ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 14 maggio 2020

«Piranesi Roma Basilico», una mostra sui muri delle calli veneziane

 Dalla Pinacoteca di Brera ai Musei Vaticani, Dal Met di New York all'Hermitage di San Pietroburgo, dagli Uffizi di Firenze al Prado di Madrid: in questi giorni di emergenza sanitaria per il Covid 19 i musei più importanti del mondo consentono al pubblico di ammirare le proprie bellezze attraverso visite virtuali.
Con gli spazi espositivi italiani ancora chiusi a causa delle disposizioni ministeriali per l’epidemia mondiale (la riapertura è fissata per il prossimo 19 maggio), la Fondazione Giorgio Cini sceglie un modo alternativo per stare vicina al suo pubblico: l’arte «esce in strada» e va incontro ai cittadini con il progetto speciale «Palazzo Cini per le calli di Venezia», ideato da Luca Massimo Barbero.
Fino a metà giugno le mura della città ospiteranno così, grazie all'affissione pubblica, il dialogo tra l’opera incisoria di Giambattista Piranesi (Venezia, 1720 - Roma, 1778), artista del quale si celebrano quest’anno i trecento anni dalla nascita, e la fotografia contemporanea di Gabriele Basilico.
Il progetto en plein air anticipa il tema che sarà anche al centro della mostra «Piranesi Roma Basilico», di prossima apertura a Palazzo Cini a San Vio, in partnership con Assicurazioni Generali.
I passanti potranno così vedere le riproduzioni di alcuni dei luoghi più simbolici della Città eterna, rappresentate dalla combinazione tra le stampe originali realizzate nel ‘700 dall’incisore veneziano (oggi conservate dalla Fondazione Cini) e le vedute di Roma del fotografo milanese Gabriele Basilico, realizzate con le stesse angolazioni delle incisioni piranesiane su commissione della Cini nel 2010.
Gli stessi confronti saranno, poi, visibili a San Vio in occasione della mostra «Piranesi Roma Basilico»- curata da Luca Massimo Barbero e realizzata grazie alla collaborazione dell’Archivio Gabriele Basilico - insieme a una più ampia selezione, di cui «Palazzo Cini per le calli di Venezia» rappresenta un'anticipazione speciale.
Il più importante omaggio veneziano a Giambattista Piranesi mostrerà, infatti, venticinque stampe originali e ventisei vedute di Roma del fotografo milanese, di cui dodici mai esposte prima. Le incisioni di Piranesi oggetto del dialogo con Basilico, sono state selezionate dal corpus integrale parte delle collezioni grafiche della Fondazione Cini. Il corpus Piranesi costituisce uno dei fondi di grafica più rilevanti conservati da un’istituzione privata, che in questa occasione si offe allo sguardo della città.
Il progetto en plein air – afferma Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di storia dell’arte della Cini – «è un omaggio a Venezia, città della cultura per antonomasia, e ai veneziani. In un momento storico in cui i luoghi dell’arte sono fisicamente ancora inaccessibili a causa delle restrizioni per contrastare la pandemia, un’arte nata per essere stampata come le incisioni di Piranesi e le foto di un maestro contemporaneo come Basilico, come è loro naturale si danno allo sguardo di chi cammina e si ferma per un attimo. L’arte anche in questo caso è un viaggiare senza spostarsi e travalica le barriere dei musei per incontrare e ispirare le persone anche in questo momento. E i muri labirintici della città diventano un atlante per questo possibile viaggio».

Per saperne di più
www.cini.it

lunedì 23 dicembre 2019

Ritorno in Romagna per «La Madonna del Patrocinio» di Albrecht Dürer

È un Natale speciale quello di Bagnacavallo, piccolo centro urbano in provincia di Ravenna, che ha appena visto tornare negli spazi del suo Museo civico, situato nell’ex convento delle suore Clarisse Cappuccine di San Girolamo, un’opera che fa parte della sua storia. Stiamo parlando della tavola «La Madonna del Patrocinio», detta anche «Madonna di Bagnacavallo», probabilmente realizzata da Albrecht Dürer (Norimberga, 21 maggio 1471 – Norimberga, 6 aprile 1528) nei primi decenni del Cinquecento, al tempo del suo secondo viaggio in Italia, quello dal 1505 al 1507, che lo vide raggiungere Venezia e Bologna, anche se alcuni studiosi, tra i quali il tedesco Fedya Anzelewsky e l’italiano Vittorio Sgarbi, ne anticipano la realizzazione alla fine del Quattrocento.
L’opera -attualmente conservata in provincia di Parma, alla Fondazione Magnani Rocca di Traversetolo- manca in città da cinquant’anni, ovvero dall’inizio del 1969, quando le monache romagnole la vendettero al collezionista e mecenate Luigi Magnani, incapaci di far fronte all’improvviso interesse mediatico e della comunità scientifica per quel prezioso olio, che, a memoria d’uomo, era sempre stato davanti ai loro occhi come anonimo oggetto di devozione popolare, racchiuso nel coretto del convento e visibile attraverso una grata.
Ad accendere i riflettori sul quadro era stato, solo sei anni prima, il sacerdote e studioso Antonio Savioli, che nel 1961 ne aveva dato segnalazione sul «Bollettino diocesano di Faenza», provocando sin da subito l’estasiata sorpresa di Roberto Longhi, che, basandosi su una «pallida» fotografia, l’aveva attribuito con certezza ad Albrecht Dürer.
Lo studioso aveva, quindi, pubblicato nel luglio 1961 l’immagine della tavola sulla rivista «Paragone», aggiungendo alcune osservazioni sui restauri di cui era stata fatto oggetto, prova delle sue antiche origini: «l’uno, forse inteso ad ovviare gli effetti di una vecchia bruciatura, comprende -scrive il Longhi- un’intera ciocca della chioma ricadente sulla destra del volto della Vergine e, per la notevole perizia della esecuzione, mostra di essere stato condotto da mano ‘filologicamente’ addestrata e pertanto, direi, non prima del secolo dei ‘lumi’; l’altro, più che un vero restauro, è un’aggiunta che, provvedendo a mascherare certe parti del Bimbo, mostra di essere stata indotta da scrupoli moralistici post-tridentini e infatti, anche tecnicamente, denota il tardo Cinquecento».
Indagini di archivio hanno appurato che l’opera, uno dei pochi dipinti di Dürer presenti in Italia, faceva parte dei beni del convento sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1774, e che fu salvata dalle espropriazioni napoleoniche grazie a una mediocre copia di epoca neoclassica, che le evitò così di fare -ricorda Raffaella Zama nel suo articolo del 2018 per «Romagna arte e storia»- la fine della pala dell’altare maggiore della vicina chiesa di Cotignola, con «Le Sante Chiara e Caterina» del Guercino, confiscata e confluita nel 1811 a Brera.
La mostra al Museo civico di Bagnacavallo, visibile fino al prossimo 2 febbraio, vuole, dunque, colmare una sorta di «debito» rimasto aperto nei confronti della cittadinanza, che mai vide «La Madonna del Patrocinio» prima della sua partenza cinquant’anni fa per Parma, ma vuole anche essere l’occasione per fare il punto sulle ricerche storico-artistiche e sull’intricata vicenda conservativa della tavola.
Come arrivò un dipinto di tale importanza tra le mura di un piccolo convento di provincia? Quali elementi concreti avvalorano la paternità düreriana dell’opera e ne rivelano una qualità tale da configurarla come una prova di assoluto valore dell’artista? Che cosa fece scoprire la «giusta pulitura» della tavola, realizzata nel 1970 dall’Istituto centrale del restauro? Sono queste alcune delle domande alle quali si propone di rispondere la rassegna romagnola, parte integrante di un progetto culturale ben più ampio: la grande mostra sull’attività grafica di Albrecht Dürer, «Il privilegio dell’inquietudine», curata da Diego Galizzi con Patrizia Foglia, e in programma fino al prossimo 19 gennaio al Museo civico di Bagnacavallo, uno dei centri più attivi in Italia per quanto riguarda lo studio, la valorizzazione e la conservazione del linguaggio incisorio, con la sua collezione di oltre tredicimila stampe.
La tavola düreriana esposta nell’ex convento delle suore Clarisse Cappuccine di San Girolamo presenta un’atmosfera intima e tenera. La Vergine è ritratta seduta e tiene sulle sue ginocchia il Bambino. Tra i due c’è un tenero gioco di gesti e di sguardi: la mano sinistra del Piccolo tocca quella della Madre, l’altra tiene un simbolico rametto di fragole. Alcuni particolari, come la riccia e lucente «chioma a fili brillanti di rame» di Maria e il panneggio del suo velo con la piega pesante che compie sulla testa, dimostrano un gusto tipicamente nordico, che sembra far proprio anche la lezione dell’arte rinascimentale italiana, soprattutto l’insegnamento coloristico e l’impaginazione scenica di Giovanni Bellini, ammirato dall’artista nel primo viaggio in Italia, risalente al 1494-1495.
Più che come pittore, Dürer è stato, però, apprezzato come incisore. Erasmo da Rotterdam, nel suo «Dialogus De Recta Latini Graecique Sermonis Pronunciatione» del 1528, affermò, infatti, che il maestro di Norimberga aveva addirittura superato Apelle, l’antico pittore greco esempio di artista proverbialmente inarrivabile, perché non aveva bisogno del colore per creare, ma gli bastavano delle linee nere.
La perizia incisoria del maestro norimberghese viene raccontata a Bagnacavallo attraverso centoventi opere, provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private italiane, tra le quali sono visibili capolavori come il ciclo dell’«Apocalisse», il «Sant’Eustachio», il «San Girolamo nello studio», «Il Cavaliere la morte e il diavolo» e «Melanconia», «un’opera pregna di intellettualismo fin quasi all’esoterismo, che -spiega Diego Galizzi- cela un vero e proprio autoritratto spirituale dell’artista, giunto alla melanconica presa di coscienza che un approccio razionale all’arte e al mondo non può che dare risposte insufficienti».
Attraverso dieci sezioni tematiche il visitatore si trova immerso nel visionario sogno di perfezione di un ragazzo, figlio di un umile orafo di Norimberga, che ha voluto inseguire il suo desiderio di appropriarsi dei segreti della rappresentazione della bellezza. Conosce le tante anime di Dürer, che la critica ha definito ora un umanista, ora un gotico, ora un artigiano, ora un teorico e che, come tutti i grandi artisti, portava in sé la contraddizione di avere una personalità sfaccettata, continuamente ansiosa di ricercare e produrre cose nuove. Lo riconosceva lo stesso Max Klinger: «Un’opera grafica di Dürer non si riferisce né a un quadro replicato, né traduce sensazioni di colore in forme estranee alla tecnica adottata. È compiuta in se stessa e definitiva, priva solo di quanto l’idea, eternamente inarrivabile, rifiuta alle possibilità di ogni artista».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Albrecht Dürer, Madonna del Patrocinio, s.d.. Olio su tavola, cm 47,8 x 36,5. Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani-Rocca; [fog. 2] Albrecht Dürer, La Natività, 1504, bulino, mm. 183x118 inciso, 187x125 foglio, esemplare di unico stato. Collezione Museo civico delle Cappuccine di Bagnacavallo; [fig.3] Albrecht Dürer, Melencolia I (La Melanconia), 1514, bulino, mm. 240x186, esemplare di II stato su due. Collezione Musei civici di Pavia(Credit Musei civici di Pavia); [fig. 4] Albrecht Dürer, Sant’Eustachio, 1501 ca., bulino, mm. 360x260, esemplare di unico stato.Collezione Musei civici di Novara; [fog. 5] Albrecht Dürer, San Girolamo nello studio, 1514, bulino, mm. 245x187 inciso, 360x255 foglio, esemplare di unico stato. Collezione Museo civico delle Cappuccine di Bagnacavallo

Informazioni utili
Il previlegio dell’inquietudine (fino al 19 gennaio 2020) e La Madonna del Patrocinio (fino al 2 febbraio 2020) Museo Civico delle Cappuccine, via Vittorio Veneto 1/a Bagnacavallo (Ravenna). Orari: martedì e mercoledì, ore 15.00-18.00; giovedì, ore 10.00-12.00 e ore 15.00-18.00; da venerdì a domenica, ore 10.00-12.00 e ore 15.00-19.00; chiusura il lunedì e i post-festivi. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 0545.280911, centroculturale@comune.bagnacavallo.ra.it. Sito internet: www.museocivicobagnacavallo.it.

venerdì 20 dicembre 2019

Bologna, a Santa Maria della Vita il presepio di Wolfango

Ci sono la filosofa greca Ipazia e le sfogline bolognesi, un santo come papa Giovanni XXIII e la regina delle pornostar Moana Pozzi, Il pacifico Gandhi e il ribelle Giuseppe Garibaldi, Ronald Regan e Michail Gorbaciov ai tempi della Guerra fredda, Charlie Chaplin nei panni del comico Charlot e Giulietta Masina nelle vesti di un clown triste per il film «La strada»: gioca sugli opposti il Presepio di Wolfango, un bizzarro, sorprendente impasto di sacro e profano, presente e passato, storia e quotidiano, immaginario e reale, con cui la città di Bologna festeggia, negli spazi della chiesa di Santa Maria della Vita, il Natale 2019.
Quella a cui ha dato vita l’artista emiliano, che si è interessato a lungo all’illustrazione di classici della letteratura come la «Divina Commedia» (1972), «Pinocchio» (1980), «Alice nel paese delle meraviglie» (2012) e «Cappuccetto rosso» (2016), è una personalissima Corte dei miracoli, «un’ideale ed enorme piazza della vita, con la sua serietà e banalità, con la sua santità e la sua drammaticità […] in cui si intersecano -per usare le parole del cardinale Matteo Zuppi, nel catalogo pubblicato da Minerva edizioni- la tradizione sacra, le vicende personali dell’autore, la storia civica ed ecclesiale di Bologna e dell’Italia e, infine, l’attualità mondiale, con volti noti e conosciuti dell’arte e della politica».
Non ci sono gerarchie e differenze in questo racconto perché la storia di Gesù che si fa uomo tra gli uomini riguarda tutti e tutti interessa. Ecco così che un personaggio di fantasia come Mickey Mouse può stare vicino a Barack Obama, l’ex presidente degli Stati Uniti, o a Carlo V d’Asburgo.
Con loro ad animare il presepio di Wolfango ci sono anche personaggi cari a Bologna come lo storico dell’arte (e politico) Eugenio Riccòmini, padre Olinto Marella, il fotografo Nino Migliori e l’ex rettore dell’Alma Mater Fabio Roversi-Monaco, raffigurato nei panni del giurista che emanò il «Liber Paradisus».
In tutto le statuine in mostra fino al prossimo 16 gennaio, per la curatela di Alighiera Peretti Poggi (la figlia dell’artista), sono duecento e sono plasmate in terracotta, accostando all’iconografia religiosa classica -dai Magi ai pastori, dalla stella cometa al bue e all’asinello – luoghi, simboli, oggetti e personaggi che intrecciano la storia con la S maiuscola alla dimensione intima e familiare di Wolfango, con l’immancabile sagoma della Madonna di San Luca che si staglia nella neve.
Non poteva mancare in questo gruppo di personaggi San Francesco, autore del primo presepio, quello del 1223, al quale Wolfango disse di essersi ispirato in quanto ne aveva «messo in pratica il dettato», in una sorta di manifesto tridimensionale che invita all’inclusione, all’accoglienza e alla bellezza della diversità.
L’artista, che era solito definirsi «l’agnostico a cui piace il presepio», iniziò a costruire le statuine a partire dal 1964, anno di nascita della figlia Alighiera, e ha continuato a farlo, anno dopo anno, per oltre cinquant’anni, con l’obiettivo di rendere magiche le feste della sua famiglia, con un’opera che fosse un tenero omaggio alla tradizione e alla ritualità del Natale e al tempo stesso la traccia di una memoria, di un filo rosso in grado di legare tra loro tutte le cose.
Quello di Wolfango è, dunque, un presepe che racconta «la vita, soprattutto quella di Bologna e dei suoi abitanti, più o meno illustri, più o meno famosi. Maestri, insegnanti, medici, artigiani, imprenditori, professori, sacerdoti, politici, persone care, familiari: tutti sono entrati a far parte, di anno in anno, della grande opera», racconta Alighiera Peretti Poggi. «Era una felicità -spiega ancora la figlia dell’artista- trovarsi in mezzo a queste statue, spesso alte come me, che erano amici, giganti buoni, compagni di avventure, personaggi animati che mi proteggevano ed ancora oggi li vivo così. Tutte le statue hanno un nome e ci aiutano a ricordare la storia, a riviverla, a conoscerla».
Alla mostra si accompagna un bel catalogo di Minerva edizioni di oltre quattrocento pagine, che uniscono alle fotografie delle duecento statue del presepio le schede scritte negli anni dallo stesso Wolfango e i disegni preparatori. Questi stessi disegni sono in mostra al piano superiore del complesso monumentale di Santa Maria della Vita, insieme con l’opera «La cornamusa nel muschio»: «un acrilico su tela del 2006, nel quale -si legge nella nota di presentazione- Wolfango dipinge e riporta alla memoria le sue statuine avvolte nel muschio, che la guerra distrusse», quelle amate statuine che gli regalò lo zio Peppino, uno dei tanti personaggi del suo presepio, domestico e mondano allo stesso tempo.

Informazioni utili
Il presepio di Wolfango. Chiesa di Santa Maria della Vita, via Clavature, 8-1 – Bologna. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 19.00; martedì 24 dicembre e 31 dicembre, ore 10.00-16.00; aperto anche il 25, 26 dicembre e il 1° e 6 gennaio. Ingresso libero. Sito internet: www.genusbononiae.it. Ufficio stampa: ufficiostampa@minervaedizioni.com | patrizia.semeraro@mec-partners.it | luciana.apicella@mec-partners.it. Fino al 16 gennaio 2020.