ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 16 giugno 2021

Il «segno inciso» di Giorgio Morandi in mostra a Bologna

«Che cos’è un’acquaforte?»
: prende spunto da questa domanda il terzo focus di «Re-Collecting», il programma di mostre ideato da Lorenzo Balbi per approfondire temi legati alle collezioni permanenti di arte moderna e contemporanea dell’Istituzione Bologna Musei, indagandone aspetti particolari e valorizzandone opere solitamente non visibili o non più esposte da tempo, per offrire prospettive inusuali e proporre nuovi percorsi di senso.
La nuova esposizione, in programma fino al 29 agosto, è allestita al Museo Morandi ed è curata da Lorenzo Selleri; centrale è il tema dell’incisione, della quale Giorgio Morandi fu maestro in senso stretto, dal momento che dal 1930 diventa docente di Tecnica dell'Incisione all'Accademia di Belle arti di Bologna, ma anche in senso lato, dati il suo rigore e la sua straordinaria capacità tecnica.
L’artista si dedicò alla grafica, e in particolare all’acquaforte, con impegno pari a quello dedicato alla pittura («dipingo e incido paesaggi e nature morte», dichiarò egli stesso nel 1937), tanto che ne divenne un interprete straordinario, tra i più significativi di tutto il panorama europeo del suo tempo.
La sua maestria è paragonabile a quella dei grandi incisori del passato, Rembrandt in primis, che studiava con assiduità e fermezza. Le riproduzioni su volumi in folio, così come le stampe originali che teneva esposte nella casa-studio di via Fondazza, e nella sua aula in Accademia, erano funzionali alla sua necessità di poterne carpire la tecnica perfetta. Così avvenne la sua formazione (non esistendo all’epoca in Accademia un corso di studi per questa disciplina specifica) e quella dei numerosi allievi che frequentarono la sua aula durante i ventisei anni del suo insegnamento. In quel periodo Morandi descrive così il tipo di addestramento impartito ai suoi studenti: «faccio eseguire qualche copia da incisori antichi e limito l’insegnamento all’acquaforte eseguita a puro segno».
Durante il suo magistero si alternarono nella sua aula studenti dai nomi noti, che acquisirono come suggeriva lo stesso maestro bolognese un «proprio timbro», come Luciano Minguzzi, Pompilio Mandelli, Quinto Ghermandi, Luciano Bertacchini, Leone Pancaldi, ma anche Vasco Bendini, Pirro Cuniberti, Dino Boschi, Luciano De Vita e Paolo Manaresi.
Nello sviluppo della sua tecnica Morandi puntò sul segno per andare oltre il bianco e il nero; attraverso il tratteggio, infatti, tradusse i rapporti tonali, o meglio chiaroscurali, giungendo a valersi di quelli che Brandi argutamente definì «colori sottintesi». Del resto la sua attività pittorica procedeva di pari passo. L’acquaforte, come pure la pittura, comportò per lui una fruizione lenta del mondo di cose che aveva sotto gli occhi, quasi una meticolosa distillazione. Ma è appunto in questa meditata operazione che riuscì a percepire la qualità di ciò che aveva di fronte, e quindi ad impadronirsene attraverso un’abilità tecnica straordinaria, che non divenne mai virtuosismo fine a se stesso.
Il percorso espositivo della mostra si apre con una natura morta cubo-futurista, tratta dalla prima e unica lastra incisa all’acquaforte nel 1915 (V.inc.3), e si conclude con un esemplare dell’ultima e unica natura morta che Morandi realizzò nel 1961 (V.inc.131).
Sette delle quattordici acqueforti esposte entrarono a far parte del patrimonio del Comune di Bologna nel 1961, quando Morandi le donò, conservando l’anonimato, in occasione del riordino delle raccolte della Galleria d’arte oderna allora ubicata presso Villa delle Rose.
Alcuni fogli appartenenti a collezioni private completano l’esposizione. Si tratta di opere concesse in comodato gratuito al museo in tempi più o meno recenti, come ad esempio «I Pioppi e la Grande natura morta con la lampada a petrolio» del 1930 (V.inc.76 e 75) e la già citata natura morta del 1961, appartenuta a Luciano Pavarotti. A queste si aggiunge la stampa della sola lastra, ad oggi nota, che Morandi incise con la tecnica della ceramolle.
Alcune vetrine permettono al pubblico di avere accesso a documenti che gettano luce sulla dedizione di Morandi verso la tecnica oggetto del focus espositivo e sui suoi lunghi anni di insegnamento. Tra questi spiccano le lettere dell’artista all’amico Mino Maccari e quelle di Carlo Alberto Petrucci, direttore della Calcografia nazionale di Roma a Morandi, oppure i registri, le note di qualifica e le relazioni provenienti dall’Archivio storico Accademia di Belle arti di Bologna.

Didascalie delle immagini
1. Morandi nella sua aula all'Accademia di Belle Arti di Bologna, Istituzione Bologna Musei | Casa Morandi; 2. Grande natura morta scura, 1934. Acquaforte su rame, Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi; 3. Giorgio Morandi, Paesaggio del Poggio, 1927. Acquaforte su rame. Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi; 4. Punte e bulini utilizzati da Giorgio Morandi per incidere. Istituzione Bologna Musei | Casa Morandi  

Informazioni utili 
«Morandi racconta. Il segno inciso: tratteggi e chiaroscuri». MAMbo – Museo d’arte moderna di Bologna - Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari di apertura: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, ore 16.00 – 20.00; sabato, domenica e festivi ore 10.00 – 20.00; chiuso lunedì. Ingresso: intero 6,00, ridotto 4,00. Informazioni: tel. +39.051.6496611. Sito internet: www.mambo-bologna.org. Facebook: MAMboMuseoArteModernaBologna | Instagram: @mambobologna| Twitter: @MAMboBologna | YouTube: MAMbo channel. Fino al 29 agosto 2021.

martedì 15 giugno 2021

L’estate di Trento è nel segno di Fede Galizia, la «mirabile pittoressa»

L’estate trentina sarà nel segno della pittura barocca. Dal prossimo 3 luglio il Castello del Buonconsiglio farà da cornice alla mostra «Fede Galizia, mirabile pittoressa», prima monografica dedicata all’artista, miniaturista di talento e pioniera del genere pittorico della natura morta con fiori e frutta, che ha contribuito a lasciare un’impronta femminile nella storia dell’arte a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento insieme ad altre pittrici quali Sofonisba Anguissola, Artemisia Gentileschi e Lavinia Fontana, ma non solo, attualmente riunite nella mostra «Le signore dell’arte».
Documentata a Milano a partire almeno dal 1587, Fede Galizia (1578? -1630) vive prevalentemente nella città lombarda fino alla morte, verificatasi intorno al 1630, a causa della peste di manzoniana memoria.
Il trasferimento, dalla nativa Trento, avviene sulla scorta del padre, Nunzio, artista impegnato nel mondo della miniatura, dei costumi, degli accessori, ma anche in quello della cartografia.
Giovanissima, l’artista inizia a lavorare nella bottega paterna, prendendo confidenza con tele, pennelli e colori. La prima opera nota è il «Ritratto inciso di Gherardo Borgogni», per le edizioni del 1592 e del 1593 di due raccolte di rime.
Entro il 1595 la pittrice realizza un numero considerevole di disegni e vari ritratti degni di nota, tra i quali quelli del padre, della madre, di due nobildonne milanesi (tutti perduti) e quello di «Paolo Morigia allo scrittoio», oggi conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Di questa tela colpisce la forte caratterizzazione fisiognomica e la resa ai dettagli. Straordinaria è, per esempio, la precisa attenzione che l'artista rivolge al riflesso delle finestre sulle lenti degli occhiali che lo storico tiene in mano.
Porta, invece, la data del 1601 un altro suo lavoro celebre: la tela «Giuditta con la testa di Oloferne», conservata alla Galleria Borghese di Roma e attualmente in mostra a Milano, nelle sale di Palazzo Reale. Negli anni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento l’artista si confronta più volte con questo tema biblico, come prova l'omonima tela conservata a Sarasota, al Ringling Museum of Art, realizzata nel 1596, che rappresenta la prima opera documentata su questo soggetto da parte di una donna pittrice. Nel lavoro l'interesse verte più sulla perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con cura meticolosa, piuttosto che sulle potenzialità drammatiche della scena. Viene, infatti, escluso dalla rappresentazione il momento violento della decapitazione, che sarà, invece, centrale nella successiva raffigurazione di Artemisia Gentileschi.
All’epoca Fede Galizia, coeva di Caravaggio, è già un’artista conosciuta tra i più importanti committenti, tanto che sue opere raggiungono, prima del 1593, tramite la mediazione di Giuseppe Arcimboldi, la corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo.
Negli anni successivi vengono realizzate alcune nature morte di straordinaria bellezza: rappresentazioni «attente» e «contristate» - per usare un'espressione del critico Roberto Longhi - di gelsomini, pesche pallide e voluttuose, ciliegie dal rosso viscerale, melograni, pere e grappoli d’uva, che s’affacciano sulla scena sbucando dal buio alla luce, mostrando tutta la loro poesia malinconica.
Nonostante il successo in vita, il ricordo di Fede Galizia sbiadisce nel tempo, anche per via della difficoltà nel catalogare e attribuire correttamente tutte le sue opere, in molti casi ascritte al contemporaneo e concittadino Panfilo Nuvolone. Solo negli ultimi decenni del Novecento la sua figura viene rivalutata e studiata, ma le ricerche pongono l’attenzione principalmente sul suo ruolo di pioniera del genere della natura morta autonoma, in cui suggestioni fiamminghe si fondono alla tradizione del naturalismo lombardo, come mostrano l'«Alzata con pesche e gelsomini» della collezione Campagnano di Firenze o la tavola «Mele, cesto con castagne e coniglio» del Museo civico di Cremona.
Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa – i curatori della mostra di Trento – pensano che sia giunto il momento di tracciare un ritratto più veritiero e più completo dell’artista, che realizzò anche numerosi ritratti, ultimo dei quali quello dell'anziano Ludovico Settala alla Pinacoteca Ambrosiana, e svariate pale d’altare, presenti in sedi tutt’altro che periferiche come, solo per fare un esempio, la città di Napoli, dove si trova il «San Carlo in estasi davanti alla reliquia del Santo Chiodo» della chiesa di San Carlo alle Mortelle.
«A tutt’oggi – si legge nella presentazione della rassegna - non esiste un repertorio completo delle numerose testimonianze letterarie che celebrano, in versi e in prosa, le doti di Fede Galizia, da intrecciare con un completo regesto documentario, che sarà approntato per l’occasione».
Le opere esposte saranno in tutto un’ottantina tra dipinti, disegni, incisioni, medaglie e libri antichi. Oltre a lavori di Fede Galizia, Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Barbara Longhi, ci saranno opere di Arcimboldi, Bartholomeus Spranger, Giovanni Ambrogio Figino, Jan Brueghel e Daniele Crespi, provenienti da importanti musei italiani come la Pinacoteca di Brera, il Castello Sforzesco di Milano, gli Uffizi di Firenze, l’Accademia Carrara di Bergamo, Palazzo Rosso di Genova, la Fondazione Cini di Venezia, la Galleria Borghese di Roma. Saranno presenti anche alcuni prestiti internazionali, dal Muzeum Narodowe di Varsavia, dal Ringling Museum of Art di Sarasota, dal Palacio Real de la Granja di San Ildefonso, oltre che da alcuni collezionisti privati.
Il percorso espositivo proverà così a rispondere ad alcune domande rimaste per lungo tempo senza risposta: perché Fede Galizia piaceva tanto ai suoi contemporanei? Quali sono le ragioni del suo successo nell’epoca in cui visse? Quanto ha pesato, in questo, il suo essere donna? Come cambia l’apprezzamento di un’opera d’arte tra il lungo crepuscolo del Rinascimento e il mondo di oggi?

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Fede Galizia, «Natura morta», 1610, Collezione privata; [fig. 2] Fede Galizia, «Alzata con prugne pere e una rosa», collezione privata, Bassano del Grappa; [fig. 3] Fede Galizia, «Cherubino seduto», Biblioteca ambrosiana, Milano; [fig. 4] Fede Galizia, «Ritratto di Paolo Morigia», Pinacoteca Ambrosiana, Milano; [fig. 5] Fede Galizia, «Giuditta e Oloferne», 1596 ca, olio su tela, Courtesy of Ringling Museum of Art Sarasota, Usa

Informazioni utili 
www.buonconsiglio.it

lunedì 14 giugno 2021

Dal dengaku al noh, viaggio nel teatro giapponese

La storia del teatro in Giappone ha radici antiche, seppure più recenti di quelle del teatro occidentale, e, rispetto a questo, ha avuto nei secoli uno sviluppo completamente differente, fatto di sovrapposizioni e parallelismi, che hanno permesso la convivenza di diversi teatri tradizionali, sino a oggi, con l’avvento del teatro d’ispirazione occidentale. Nella cosmopolita Tokyo gli abitanti possono così partecipare a spettacoli della tradizione giapponese, ma anche a rappresentazioni di drammaturgia classica e moderna, europea e americana, spesso eseguite dai gruppi internazionali più noti d’avanguardia e non.
Le prime importanti esperienze di spettacolo, musica, danza e canto, che sorgono nel Giappone vengono fatte risalire al dengaku, oggi scomparso e riconoscibile solo attraverso tracce che ne sono rimaste all'interno delle festività popolari in alcune parti del paese. Si trattava di rappresentazioni più che altro musicali (percussioni e flauti) e di danza, che accompagnavano nei villaggi a scopo propiziatorio eventi fondamentali dei riti stagionali legati all’agricoltura.
Altre forme molto antiche sono il sarugaku, rappresentazioni con elementi di giocoleria, acrobatica e mimica, il gigaku, teatro con maschere, il gagaku, genere più musicale, tutte forme oggi non più praticate ma che sono per alcuni versi, confluiti in quello che oggi conosciamo del teatro tradizionale giapponese: per esempio al sarugaku, molto devono il teatro noh, il kabuki e il bunraku.
Il bunraku è il tradizionale teatro dei burattini giapponese, con marionette grandi quanto i due terzi di una persona, manovrati da burattinai completamente vestiti di nero, in silenzio. La storia è raccontata da un narratore seduto, che dà la voce ai personaggi attraverso un canto narrativo accompagnato dallo shamisen. La sincronizzazione dei movimenti, della voce narrante e dell’accompagnamento musicale è incredibile, frutto della rara maestria e dell’altissima specializzazione che caratterizza tutte le forme teatrali giapponesi. Per assistere a uno spettacolo di bunraku l’Ente nazionale del turismo giapponese consiglia Osaka, dove il Teatro Nazionale del Bunraku rimane uno dei migliori per fare questa esperienza (per maggiori informazioni è possibile consultare la pagina www.ntj.jac.go.jp/english.html).
Gli amanti del monologo possono, invece, scegliere di assistere alla rappresentazione di un rakugo negli yose, teatri di varietà, come ad esempio l’Asakusa Engei Hall di Tokyo (www.gotokyo.org/it/spot/156/index.html). Kimono, ventaglio e fazzoletto sono gli unici ‘strumenti’ utilizzati dall’attore per fare divertire il suo pubblico.
Una forma di teatro più giovane, risalente al 1600, è il kabuki, letteralmente «essere fuori dall’ordinario». Secondo la leggenda questo tipo di spettacolo deriva dalle danze eseguite sulle rive del fiume Kamo a Kyoto.
Inizialmente le attrici erano solo donne, successivamente, come per tutte le forme teatrali tradizionali giapponesi, gli attori dovettero essere esclusivamente uomini, anche per le parti femminili, gli onnagata. Si può parlare di kabuki come una sorta di teatro globale, dove a trame più o meno stereotipate si accompagnano danze, canti ed esecuzioni musicali dei tipici strumenti giapponesi. Dai secoli XVIII e XIX le trame iniziano a ispirarsi a eventi storici e fatti di cronaca più eclatanti.
Il dramma kabuki, spesso dotato di una prosa divertente, si avvale, già dal XVII secolo, così, sempre più di effetti speciali, come il palcoscenico rotante, botole e montacarichi; oltre a saltimbanchi ed acrobati per evocare le scene di battaglia o le più epocali, tutti escamotage che rendono la narrazione più divertente.
Tokyo, Osaka e Kyoto hanno tutte teatri importanti con fitti cartelloni di spettacoli di kabuki.
Il noh è, invece, un genere teatrale sviluppatosi intorno alla fine del XIV secolo. Elemento fondamentale di questo spettacolo sono le maschere, che coprono interamente il volto degli attori e hanno il compito di veicolare un’ampia gamma di emozioni. Per questo, la loro realizzazione - che può richiedere fino a un anno - è affidata ad abilissimi artigiani che, con l’uso di strumenti tradizionali, pigmenti minerali e polvere di guscio d’ostrica lavorano e dipingono il legno per conferirgli l’espressività che le contraddistingue. Unisce musica, danza, rappresentazione teatrale: un’arte complessa e perfetta nel suo accordo di parti, tanto da valerle la nomina da parte dell’Unesco di Patrimonio immateriale dell’umanità.
È possibile assistere a rappresentazioni di noh in molti luoghi del Giappone, ma per regalare una cornice sofisticata all’altezza di questa esperienza, l’Ente nazionale del turismo giapponese consiglia i cartelloni dei teatri di Kanazawa.
Oltre i luoghi tradizionali del teatro giapponese, appena sarà possibile riprendere a viaggiare ci sono altri luoghi che vale la pena visitare. Al Suigian di Tokyo (https://suigian.jp/en/) è possibile, per esempio, assistere a rappresentazioni teatrali tra cui noh, bunraku e gagaku mentre si degustano deliziosi piatti di cucina giapponese a base di ingredienti freschi e ricercati.
A Kanazawa esiste un museo interamente dedicato al noh presso il quale è possibile indossare il kimono da attore e la relativa maschera (https://www.kanazawa-noh-museum.gr.jp/english/).

Passando al kabuki, il Kabuki-za di Tokyo è l’antico teatro sito nel quartiere di Ginza, dove è possibile assistere a spettacoli di questa arte teatrale, al quale è annesso anche un museo che racconta la storia di questo teatro nello specifico (https://www.kabuki-za.co.jp/). Sempre a Tokyo ma nel quartiere di Ueno, il Tokyo National Museum (https://www.tnm.jp) ospita una rara e preziosa collezione di maschere e vesti da scena del teatro noh appartenenti alla scuola Konparu del XV – XVI secolo.
Per chi ama davvero il teatro il Giappone è, dunque, una delle mete imprescindibili. Il panorama teatrale del Giappone oggi è, infatti, vastissimo, frutto di una tradizione che ha saputo mantenere le sue radici e i propri stilemi pur assorbendo codici giunti dall’esterno.

Informazioni utili 
www.japan.travel.it