ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 21 giugno 2021

«Turandot» e l’Oriente di Puccini in scena a Prato. In un baule ritrovato i costumi di Caramba per la «prima» scaligera


«Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più. Sarà buon segno? Io credo di sì». È il marzo del 1924 quando Giacomo Puccini scrive a Giuseppe Adami predicendogli il successo planetario della sua ultima opera: «Turandot». La storia dell’algida e sanguinaria principessa orientale, «bianca al pari della giada, fredda come quella spada», che ha giurato la propria guerra al maschio sotto forma di insolubili enigmi, è al centro del nuovo progetto espositivo del Museo del tessuto di Prato, in agenda – pandemia permettendo - fino al 23 gennaio.
«Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba»
- questo il titolo dell’esposizione - è un omaggio non solo alla storia della miglior tradizione del teatro lirico italiano, ma anche all’arte del primo Novecento pervasa dal fenomeno dell’Orientalismo, corrente pittorica che si affaccia sulla scena artistica in Francia alla fine del Settecento per poi svilupparsi nell’Ottocento in più parti del Vecchio Continente, infiammando anche la fantasia di molti italiani con i suoi scenari esotici animati da odalische, harem e hammam.

A Pechino, «al tempo delle favole», con la principessa Turandot
Per il soggetto della storia, dalla quale nacque un dramma lirico in tre atti e cinque quadri, Giacomo Puccini si ispirò, dietro consiglio del giornalista Renato Simoni - esperto sinologo e finissimo critico, nonché autore di testi drammaturgici -, alla fiaba «Turandotte» (1762) di Carlo Gozzi, a sua volta mutuata dall’«Histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine» (1712) dell’orientalista Pétit de la Croix. Il musicista lucchese, che si avvalse della collaborazione dello stesso Renato Simoni per l’ideazione della trama e di Giuseppe Adami per la versificazione del libretto, non ebbe, però, a disposizione il testo originale del drammaturgo veneziano, tra i maggiori avversari della riforma teatrale realista di Carlo Goldoni. La sua opera lirica fu, infatti, ispirata da una traduzione dell’adattamento teatrale in tedesco a cura di Friedrich Schiller (1802), firmata da Andrea Maffei, una versione, questa, privata delle differenze di registro tra i personaggi «nobili», che si esprimevano in versi, e le maschere della Commedia dell’arte (la cui tradizione veniva strenuamente difesa da Carlo Gozzi), che recitavano all’improvviso.
La stesura dell’opera, ambientata a Pechino, «al tempo delle favole», venne avviata da Giacomo Puccini nella primavera del 1920, con fasi alterne di entusiasmo e di scoraggiamento e con anche la tentazione di abbandonare, nel 1922, l’impresa.
Dopo quattro anni di intenso lavoro, il compositore toscano portò quasi a termine la storia musicata del principe Calaf, uomo affascinante e coraggioso, innamorato della crudele e vendicativa principessa cinese Turandot e capace di risolvere i tre enigmi che la donna sottopone agli incauti aspiranti alla sua mano, fino a quel momento tutti decapitati per non aver superato la prova, nata per levare, metaforicamente, l’onta della principessa Lou-ling, «ava dolce e serena» rapita da uno straniero e uccisa per difendere la propria purezza.

Orientalismo in musica: un carillon di melodie cinesi per «Turandot»
Il 29 novembre 1924 la morte colse Giacomo Puccini a Bruxelles, mentre stava completando il terzo atto e aveva ultimato tutta la scena del suicidio della schiava Liù, figura fragile e commovente, parente stretta di Mimì e Butterfly, che introduce nell’opera il tema, familiare al teatro pucciniano, del sacrificio per amore. La ragazza si toglie, infatti, la vita per non smascherare a Turandot il nome del principe Calaf, consapevole così di consegnare il suo amato alla rivale, che, perdendo la sfida, sarà costretta a sposarsi.
A portare a termine la partitura, sulla base degli abbozzi pucciniani (trentasei pagine di appunti e idee frammentarie con il duetto finale, nel quale la principessa si dichiara vinta dall’amore), fu, dunque, Franco Alfano, musicista che due anni prima si era distinto nella composizione di un’opera di ispirazione esotizzante: «La leggenda di Sakùntala». Il suo finale, privo della tensione emotiva che caratterizza il resto del dramma, lascia un senso di insoddisfazione, tanto che il musicologo Gustavo Marchesi parlò di «poca musica che nulla aggiunge alla struttura, alla magnificenza e al significato dell’opera, anzi semmai vi toglie qualcosa». Fu anche per questo motivo che il 25 aprile 1926, al teatro alla Scala di Milano, in occasione della prima rappresentazione di «Turandot», il direttore Arturo Toscanini preferì non portare a termine l’esecuzione, interrompendola con l’aria «Tu che di gel sei cinta» e giustificando così la sua scelta: «qui finisce l’opera perché, a questo punto, il maestro è morto».
Per realizzare l’atmosfera esotica che permea la storia, della quale rimane punta sublime la romanza «Nessun dorma», Giacomo Puccini fece ricorso a raccolte di melodie cinesi autentiche, come l’incantatoria «Fior di gelsomino», contenuta nel carillon che un amico, il barone Edoardo Fassini Camossi, aveva acquistato in Cina come souvenir. Da questo strumento è tratta anche la musica che accompagna la comparsa, nel primo atto, dei tre dignitari Ping, Pong e Pang, rilettura pucciniana delle maschere gozziniane di Pantalone, Tartaglia, Brighella e Truffaldino, ai cui commenti disincantati e cinici è affidato il compito di stemperare la tensione emotiva del dramma.

Ritrovati a Prato i vestiti di Rosa Raisa, la prima «Principessa di gelo»

Alle suggestioni provenienti dal lontano Oriente guardano anche le scenografie di Galileo Chini per il debutto milanese dell’opera lirica a Milano e gli abiti ideati per la medesima occasione da Luigi Sapelli, in arte Caramba, celebre illustratore e costumista del Teatro alla Scala, il cui nome è legato a importanti protagonisti del palcoscenico di inizio Novecento come le sorelle Gramatica, Eleonora Duse, Maria Melato, Lyda Borrelli, Gabriele D’Annunzio, Ermete Zacconi, Gualtiero Tumiati, Renato Simoni e molti altri.
Si pensava che quei vestiti, ricchi e sontuosi, fossero andati persi. Poi, nel 2018, il Museo del tessuto di Prato ne ha ritrovati due, con altrettanti gioielli di scena, all’interno di un baule, appena acquistato, contenente materiale eterogeneo proveniente dal guardaroba della soprano pratese Iva Pacetti.
I riscontri iconografici fatti da Daniela Degl’Innocenti, conservatrice del museo toscano, non lasciavano dubbi: non si trattava di generici costumi di epoca Déco, ma proprio di quelli della «prima» scaligera di «Turandot», indossati da Rosa Raisa, il primo soprano della storia a interpretare il ruolo della «Principessa di gelo».
Purtroppo entrambi gli abiti erano in un pessimo stato di conservazione. Si è, dunque, proceduto al restauro da parte del Consorzio tela di Penelope di Prato, attraverso il progetto di crowdfunding «Il costume ritrovato», proposto sul portale Eppela, che ha visto in campo, oltre alla Regione Toscana, centosettanta privati provenienti da otto differenti Paesi, nonché aziende e associazioni del territorio.
Contemporaneamente sono stati riportati all’antico splendore da Elena Della Schiava, Tommaso Pestelli e Filippo Tattini anche i gioielli realizzati dalla ditta Corbella di Milano per la «prima» scaligera: una meravigliosa collana e uno spillone che ornava una parrucca.

L’Oriente di Galileo Chini, tra i protagonisti del Liberty italiano 
Nel frattempo è stata studiata - con il Museo di antropologia e etnologia di Firenze, l’Archivio storico Ricordi di Milano e la Fondazione Giacomo Puccini di Lucca - una mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale, che ricostruisce le vicende che hanno portato il compositore toscano a scegliere il genio scenografico di Galileo Chini per la realizzazione dell’allestimento e delle scenografie per la «Turandot».
Il percorso espositivo si apre con una selezione di circa centoventi manufatti appartenenti alla collezione del pittore, grafico e decoratore fiorentino, tra i protagonisti del Liberty in Italia, che aveva già collaborato con Giacomo Puccini per la prima rappresentazione newyorkese, al Metropolitan, dell’opera «Il tabarro» (1918) e per il «Trittico» proposto al Costanzi, l’odierno teatro dell’Opera di Roma, nel gennaio del 1919. Si tratta di tessuti, costumi, maschere teatrali, porcellane, strumenti musicali, sculture, armi e manufatti d’uso comune di produzione thailandese e cinese, provenienti dal Museo di antropologia e etnologia di Firenze, che Galileo Chini collezionò nei suoi tre anni in Siam (l’attuale Thailandia), dove si era recato, tra il 1911 e il 1913, per lavorare alla decorazione del Palazzo del trono del re Rama VI.
L’esposizione prosegue con una sezione dedicata alle scenografie per la «Turandot» e al forte influsso che l’esperienza in Oriente ebbe nell’evoluzione del percorso creativo e stilistico del pittore fiorentino. Tra le opere esposte in questa sezione ci sono anche la tela «La fede», parte del trittico «La casa di Gothamo», di proprietà della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, e la grande opera «Festa dell’ultimo dell’anno a Bangkok», anch’essa appartenente all'istituzione fiorentina, oggetto di un’installazione multimediale che la mette in dialogo con una bellissima testa di dragone della collezione Chini.
In questa sezione sono esposti anche i bozzetti finali delle scenografie per la «prima» della «Turandot», provenienti dall’Archivio storico Ricordi di Milano, accanto ad altre due versioni di proprietà privata.
Il progetto espositivo del Museo del tessuto di Prato mette, quindi, in mostra, dopo decenni di oblio, gli straordinari costumi indossati da Rosa Raisa nella «prima» scaligera, corredati dai suoi gioielli. Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo trenta costumi provenienti dall’archivio della Sartoria Devalle di Torino, indossati dai ruoli primari e comprimari – l’Imperatore, Calaf, Ping, Pong e Pang e il Mandarino – e dai secondari – i sacerdoti, le ancelle, le guardie e i personaggi del popolo – sempre nella rappresentazione milanese del 1926. Anche questi abiti erano inizialmente scomparsi, ma furono, poi, rocambolescamente ritrovati a metà degli anni Settanta.
La mostra accende, infine, i riflettori anche su alcuni bozzetti originali e pochoir dei costumi realizzati dall’illustratore e scenografo Umberto Brunelleschi, maestro del Déco italiano inizialmente designato da Giacomo Puccini come collaboratore per la «Turandot», che ha donato al mondo della cartellonistica di inizio Novecento donne dalle silhouette eleganti e sottili, dalle tinte chiassose o tenui, comunque sempre anti-naturalistiche visto che i suoi rosa confetto, blu, viola, azzurri, verdi nella realtà non si vedono mai.
A completare il percorso espositivo c'è, infine, il manifesto originale della «prima» dell’opera, illustrato da Leopoldo Metlicovitz, una delle immagini più iconiche del melodramma italiano, per l’eleganza del disegno e l’impatto del colore.
Giacomo Puccini non poté vedere la sua opera in scena, ma le parole della romanza d’amore «Nessun dorma», oggi come allora, incantano il pubblico con quel finale che parla di speranza e che la scorsa primavera, nei giorni più duri della pandemia, è diventato un originale karaoke con settecento bambini di tutta Europa, accompagnati dall’orchestra virtuale Eico e diretti da Germano Neri: «Dilegua, o notte! Tramontate, stelle! Tramontate, stelle! All'alba vincerò! Vincerò! Vincerò!». 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Leopoldo Metlicovitz, Manifesto per la Turandot. Milano, Archivio Storico Ricordi, ICON010367; [fig. 2] Ditta Corbella, Milano, Corona di Turandot [atto II]. Prato, Museo del Tessuto, inv. nn. 18.03.01, 18.03.02abc; [fig. 3] Luigi Sapelli (in arte Caramba), Costume di Turandot [atto II]. Prato, Museo del Tessuto, inv. n. 18.03.38; [fig. 4] Luigi Sapelli (in arte Caramba), Costume di Turandot [atto I]. Prato, Museo del Tessuto, inv. n. 18.03.37; [fig. 5] Maschera teatrale. Thailandia, inizio del XX secolo. Cartapesta e gesso dipinti e dorati, penne di uccello, frammenti di specchio. Firenze, Sistema Museale di Ateneo, Sede di Antropologia e Etnologia, Collezione G. Chini, inv. n. 31568; [fig. 6] Maschera di drago. Comunità cinese in Thailandia, fine del XIX secolo. Cartapesta dipinta. Firenze, Sistema Museale di Ateneo, Sede di Antropologia e Etnologia. Collezione G. Chini, inv. n. 31788; [fig. 7] Due vasetti con coperchio. Cina, inizio del XIX secolo. Porcellana invetriata e smaltata, oro. Firenze, Sistema Museale di Ateneo, Sede di Antropologia e Etnologia, Collezione G. Chini, inv. n. 31712; [fig. 8] Leopoldo Metlicovitz, Copertina per l’edizione di lusso della riduzione per canto e pianoforte. 1926. Milano, Archivio Storico Ricordi

Informazioni utili [
Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba. Museo del tessuto, via Puccetti, 3 – Prato. Orari: per le date di apertura e gli orari si consiglia di consultare il sito ufficiale www.museodeltessuto.it. Ingresso: intero singolo € 10,00; ridotti € 8,00; scuole € 4,00. Social: facebook.com/museodeltessuto/; twitter.com/museodeltessuto. Informazioni: info@museodeltessuto.it. Dal 22 maggio al 23 gennaio 2022

venerdì 18 giugno 2021

#Notizieinpillole: le cronache d'arte della settimana dal 14 al 20 giugno 2021

«INCANTO E VISIONE: VERSO LA MODERNITÀ»: ALLA GAM DI VERONA UN NUOVO PERCORSO ESPOSITIVO
Si intitola «Incanto e visione: verso la modernità» il nuovo percorso espositivo della Galleria d’arte moderna «Achille Forti» di Verona, le cui sale si sono da poco arricchite di importanti novità provenienti dalla collezione dei Musei civici.
Il progetto, curato da Francesca Rossi e Patrizia Nuzzo, presenta i linguaggi di quegli artisti che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, hanno saputo affrancarsi, con coraggio e fiducia nel futuro, dai lacci accademici, inaugurando nuove pratiche e processi artistici.
L’esposizione, strutturata attraverso la formula della rotazione delle opere, ha lo scopo di far conoscere gran parte dei lavori custoditi nei depositi, mai esposti prima d’ora al pubblico.
Partendo dalla lezione dei Macchiaioli toscani, con le opere di Telemaco Signorini, e dalla scuola di Posillipo, con i lavori di Guglielmo Ciardi, la mostra giunge, poi, alle atmosfere simboliste fin de siècle con Alfredo Savini, Angelo Dall'Oca Bianca, Ruperto Banterle, Mario Salazzari e Vincenzo De Stefani.
I linguaggi secessionisti - documentati attraverso un corpus di opere di Felice Casorati, Angelo Zamboni e Gino Rossi - insieme ai lavori divisionisti di Baldassare Longoni e alla splendida «Maternità» di Gaetano Previati, eccezionale prestito dalle collezioni del Banco Bpm, segnano l’approdo a una modernità ormai ineludibile. Sono, questi, gli anni in cui gli artisti si avviano a esplorare nuovi territori del linguaggio, dove la pittura non può che raccontare se stessa, attraverso la magia del colore, la tensione delle forme, l’incanto della luce, la ricchezza della materia.
All'interno dell'allestimento trova posto anche un nuovo spazio appositamente dedicato alle donazioni, dal titolo «Thanks to». Si tratta di un progetto voluto dalla direzione Musei civici per evidenziare il contributo di collezionisti e artisti che, con la loro generosità e passione per l’arte, contribuiscono ad accrescere e valorizzare il patrimonio pubblico. Inaugura lo spazio il progetto per il Ponte della Vittoria (1925) di Albano Vitturi, donato da Cristina Fraccaroli Tantini nel 2021.
La mostra è il primo nuovo percorso espositivo realizzato con il rinnovato impianto di illuminazione. Un progetto completato lo scorso marzo, che permette di valorizzare gli spazi espositivi e le opere, rendendo più attrattivo il museo e allo stesso tempo di risparmiare sui consumi di energia.
Per maggiori informazioni: www.gam.comune.verona.it.

PAVIA, ALDO CAZZULLO E PIERO PELÙ INAUGURANO «PROGETTO DANTE». AL CASTELLO VISCONTEO UNA MOSTRA PER RACCONTARE IL SUCCESSO LETTERARIO DEL SOMMO POETA
È un appuntamento in esclusiva lombarda quello che la città di Pavia ha scelto per inaugurare «Progetto Dante», cartellone di recital, conferenze, appuntamenti musicali promosso in occasione dei settecento anni dalla morte del Sommo poeta.  
Venerdì 18 giugno, alle ore 21:30, la splendida cornice del Castello Visconteo farà da scenario allo spettacolo «A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l'Italia», per la regia di Angelo Generali e con Aldo Cazzullo e Piero Pelù.
Il recital - inserito anche nel cartellone estivo «La città come palcoscenico», che ha avuto e avrà per protagonisti artisti e intellettuali del calibro di Coma Cose, Noa, Gino Paoli, Yuja Wang, Peppe Servillo e Vittorio Sgarbi -  prende spunto dal libro che Aldo Cazzullo ha da poco pubblicato per Mondadori, ricostruendo, parola per parola, il viaggio di Dante nell’«Inferno» e raccontandone gli incontri più noti, da Ulisse al conte Ugolino, con frequenti incursioni nella storia e nell’attualità. Accompagnato da musiche e immagini a testimonianza di quanto sia importante e ancora attuale l’eredità dell’Alighieri, il racconto del giornalista piemontese, firma di spicco del quotidiano «Il Corriere della Sera», sarà affiancato dalle suggestioni di un lettore speciale, che riporterà la lingua del poeta e la musicalità dei suoi versi: il fiorentino Piero Pelù.
Sempre il 18 giugno aprirà le porte, alla Biblioteca del Castello Visconteo, una mostra per raccontare Dante e la sua opera attraverso rari documenti provenienti dalla Biblioteca Bonetta, dai Musei civici e dal Collegio Ghislieri. Tra questi lavori sono esposti due preziosissimi fogli di pergamena, tratti da uno dei più antichi manoscritti della «Divina Commedia», entrambi recentemente riscoperti e assurti all'onore delle cronache nazionali, oltre alla prima edizione illustrata del poema, voluta da Lorenzo il Magnifico nel 1481 con incisioni tratte da disegni di Sandro Botticelli, e a un’aldina, curata da Pietro Bembo e stampata a Venezia nel 1502. Completa il percorso espositivo un’opera di video art di Rino Stefano Tagliafierro (nella foto),  in cui, attraverso la tecnica dell’animazione digitale, alcuni importanti dipinti classici prendono vita in una rappresentazione evocativa ed emozionale delle tre cantiche del capolavoro dantesco.
Infine un interessante ciclo di incontri, organizzato con la consulenza scientifica del Comitato di Pavia della prestigiosa Società Dante Alighieri, aiuterà il pubblico ad approfondire la figura del Sommo poeta e a scoprire le ragioni del suo successo, ancora immutato dopo 700 anni. Il 22 luglio Giuseppe Antonelli, professore ordinario di Linguistica italiana all’Università di Pavia, terrà la conferenza «Dante. Un'epopea pop». Il 9 settembre l’arpista Vincenzo Zitello e l’attore Davide Ferrari saranno protagonisti di «DivinaArmonia»; mentre il 22 ottobre si terrà l’incontro «Dal peccato alla virtù: l'amore in tre canti della Commedia», con Mirko Volpi, ricercatore  di Linguistica italiana all’Università di Pavia, e l’attore Davide Ferrari.
Il programma completo è consultabile on-line sul sito www.vivipavia.it/site/home/eventi/progetto-dante.html.

CINQUE ANTEPRIME INTERNAZIONALI PER L’ASIAN FILM FESTIVAL DI ROMA
Giappone
, Corea del Sud, Cina, Filippine, Hong Kong, Taiwan, Indonesia, Malesia, Thailandia, Vietnam e Singapore saranno undici i Paesi coinvolti nella diciottesima edizione dell'Asian Film Festival, la manifestazione organizzata da Cineforum Robert Bresson e diretta da Antonio Termenini, in programma dal 17 al 23 giugno al Farnese Arthouse di Roma (piazza Campo de' Fiori 56).
Il ricco calendario, che prevede quattro proiezioni quotidiane, comprende ventotto lungometraggi e due cortometraggi con cinque anteprime internazionali, sei anteprime europee e numerose anteprime italiane.
La manifestazione prevede, nella giornata del 19 giugno, un focus speciale sul cinema sudcoreano, il Korean Day, nel quale verranno presentati quattro lungometraggi e un cortometraggio, in collaborazione con l’Istituto di cultura coreano di Roma. Ad aprire la giornata sarà «Everglow» di So Joon-moon, un racconto agrodolce sulle «haenyeo», letteralmente «donne di mare», una comunità di tuffatrici e pescatrici dell’isola di Jeju, diventata patrimonio immateriale dell’umanità Unesco nel 2016. Seguiranno le proiezioni della commedia sentimentale «Our Joyful Summer Days» di Lee Yu-bin e il noir al femminile «Go Back» della regista indipendente Seo Eun-young. A chiudere la giornata sarà lo sguardo impertinente e autoriale di Hong Sang-soo, premio per la miglior regia al festival di Berlino, che porterà a Roma il film «The Woman Who Ran», uno spaccato di vita tutto al femminile.
Altro evento speciale, realizzato in collaborazione con l’Ambasciata del Vietnam in Italia, sarà il Vietnam Day, che nella giornata del 22 giugno vedrà la presentazione di quattro lungometraggi in anteprima assoluta: si spazierà dagli straordinari successi, ancora nelle sale in Vietnam, di «Dad I’m Sorry», commedia generazionale, e di «Blood Moon Party», nuovo inaspettato remake di «Perfetti sconosciuti», all’affascinante «Rom» e all’horror «Home Sweet Home».
I difficili e complessi rapporti familiari, il senso di perdita dovuto a problemi economici, lo sviluppo sostenibile e i cambiamenti climatici sono alcuni dei temi al centro del festival, che si aprirà con «Wife of a Spy» di Kiyoshi Kurosawa, già vincitore del Leone d’argento all’ultimo Festival di Venezia, film che mette a nudo quanto si è disposti a rischiare per difendere i propri valori nel Giappone militarista degli anni ’40. Tra i progetti in cartellone c’è anche l’anteprima europea dell’hongkonghese «Stoma» di Kit Hung, film quasi-biografico sul fotografo e regista prematuramente scomparso Julian Lee.
Per informazioni https://www.asianfilmfestival.info.

UNA VISITA GUIDATA ON-LINE ALLA PEGGY GUGGENHEIM DI VENEZIA
Vuoi scoprire i tesori della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia stando comodamente a casa? Ti piacerebbe passeggiare virtualmente tra i capolavori di Pablo Picasso, Giorgio de Chirico e Jackson Pollock, custoditi a Palazzo Venier dei Leoni, in compagnia di una guida? Martedì 22 giugno, alle ore 18.15, il museo lagunare propone una visita in live streaming, in inglese, con un focus su alcuni dei più iconici capolavori collezionati nell’arco di oltre trent’anni dalla lungimirante mecenate americana Peggy Guggenheim.
La visita ha una durata di circa 45 minuti, si svolge sulla piattaforma Zoom, e prevede una quota di iscrizione di 5,00 euro, comprensiva del diritto di prevendita. I partecipanti riceveranno il link per il collegamento via e-mail e avranno la possibilità, a fine tour, di poter interagire con la guida per domande ed eventuali curiosità.
Non è tutto. Il museo offre anche la possibilità di organizzare visite guidate sempre in streaming, a pagamento, per gruppi di più persone, che, in compagnia dei propri famigliari e con gli amici, possono così vivere un’esperienza unica che consentirà loro di immergersi in un percorso di visita appassionante e coinvolgente, anche se a distanza, tra le sale del museo. Le visite, della durata di un’ora, possono essere organizzate tutti i giorni dalle ore 18.30 alle ore 20.30, e il martedì dalle ore 10 alle ore 16. In questo caso, la prenotazione deve essere effettuata almeno 7 giorni lavorativi prima della data della visita ed è possibile prenotare in diverse lingue, a seconda della disponibilità delle guide.
Per maggiori informazioni, è possibile consultare il sito del museo al link https://www.guggenheim-venice.it/it/visita/visita-al-museo/visite-virtuali/visite-virtuali-aperte/.

giovedì 17 giugno 2021

«A Line Made by Walking»: un viaggio tra i castelli della Val di Non con Fulton, Girardi, Griffin, Long

È un viaggio tra i castelli più belli della Val di Non, ma anche tra le opere d’arte di una delle più significative raccolte contemporanee, la Panza Collection di Biumo, quello che propone la mostra diffusa «A Line Made by Walking. Pratiche immersive e residui esperienziali in Fulton, Girardi, Griffin, Long», a cura di Jessica Bianchera, Pietro Caccia Dominioni e Gabriele Lorenzoni.
Il percorso espositivo, visitabile fino al prossimo 30 ottobre, si snoda in quattro strutture trentine - i castelli Belasi, Coredo, Castel Nanno e Valer – e mette in mostra una selezione di opere, per lo più inedite, alle quali fa da filo conduttore il tema del camminare quale esercizio estetico.
Le ricerche di Richard Long, Hamish Fulton, Ron Griffin e Daniele Girardi – quattro artisti scelti per la mostra - si fondano, infatti, sul concetto di esperienza dello spazio attraversato e sulla volontà di recuperare una relazione più autentica non solo con la natura e il paesaggio, ma anche con il fare arte, andando a misurarsi con una dimensione ancestrale alla base della quale stanno il rapporto tra uomo e natura, ma anche un’idea di lavoro artistico come processo, di cui l’oggetto-opera non è che un residuo, una traccia dell’esperienza vissuta. Il risultato finale di questi progetti artistici è cioè un atto che non ha come fine ultimo la modificazione fisica di un territorio, ma che insiste sulla sua frequentazione, che non ha bisogno di lasciare tracce permanenti e arriva al primigenio rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale.
Il titolo scelto dai curatori per questo progetto deriva da una celebre opera di Richard Long del 1967, «A Line Made by Walking», una linea disegnata calpestando l’erba di un campo. «Il risultato di questa azione – raccontano i curatori - è un segno che rimarrà impresso solo nella pellicola fotografica e che scomparirà al rialzarsi dell’erba. Per la sua assoluta radicalità e semplicità formale quest’opera è considerata un passaggio fondamentale dell’arte contemporanea: da questo momento il camminare si trasforma in forma d'arte autonoma. In particolare, si tratta di un’opera germinale per il tipo di lavoro e di ricerca che conducono i quattro artisti in mostra».
Fulcro dell’esposizione, nato da un’idea dell’Apt Val di Non e dell’associazione culturale Urbs Picta, è lo spazio tardo duecentesco di Castel Belasi, legato alla famiglia Khuen e riccamente decorato con affreschi del Cinquecento che richiamano il modello decorativo del refettorio del castello del Buonconsiglio di Trento. Il maniero è stato sottoposto a recente restauro, grazie al quale sono state portate alla luce importanti decorazioni intorno alle porte dei saloni ed è stata svelata una facciata affrescata di notevole fattura.
In questa sede è esposta una selezione di ventuno lavori, quindici dei quali sono completamente inediti, mentre sei hanno fatto parte della Collezione Guggenheim New York dal 1996 al 2003. Tra le opere esposte c’è una serie di lavori di Daniele Girardi, tra cui un’installazione site-specific che rimanda al concetto di inaccessibilità dei territori esplorati, la cui ricerca dialoga in maniera particolarmente profonda con i maestri storici, riuscendo a portarne avanti i presupposti secondo nuove linee di pensiero ed elaborazione formale.
Castel Valer, abitato da più di seicento anni dai conti Spaur di Flavon e Valer, ospita nelle ex scuderie (ora parte integrante del nucleo abitativo) una serie di opere di Ron Griffin, che vede nell’incontro con le vastità desertiche del Nord America e nella loro esplorazione in solitaria un aspetto fondamentale della propria poetica alla ricerca di residui di umanità, frammenti di storie. L’inserimento delle opere in un contesto familiare, all’interno di questo complesso castellare ancora abitato, suggerisce una relazione profonda tra gli spazi dell’abitare e le opere d’arte qui inserite, tipica del collezionismo di Giuseppe Panza di Biumo.
Il percorso prosegue a Castel Nanno, che si presenta oggi, dopo un recente recupero, come un’elegante residenza cinquecentesca, manifestando con chiarezza alterne fasi di uso e abbandono, che vanno dalla sua edificazione come villa fortificata, a riparo in campagna della famiglia Madruzzo, per poi essere usato come caserma austro ungarica, ricovero coatto delle truppe italiane durante la Grande guerra e riparo per i tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, fino all’uso come deposito utile al lavoro nei campi. Il castello accoglierà un’installazione site-specific di Daniele Girardi: un intervento realizzato in loco con materiali del territorio e in stretto dialogo con la residenza in Val di Non esperita dall'artista nel 2020, secondo una prassi tipica del suo operare che prevede lunghi periodi di permanenza in situ.
Il percorso si conclude a Castel Coredo, austero palazzo documentato per la prima volta nel 1291, che oggi ha l’aspetto di una dimora signorile settecentesca in cui sono ben visibili le stratificazioni del tempo e che ospita, tra le altre ricchezze, un ritratto di bambina del pittore trentino Bartolomeo Bezzi e la prima edizione del celebre «Dioscoride», un trattato miniato di botanica stampato a Venezia nel 1565 del medico Pietro Andrea Mattioli, che soggiornò a lungo a Trento e in Val di Non. Questo castello è dedicato all’esposizione di tre libri d’artista di Hamish Fulton, Richard Long e Daniele Girardi, a cui si aggiunge un oggetto scultoreo di Ron Griffin in un dialogo serrato tra l’oggettistica raccolta nel tempo e la passione biblioteconomica della famiglia.

Didascalie delle immagini
1. Castel Nanno. Foto di Massimo Ripani; 2 e 3. Castel Valer. Foto di Massimo Ripani; 4. Richard Long, River Avon Mud Drawing, Edizione 14 di 40, 1995, Panza Collection, Mendrisio, ph. Alessandro Zambianchi, Milano; 5. Ron Griffin, Untitled (RGP 529-99), 1999, Panza Collection, Mendrisio, Hauser&Wirth, ph. Alessandro Zambianchi, Milano; 6. Ron Griffin, Untitled (Long Trailer) (RGP 355-95), 1995, Panza Collection, Mendrisio, Hauser&Wirth, ph. Alessandro Zambianchi, Milano

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