ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 30 ottobre 2019

«Viaggio nell’infinito», il genio visionario di Escher al cinema

Una vecchia macchina da scrivere in bianco e nero, il ticchettio delle dita che battono sui tasti a fare da sottofondo e in sovrimpressione una scritta che si compone lentamente: «I am afraid there is only one person in the world who could make a good film about my prints; me»; «Temo che ci sia una sola persona al mondo che potrebbe fare un buon film sulle mie stampe; io stesso». Inizia così, con queste parole dette a un collezionista americano nel 1969, il documentario «Escher - Viaggio nell’infinito», per la regia e la fotografia dell’olandese Robin Lutz, che arriva nelle sale cinematografiche italiane da lunedì 16 dicembre grazie a Feltrinelli e alla società di distribuzione Wanted Cinema, specializzata in pellicole di ricerca e “ricercate” per un pubblico che si aspetta non soltanto divertimento, ma anche pensiero, stimolo, dibattito, sorpresa e approfondimento.
Il film, che si avvale del sostegno di sir Roger Penrose, emerito professore di matematica all’Università di Oxford, racconta l’artista e il suo universo creativo attraverso i suoi stessi occhi, avvalendosi anche della colonna sonora di Louis Zarli e del montaggio di Moek de Groot.
La voce dell’attore e scrittore inglese Stephen John Fry, conosciuto nel Regno Unito per aver realizzato gli audio-book di tutti e sette i libri della saga di Harry Potter, legge lettere (quasi mille quelle studiate), diari, appunti di lezioni, testi per cataloghi scritti da Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden, 17 giugno 1898 – Laren, 27 marzo 1972), autore di più di quattrocento litografie, xilografie e incisioni su legno e oltre duemila disegni e schizzi, che raffigurano costruzioni impossibili, esplorazioni dell’infinito e motivi geometrici, in una combinazione perfetta tra elementi fantastici e matematici.
È, dunque, lo stesso Escher a raccontare allo spettatore la sua vita, la famiglia, le paure, i dubbi, i momenti di euforia, le considerazioni politiche, i suoi sviluppi artistici e ovviamente le opinioni sul suo lavoro, diventando così egli stesso regista del suo film «non letteralmente -come afferma Robin Lutz-, ma simbolicamente».
Nel documentario appaiono anche due dei figli dell’artista, George e Jan, rispettivamente di 92 e 80 anni, che si abbandonano ai ricordi sui loro genitori e della loro vita in giro per l’Europa.
Il documentario, della durata di circa un’ora, ci porta, infatti, nei luoghi che sono stati per l’artista fonte di grande ispirazione e, mentre Escher parla, la camera cattura in soggettiva la realtà come se fosse guardata dai suoi stessi occhi. Ci sono spezzoni storici di Leeuwarden, il paese di nascita, di Haarlem, il luogo dove è stato educato, e dell’Italia, dove l’artista ha vissuto durante l’ascesa di Mussolini, negli anni dal 1923 al 1935, stabilendosi a Roma, città di cui lo affascinavano i «fronzoli barocchi», e visitando molte altre località del nostro Paese, da Genova a Venezia, dalla costiera amalfitana a Viareggio. A colpire Escher sono soprattutto la campagna e le città della Toscana, in particolare San Gimignano e Siena. Ma più che il verde degli ulivi e il marrone della terra arsa dal sole, a lasciare sbalordito l’artista è l’azzurro del cielo senza nubi, una tonalità della quale egli scrive -ricorda il film di Robin Lutz- che è «più blu del Mediterraneo, più blu del blu della bandiera olandese, più blu della neve bianca e del catrame nero».
Il documentario porta, poi, lo spettatore in Spagna, Paese che Escher ha conosciuta appena prima della salita al potere di Franco e dove ha trovato l’ispirazione per il suo «riempimento semplice», studiando soprattutto i mosaici di Alahmbra dalle forme geometriche e dai colori vividi.
Il viaggio dell’artista, e quello dello spettatore, prosegue, quindi, verso l’Olanda, vissuta durante l’occupazione tedesca, e, infine, a Baarn, dove Escher ha trascorso i decenni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Sono gli anni della notorietà grazie a un articolo di «Time Life», pubblicato nel 1951 dal giornalista Israel Shenker.
L’incisore diventa così uno degli artisti olandesi più famosi dopo Rembrandt e Van Gogh. Chiunque riconosce immediatamente le sue opere. L’enorme successo, specialmente tra i ragazzi, stupisce soprattutto il diretto interessato: «Ma che diavolo vedono questi giovani nel mio lavoro? -afferma l’artista- Non manca esso di tutte quelle qualità che sono di tendenza oggi? È celebrare e razionale, invece di essere selvaggio e sexy». Eppure, malgrado le considerazioni di Escher, Mike Jagger richiede un’immagine per un suo album, ricevendo come risposta un categorico no. Uno stampatore californiano vende, con successo, riproduzioni che regalano ai lavori escheriani improbabili tonalità fluorescenti: «orge di colori» dai «risultati orrendi», per usare le stesse parole dell’artista. Un’icona del pop come Graham Nash -la cui testimonianza è presente nel film- racconta di come proprio grazie ad Escher sia diventato collezionista e si sia appassionato all’arte.
Si chiude, dunque, così, con l’eredità lasciata dal grafico olandese, il documentario: fumetti, pubblicità, film, mostre, balletti, costruzioni Lego, rivisitazioni in chiave contemporanea scorrono sullo schermo, accompagnate da una versione moderna della «Toccata e fuga in D minore (B 565)» di Bach, documentando l’interesse sempre più vivo nei confronti di un’arte che ha fatto del paradosso percettivo e del rigore geometrico i suoi cavalli di battaglia.

Informazioni utili
«Escher - Viaggio nell’infinito». Documentario, Olanda, 2018, 90 min. Regia: Robin Lutz. Fotografia: Robin Lutz. Montaggio: Moek de Groot, NCE. Suono: Louis Zarli Produzione: Robin Lutz AV productions. Dal 16 dicembre 2019 nei cinema italiani.

martedì 29 ottobre 2019

Al Funaro di Pistoia arriva il Fondo Paolo Grassi

Il suo nome è legato a doppio filo con quello del Piccolo Teatro di Milano, una delle sale più famose e importanti d’Italia, prestigioso punto di riferimento anche nel panorama internazionale. È il 14 maggio del 1947 quando Paolo Grassi, insieme con la moglie Nina Vinchi e con l’amico Giorgio Strehler, fonda il primo teatro stabile ed ente comunale di prosa del nostro Paese. La sua intuizione, che ha del rivoluzionario, si riassume nello slogan «teatro d'arte per tutti», una formula -questa- che sta ad indicare la volontà di proporre spettacoli di alta qualità a un pubblico il più vasto possibile, mettendo così al centro la funzione sociale di cui il linguaggio teatrale è portatore.
«L‘albergo dei poveri», del drammaturgo russo Maksim Gorkij, apre trionfalmente la prima stagione della sala. Orio Vergani, sulle pagine del «Corriere della Sera», scrive: « [...] folla da grandissime occasioni. Immaginate una grande prima della Scala condensata come in un dado da minestra. Pubblico succosissimo [...]».
Prende così il via un’avventura destinata a segnare la storia del teatro italiano e internazionale. A dieci anni dal debutto, il bilancio è tutto positivo, forte di settantatré spettacoli, oltre duemila repliche nella sede di via Rovello, più di quattrocento in Italia e circa duecento all’estero.
Quell’idea di fondare non un semplice teatro, ma un luogo votato «all’impegno sociale, alla coscienza etica, alla maturità civile» piace ai milanesi e non solo.
Il merito è anche di un cartellone vario e di elevata qualità, nel quale compaiono grandi opere internazionali, autori italiani, attori di grido del momento e, soprattutto, le opere di Giorgio Strehler.
Il 4 maggio 2007, in occasione dei sessant’anni dalla fondazione, Maurizio Porro, sempre sulle pagine del «Corriere della Sera», riassume in poche righe il segreto del successo: «Il Piccolo lascia una scia di memorie meravigliose, di titoli, di volti di attori (uno li vale tutti, tutti lo valgono, direbbe Sartre), di polemiche, di scandali politici (quando la Dc non voleva il «Galileo» di Brecht), anche di snobberie intellettuali... Alle prime c’era tutta l’intellighenzia illuminata alla milanese (magari ci incontrava Brecht) ma poi seguiva un pubblico vero, vivo, giovane e nuovo che imparava ad ascoltare Shakespeare, Goldoni, Pirandello, Brecht senza annoiarsi un attimo. E senza che Strehler abbia mai cambiato una battuta dei testi».
La storia del Piccolo alle origini è anche la storia di Paolo Grassi, che ne sarà direttore dal 1947 al 1972. L’intellettuale milanese ha appena ventotto anni quando dà avvio all’avventura di un nuovo teatro nella sede del vecchio cinema Broletto.
La sua passione per il palcoscenico si era manifestata da giovanissimo. A 18 anni era già attivo come critico, firmava la sua prima regia e iniziava un intenso percorso che lo avrebbe reso celebre come studioso e organizzatore, figura, quest’ultima, la cui invenzione come la conosciamo oggi si deve proprio all’intellettuale milanese.
Dopo l’esperienza del Piccolo, per Grassi verrà la sovrintendenza della Scala, che, con Massimo Bogiankino e Claudio Abbado, viene riportata a una dimensione di grande valore artistico e riconoscibilità. Sarà, poi, la volta della presidenza della Rai (dal 1976) e di quella del gruppo editoriale Electa, dove l'intellettuale riprende con grande passione la sua attività editoriale che, comunque, aveva coltivato quasi ininterrottamente durante tutta la carriera.
Questa storia sarà al centro dell’incontro in programma mercoledì 30 ottobre, alle ore 19.00, al Funaro di Pistoia. L’occasione, ideata per i cento anni dalla nascita dell’intellettuale milanese (nato proprio nella giornata del 30 ottobre), è offerta dall’ospitalità del Fondo Paolo Grassi all’interno della biblioteca dell’ente teatrale toscano, inaugurata nel 2009. La donazione va ad arricchire un già cospicuo catalogo composto da una collezione di seimila volumi, il Fondo Andres Neumann, con circa settantacinquemila documenti che compongono l’archivio professionale del produttore, e la Biblioteca teatrale di Piero Palagi, formata da tremila titoli fra saggi, drammi, commedie, tragedie, satire, teatro di narrazione e non solo del bibliotecario della Nazionale di Firenze, grande appassionato di teatro, che, fino agli ultimi anni della sua vita, non ha smesso di raccogliere opere ad esso dedicate.
Per quanto riguarda la ricchissima biblioteca di Paolo Grassi va ricordato che questa fu divisa tra due diversi eredi dopo la sua morte. Una metà fu donata alla Biblioteca civica di Martina Franca, dove ora ha sede la Fondazione Paolo Grassi, l'altra metà è giunta alla Biblioteca San Giorgio nell'ambito della donazione di due appassionati bibliofili: Annapaola Campori Mettel e Paolo Mettel.
Il lascito è composto da circa quattromila volumi, che riguardano l'attività delle varie collane editoriali di cui Grassi è stato direttore e curatore (per Einaudi ed Electa, per citarne due) o gli allestimenti del Piccolo, accanto agli approfondimenti critici intorno a diversi argomenti e autori.
Gran parte dei testi, in italiano, francese, inglese, tedesco, riguardano il teatro nei suoi molteplici aspetti: dalla legislazione alla scenografia, dalle biografie degli attori alle storie delle varie drammaturgie.
Molti sono i volumi di letteratura italiana (con particolare riferimento al Novecento) e soprattutto di politica e storia contemporanea.
I libri, editi in un arco di tempo che va dalla fine del Settecento fino agli ultimi anni di vita di Grassi, perlopiù sono siglati o autografati dal possessore al frontespizio e molti sono quelli con dedica degli autori allo stesso Grassi (tra le altre quelle di Romolo Valli, Giorgio Strehler, Eduardo De Filippo e Bertolt Brecht).
Quasi sempre si tratta di edizioni originali o prime traduzioni italiane, in particolare, gran parte della drammaturgia tedesca di inizio secolo è in prima edizione originale.
Maria Stella Rasetti, direttrice della biblioteca San Giorgio, ha proposto di affidare l'ospitalità del Fondo Grassi alla Biblioteca del Funaro, anch'essa parte della Rete documentaria della Provincia di Pistoia e specializzata in testi di teatro, quindi particolarmente adatta ad accogliere i materiali. I libri sono in fase di catalogazione e quando verrà terminata sarà possibile consultarne le notizie bibliografiche sull'Opac della Rete bibliotecaria della Provincia di Pistoia e sarà insieme possibile la consultazione dei volumi al Funaro.
Un nuovo e prezioso tassello, dunque, va ad arricchire la proposta della realtà teatrale toscana, centro culturale che, con la sua sempre articolata e preziosa attività, che spazia dai corsi alle produzioni, dai workshop alle residenze artistiche, sembra poter dire, con le parole di Paolo Grassi, «il teatro è per me come l'acqua per i pesci. Il mio teatro è sempre stato un teatro vivo, con il sipario aperto, oppure un teatro semivivo, con il sipario aperto senza il pubblico, durante la prova, oppure anche un teatro apparentemente morto, senza nessuno in sala: sono stato tanto tempo in sala a gustare il silenzio sublime del teatro. Il teatro è un modo di amare le cose, il mondo, il nostro prossimo. Io non ho mai amato il teatro come fine a se stesso [...]. Attraverso il teatro io penso tutto il resto: io vedo la politica attraverso il teatro, vedo l'urbanistica [...]. Ho creduto e ho vissuto per il momento fragile, insostituibile, della comunicazione teatrale».

Informazioni utili 
Il Funaro centro culturale, via del Funaro 16/18 – 51100 Pistoia, tel/fax 0573.977225, tel 0573.976853, e–mail: info@ilfunaro.org. Sito web: www.ilfunaro.org.

lunedì 28 ottobre 2019

«Elogio dei fiori finti», Bertozzi & Casoni rileggono Giorgio Morandi

È stato il pittore delle silenziose quotidianità e nella sua casa bolognese di via Fondazza, lontano dai grandi circuiti dell’arte, ha creato un proprio personale linguaggio figurativo, semplice e nello stesso tempo fortemente simbolico. Brocche, bottiglie, vasi, fiori e recipienti sono stati i suoi modelli, raffigurati quasi fino all'ossessione.
Quello stile dai ridotti accordi cromatici, dalle forme elegantemente geometriche e dall'atmosfera contemplativa è capace, con la sua poesia, di parlare ancora oggi agli artisti, che ne hanno fatto propria la visione e l’hanno restituita attraverso differenti linguaggi.
Giorgio Morandi è così diventato un modello con cui confrontarsi. Lo hanno dimostrato, negli anni, le mostre bolognesi di Alexandre Hollan, Wayne Thiebaud, Tacita Dean, Rachel Whiteread, Brigitte March Niedermair, Joel Meyerowitz e Catherine Wagner.
Ora il Museo Morandi prosegue il percorso di valorizzazione della propria collezione invitando il duo artistico Bertozzi & Casoni, formato da Giampaolo Bertozzi (Borgo Ossignano, 1957) e da Stefano Dal Monte Casoni (Lugo di Romagna, 1961), a confrontarsi con la lezione del pittore bolognese.
Il risultato è la mostra «Elogio dei fiori finti», focus espositivo, visibile fino al prossimo 6 gennaio, che filtra la lezione del pittore bolognese attraverso il linguaggio della ceramica.
L’attenzione dei due artisti si è rivolta ad alcuni celebri dipinti morandiani, presenti in via Fondazza, che raffigurano vasi di fiori.
Morandi guardava preferibilmente non al fiore fresco, caduco e destinato a modificarsi giorno dopo giorno (e, quindi, a creare varianti indipendenti dalla sua volontà), ma al fiore di seta o a quello essiccato che mantiene il suo stato inalterato e, al pari degli altri oggetti, raccoglie la polvere, creando effetti tonali per nulla sgraditi e forse volutamente ricercati.
Bertozzi & Casoni interessati da sempre al tema floreale, sembrano, invece, voler concedere nuova vita a quelle rose che hanno scelto di realizzare a gambo volutamente lungo, sulle cui foglie si aggirano presenze insettiformi dalla colorazione cangiante.
Nei tre lavori proposti in mostra assistiamo a una rivisitazione attenta e personale da cui nascono veri e propri «d’aprés Morandi» dopo quelli celeberrimi, firmati Gio Ponti, che più di settant’anni fa riproponevano bottiglie trafitte, ingioiellate, mascherate e addirittura abbottonate.
I fiori di Bertozzi & Casoni sono, infatti, diversi da quelli di Giorgio Morandi, che, ricordava Cesare Brandi, «tagliava le sue rose sotto il bocciolo e le disponeva sull’orlo del vaso, fitte come un bouquet da sposa».

Informazioni utili 
«Elogio dei fiori finti. Bertozzi & Casoni». Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari di apertura: martedì, mercoledì, venerdì, sabato, domenica e festivi, ore 10.00 – 18.30; giovedì, ore 10.00 – 22.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 051.6496611, info@mambo-bologna.it. Sito web: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Fino al 6 gennaio 2020.

venerdì 25 ottobre 2019

«Pittura di luce», Burano e il suo cenacolo di artisti

«Alla sera, per consolarci e consultarci in privato, salpavamo su una flottiglietta di sandoli verso Burano beata, e colà, sotto una pergola amicissima, nel crepuscolo incantato […] finivamo di demolire del tutto l’arte decrepita, la critica orba, la ciurma dei bottegai e dei borghesi senza testa e senza cuore […]». Sono le parole pronunciate nel 1948 da Nino Barbantini (Ferrara, 5 luglio 1884 – Ferrara, 17 dicembre 1952), primo direttore di Ca’ Pesaro, culla per la pittura italiana e veneziana delle Avanguardie, la migliore introduzione alla mostra «Pittura di Luce», allestita negli spazi del Museo civico del Merletto di Burano, per la curatela di Chiara Squarcina ed Elisabetta Barisoni.
La grande tradizione della pittura buranella dei primi decenni del Novecento, ancora sconosciuta ai più, rivive attraverso un selezionato numero di opere, tutte provenienti dalla collezione dei Musei civici di Venezia ed espressione di quell’«Avanguardia capesarina» che, tra il 1908 e il 1920, trovò nel palazzo progettato dall’architetto Baldassare Longhena sul Canal Grande, trasformato in galleria d’arte per volere della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, una «palestra intellettuale» nella quale esercitarsi e confrontare il proprio linguaggio con quello di tanti altri giovani artisti.
Nasce così il cenacolo di Burano, la cui storia -raccontava, sempre nel 1948, Nino Barbantini- sembra quella di una grande «famiglia», nella quale «tutti» erano «legati a doppio filo da una passione tale per l’arte, da una fede tale nella vita […], che quando si ripensa, tra i conti d’oggi, alla rarità delle vendite e ai prezzi d’allora, vien da supporre che di quella passione e di quella fede i più dei nostri campassero».
Come tutte le storie che hanno il sapore delle favole il «c’era una volta» ha una data ben precisa. Tutto inizia nel 1909 con l’incontro tra Gino Rossi (Venezia, 1884 ‒ Treviso, 1947) e Umberto Moggioli (Trento, 1886 – Roma, 26 gennaio 1919), che si ritrovano a vivere uno accanto all’altro sull’isola di Burano. Il primo è attento all'arte che si produce Parigi e frequenta la Bretagna, dove sta prendendo forma la scuola di Pont-Aven con Paul Gaugin e il suo gruppo. Il secondo è arrivato in laguna dalla natìa Trento per frequentare l'Accademia di belle arti e, innamoratosi dell’isola, ha deciso di prendere casa lì, in quell’angolo di laguna in cui i toni terrosi del paesaggio incontrano l’azzurro del cielo e del mare.
Tre anni dopo, nel 1912, Burano diventa anche la casa del mantovano Pio Semeghini (Quistello, 31 gennaio 1878 – Verona, 11 marzo 1964), di ritorno da Parigi dove è andato alla scoperta della pittura impressionista e post-impressionista, studiando, tra gli altri, Cezanne, Matisse e Bonnard.
Le case dai mille colori, le pallide fanciulle chine sul tombolo, i rudi pescatori di laguna con gli occhi bruciati dal sale, le donne che stendono il bucato nei campielli, la terra sospesa tra l’acqua e il cielo sono gli scenari che si offrono agli occhi di questi tre pittori e dei loro amici. Tutto sembra appartenere a un tempo fuori dalla storia, di cui fissare sulla tela luce e colori.
Sull’isola nasce una sorta di Pont- Aven lagunare, dove gli intatti paesaggi buranelli, con la loro condizione di quiete esistenziale, ideale per far riposare l’animo e i pensieri, vengono dipinti en plein air.
Nel frattempo, in quello scorcio di primo Novecento, Venezia vede nascere, sotto l’abile e propositiva regìa del giovane critico Nino Barbantini, una specie di contro-Biennale, nella quale sono esposte le opere di artisti che presentano una visione antiaccademica e antitetica rispetto alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini. Arturo Martini, Gino Rossi, Guido Cadorin, Pio Semeghini, Felice Casorati, Vittorio Zecchin, Umberto Moggioli, Teodoro Wolf Ferrari sono alcuni dei nomi di quelli che la critica battezza come «i ribelli di Ca’ Pesaro».
La fine di questa prima stagione arriva con lo scoppio, nel 1914, della Prima guerra mondiale e con la prematura scomparsa, nel 1919, di Moggioli.
La storia della pittura e dei pittori a Burano continua, però, per buona parte del Novecento, sempre a fianco dell'avventura di Ca' Pesaro. Il trevisano Nino Springolo (Treviso 1886-1975), con la sua cifra stilistica di impronta divisionista, e il veneziano Fioravante Seibezzi (1906-1975), per il quale il critico Ivo Prandin parla di «ripresa del vedutismo canalettiano», chiudono questa seconda stagione della scuola buranella. Una scuola che sembra aver fatto proprio il consiglio che il pittore Ponga diede proprio a Fioravante Seibezzi, agli inizi della carriera: «è tutto qui: copiare dal vero, aver fede, perseverare nel lavoro, non credere mai perfetto ciò che riesce facile. E soprattutto, lasciarsi guidare dall'istinto».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Pio Semeghini, La casa incantata; [fig. 2] Pio Semeghini, Paesaggio lagunare; [fig. 3] Umberto Moggioli, La casa dell'artista; [fig. 4] Umberto Moggioli, Piccolo paesaggio di Burano

Informazioni utili
Pittura di luce. Burano e i suoi pittori. Museo del Merletto, piazza Galuppi, 187 – Burano. Orari: fino al 31 ottobre, dalle ore 10.30 alle ore 17.00 (la biglietteria chiude alle ore 16.30); dal 1° novembre al 31 marzo, dalle ore 10.30 alle ore 16.30 (la biglietteria chiude alle ore 16.00); chiuso il lunedì, il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,50 (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card. Offerta Famiglie: biglietto ridotto per tutti i componenti, per famiglie composte da due adulti e almeno un ragazzo); gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; altre categorie aventi diritto per legge. Sito internet: www.museomerletto.visitmuve.it. Fino all’8 gennaio 2020. 

giovedì 24 ottobre 2019

«Tracing Vitruvio», il «De Architectura» incontra il linguaggio pop di Agostino Iacurci

È uno stile inconfondibile, fatto di forme sintetiche e ampie campiture di colori brillanti, quello di Agostino Iacurci (Foggia, 1986), street artist pugliese, di stanza a Berlino, che ha portato i suoi monumentali dipinti murali in tante città del mondo, da Mosca a Nuova Delhi, e che ha prestato il suo talento anche al mondo del teatro, firmando le scenografie per lo spettacolo «Madame Pink» di Alfredo Arias, presentato al teatro Argentina nel 2017 e al théâtre du Rond Point di Parigi nel 2019.
Suggestioni teatrali si respirano anche nel suo ultimo lavoro in mostra ai musei civici di Pesaro, per la curatela di Marcello Smarrelli e la consulenza scientifica di Brunella Paolini. Si tratta di un viaggio onirico tra le pagine del «De Architectura» di Marco Vitruvio Pollione (80 a.C.- 15 a.C. circa), celebre architetto e scrittore romano attivo nella seconda metà del I sec. a.C., considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Il suo trattato, suddiviso in dieci tomi, offre un quadro generale delle conoscenze tecniche e pratiche collegate alla costruzione che lo studioso aveva acquisito dopo una vita intera di attività professionale.
Nel primo libro, dopo aver proposto la definizione dell’architettura, si descrivono le doti dell’architetto che deve avere competenze tecniche e una cultura enciclopedica; vi sono anche accenni all’urbanistica.
Nei libri successivi si affrontano diverse tematiche collegate alla costruzione degli edifici, iniziando dal libro secondo nel quale si presenta la storia dell’edilizia e si illustrano le tecniche e i materiali utilizzati.
Si passa, poi, alla trattazione della costruzione dei templi in cui predomina l’ordine ionico, nel libro terzo, per illustrare, in quello successivo, gli altri ordini e stili di realizzazione degli edifici sacri.
Nel quinto libro si descrivono, invece, edifici pubblici quali la basilica, il carcere, i bagni e le palestre.
I libri successivi, il sesto e il settimo, sono dedicati all’edilizia privata, della quale si specificano l’uso degli spazi, l’orientamento, le misure e, poi, le decorazioni interne e le rifiniture. Gli ultimi tre libri, probabilmente scritti in epoca successiva ai precedenti, sono, infine, dedicati a riflessioni su temi di carattere più generale quali l’idraulica, l’astronomia, l’astrologia e gli orologi solari, la meccanica civile e militare.
Agostino Iacurci ha guardato a questo lavoro e ha pensato a un progetto site specific, intitolato «Tracing Vitruvio», per Palazzo Mosca, edificio nel cuore della città marchigiana, dove è esposto un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano, vera e propria summa di tutta la pittura sacra del XV secolo, quale l'«Incoronazione della Vergine» di Giovanni Bellini.
Il percorso si snoda partendo dal cortile, con monumentali istallazioni ispirate alle architetture vitruviane, accompagnate da una traccia sonora composta per l’occasione dal gruppo «Tuktu and the Belugas Quartet».
La mostra, realizzata grazie alla collaborazione della M77 Gallery di Milano, prosegue, quindi, all’interno del museo seguendo due fili conduttori.
Il primo, più tradizionale e squisitamente filologico, intende analizzare la fortuna critica ed editoriale del testo vitruviano, risalente al I sec. a.C. e ampiamente diffuso nel Rinascimento, grazie all’introduzione della stampa.
Questo successo è puntualmente documentato dalle raccolte della Biblioteca Oliveriana, che annoverano numerose edizioni del «De Architectura», alcune molto rare e preziose. Dieci di queste, accuratamente selezionate, sono riunite ai musei civici e presentate in ordine cronologico, aperte ognuna su uno dei dieci libri di cui l’opera è composta, in modo da poterne avere una panoramica completa e analizzarne più approfonditamente i contenuti.
L’altro percorso, più libero e visionario, è espressione della cifra stilistica di Agostino Iacurci, la cui ricerca attuale è molto vicina ai temi dell’antico e allo studio sull’uso del colore nell’architettura e nelle arti plastiche di età classica.
Per accompagnare la presentazione dei volumi del «De Architectura», l’artista ha realizzato un percorso in cui le forme e le creazioni vitruviane sono ridisegnate utilizzando il suo linguaggio pittorico caleidoscopico e surreale.
Cariatidi, capitelli, colonne, templi, sembrano rianimarsi, rivitalizzati dall’uso di cromie forti e brillanti, liberando l’antichità classica dall’etereo candore e dall’aura di olimpico equilibrio che il Neoclassicismo ci ha tramandato. L’artista ci restituisce così l’immagine di un’architettura nata da un popolo mediterraneo, fortemente legata al colore, alla luce, sempre in costante tensione tra l’apollineo e il dionisiaco, tra ragione e sentimento.
L’intervento di Iacurci si pone come un ulteriore commentario per immagini ai volumi, in dialogo con le edizioni e con gli artisti del passato che, attraverso la tecnica dell’incisione, si erano impegnati ad illustrare gli scritti di Vitruvio, spesso con risultati estetici di altissimo livello. L’artista ne fornisce una nuova e originale interpretazione attraverso il suo sguardo contemporaneo, intelligente e ironico, con una componente fortemente onirica. Il risultato è quasi un sogno a occhi aperti, una sorta di moderna «Hypnerotomachia Poliphili», il celebre romanzo allegorico attribuito a Francesco Colonna, corredato da centosessantanove illustrazioni xilografiche, che costituisce una delle fonti iconografiche più celebri e utilizzate nel Rinascimento, di cui è esposta la magnifica edizione di Aldo Manuzio (Venezia, 1499).
Una mostra innovativa e dal carattere sperimentale, dunque, quella a Palazzo Mosca, ulteriore testimonianza di come la cultura classica possa rappresentare sempre una fonte d’ispirazione di primaria importanza per un artista contemporaneo e di come Pesaro, con il suo ricco patrimonio, sia un perfetto laboratorio culturale.

Didascalie delle immagini
[Figg. dalla 1 alla 6] Allestimento della mostra «Tracing Vitruvio». Foto di Michele Angelucci;[fig. 7] Installazione per la mostra «Tracing Vitruvio» all'esterno di Palazzo Mosca. Foto di Palmieri

Informazioni utili  «Agostino Iacurci. Tracing Vitruvio. Viaggio onirico tra le pagine del De Architectura». Palazzo Mosca – Musei Civici, viale Mosca, 29 – Pesaro. Orari: da martedì a giovedì, ore 10.00-13.00, da venerdì a domenica e festivi, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-18.30. Ingresso con Biglietto unico Pesaro Musei (vale 15 giorni e consente l’accesso a Consente l’accesso a Palazzo Mosca – Musei Civici, Museo Nazionale Rossini, Casa Rossini, Domus – Area archeologica di via dell’Abbondanza, Area archeologica e Aantiquarium di Colombarone, Centro Arti Visive Pescheria): intero € 13,00, ridotto (ruppi min. 15 persone, Possessori di tessera FAI, TOURING CLUB ITALIANO, COOP Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Nordest, Estense, ISIC, ITIC, IYTC Card, Studenti universitari, Amici del Rof) € 11, ridotto speciale (possessori di Card Pesaro Cult, Gruppi accompagnati da guida turistica della Provincia di Pesaro- Urbino), gratuito per minori di 19 anni, soci ICOM, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e persona che li accompagna, possessori di Carta Famiglia del Comune di Pesaro. Informazioni: pesaro@sistemamuseo.it | tel. 0721.387541. Fino al 24 novembre 2019

mercoledì 23 ottobre 2019

Anche il sax ha il suo museo. In mostra a Fiumicino la collezione di Attilio Berni

È lo strumento principe del jazz come documentano le esemplari interpretazioni di Ben Webster, Ornette Coleman, Charlie Parker, John Coltrane, Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Dexter Gordon. Stiamo parlando del sassofono, la cui invenzione si deve al flautista e clarinettista Antoine-Joseph Sax (Dinant, 6 novembre 1814 – Parigi, 7 febbraio 1894), detto Adolphe, membro di una famiglia franco-belga di costruttori di strumenti musicali in metallo.
Frutto del tentativo di migliorare il timbro del clarinetto basso, il sassofono fece la sua comparsa sulla scena musicale nel 1840; il brevetto dello strumento risale, invece, a sei anni dopo e porta la data del 28 giugno 1846.
Accolto con diffidenza nell’ambiente della musica accademica, tanto che il suo inventore trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, il sassofono venne usato dapprima nelle bande militari e solo in seguito si affermò nella musica colta grazie al lavoro di autori come Hector Berlioz, Jean-Marie Londeix, Georges Kastner e, poi, Georges Bizet, Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Camille Saint-Saëns, Armand Limnander e Jérôme Savari.
Il sassofono diventò presto anche materia di studio: le prime cattedre di questo strumento vennero istituite a Parigi, nel 1857, per volontà dello stesso Adophe Sax e al Conservatorio di Bologna, nel 1844, grazie alla geniale intuizione di Gioachino Rossini, che inserì questo strumento anche in una delle sue ultime composizioni: «La corona d’Italia».
Ma è Oltreoceano, nei primi anni del Novecento, che le note suadenti e malinconiche del sax incontrano il giusto riconoscimento, anzi entrano nella leggenda.
Lo strumento conosce, infatti, il suo periodo d'oro grazie ai ritmi sincopati del jazz e ai suoi principali interpreti, ovvero Lester Young e Coleman Hawkins, passando per Louis Armstrong, Charlie Parker, John Coltrane e Stan Getz, fino agli odierni «mostri sacri» Michael Breker o Joshua Reedman.
Tra i jazzisti e il sassofono è amore a prima vista e il motivo è semplice: «si può piangere e parlare e piangere e gridare nel sassofono, come si fa con la voce».
Al «tubo dal fascino imprescindibile» e a tutte le sue metamorfosi è stato da poco dedicato anche un museo, il primo nel panorama internazionale. Si trova alle porte di Roma -a Maccarese, una frazione di Fiumicino- ed è nato grazie all’amore, alla conoscenza e alla generosità del musicista e docente laziale Attilio Berni, che ha messo a disposizione la sua ricca raccolta, composta in oltre trent’anni, per «dare forma -spiega lo stesso collezionista- alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali».
Circa seicento pezzi (alcuni molto rari), oltre ottocento fotografie d’epoca, vinili, LP, spartiti, libri, documenti originali e, persino, cinquecento giocattoli a forma di sax compongono il patrimonio del Museo del Saxofono, che si sviluppa su trecentocinquanta metri quadrati di sale espositive e uno spazio esterno altrettanto grande per i concerti estivi, oltre a due sale archivio.
Dal piccolissimo soprillo di trentadue centimetri al gigantesco sax sub-contrabbasso di quasi tre metri, costruito dall’artigiano brasiliano Gilberto Lopes ed esposto nel 2014 al Louvre di Parigi in una mostra su Adolphe Sax, il percorso espositivo permette di vedere tante curiosità come i primi esperimenti dell’inventore belga, il Grafton Plastic, il mitico Conn O-Sax, il Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, il Jazzophone, i grandiosi Conn Artist De Luxe, i sax a coulisse, i saxorusofoni Bottali, il Tex Beneke, l’Ophicleide, il Tex Beneke e i tenori Selmer appartenuti a Sonny Rollins.
Quello di Maccarese è, dunque, un percorso che permette al visitatore di districarsi nelle innumerevoli metamorfosi del saxofono grazie al contatto diretto con i grandi capolavori delle fabbriche Conn, Selmer, King, Buescher, Martin, Buffet Crampon, Rampone, Borgani, Couesnon, seguendo un connubio tra arte e artigianalità, creatività e tradizione che dura da quasi centottant’anni.
Al Museo di Attilio Berni sono, inoltre, esposti anche strumenti posseduti e suonati da importanti personaggi e interpreti come Rudy Wiedoeft, Sonny Rollins, Adrian Rollini, Marcel Mule, Benny Goodman e Tom Scott.
Mentre la raccolta fotografica documenta la storia del sax, dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni Venti fino alle band degli anni Settanta. Tra i pezzi esposti ci sono fotografie originali di Sigurd Rascher, madame Helise Hall, Dorothy Johnson, del Schuster Sister Saxophone Quartet, dei Six Brown Brothers e delle gemelle Violet & Daisy Hilton.
Una segnalazione meritano, infine, i sax giocattolo, di vitale importanza per la diffusione della cultura dello strumento, che vennero fabbricati principalmente in America e nei Paesi dell’Est Europa.
Un percorso, dunque, interessante quello del museo di Maccarese per scoprire tutti i volti, anche i più giocosi, di uno strumento capace di dar voce alle emozioni. Uno strumento dal fascino particolare, di cui Charlie Parker diceva: «Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».

Informazioni utili 
Museo del Saxofono,  via dei Molini - Maccarese - Fiumicino (Roma). Orari: martedì - venerdì, ore 15.00 - 19:00; sabato - domenica, ore 10.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: adulti € 7,00, studenti e over 65, € 5,00, bambini fino ai 6 anni gratuito. Visite guidate: € 50,00 per minimo 12 persone. Informazioni: tel. 06.61697862. Sito web: www.museodelsaxofono.com.

martedì 22 ottobre 2019

Leonardo500, in mostra a Milano «La Vergine delle Rocce del Borghetto»

È un’occasione da non perdere quella offerta dalla Fondazione Orsoline di San Carlo a Milano. In occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario leonardesco, la congregazione religiosa fondata da sant’Angela Merici apre le porte della sua sede davanti alla basilica di sant’Ambrogio, e più precisamente la chiesa di san Michele del Dosso, e rende accessibile al pubblico «La Vergine delle Rocce del Borghetto» (1517-1520).
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.

Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari

Informazioni utili 
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.

lunedì 21 ottobre 2019

«Ond'evitar tegole in testa!», sette secoli di assicurazione in mostra a Parma

È una storia che ha origini antiche e un primato tutto italiano. Furono, infatti, i mercanti genovesi e fiorentini del Trecento, per garantire un più sicuro sviluppo dei loro commerci, a dare vita al fenomeno assicurativo. I primi strumenti contrattuali noti riguardavano la spedizione di merci via mare verso l’Estremo Oriente. Questi viaggi erano, infatti, considerati pericolosi sia per l’impossibilità di prevedere con sufficiente anticipo l’arrivo di una tempesta sia per la presenza di pirati e corsari sulle rotte mercantili.
Il timore di perdere i guadagni ottenuti da questi commerci portò così i mercanti trecenteschi a inventare il «contratto assicurativo», un accordo scritto che trasferiva il rischio della perdita di un carico o della stessa nave ad altri che fossero disposti a prenderlo su di sé al fine di ottenere, a loro volta, un’analoga copertura per le loro spedizioni.
La polizza più antica, stilata da un notaio genovese, porta la data del 18 febbraio 1343 ed è proprio questa ad aprire il percorso espositivo della mostra «Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione», allestita nelle sale dell’APE Parma Museo, l’innovativo centro culturale e museale ideato e realizzato da Fondazione Monteparma nel cuore della città ducale.
L’esposizione, curata da Marina Bonomelli e Claudia Di Battista, presenta, nello specifico, duecentottanta pezzi, databili tra il Medioevo e i giorni nostri, tra cui quaranta testi antichi, ventisei polizze assicurative, centoventi targhe incendio prodotte negli ultimi due secoli e novantaquattro manifesti di compagnie italiane e straniere, realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’70 del Novecento.
Il percorso espositivo, che allinea materiale proveniente interamente dalla Fondazione Mansutti di Milano, si snoda seguendo due temi ben definiti.
La prima parte ricostruisce la storia dell’assicurazione negli ultimi settecento anni, presentando, tra l’altro, un focus sulla spinosa questione dell'usura: teologi e canonisti del Trecento e Quattrocento discussero, infatti, molto sulla moralità della polizza assicurativa.
A prova di questa stagione vi è il «De contractibus et usuris», un manoscritto su pergamena di San Bernardino da Siena, databile intorno al 1470, e in contrapposizione un trattato del teologo Konrad Summenhart che, al contrario di San Bernardino, pone sul medesimo piano l'aleatorietà del contratto assicurativo e la scommessa, quest'ultima condannata dalla Chiesa.
La mostra allinea anche opere sulla legislazione e sulla storia del diritto delle assicurazioni, tra cui il «Libro del Consolato de’ marinari» nell’edizione veneziana del 1549 e in quella olandese del 1704, il «Tractatus De assecurationibus» nella rara prima edizione del lusitano Pietro Santerna (1552) e il «De mercatura» di Benvenuto Stracca (1622).
Molto interessante è anche l’«Ordonnance de la Marine», promulgata da Luigi XIV nel 1681. Tra le sue norme vi è, ad esempio, quella che vieta l’assicurazione sulla vita delle persone, ma dà la facoltà di assicurare la vita degli schiavi che erano trattati alla stessa stregua delle merci trasportate sulla nave.
Un altro tema fondamentale dello sviluppo assicurativo è legato agli studi sul calcolo della probabilità e a quelli di matematica attuariale, come documenta l’«Ars conjectandi» di Jakob Bernouilli, pubblicato postumo a Basilea nel 1713.
La seconda parte della mostra segue, invece, l’evoluzione stilistica della grafica pubblicitaria assicurativa, attraverso manifesti, stampati nell'arco di oltre un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso.
Questi lavori regalano all'esposizione un valore artistico di grande impatto, oltre a rappresentare un filone a sé stante nell'ambito del mondo assicurativo, di cui costituiscono una testimonianza originale e fuori dal comune.
Le opere provengono in primis da Italia e Francia, dove il fenomeno della cartellonistica ha raggiunto livelli significativi, e a seguire da Svizzera, Belgio e Olanda; non mancano, però, esemplari provenienti anche da Germania, Spagna, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tra le firme più illustri, ritroviamo i triestini Marcello Dudovich e Leopoldo Metlicovitz insieme al loro maestro e mentore Adolf Hohenstein, il parmigiano Erberto Carboni, i romani Adolfo Busi e Gino Boccasile e persino Umberto Boccioni, in mostra con un raro manifesto. Tra gli artisti più recenti, ci sono, invece, i nomi di Savignac, Colin, Seneca, Piaubert e Ugo Nespolo, al quale è riservata una sezione con un originale e colorato omaggio al matematico svizzero Jakob Bernoulli e al suo teorema, conosciuto oggi come la legge dei grandi numeri.
Molte sono, inoltre, le curiosità disseminate lungo il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. Tra queste, c’è la polizza che Ernest Hemingway stipulò contro l’incendio e i cicloni per la sua casa cubana all’Havana, la «Finca La Vigìa», che aveva acquistato nel 1939 per 12.500 dollari e nella quale scrisse due capolavori della letteratura del Novecento come «Per chi suona la campana» e «Il vecchio e il mare».
Tra i pezzi da vedere si segnala anche la polizza che Marilyn Monroe stipulò contro il rischio d’incidenti automobilistici pochi mesi prima della sua morte.
Molto singolare è, infine, anche l'assicurazione sulla vita sottoscritta nel 1959 da Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, proclamato Santo l’anno scorso, con cui la compagnia, in caso di morte del cardinale in qualsiasi epoca dovesse avvenire, si impegnava a pagare agli eredi il capitale di un milione di lire.
Un percorso, dunque, articolato e completo quello della mostra in corso a Parma, che documenta l'evoluzione del settore assicurativo e il suo volto più artistico.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Manifesto di Briot per la Amicale des Mobilisés de l'Assurance, Parigi, 1933; [fig. 2] Manifesto di L. Edel per la Cassa mutua cooperativa italiana per le pensioni, Torino, 1895; [fig. 3] Manifesto della compagnia svizzera Zürich, Parigi, 1892; [fig. 4] Manifesto di U. Boccioni per la compagnia svizzera Helvetia, Milano, ca. 1914; [fig. 5] Manifesto di E. Carboni per la compagnia italiana La Cremonese, Parma, 1924

Informazioni utili 
«Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione». Ape Parma Museo, via Farini, 32/a – Parma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.30. Biglietti: intero € 8,00; ridotto € 5,00 (over 65, persone diversamente abili e loro accompagnatori, gruppi di almeno 10 unità); ingresso gratuito scuole, under 18, studenti e personale dell’Università di Parma, guide turistiche e giornalisti. Informazioni: tel. 0521.2034; info@apeparmamuseo.it. Sito internet: www.apeparmamuseo.it; www.storiadelleassicurazioni.com. Fino al 15 gennaio 2020.

venerdì 18 ottobre 2019

Arezzo, Mimmo Paladino omaggia Piero della Francesca

«Piero della Francesca per me è una fonte inesauribile di scoperte. La sua capacità di creare forme dalla luce, spazio dalla matematica, colore dal grigio, la sua iconicità quasi araldica, sono un costante punto di riferimento, quasi una regola». Così Mimmo Paladino (Paduli - Benevento, 19 dicembre 1948), uno dei principali esponenti della Transavanguardia, parla del suo amore per il pittore e matematico di Montevarchi, una delle personalità più emblematiche del Rinascimento italiano, le cui opere colpiscono per l’attento uso della prospettiva, frutto di accurati studi geometrici come dimostra la celebre tavola «La flagellazione di Cristo» (1460), conservata a Urbino.
Per Mimmo Paladino le opere dell’artista rinascimentale sono state fonte di ispirazione non solo a livello estetico, ma anche metodologico e teorico. Piero della Francesca è stata, infatti, una delle figure del passato che più hanno contato nella formazione del maestro di Benevento e con la quale lui ha intrattenuto un dialogo costante in tutta la sua ricerca artistica.
Ad approfondire il rapporto tra i due artisti, in un elegante gioco di rimandi tra antico e contemporaneo, è la mostra diffusa «La regola di Pietro», allestita ad Arezzo, per la curatela di Luigi Maria Di Corato. Sono oltre cinquanta le opere selezionate per questo omaggio, che si articola in ben sei sedi espositive: la Galleria comunale d’arte contemporanea, la Fortezza medicea, la Basilica di San Francesco, la sala di Sant’Ignazio, la chiesa di San Domenico e Porta Stufi.
L'omaggio, pur svolgendosi e dipanandosi per tutta la città, non chiama mai direttamente in causa il maestro a livello formale, ma si risolve nel manifestare una condivisione di valori, come l’incontro tra tradizione e modernità, tra razionalità ed emozione, tra luce, forma e colore, tra idealizzazione, astrazione, simbolo e realtà.
L’arte di Paladino fonda le sue radici nella grande tradizione figurativa e filosofica italiana. Questa passione lo ha spesso portato a riscoprire le culture più diverse, alla ricerca di un confronto con gli archetipi, le matrici iconiche, le tradizioni fondanti che, dalle civiltà pre-romane al Rinascimento, hanno costellato il pensiero mediterraneo.
I due nuclei centrali della rassegna - che vede protagonista proprio la pittura e che presenta opere tridimensionali nella loro naturale vocazione pittorica - sono la Galleria comunale d’arte contemporanea e la Fortezza Medicea.
Nella Galleria è accolta una selezione di trentaquattro dipinti, tra cui opere celebri come due grandi quadri della serie «Il principio della prospettiva» (1999) e il lavoro «Senza titolo» (2018), un polittico inedito di sei elementi.
Si trovano, inoltre, in mostra una serie di cinque sculture del nucleo «Architettura», realizzate in materiali vari dal 2000 al 2002, e «Stele», una fusione in alluminio del 2000.
Al centro del percorso, che si chiude con una sala video nella quale viene ripercorso l’impegno di Mimmo Paladino in ambito cinematografico, si segnala la spettacolare istallazione «Scarpette», del 2007, realizzata con ben più di centoottanta scarpe e uccellini in ghisa che si trasformano in un basso-rilevo di ben sessantaquattro metri quadri.
Nella piazza antistante la Galleria -sulla quale si affaccia la basilica di San Francesco, che conserva al suo interno le «Storie della Vera Croce»- campeggia un grande obelisco votivo. L’opera, alta oltre venti metri, è intitolata «De Mathematica» e si ispira ai Gigli di Nola, macchine processionali a spalla, oggi patrimonio Unesco. Formata da numeri assemblati tra loro, quest'opera è un «monumento temporaneo» alla matematica, ma anche alla vocazione proto-scientifica dell’Umanesimo per la ricerca dell’esattezza, di cui i trattati di Piero della Francesca sono un celebre manifesto.
Per la Fortezza sono state selezionate, invece, un nucleo di opere monumentali capaci di innescare una tensione drammatica non comune con la scabra natura degli spazi. Il percorso comincia con la recentissima «Senza titolo», del 2018, composta da bronzo ed acqua, opera che il pubblico ha potuto vedere esposta solo a Napoli nel mese di dicembre 2018. La mostra prosegue, quindi, con «Zenith», dodecaedro stellato in alluminio del 2001, per poi continuare con un’opera degli anni Ottanta. Si tratta di «Senza titolo», un carro di bronzo del 1988, che trasporta venti teste, preziosi trofei di un corteo apotropaico che conducono all’interno della fortificazione.
Tra le altre sculture-pittoriche monumentali, spiccano i nove elementi di «Vento d’acqua», opera in bronzo del 2005, già esposta al Museo di Capodimonte di Napoli. Ci sono, inoltre, lungo il percorso espositivo anche i giganteschi «Specchi ustori» del 2017, un grande tavolo che ospita ben cinquanta piccoli bronzi e tre nuovissime sculture a figura intera sempre «Senza titolo», annidate nelle segrete della fortezza.
Completano il percorso altre tre tappe fondamentali. Nella chiesa di San Domenico c’è la grande croce in foglia d’oro «Senza titolo» del 2016. A Porta Stufi è possibile vedere un’installazione di grande suggestione, nella quale diciotto vessilli policromi collocati sulle mura -«Bandiere», opera del 2003 in alluminio- sembrano segnalare un antico trofeo lasciato sul selciato: «Elmo», una delle opere più note dell’artista, un bronzo del 1998, esposto nei maggiori musei del mondo, che qui, imbelle, accoglie i visitatori in arrivo o in partenza ricordando i fasti di un passato non ancora remoto. Mentre nella chiesa sconsacrata di Sant’Ignazio è possibile ammirare l’istallazione «Dormienti», tra le opere più note e amate di Mimmo Paladino, realizzata con Brian Eno nel 1999 per la Roundhouse di Londra e qui riproposta in un nuovo allestimento.
L’istallazione rimanda a diverse fonti indirette di suggestione, dai calchi di Pompei ad alcune figure etrusche, ma è soprattutto ispirata ai disegni realizzati da Henry Moore nei rifugi anti-aerei di Londra, nei quali sono rappresentate figure rannicchiate e indifese, intente a proteggersi dal terrore dei bombardamenti tedeschi.
Una citazione a parte merita, infine, «Suonno. Da Piero della Francesca» (nell'ultima foto) del 1983, opera esposta nella Galleria comunale d’arte contemporanea. Si tratta di un omaggio alle «Storie della Vera Croce», nella cappella Maggiore della Basilica di San Francesco. Qui prende forma la «Regola di Piero», a cui ha voluto rendere omaggio Mimmo Paladino. Qui -ricorda Luigi Maria Di Corato- l’artista toscano «ha cercato di fondere in un’unica visione punti di vista apparentemente lontani tra loro: la solidità concreta di Massaccio e la luce diafana dell’Angelico, l’astratta geometricità di Brunelleschi e il virtuosismo prospettico di Paolo Uccello, la rarefazione di Domenico Veneziano e la precisione ottica dei fiamminghi».
Qui il maestro beneventano ha preso ispirazione per creare il suo linguaggio figurativo in bilico tra presente e passato, geometria e plasticità, concettuale e corporeo. Perché -come dice Franco Battiato nel suo ultimo brano, «Torneremo ancora» - «nulla si crea, tutto si trasforma».

Informazioni utili 
«Mimmo Paladino. La regola di Piero». Sedi espositive: Fortezza Medicea - Galleria Comunale d'Arte Contemporanea - Ex-Chiesa di Sant’Ignazio - Basilica di San Francesco - Chiesa di San Domenico - Porta Stufi, Arezzo. Orari: dal martedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; giorno di chiusura il lunedì. Biglietti: 5,00 euro (ridotto 3,00 euro per gli over 65); ingresso gratuito per i minori di 14 anni | i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive della Galleria comunale d’arte contemporanea e della Fortezza Medicea. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.fondazioneguidodarezzo.com | www.laregoladipiero.wordpress.com. Fino al 31 gennaio 2020. Prorogata al 30 giugno 2020. 

giovedì 17 ottobre 2019

David LaChapelle firma il calendario 2020 di Lavazza

È una lunga storia d’amore quella tra Lavazza e la fotografia. Tutto ha inizio nel 1993 con la prima edizione del calendario, progetto internazionale nato per raccontare in maniera innovativa il mondo del caffè e i valori del brand.
Il primo a legare il suo nome all’azienda è Helmut Newton con il suo stile in bilico tra eleganza formale e gusto provocatorio. Il testimone passa, poi, a Ellen Von Unwerth, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Marino Parisotto, Elliott Erwitt, i fotografi della Magnum Photos, Martin Franck e Richard Kalvar.
Fino agli anni Duemila è il bianco e nero, più elegante e intimo, a tradurre in immagini il mondo di Lavazza.
Dal 2002, con l'arrivo di David LaChapelle, il calendario si apre al colore: il fotografo costruisce un racconto visivo tutto incentrato sui cromatismi accesi e vibranti dell'indaco e del fucsia, animato da un erotismo giocoso che unisce la seduzione intrinseca al rituale del caffè a una personale rivisitazione dell'immaginario della West Coast.
Ed ecco, poi, JeanBaptiste Mondino, Thierry Le Gouès, Eugenio Recuenco -ricordano dagli uffici di Lavazza- che «creano scatti all’insegna dell'immaginazione, ricchi di visioni fantastiche e popolati da creature immaginifiche».
La pubblicazione dei calendari continua negli anni successivi: «Finlay MacKay si tuffa nell'opulenza del gusto. Erwin Olaf si diverte con i cromatismi del rosso e del bianco mettendo in scena l'eterno gioco delle coppie. Anne Leibovitz e Mark Selinger raccontano con humor e leggerezza l'italianità. Martin Schoeller coinvolge alcuni tra gli chef stellati più famosi del mondo».
Il 2015 è l’anno di una nuova svolta. La fotografia, arte per eccellenza del racconto del reale e dei cambiamenti della società, è il linguaggio migliore per raccontare l’impegno del brand nei confronti della sostenibilità ambientale.
Il calendario è il modo migliore per pubblicizzare, attraverso la poesia e l’artisticità della fotografia d’autore, come Lavazza intenda operare per il futuro del pianeta. Nasce un progetto triennale: «Earth Defenders». Lo inaugura Steve McCurry con «¡Tierra!», un viaggio alla scoperta delle comunità produttrici di caffè. È, poi, la volta di Joey Lawrence, con la serie «From Father to Son», e di Denis Rouvre, che firma «We Are What We Live». La trilogia dei «guardiani della Terra» -questa la traduzione italiana del titolo dei progetti- dà così voce alle storie dei piccoli produttori e dei contadini, giovani e anziani, accomunati dall'amore e dalla salvaguardia del pianeta, il bene più prezioso.
L’impegno di Lavazza prosegue nel 2018 con Platon, che racconta in dodici scatti le storie di chi ha scelto di abbracciare uno degli obietti di sviluppo sostenibile che l'Onu indica come target da raggiungere entro il 2030.
L’ultimo calendario del decennio porta, invece, la firma di Ami Vitale, che documenta con i suoi scatti sei suggestive opere di nature art realizzate in Thailandia, Marocco, Svizzera, Colombia, Kenya e Belgio.
Sostenibilità ambientale e protezione del pianeta sono i temi al centro anche della nuova edizione del calendario Lavazza, recentemente presentato a Venezia.
«Earth CelebrAction» è il titolo scelto per questo nuovo progetto, che vede come sempre alla direzione artistica l’agenzia di comunicazione Armando Testa.
«L’intento -raccontano ancora da Lavazza- è quello di celebrare il potere della bellezza unita all'idea dell'azione e di invitare ogni essere umano a prendersi cura della terra e di chi la abita».
A firmare i dodici scatti del 2020 è lo statunitense David LaChapelle, allievo di Andy Warhol e cantore barocco e sfrontato del glamour scintillante degli anni Novanta, alla sua terza volta a fianco di Lavazza.
Il fotografo ha interpretato il tema scelto per questa edizione mettendo in scena un racconto simbolico, dove gli elementi primari del fuoco, dell'acqua, della terra e dell'aria si combinano alla presenza dell'uomo, inserito in scenari naturali emozionanti.
I dodici mesi dell’anno sono un canto dedicato alla vita e al potere trasformativo della bellezza, capace di risvegliare l'attenzione delle persone nei confronti dei bisogni della terra e del suo delicato equilibrio.
Gli scatti di David LaChapelle sono realizzati alle Hawaii, dove l'artista vive da alcuni anni in una farm eco-sostenibile, nella quale ha sviluppato l'interesse per la fotografia di paesaggio e una peculiare attenzione nei confronti dell'ambiente.
Per il suo calendario il fotografo americano ha scelto dodici parole guida, una per mese: «Celebrate», «Listen», «Realize», «Defend», «Care», «Sustain», «Honor», «Nourish», «Reconnet», «Breathe», «Respect», «Change». Il messaggio, però, è solo uno ed è molto chiaro: «Noi celebriamo la Terra, perché grazie a lei esistiamo. La ascoltiamo, per intervenire in suo aiuto. Realizziamo quanto è importante, per essere importanti per lei. La difendiamo, soprattutto da noi stessi. La curiamo, perché la sua salute è la nostra. La sosteniamo, lavorando per ridurre ogni impatto. La onoriamo, perché ci ha dato tutto senza chiedere niente. La nutriamo, per vederla crescere ancora. Ci riconnettiamo con lei, per provare ciò che prova. La respiriamo, perché è vita. La rispettiamo, perché è nostra Madre. Noi la cambiamo, se cambieremo noi».
Non basta, dunque, per David LaChapelle  celebrare la bellezza della terra, ma bisogna anche agire per tutelarla e darle un futuro.

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calendar.lavazza.com