«Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più. Sarà buon segno? Io credo di sì». È il marzo del 1924 quando Giacomo Puccini scrive a Giuseppe Adami predicendogli il successo planetario della sua ultima opera: «Turandot». La storia dell’algida e sanguinaria principessa orientale, «bianca al pari della giada, fredda come quella spada», che ha giurato la propria guerra al maschio sotto forma di insolubili enigmi, è al centro del nuovo progetto espositivo del Museo del tessuto di Prato, in agenda – pandemia permettendo - fino al 23 gennaio.
«Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba» - questo il titolo dell’esposizione - è un omaggio non solo alla storia della miglior tradizione del teatro lirico italiano, ma anche all’arte del primo Novecento pervasa dal fenomeno dell’Orientalismo, corrente pittorica che si affaccia sulla scena artistica in Francia alla fine del Settecento per poi svilupparsi nell’Ottocento in più parti del Vecchio Continente, infiammando anche la fantasia di molti italiani con i suoi scenari esotici animati da odalische, harem e hammam.
A Pechino, «al tempo delle favole», con la principessa Turandot
Per il soggetto della storia, dalla quale nacque un dramma lirico in tre atti e cinque quadri, Giacomo Puccini si ispirò, dietro consiglio del giornalista Renato Simoni - esperto sinologo e finissimo critico, nonché autore di testi drammaturgici -, alla fiaba «Turandotte» (1762) di Carlo Gozzi, a sua volta mutuata dall’«Histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine» (1712) dell’orientalista Pétit de la Croix. Il musicista lucchese, che si avvalse della collaborazione dello stesso Renato Simoni per l’ideazione della trama e di Giuseppe Adami per la versificazione del libretto, non ebbe, però, a disposizione il testo originale del drammaturgo veneziano, tra i maggiori avversari della riforma teatrale realista di Carlo Goldoni. La sua opera lirica fu, infatti, ispirata da una traduzione dell’adattamento teatrale in tedesco a cura di Friedrich Schiller (1802), firmata da Andrea Maffei, una versione, questa, privata delle differenze di registro tra i personaggi «nobili», che si esprimevano in versi, e le maschere della Commedia dell’arte (la cui tradizione veniva strenuamente difesa da Carlo Gozzi), che recitavano all’improvviso.
La stesura dell’opera, ambientata a Pechino, «al tempo delle favole», venne avviata da Giacomo Puccini nella primavera del 1920, con fasi alterne di entusiasmo e di scoraggiamento e con anche la tentazione di abbandonare, nel 1922, l’impresa.
Dopo quattro anni di intenso lavoro, il compositore toscano portò quasi a termine la storia musicata del principe Calaf, uomo affascinante e coraggioso, innamorato della crudele e vendicativa principessa cinese Turandot e capace di risolvere i tre enigmi che la donna sottopone agli incauti aspiranti alla sua mano, fino a quel momento tutti decapitati per non aver superato la prova, nata per levare, metaforicamente, l’onta della principessa Lou-ling, «ava dolce e serena» rapita da uno straniero e uccisa per difendere la propria purezza.
Orientalismo in musica: un carillon di melodie cinesi per «Turandot»
Il 29 novembre 1924 la morte colse Giacomo Puccini a Bruxelles, mentre stava completando il terzo atto e aveva ultimato tutta la scena del suicidio della schiava Liù, figura fragile e commovente, parente stretta di Mimì e Butterfly, che introduce nell’opera il tema, familiare al teatro pucciniano, del sacrificio per amore. La ragazza si toglie, infatti, la vita per non smascherare a Turandot il nome del principe Calaf, consapevole così di consegnare il suo amato alla rivale, che, perdendo la sfida, sarà costretta a sposarsi.
A portare a termine la partitura, sulla base degli abbozzi pucciniani (trentasei pagine di appunti e idee frammentarie con il duetto finale, nel quale la principessa si dichiara vinta dall’amore), fu, dunque, Franco Alfano, musicista che due anni prima si era distinto nella composizione di un’opera di ispirazione esotizzante: «La leggenda di Sakùntala». Il suo finale, privo della tensione emotiva che caratterizza il resto del dramma, lascia un senso di insoddisfazione, tanto che il musicologo Gustavo Marchesi parlò di «poca musica che nulla aggiunge alla struttura, alla magnificenza e al significato dell’opera, anzi semmai vi toglie qualcosa». Fu anche per questo motivo che il 25 aprile 1926, al teatro alla Scala di Milano, in occasione della prima rappresentazione di «Turandot», il direttore Arturo Toscanini preferì non portare a termine l’esecuzione, interrompendola con l’aria «Tu che di gel sei cinta» e giustificando così la sua scelta: «qui finisce l’opera perché, a questo punto, il maestro è morto».
Per realizzare l’atmosfera esotica che permea la storia, della quale rimane punta sublime la romanza «Nessun dorma», Giacomo Puccini fece ricorso a raccolte di melodie cinesi autentiche, come l’incantatoria «Fior di gelsomino», contenuta nel carillon che un amico, il barone Edoardo Fassini Camossi, aveva acquistato in Cina come souvenir. Da questo strumento è tratta anche la musica che accompagna la comparsa, nel primo atto, dei tre dignitari Ping, Pong e Pang, rilettura pucciniana delle maschere gozziniane di Pantalone, Tartaglia, Brighella e Truffaldino, ai cui commenti disincantati e cinici è affidato il compito di stemperare la tensione emotiva del dramma.
Ritrovati a Prato i vestiti di Rosa Raisa, la prima «Principessa di gelo»
Alle suggestioni provenienti dal lontano Oriente guardano anche le scenografie di Galileo Chini per il debutto milanese dell’opera lirica a Milano e gli abiti ideati per la medesima occasione da Luigi Sapelli, in arte Caramba, celebre illustratore e costumista del Teatro alla Scala, il cui nome è legato a importanti protagonisti del palcoscenico di inizio Novecento come le sorelle Gramatica, Eleonora Duse, Maria Melato, Lyda Borrelli, Gabriele D’Annunzio, Ermete Zacconi, Gualtiero Tumiati, Renato Simoni e molti altri.
Si pensava che quei vestiti, ricchi e sontuosi, fossero andati persi. Poi, nel 2018, il Museo del tessuto di Prato ne ha ritrovati due, con altrettanti gioielli di scena, all’interno di un baule, appena acquistato, contenente materiale eterogeneo proveniente dal guardaroba della soprano pratese Iva Pacetti.
I riscontri iconografici fatti da Daniela Degl’Innocenti, conservatrice del museo toscano, non lasciavano dubbi: non si trattava di generici costumi di epoca Déco, ma proprio di quelli della «prima» scaligera di «Turandot», indossati da Rosa Raisa, il primo soprano della storia a interpretare il ruolo della «Principessa di gelo».
Purtroppo entrambi gli abiti erano in un pessimo stato di conservazione. Si è, dunque, proceduto al restauro da parte del Consorzio tela di Penelope di Prato, attraverso il progetto di crowdfunding «Il costume ritrovato», proposto sul portale Eppela, che ha visto in campo, oltre alla Regione Toscana, centosettanta privati provenienti da otto differenti Paesi, nonché aziende e associazioni del territorio.
Contemporaneamente sono stati riportati all’antico splendore da Elena Della Schiava, Tommaso Pestelli e Filippo Tattini anche i gioielli realizzati dalla ditta Corbella di Milano per la «prima» scaligera: una meravigliosa collana e uno spillone che ornava una parrucca.
L’Oriente di Galileo Chini, tra i protagonisti del Liberty italiano
Nel frattempo è stata studiata - con il Museo di antropologia e etnologia di Firenze, l’Archivio storico Ricordi di Milano e la Fondazione Giacomo Puccini di Lucca - una mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale, che ricostruisce le vicende che hanno portato il compositore toscano a scegliere il genio scenografico di Galileo Chini per la realizzazione dell’allestimento e delle scenografie per la «Turandot».
Il percorso espositivo si apre con una selezione di circa centoventi manufatti appartenenti alla collezione del pittore, grafico e decoratore fiorentino, tra i protagonisti del Liberty in Italia, che aveva già collaborato con Giacomo Puccini per la prima rappresentazione newyorkese, al Metropolitan, dell’opera «Il tabarro» (1918) e per il «Trittico» proposto al Costanzi, l’odierno teatro dell’Opera di Roma, nel gennaio del 1919. Si tratta di tessuti, costumi, maschere teatrali, porcellane, strumenti musicali, sculture, armi e manufatti d’uso comune di produzione thailandese e cinese, provenienti dal Museo di antropologia e etnologia di Firenze, che Galileo Chini collezionò nei suoi tre anni in Siam (l’attuale Thailandia), dove si era recato, tra il 1911 e il 1913, per lavorare alla decorazione del Palazzo del trono del re Rama VI.
L’esposizione prosegue con una sezione dedicata alle scenografie per la «Turandot» e al forte influsso che l’esperienza in Oriente ebbe nell’evoluzione del percorso creativo e stilistico del pittore fiorentino. Tra le opere esposte in questa sezione ci sono anche la tela «La fede», parte del trittico «La casa di Gothamo», di proprietà della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, e la grande opera «Festa dell’ultimo dell’anno a Bangkok», anch’essa appartenente all'istituzione fiorentina, oggetto di un’installazione multimediale che la mette in dialogo con una bellissima testa di dragone della collezione Chini.
In questa sezione sono esposti anche i bozzetti finali delle scenografie per la «prima» della «Turandot», provenienti dall’Archivio storico Ricordi di Milano, accanto ad altre due versioni di proprietà privata.
Il progetto espositivo del Museo del tessuto di Prato mette, quindi, in mostra, dopo decenni di oblio, gli straordinari costumi indossati da Rosa Raisa nella «prima» scaligera, corredati dai suoi gioielli. Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo trenta costumi provenienti dall’archivio della Sartoria Devalle di Torino, indossati dai ruoli primari e comprimari – l’Imperatore, Calaf, Ping, Pong e Pang e il Mandarino – e dai secondari – i sacerdoti, le ancelle, le guardie e i personaggi del popolo – sempre nella rappresentazione milanese del 1926. Anche questi abiti erano inizialmente scomparsi, ma furono, poi, rocambolescamente ritrovati a metà degli anni Settanta.
La mostra accende, infine, i riflettori anche su alcuni bozzetti originali e pochoir dei costumi realizzati dall’illustratore e scenografo Umberto Brunelleschi, maestro del Déco italiano inizialmente designato da Giacomo Puccini come collaboratore per la «Turandot», che ha donato al mondo della cartellonistica di inizio Novecento donne dalle silhouette eleganti e sottili, dalle tinte chiassose o tenui, comunque sempre anti-naturalistiche visto che i suoi rosa confetto, blu, viola, azzurri, verdi nella realtà non si vedono mai.
A completare il percorso espositivo c'è, infine, il manifesto originale della «prima» dell’opera, illustrato da Leopoldo Metlicovitz, una delle immagini più iconiche del melodramma italiano, per l’eleganza del disegno e l’impatto del colore.
Nel frattempo è stata studiata - con il Museo di antropologia e etnologia di Firenze, l’Archivio storico Ricordi di Milano e la Fondazione Giacomo Puccini di Lucca - una mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale, che ricostruisce le vicende che hanno portato il compositore toscano a scegliere il genio scenografico di Galileo Chini per la realizzazione dell’allestimento e delle scenografie per la «Turandot».
Il percorso espositivo si apre con una selezione di circa centoventi manufatti appartenenti alla collezione del pittore, grafico e decoratore fiorentino, tra i protagonisti del Liberty in Italia, che aveva già collaborato con Giacomo Puccini per la prima rappresentazione newyorkese, al Metropolitan, dell’opera «Il tabarro» (1918) e per il «Trittico» proposto al Costanzi, l’odierno teatro dell’Opera di Roma, nel gennaio del 1919. Si tratta di tessuti, costumi, maschere teatrali, porcellane, strumenti musicali, sculture, armi e manufatti d’uso comune di produzione thailandese e cinese, provenienti dal Museo di antropologia e etnologia di Firenze, che Galileo Chini collezionò nei suoi tre anni in Siam (l’attuale Thailandia), dove si era recato, tra il 1911 e il 1913, per lavorare alla decorazione del Palazzo del trono del re Rama VI.
L’esposizione prosegue con una sezione dedicata alle scenografie per la «Turandot» e al forte influsso che l’esperienza in Oriente ebbe nell’evoluzione del percorso creativo e stilistico del pittore fiorentino. Tra le opere esposte in questa sezione ci sono anche la tela «La fede», parte del trittico «La casa di Gothamo», di proprietà della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, e la grande opera «Festa dell’ultimo dell’anno a Bangkok», anch’essa appartenente all'istituzione fiorentina, oggetto di un’installazione multimediale che la mette in dialogo con una bellissima testa di dragone della collezione Chini.
In questa sezione sono esposti anche i bozzetti finali delle scenografie per la «prima» della «Turandot», provenienti dall’Archivio storico Ricordi di Milano, accanto ad altre due versioni di proprietà privata.
Il progetto espositivo del Museo del tessuto di Prato mette, quindi, in mostra, dopo decenni di oblio, gli straordinari costumi indossati da Rosa Raisa nella «prima» scaligera, corredati dai suoi gioielli. Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo trenta costumi provenienti dall’archivio della Sartoria Devalle di Torino, indossati dai ruoli primari e comprimari – l’Imperatore, Calaf, Ping, Pong e Pang e il Mandarino – e dai secondari – i sacerdoti, le ancelle, le guardie e i personaggi del popolo – sempre nella rappresentazione milanese del 1926. Anche questi abiti erano inizialmente scomparsi, ma furono, poi, rocambolescamente ritrovati a metà degli anni Settanta.
La mostra accende, infine, i riflettori anche su alcuni bozzetti originali e pochoir dei costumi realizzati dall’illustratore e scenografo Umberto Brunelleschi, maestro del Déco italiano inizialmente designato da Giacomo Puccini come collaboratore per la «Turandot», che ha donato al mondo della cartellonistica di inizio Novecento donne dalle silhouette eleganti e sottili, dalle tinte chiassose o tenui, comunque sempre anti-naturalistiche visto che i suoi rosa confetto, blu, viola, azzurri, verdi nella realtà non si vedono mai.
A completare il percorso espositivo c'è, infine, il manifesto originale della «prima» dell’opera, illustrato da Leopoldo Metlicovitz, una delle immagini più iconiche del melodramma italiano, per l’eleganza del disegno e l’impatto del colore.
Giacomo Puccini non poté vedere la sua opera in scena, ma le parole della romanza d’amore «Nessun dorma», oggi come allora, incantano il pubblico con quel finale che parla di speranza e che la scorsa primavera, nei giorni più duri della pandemia, è diventato un originale karaoke con settecento bambini di tutta Europa, accompagnati dall’orchestra virtuale Eico e diretti da Germano Neri: «Dilegua, o notte! Tramontate, stelle! Tramontate, stelle! All'alba vincerò! Vincerò! Vincerò!».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Leopoldo Metlicovitz, Manifesto per la Turandot. Milano, Archivio Storico Ricordi, ICON010367; [fig. 2] Ditta Corbella, Milano, Corona di Turandot [atto II]. Prato, Museo del Tessuto, inv. nn. 18.03.01, 18.03.02abc; [fig. 3] Luigi Sapelli (in arte Caramba), Costume di Turandot [atto II]. Prato, Museo del Tessuto, inv. n. 18.03.38; [fig. 4] Luigi Sapelli (in arte Caramba), Costume di Turandot [atto I]. Prato, Museo del Tessuto, inv. n. 18.03.37; [fig. 5] Maschera teatrale. Thailandia, inizio del XX secolo. Cartapesta e gesso dipinti e dorati, penne di uccello, frammenti di specchio. Firenze, Sistema Museale di Ateneo, Sede di Antropologia e Etnologia, Collezione G. Chini, inv. n. 31568; [fig. 6] Maschera di drago. Comunità cinese in Thailandia, fine del XIX secolo. Cartapesta dipinta. Firenze, Sistema Museale di Ateneo, Sede di Antropologia e Etnologia. Collezione G. Chini, inv. n. 31788; [fig. 7] Due vasetti con coperchio. Cina, inizio del XIX secolo. Porcellana invetriata e smaltata, oro. Firenze, Sistema Museale di Ateneo, Sede di Antropologia e Etnologia, Collezione G. Chini, inv. n. 31712; [fig. 8] Leopoldo Metlicovitz, Copertina per l’edizione di lusso della riduzione per canto e pianoforte. 1926. Milano, Archivio Storico Ricordi
Informazioni utili [
Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba. Museo del tessuto, via Puccetti, 3 – Prato. Orari: per le date di apertura e gli orari si consiglia di consultare il sito ufficiale www.museodeltessuto.it. Ingresso: intero singolo € 10,00; ridotti € 8,00; scuole € 4,00. Social: facebook.com/museodeltessuto/; twitter.com/museodeltessuto. Informazioni: info@museodeltessuto.it. Dal 22 maggio al 23 gennaio 2022