nel 2001, con la missione di dare un contributo sempre maggiore al territorio di appartenenza, attraverso iniziative di valore sociale e culturale.
«Modulazione Ascendente» ha ritrovato così il suo colore ramato originale e la sua leggiadra poesia, frutto di un gioco di sottili lamine metalliche, per un totale di quattro lastre e ventuno elementi a forma di stella, freccia e mezzaluna, che vanno a formare un segno zigzagante, ritmico e aereo, proteso verso il cielo.
Ideata nel 1977 da un Fausto Melotti ormai in età matura, l’opera è giunta alla GAM - Galleria civica d'arte moderna e contemporanea nel 1992, dopo essere stata acquisita e concessa in comodato d’uso dalla Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, ente che dalla sua fondazione, nel 1982, ha incrementato significativamente le collezioni del museo torinese con disegni, pitture e sculture dell’Ottocento e Novecento, firmate, tra gli altri, da Palagi, Hayez, Pellizza da Volpedo, Morbelli, Balla, Casorati, de Chirico, de Pisis, Morandi, Vedova, Burri.
La scultura, che emana tutta la tensione musicale fatta di vuoti e pieni che è la cifra dell’artista roveretano, è stata riposizionata negli spazi della Gam a metà ottobre in una posizione nuova rispetto al passato: non più al centro del giardino, ma davanti ai bambù, così da poter essere ammirata in tutti i suoi dettagli e da non confondersi con la struttura architettonica del museo.
Prima dell’intervento di restauro, l’opera mostrava problemi di «corrosione dalla colorazione chiara», c’erano incrostazioni, patine di colore scuro e lievi fenomeni di esfoliazione.
Nello specifico, «tutte le superfici -raccontano dalla Gam- risultavano interessate da diffusi depositi di particellato atmosferico e di aggregati di diversa natura e coerenza, per lo più aderenti al substrato. Le parti maggiormente esposte all’azione degli agenti atmosferici e degli inquinanti, come le lastre dove alloggiano gli elementi che costituiscono l’opera, mostravano corrosione dalla colorazione chiara; le zone in sottosquadro, al riparo del dilavamento, erano, invece, prevalentemente interessate da incrostazioni e patine di colore scuro».
Il restauro -spiegano ancora dal museo torinese- è stato condotto con due metodi differenti. «Nella prima fase è stata eseguita una pulitura meccanica, mediante l’utilizzo di spazzole di cotone sulle quali veniva steso uno strato di cera con ossidi di metallo sotto forma di macro sfere. Successivamente, dopo aver rimosso le ossidazioni di colore verde, è stata eseguita una pulitura chimica a tampone con soluzione di Edta (sale bisodico e tetrasodico)».
Si rinnova, dunque, il biglietto da visita della Gam, che in questi giorni di inizio novembre presenta più di un motivo per una gita fuori porta. Sempre nel giardino è possibile, per esempio, vedere, fino al prossimo 19 gennaio, l’installazione site-specific «The Caliph seeks Asylum (Il Califfo cerca Asilo)» dell’artista saudita Muhannad Shono (Riyadh, Arabia Saudita, 1977), inaugurata nei frenetici giorni di Artissima. Si tratta di un’opera realizzata con tremilacinquecento tubi in pvc nero, decorati con minute raffigurazioni tratte dagli antichi volumi miniati della cultura arabo-islamica andati distrutti nella caduta di Baghdad, disposti come un accampamento di fortuna.
Internamente, negli spazi dedicati alle esposizioni permanenti, è, invece, allestita una mostra antologica di Paolo Icaro (Torino, 1936), sempre per la curatela di Elena Volpato, che racconta cinquantacinque anni del lavoro dell’artista, dal 1964 al 2019, compendiati in una cinquantina di opere, alcune realizzate appositamente per l’esposizione.
Mentre in Videoteca, spazio che compie quest’anno vent’anni dall’apertura, è visibile fino al prossimo 8 marzo un omaggio a Gino De Dominicis, prima di sei esposizioni, a cura di Elena Volpato, che indagheranno anche la ricerca video di Giuseppe Chiari, Alighiero Boetti, Claudio Parmiggiani, Vincenzo Agnetti e Jannis Kounellis, promosse dal museo torinese in collaborazione con l’Archivio storico della Biennale di Venezia. Per l’occasione sarà possibile vedere due video che affrontano in modo diverso il tema dell’eternità: «Videotape» del 1974, con una donna che ci guarda e che si sente a sua volta guardata, e «Tentativo di volo» del 1969, che si propone come verifica dell’immortalità filogenetica, parlando di un compito impossibile passato da padre a figlio.
Nella Wunderkammer, infine, è stata da poco inaugurata la mostra «Primo Levi. Figure», a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio, con una selezione significativa dei lavori in filo metallico, realizzati dal grande scrittore e intellettuale torinese tra il 1955 e il 1975. Gli animali sono la prima fonte di ispirazione, ma non mancano le creature fantastiche e la figura umana.
Accostarsi a questi lavori, esposti fino al prossimo 26 gennaio con il progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià e la collaborazione di Anna Rita Bertorello, consente di aprire una straordinaria finestra sul mondo di Levi (nella foto accanto, in uno scatto di Mario Monge): un mondo di competenze e di sensibilità molteplici e ricchissime, ben al di là dell’immagine univoca, più nota e diffusa, di testimone della persecuzione e della deportazione. Ne emerge una figura ricca e complessa, nella quale convivono la formazione del chimico, una solida cultura letteraria classica, la passione per le lingue, le etimologie e i giochi di parole, l’alpinismo, il fantastico, l’ironia e l’umorismo, una curiosità aperta per le più recenti espressioni artistiche, un interesse vivo e competente per la matematica, la fisica, le scienze naturali.
Un calendario di appuntamenti, dunque, ricco quello della Gam di Torino per le prossime settimane, che si arricchisce tutti i sabati e ogni primo martedì del mese di visite guidate alle proprie collezioni, dove si possono ammirare opere di Morandi, Casorati e De Pisis, con testimonianze delle Avanguardie storiche internazionali, tra cui opere di Paul Klee e Picabia fino ad arrivare alle sperimentazioni dell’Arte Povera con i lavori di Boetti e Pistoletto.
Informazioni utili
GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, via Magenta, 31 – Torino. Orari: martedì – domenica, ore 10.00-18.00, chiuso lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingressi: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni. Informazioni per il pubblico: tel. 011.4429518. Sito Internet: www.gamtorino.it.
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