Ha disegnato i costumi e le scene di più di duecentocinquanta spettacoli di prosa, opera lirica e teatro per bambini, collaborando con registi come Tonino Conte, Gianfranco De Bosio, Franco Enriquez, Vittorio Gassman, Ermanno Olmi, Aldo Trionfo, Paolo Poli e Maurizio Scaparro. Ha lavorato come illustratrice di libri per Emme Edizioni e Rai Eri regalando il suo inconfondibile segno a testi come «Le filastrocche del cavallo rampante» di Gianni Rodari, «L’amore delle tre melarance» di Torino Conte, «Storie senza tempo» di Alberto Manzi, «L’albergo della fantasia» di Antonella Tarquini e «Il mondo alla rovescia» di Donatella Ziliotto. Ha portato il suo estro di costumista e scenografa anche sul grande schermo in un film come «La parola segreta» di Stelio Fiorenza (1988). Ha vinto premi prestigiosi quali il Gassman - I teatranti dell’anno, l’Eti, l’Ubu della critica e Le maschere del teatro. Ha inventato anche una tecnica artistica, quella del meta-collage, che fonde insieme legno e metallo. Santuzza Calì (Pulfero - Udine, 28 marzo 1934), madre friulana e padre siciliano, ha avuto una vita intensa alla quale hanno fatto da filo rosso tre parole, le stesse scelte come titolo per il catalogo ragionato del suo archivio alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, appena pubblicato da Silvana editoriale: «arte, fantasia, colore».
Nipote della pittrice Pina Calì, notevole esponente della pittura siciliana degli anni ’30, e di Silvestre Cuffaro, scultore dalla potente impronta etica, l’artista è partita giovanissima da un paesino friulano di poche centinaia di anime sulle sponde del Natisone, Pulfero, alla conquista del mondo. In un periodo in cui era raro vedere una ragazza della provincia italiana viaggiare in Europa, agli inizi degli anni Sessanta, lei si diploma all’Accademia di Belle arti di Palermo e, poi, parte per Salisburgo, dove frequenta la «Scuola del Vedere» di Oskar Kokoschka, il padre dell’Espressionismo nordico, la cui pittura racconta l’asperità del vivere. Ne diventa assistente; impara da lui a «vedere, osservare, guardare» la realtà, portandosi a casa una profezia che sarebbe diventata realtà: «Tu farai teatro». Poi, dopo un seminario estivo a Venezia con Le Courbusier, la giovane parte, con una borsa di studio, per l’America, mossa dalla curiosità, dalla brama di studiare, di conoscere altra gente e altre realtà.
Bisogna aspettare il 1969 per il secondo incontro importante di Santuzza Calì, quello con l’amico e collega Lele Luzzati, un rapporto «così speciale e unico che – racconta la scenografa e costumista friulana - fa parte dei miracoli e dei segreti della mia vita». La loro collaborazione è considerata tra le più feconde e proficue della scena teatrale italiana; i due artisti, ugualmente raffinati e fantasiosi, si capiscono al volo: «sembrava che lavorassimo gomito a gomito controllando ogni sfumatura di colore, - racconta ancora Santuzza Calì - ma non è mai stato così. Dopo brevi accordi ci impegnavamo su uno stesso progetto, lontani, in mari diversi, lui in quello ligure, io in quello mediterraneo – in Sicilia o su un’isola greca».
Le porte del teatro sono aperte e l’arte della scenografa e costumista di Pulfero, che unisce una vasta cultura figurativa con una straordinaria abilità artigianale e una spiccata intelligenza nella collaborazione con le maestranze del palcoscenico, incrocia anche la storia dell’opera lirica, un genere musical-teatrale che lei aveva imparato da piccola grazie al nonno paterno: «mi faceva sentire le arie di Mozart, Rossini, Verdi… e mi raccontava le storie – racconta Santuzza Calì -. Così per capirle meglio facevo piccoli teatrini con dentro piccoli personaggi colorati di rosso, verde e blu. Erano di carta e li muovevo con i fili. Non mi ricordo se immaginavo o no di continuare da grande a fare questo gioco».
Le sue creazioni fatte di fantasia, artigianalità e manualità, ma anche di un attento studio dei testi e del carattere dei personaggi, salgono così su palcoscenici importanti come La Fenice di Venezia, il Massimo di Palermo, il Carlo Felice di Genova, il San Carlo di Napoli, il Regio di Torino, il Rossini Opera Festival di Pesaro, il Maggio musicale Fiorentino, il Ciclo verdiano di Parma, i teatri dell’Opera di Vienna, Strasburgo, Parigi, Ginevra, Losanna, Stoccolma, Oslo, Atene e Zurigo.
Santuzza Calì, che oggi ha novant’anni e che tre anni fa si è trasferita a Sperlinga (in provincia di Enna), dopo una vita passata a Roma, è stata instancabile e tuttora studia, disegna, inventa. Lo dimostra il catalogo ragionato della sua attività, appena pubblicato da Silvana Editoriale. E lo documenta anche l’antologica che le dedica fino alla fine dell’anno il teatro Biondo di Palermo. Curata da Giovanna A. Bufalini, Paola Tosti, Laura Zanca e Giulia Barbera, con la collaborazione della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, l’esposizione allinea acquerelli, bozzetti, figurini, costumi, oggetti di scena che raccontano in sintesi i momenti più significativi di una storia creativa durata più di cinquant’anni, dal 1969 a oggi.
«In tutta l’opera di Santuzza Calì – sottolinea una delle curatrici, Giovanna A. Bufalini – prevale il gusto del colore, che dà vita alla sua visione del mondo. Un costume non è mai solo un costume, è un’opera pittorica; un tessuto non è mai solo un tessuto, ma si stinge o si arricchisce di una velatura di azzurro, o di un effetto stencil. Ogni costume è un’opera a sé. Una piccola gobba in più, qualche centimetro in meno di un pantalone, sono rivelatori di una sottile ironia nei confronti del personaggio, mentre un costume che si trasforma in una scenografia diventa a volte un inatteso intervento registico».
«Il talento di Santuzza Calì sta tutto nell’estro e nella potenza creativa – le fa eco Maria Ida Biggi, direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia - che riesce a esprimere con il genio della combinazione dei colori, della scelta dei tessuti e delle tecniche di montaggio che servono per immaginare le caratteristiche del personaggio. Tutta la sua creatività appare attraverso una lente deformante, in cui i riferimenti filologici, spesso, si possono scoprire sotto la fantasia, piuttosto che nella ricerca di ricostruire un’epoca storica. La sua invenzione si rafforza attraverso il costante confronto con il regista e con lo scenografo, con i quali, di frequente, basta uno sguardo, una parola, una lunghezza d’onda, come lei stessa riferisce».
Completa il percorso espositivo una selezione di manufatti realizzati da Santuzza Calì con Gabriella Saladino nello Studio di via Maqueda a Palermo. Le due artiste hanno prodotto per anni un artigianato di altissima qualità: i «giocattoli» di cartapesta, le teline con «il mondo alla rovescia», le maschere, i metal-collage sembrano pensati per bambini di altri tempi, appartengono a una dimensione in cui il mondo è buono e la cattiveria diventa quasi comica. Un mondo in cui la fantasia è al potere.
1. Figurino per O Cesare o nessuno di Vittorio Gassmann, 1974. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 2. Figurino per I tre moschettieri di Alexandre Dumas, 1970. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 3. Bozzetto per Una tranquilla dimora di campagna di Stanislaw Witkiewicz, 1975. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 4. Figurino per La zia di Carlo di Brandon Thomas, 1994. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 5. Figurino per Le mille e una note di Gigi Palla da Antoine Galland, 2007. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini
Informazioni utili
Santuzza Calì – Acquerelli, bozzetti, figurini, costumi. Teatro Biondo - Palermo. Apertura al pubblico: da martedì a sabato dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00, domenica dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 15:00 alle 19:00; lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 091.7434331 o 091.7434345. Sito web: https://www.teatrobiondo.it. Fino al 29 dicembre 2024.
È il 1979 quando l’istrionico Dario Fo (Sangiano - Varese, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016), premio Nobel per la letteratura nel 1997, pensa di raccontare attraverso il linguaggio, immediato e fortemente emozionale, del teatro il «caso Moro», ovvero quell’insieme di vicende che nei cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 precipitano l’Italia in una «notte buia della Repubblica», che si conclude con l’assassinio di Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), allora presidente della Dc.
Dario Fo e «La tragedia di Aldo Moro»
Per l’attore e drammaturgo lombardo, moderno giullare che ha innovato il teatro comico italiano con spettacoli quali «Mistero buffo» (1969) e «Lu santo jullàre Françesco» (1999), ma che ha anche raccontato gli «anni di piombo» con la commedia «Morte accidentale di un anarchico» (1970) sulla storia di Giuseppe Pinelli, la vicenda dello statista pugliese è simile alla «solita fottuta tragedia classica antica». Aldo Moro diventa così, nella mente di Dario Fo, un moderno Filottete sofocleo, una vittima sacrificale tradita e abbandonata dai suoi compagni di partito, posti dalle Brigate rosse di fronte al dilemma di antigoniana memoria «polis o pietas?», «ragione di Stato o sacrificio di una vita umana?».
Dario Fo alla Mostra del cinema di Venezia nel 1985. Foto di dominio pubblico
Non può, dunque, che essere un antico teatro greco, popolato da un folto gruppo di satiri e baccanti evocati dal rito dionisiaco di Coro e Corifeo, la scenografia che il drammaturgo pensa per lo spettacolo. Lo documentano gli schizzi che Dario Fo, da sempre attento a risvegliare la coscienza civile del Paese con la sua spietata ironia e la sua irriverente leggerezza, realizza al momento della stesura del primo atto, tutti pubblicati on-line dall’Archivio Dario Fo – Franca Rame, così come il resto del materiale documentale sul progetto teatrale «La tragedia di Aldo Moro» (appunti manoscritti, canovacci, articoli di giornali e disegni).
Al centro della scena è collocato, come un imputato, lo statista pugliese; mentre seduti nella cavea, una struttura «concentrica a cinque o sei gradoni», prendono posto «gli otto», personaggi «paludati» in nero, con il volto coperto da maschere di corda e cartapesta, che rappresentano i compagni di partito dello statista pugliese. Un buffone, narratore popolare della storia, orchestra l’intera azione scenica, che vede Aldo Moro ripetere a viva voce le parole affidate alle lettere scritte nella cosiddetta «prigione del popolo». Mentre «gli otto», spiegandosi e giustificandosi con le stesse dichiarazioni rilasciate nei giorni del sequestro, mettono in scena una grande «pupazzata», una lotta di «pupazzi» animati da una «cattiveria» malcelata, la stessa di cui lo statista pugliese scrive alla moglie Noretta in una lettera del 6 aprile 1978.
Copertina del libro «Fabulazzo» di Dario Fo (Kaos edizioni, Milano 1992), all'interno del quale è pubblicato il copione dello spettacolo«La tragedia di Aldo Moro»
Il testo del primo atto viene pubblicato il 2 giugno 1979 sul «Quotidiano dei lavoratori» e il 5 giugno dello stesso anno su «Panorama». Dario Fo propone, senza molto successo, anche alcune letture pubbliche e, alla fine, il progetto, raccolto in volume nel 1992 dalla milanese Kaos, viene chiuso in un cassetto e rimane solo sulla carta. Così come non conosce le luci della ribalta un’altra idea scenica di Dario Fo sul sequestro e l’omicidio dello statista pugliese, questa volta intitolata «Il caso Moro e le sue varianti» e ambientata – si legge negli appunti del drammaturgo - in «uno strano ufficio, piuttosto vasto e imponente, con tanto di scrivania, poltrone e anche un grande televisore».
L’intellettuale lombardo non riesce, dunque, a dare forma a una storia che, tra processi e commissioni parlamentari, continua a mutare sotto i suoi occhi, ma che – si legge in un’intervista a Chiara Valentini - considera «qualcosa di cui è necessario parlare». Il «caso Moro» raccontato come «L’istruttoria» di Peter Weiss
Bisogna attendere il 1998, ventennale della scomparsa dello statista democristiano, un tempo necessario per far sedimentare le emozioni e i ricordi, perché i fatti della primavera del 1978 incontrino le assi di un palcoscenico con ben tre pièce.
Locandina del«Caso Moro» di Roberto Buffagni, spettacolo presentato a Parma nel 1998
Ma dieci anni prima, nel 1988, l’Accademia di studi storici Aldo Moro di Roma sceglie il linguaggio teatrale per ricordare il politico con il recital«Tempi nuovi si annunciano» di Cooperteatro 85 – Compagnia Il Baraccone, per la regia di Luigi Tani e con le musiche scelte da Antonio Di Pofi, che dà voce al pensiero del presidente della Dc sulla politica, i partiti, lo Stato, la società civile attraverso una selezione di suoi testi - articoli di giornali, interviste, discorsi per occasioni pubbliche e scritti in volume -, a cura di Andrea Ambrogetti, Mirella Belotti, Claudia Colonnello, Maria Paola Costantini, Andrea Declich e Rosanna Di Natale.
Nel mese di marzo del 1998 non solo il pensiero dello statista pugliese, ma anche i fatti della primavera del 1978 incontrano i legni di un palcoscenico e le luci della ribalta. Debutta a Parma, per iniziativa del locale teatro Stabile e della compagnia «La Contemporanea 83», «Il caso Moro» di Roberto Buffagni, per la regia di Cristina Pezzoli e con Sergio Fantoni nel ruolo del protagonista. Il dramma - concepito sul modello dell’oratorio in undici canti «L’istruttoria» (1965) di Peter Weiss, atto di denuncia contro i crimini nazisti e «teatro che racconta la Storia e fa la storia del teatro» – è basato sulla lettura di atti processuali, verbali di commissioni d'inchiesta parlamentari, lettere e scritti dello statista pugliese risalenti alla prigionia, fondi d'archivio televisivi, dibattiti e testimonianze audio e video sugli «anni di piombo». La materia – già allora «un mare di documenti», per usare le parole di Roberto Buffagni e Cristina Pezzoli in copione - è trattata anche in questo caso come una tragedia greca.
Spettacolo del teatro Stabile di Parma
Una decina di attori mettono in scena, in un ambiente che ricorda il cantiere di un edificio in costruzione con ponteggi e calcinacci, le differenti voci di questo dramma umano, da quella di Aldo Moro a quella dei terroristi accorpati nei cori degli «uomini rossi» e della «domanda insanguinata», da quella del presidente del Consiglio e dei parlamentari del tempo a quella di papa Paolo VI, senza dimenticare il punto di vista delle vittime della scorta e dei loro familiari.
A chiudere il racconto, prima dell’entrata in scena dell’angelo custode d’Italia, un personaggio di fantasia che è coscienza nostra e del Paese, sono alcune delle parole più conosciute di Aldo Moro, quelle citate nell’ultima lettera alla moglie dal carcere brigatista, datata 5 maggio 1978: «Tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta…Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali…come ci si vedrà dopo…se ci fosse luce sarebbe bellissimo».
Aldo Moro attraverso lo sguardo delle figlie Agnese e Maria Fida
Nel 2007 questa frase solleciterà anche la fantasia di un altro attore e drammaturgo, Giancarlo Loffarelli, che porterà in scena «i misteri del ‘caso Moro’» con la compagnia laziale «Le colonne» nel suo «Se ci fosse luce», spettacolo in parte mutuato dalle dichiarazioni del brigatista Alberto Franceschini (fondatore insieme a Renato Curcio delle Brigate rosse), in parte dalle testimonianze di Agnese Moro, una dei quattro figli del leader democristiano.
Giancarlo Loffarelli in «Se ci fosse luce (I misteri del 'caso Moro'»
In questo lavoro, che ha ricevuto una segnalazione della Giuria della XV edizione del Premio «Ugo Betti per la drammaturgia» di Camerino (2008) come «ottimo esempio di teatro-inchiesta», le vicende storiche si intrecciano a un ritratto intimo e privato dello statista, ben condensato in questa affermazione scritta per la presentazione del libro «Un uomo così» (Rizzoli, Milano 2008): Aldo Moro «era semplicemente mio padre, quello che mi portava l’acqua la sera quando ero a letto, quello che non era capace di aggiustare una lampadina e che, quando era lontano da casa, ci ricordava sempre di spegnere il gas. Era un tipo riservato e, quando andavamo al mare a Terracina, scendeva in spiaggia con la giacca e la cravatta».
Aldo Moro con la figlia Maria Fida e il nipote Luca. Foto di dominio pubblico
È una geografia dei sentimenti anche quella che, nel giugno del 1998, propone il teatro Biondo di Palermo con l’atto unico «L’ira del sole, un 9 di maggio» di Maria Fida Moro e Antonio Maria Di Fresco, per la regia di Antonio Raffaele Addamo. La primogenita dello statista democristiano, in scena con il figlio Luca Bonini Moro, che aveva appena due anni al momento del delitto e che sul palco canta la sua canzone «Venti di ricordi», conduce un dialogo ideale con il padre, rievocato grazie a una voce fuori campo. Mentre un coro da tragedia greca, che rappresenta i cinque agenti della scorta massacrati nell'agguato di via Fani, interseca il piano dei ricordi e del dolore personale con la dimensione del dramma sociale, sottolineando i momenti salienti dei cinquantacinque giorni più cupi della nostra storia attraverso le parole dei giornali. Il risultato è «un inventario di emozioni» – scrive Antonio Maria Di Fresco nel programma di sala -, che sceglie di raccontare «la cifra intima dell’uomo» Moro.
«Corpo di Stato», Marco Baliani racconta il delitto Moro
È del 1998 anche il debutto di uno degli spettacoli teatrali più conosciuti e apprezzati sul sequestro e sulla morte del politico democristiano, che vede in scena uno dei maggiori interpreti del teatro di narrazione italiano: «Corpo di Stato - Il delitto Moro: una generazione divisa», di e con Marco Baliani, per la regia di Maria Maglietta, trasmesso per la prima volta su Rai 2, in diretta televisiva, dai Fori imperiali di Roma e, in seguito, adattato per la scena.
Il monologo, corredato da un libro pubblicato nel 2003 da Rizzoli, racconta, con una prosa lucida e secca, la vicenda attraverso gli occhi dello stesso autore, un giovane militante di estrema sinistra con in testa il sogno di un mondo migliore, che ha addirittura avuto un momento di adrenalina alla notizia del rapimento, credendo imminente il «ribaltamento dello Stato borghese», ma che, con il passare delle settimane, deve fare i conti con i propri conflitti interiori. Dentro la coscienza di Marco Baliani, e di molti giovani della sua generazione, l’ideale della lotta rivoluzionaria non si concilia con la morte di un uomo. «Né con lo Stato, né con le Brigate rosse» è il vano tentativo di trovare una via d’uscita all’angoscia di quei giorni.
Copertina del libro «Corpo di Stato» di Marco Baliani (Rizzoli, Milano 2003)
Il testo intreccia la narrazione, ricca di ricordi personali e di «piccole storie che tentano di illuminare una storia più grande», con filmati d’epoca, testimonianze video, titoli di giornali, citazioni, canzoni, restituendo il clima degli anni Settanta: università occupate, manifestazioni, cortei, assemblee, lacrimogeni, posti di blocco e, infine, la telefonata di rivendicazione dell’uccisone di Aldo Moro.
Marco Baliani. Foto di Ivan Nocera
Il corpo senza vita del politico democristiano sulla Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a Roma, diventa il simbolo della morte di un sogno, la definitiva parola «fine» alle speranze di poter creare una società diversa. È il 9 maggio 1978 e un filo rosso collega quella strada del centro storico capitolino a Cinisi, un comune della cinta metropolitana di Palermo, dove nello stesso giorno viene trovato morto, per mano della mafia, Peppino Impastato, giovane militante di sinistra e conduttore radiofonico che, dalle frequenze di radio «Aut Aut», denunciava i crimini di «Cosa nostra» nella sua città. Uno dei tanti «fantasmi», con Aldo Moro, «a cui questo paese – racconta Marco Baliani nella presentazione - non è riuscito a dare vera sepoltura, dai morti della banca dell’Agricoltura, a quelli della stazione di Bologna, a quelli di Ustica e molti altri ancora. E per questo occorre continuare a dare voce e respiro al nostro passato prossimo».
Il «caso Moro» secondo Corrado Augias e Vladimiro Polchi
La stessa urgenza narrativa anima, nel 2007, Corrado Augias che, con Vladimiro Polchi, scrive, su invito dell’Istituto italiano di cultura in Parigi, «Aldo Moro. Una tragedia italiana».
Lo spettacolo vede la luce dopo due piccole produzioni: «Il corpo di Moro» (2003), lettura di una selezione di poesie di Rino Mele, per la regia di Nuccio Siano, e «La tragedia negata. Le Br, Moro e gli altri» (2005), una rielaborazione e adattamento di pagine scritte da ex-brigatisti e non solo, a cura di Luigi Albert, Nicola Pannelli, Francesco Ferrieri, per la regia di Nicola Pannelli e la produzione dell’associazione culturale «Narramondo» di Genova.
Corrado Augias e Vladimiro Polchi compongonouna vera e propria lezione di educazione civica, ma anche un reportage teso a ricostruire la storia drammatica dei «cinquantacinque giorni che hanno cambiato l’Italia». Firma la regia dello spettacolo, prodotto dai teatri Stabile della Sardegna e Eliseo di Roma, Giorgio Ferrara, uomo avvezzo alla scena che vanta collaborazioni con Luchino Visconti e Luca Ronconi.
«Aldo Moro. Una tragedia italiana» di Corrado Augias e Vladimiro Polchi. Foto di Tommaso La Pera
Alle lettere scritte dallo statista ai familiari e agli «amici» di partito nella cosiddetta «prigione del popolo», la pièce alterna i comunicati ufficiali delle Br, i punti di vista dei politici del tempo, i commenti e gli interrogativi di Leonardo Sciascia, autore del libro «L’affaire Moro», e di Pier Paolo Pasolini, che poco prima di morire, il 24 agosto 1975, dalle colonne de «Il Corriere della Sera», aveva invitato a processare la Democrazia cristiana. Il tutto è scandito da immagini tratte dai telegiornali d’epoca e da spezzoni di film come «Il caso Moro» (1986) di Giuseppe Ferrara, «Piazza delle Cinque Lune» di Renzo Martinelli (2003) e «Buongiorno notte» (2003) di Marco Bellocchio.
«Aldo Moro. Una tragedia italiana» di Corrado Augias e Vladimiro Polchi. Foto di Tommaso La Pera
Nello spettacolo di Corrado Augias e Vladimiro Polchi, Aldo Moro è interpretato da Paolo Bonacelli, navigato attore specializzato in personaggi del Teatro dell’assurdo e nelle tematiche dell’alienazione e dell’incomunicabilità care al Novecento pirandelliano, che, chiuso all’interno di una metaforica gabbia realizzata dallo scenografo Gianni Silvestri, restituisce il dramma umano dello statista pugliese, animato dalla speranza e dalla disperazione, dalla nostalgia per la famiglia e dalla lucida rabbia nei confronti dei suoi colleghi di partito. Mentre Lorenzo Amato è la voce narrante, l'imparziale cronista di una vicenda che, ieri come oggi, lascia aperti troppi interrogativi, uno su tutti: Aldo Moro poteva essere salvato?
«Polis o pietas?» Aldo Moro come Antigone
Questa domanda sottende anche alla trama dell’emozionante e coinvolgente monologo «Roma, Via Caetani, 55º giorno» del 2009, scritto e interpretato dalla giovane attrice e cantante Lucilla Falcone, nel quale la vicenda del sequestro e dell’omicidio del politico democristiano - ma anche la sua vita di professore universitario, di padre e di presidente del Consiglio ai tempi dell’alluvione di Firenze - viene raccontata attraverso lo sguardo pacato di tre donne alla ricerca della verità - «la figlia, la studentessa e la bambina» -, colpite dall’intensità emotiva delle lettere scritte nella cosiddetta «prigione del popolo».
Può la pietas verso un individuo prevalere sulle regole politico-giuridiche su cui si fonda lo Stato? Può un ricatto, quello delle Brigate rosse che vogliono fuori dal carcere alcuni loro compagni, essere accettato in nome della sacralità della vita? Queste domande sono al centro anche di «Dal buio un grido (Aldo Moro come Antigone)», un recital per l’adattamento e la regia di Giuseppe Emiliani, con Virgilio Zernitz, Cristina Sarti e Antonio Salines, nella parte dello statista, che va in scena in anteprima, nel novembre del 2011, al teatro Da Ponte di Vittorio Veneto.
Attraverso le lettere dalla cosiddetta «prigione del popolo», pagine tratte dei libri della figlia Agnese Moro e della brigatista Anna Laura Brighetti, documenti d’epoca (tra cui alcuni filmati), punti di vista dei politici del tempo e stralci dell’«Antigone» di Sofocle, collegati da brevi racconti cronachistici scritti da Giuseppe Emiliani, vengono ripercorsi gli ultimi giorni di vita del politico democristiano, ma soprattutto si riflette sulla «dicotomia tra legge di Stato e legge morale».
Il «caso Moro» tra opera lirica e musical
In quegli stessi anni in cui nel racconto teatrale è centrale l’annoso quesito «polis o pietas?», ovvero nel decennio tra il trentennale e il quarantennale della morte dello statista, vengono scritte anche tre opere liriche e un musical.
Nel 2008 debutta, al teatro dell’Elfo di Milano, «Non guardate al domani» di Filippo del Corno, oratorio su libretto del giornalista Angelo Miotto, che racconta i fatti della primavera del 1978 con lo stile della tragedia classica attraverso le sole parole dette e scritte all’epoca (lo stesso titolo è mutuato da una lettera a Benigno Zaccagnini del 24 aprile 1978). Lo spettacolo, coadiuvato dalla proiezione di immagini di repertorio scelte da Francesco Frongia, vede sul palco l’ensemble «Sentieri selvaggi», sotto la bacchetta di Carlo Boccadoro, insieme con i cantanti Roberto Abbondanza (Aldo Moro), Luigi Petroni, Mirko Guadagnini, Valentina Coladonato, Anna Maria Calciolari, Enrico Bava, Filippo Tuccimei e Giuseppe Maletto. Il progetto operistico ha una lunga gestazione; nella sua forma di studio l’oratorio «Non guardate al domani» era, infatti, stato selezionato, nel 2001, per la fase finale del concorso internazionale «Genesis Prizes for Opera» ed era stato presentato a Londra.
Nel 2011 è la volta di «Moro», «opera tragica in un atto e undici scene» su libretto di Marco Ongaro e con le musiche di Andrea Mannucci, presentata per la prima volta a Parigi, all'Eglise Réformée des Batignolles, con la regia di Luigi Cerri e per la direzione musicale di Andrea Battistini. Sul palco salgono Vincent Billier (Aldo Moro), Eva Ganizate, Xavier Mauconduit e Elisabetta Dambruoso. Lo spettacolo, che è anche una riflessione sulla solitudine di tutti noi davanti alla morte, vede lo statista pugliese rinchiuso nel covo delle Br, mentre duetta con un soprano-Cassandra e un tenore-Angelo, personificazioni rispettivamente della cultura laica e di quella religiosa. Tra sonorità atonali e note dagli echi rinascimentali, il racconto in musica, che dà, dunque, voce al «passaggio umano dalla prigionia corporale all’infinita libertà dell’essere», si chiude con l’ultima lettera di Aldo Moro alla moglie Noretta, «simbolo – raccontano gli autori - di un viaggio verso l'alto, che vede nell'Amore, l'unico elemento davvero importante».
In ordine di tempo, l’ultima opera lirica dedicata al «caso Moro» porta la data del 2016 e si intitola «Un’infinita primavera attendo». A scriverla è Sandro Cappelletto, mentre lo spartito è firmato da Daniele Carnini. La sera del 9 dicembre 2016 salgono sul palco del teatro Auditorium di Roma, per il debutto, i cantanti Daniele Adriani (Aldo Moro), Sabrina Cortese, Chiara Osella, Luca Cervoni, Clemente Daliotti, Giorgio Celenza, Giulia Balossino, Simone Ruggiero e Chiara Vinci, con la Roma Tre Orchestra, diretta da Gabriele Bonolis.
Presentato per iniziativa dell’Accademia filarmonica di Roma e dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Giovanni Treccani, in occasione dei cento anni dalla nascita del politico democristiano, il lavoro, che si avvale della regia di Cesare Scarton e che ha un disegno di Mimmo Paladino come immagine promozionale, «non è tanto la pedissequa ricostruzione della storia — spiegano gli autori - quanto la vicenda di un uomo politico in lotta contro un sistema di potere non interessato a soddisfare le vere e autentiche esigenze e aspirazioni del Paese».
Locandina dell'opera lirica «Un’infinita primavera attendo» di Sandro Cappelletto e Daniele Carnini, con disegno di Mimmo Paladino
L’opera lirica in un atto, dal forte impegno civile, non si sofferma, dunque, su quell’«inverno della politica italiana» che è stata la prigionia di Aldo Moro nel covo delle Brigate rosse, ma racconta la modernità di un pensiero, plasmato dall’idea del «compromesso storico» e dal costante interrogarsi sul senso del proprio impegno per il bene della Repubblica, attraverso discorsi, interviste, lettere e appunti, inviati e ricevuti, conservati all’Archivio centrale di Stato.
«Un’infinita primavera attendo». Foto di Giusto Carabella
«Nel palcoscenico - raccontano i due autori nel testo scritto per il programma di sala - ricostruiamo in piccolo una comunità che si sfalda, che volta le spalle al suo capo. Nessuno dei personaggi ha un nome. Ognuno ha sicuramente un lontano modello, che lo spettatore può cercare di indovinare. Tutti sono una funzione, sono le forze che hanno modellato la storia […] C’è una Segretaria, che incanala nel mondo reale l’attività intellettuale del Presidente. C’è uno Studente che cerca di avvicinarsi alla politica con ammirazione e diffidenza insieme. C’è un Senatore americano che crede – prima con blandizie, poi con ira – di poter disporre […] dell’Italia. C’è un Cardinale che mette il Presidente di fronte alle contraddizioni del suo essere cattolico […]. C’è un Politico italiano cui è affidata la definitiva archiviazione di quell’uomo e del suo linguaggio. C’è poi, più temibile di tutti, l’integerrimo Intellettuale […] con un vertiginoso atto d’accusa cui (forse) non è possibile rispondere se non con parole di dialogo, di apertura. Di fiducia. Anche mentre il mondo gli si rivolta contro, il Presidente non cede; attende un’infinita primavera, che va ben oltre la prigionia, tra marzo e maggio, del suo alter ego storico».
«Un’infinita primavera attendo». Foto di Giusto Carabella
L’anno successivo al debutto dell’opera «Un’infinita primavera attendo», il 2017, va in scena il musical«Piombo. Una canzone vi seppellirà» di Gipo Gurrado, che firma libretto, musiche, testi e regia. Punto di partenza dello spettacolo, realizzato dalla compagnia Odemà di Milano con Tiktalik Teatro, sono alcuni quesiti di difficile risposta: «Cosa avrei fatto io se avessi avuto venticinque o trent’anni nel 1978? Cosa avrei fatto se fossi stato un operaio della Siemens? Mi sarei unito alle proteste e alle lotte operaie? E se fossi stato un politico da che parte mi sarei schierato durante il caso Moro, con il fronte della fermezza o con chi chiedeva una trattativa? E se fossi stato un militante della lotta armata avrei avuto il coraggio di darmi alla clandestinità o sarei rimasto con la mia famiglia? E se fossi stato un ostaggio avrei implorato pietà o mi sarei mostrato forte e coraggioso? E se avessi avuto una pistola in mano alla fine avrei avuto il coraggio di sparare?». Queste domande, scritte dall’autore nella presentazione del musical, si trasformano in una rappresentazione, con cinque attori e due musicisti, che cerca di ricostruire la storia del sequestro e della morte di Aldo Moro attraverso i punti di vista di chi quella vicenda l’ha vissuta in prima persona: lo stesso statista e la moglie Noretta, ma anche i brigatisti Anna Laura Braghetti e Mario Moretti (sempre in scena con la sua macchina da scrivere, quella con cui redigeva i comunicati), un giornalista, dal fare macchiettistico, e un operaio, che vede tradito dalla violenza il suo sogno di un mondo migliore.
Una scena del musical «Piombo»
«Aldo Mor(t)o - Tragedia», la «miglior novità italiana» del 2012
Sempre nel decennio tra il trentennale e il quarantennale della morte dell’onorevole democristiano, il «caso Moro» viene raccontato da un punto di vista inedito, addirittura coraggioso. È il 2012 e un giovane interprete, che all’epoca dei fatti aveva poco meno di quattro anni, mette in scena uno degli spettacoli più originali sul sequestro e l’omicidio del politico democristiano. Quell’anno vede la luce il caustico «Aldo Mor(t)o - Tragedia» che l’attore e drammaturgo Daniele Timpano, classe 1974, scrive con la compagna Elvira Frosini a chiusura della trilogia «Storia cadaverica d’Italia», pubblicata da Titivillus editore, per la curatela di Graziano Graziani, e contenente anche i copioni degli spettacoli «Dux in scatola» (2005), su Benito Mussolini, e «Risorgimento pop» (2008), su Giuseppe Mazzini.
Una scena di «Aldo Mor(t)o - Tragedia», con Daniele Timpano. Foto di Laila Pozzi
In occasione dei trentacinque anni dalla morte dello statista pugliese, lo spettacolo viene corredato da un progetto inusuale, «Aldo Moro 54», che vede il performer capitolino rinchiudersi, dal 16 marzo all’8 maggio 2013 (molto prima della pandemia da Coronavirus), all’interno del teatro dell’Orologio di Roma, in una finta cella tre metri per uno (le stesse dimensioni di quella che avrebbe accolto il politico democristiano), connessa al mondo via web cam e social network. L’idea vale all’attore il premio Nico Garrone, che va ad aggiungersi ai due riconoscimenti ottenuti dallo spettacolo «Aldo Mor(t)o - Tragedia»: il Premio Rete critica 2012 e la candidatura al Premio Ubu 2012 quale «miglior novità italiana dell’anno».
Una scena di «Aldo Mor(t)o - Tragedia», con Daniele Timpano. Foto di Michele Tomaiuoli
Nella pièce, che è ancora oggi in cartellone, Daniele Timpano non ricostruisce i fatti accaduti tra il sequestro di via Fani e il ritrovamento del corpo senza vita in via Caetani, ma si confronta con l’impatto che il «caso Moro» ha avuto nell’immaginario collettivo e, mentre gioca con una piccola Renault 4 rossa telecomandata, simbolo dei cinquantacinque giorni, racconta, senza pietismo o attitudini agiografiche, le tante verità di una vicenda che ha segnato gli «anni di piombo». L’attore veste, di volta in volta, i panni degli sbadati cronisti sul luogo del sequestro, di una brigatista pentita diventata scrittrice di successo, di un figlio di Aldo Moro, dei parenti delle vittime e persino di Renato Curcio, l’«ideologo» delle Br, che si copre il volto con una maschera di Mazinga Zeta, offrendo così una riflessione sullo sciacallaggio postumo, a tratti morboso, a tratti opportunista, di cui è stato vittima il politico democristiano, trasformato dai suoi tanti narratori in una sorta di «santino della Repubblica».
Il «caso Moro» e le teorie complottistiche
Nello stesso anno del debutto di «Aldo Mor(t)o», il 2012, compare nei cartelloni teatrali anche «moro: i cinquantacinque giorni che cambiarono l’Italia» del magistrato Ferdinando Imposimato e dell’attore Ulderico Pesce, «con la ‘m’ minuscola nel titolo – si legge nella sinossi - a voler sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo ‘morire’. Come se la morte di Aldo Moro fosse stata ‘scritta’».
Nell’intenso monologo, una summa di tutte le «teorie complottistiche» sull’«affaire», la voce narrante è quella di Ciro, il fratello di Raffaele Iozzino, l’unico poliziotto della scorta del politico democristiano che, secondo le indagini balistiche, «riuscì a sparare due colpi contro i terroristi», prima di essere investito da diciassette spari e di morire nell’agguato di via Fani. Insospettito dalla versione ufficiale dei fatti e supportato da Arianna, la sorella di Francesco Zizzi, un altro uomo della scorta di Aldo Moro che la mattina del 16 marzo 1978 era al suo primo giorno di lavoro, il giovane inizia, nella finzione scenica, una sua personale inchiesta che lo porta a parlare con Ferdinando Imposimato, il giudice che ha seguito le prime inchieste sul sequestro e sulla morte del politico democristiano. La matassa da dipanare è intricata, ma ne esce una verità: «non l’hanno ucciso solo le Brigate rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato». Furono uccisi – ci racconta Ulderico Pesce – dalla volontà strategica di Francesco Cossiga e di Giulio Andreotti, in linea con l’ostracismo statunitense verso il dialogo del politico democristiano con i comunisti di Enrico Berlinguer.
Ulderico Pesce in «moro: i cinquantacinque giorni che cambiarono l’Italia»
Alle «teorie complottistiche» guarda anche un altro spettacolo che fa il suo debutto nel 2012: «Moro, la verità negata», di e con Carlo Infanti, un racconto lungo due ore, tra «intrighi» e «misteri mai svelati», scandito dalle canzoni di Fabrizio de Andrè, Vinicio Capossela, Federico Salvatore, Danilo Amerio e Giorgio Gaber (il cantautore di «Se io fossi Dio», un singolo del 1980, che fece scalpore per le dure critiche post mortem al politico democristiano). «Mia carissima Noretta», un «racconto emotivo» sul «caso Moro»
Proseguendo il percorso tra le rappresentazioni dedicate al «caso Moro», usando come filo conduttore l’ordine cronologico, si incontra, nel 2016, lo spettacolo «Mia carissima Noretta» della compagnia ArtiVarti di Portogruaro, con le musiche e per la regia dell’attore Max Bazzana, in scena con Stefano Rota, Marta Riservato e Martina Boldarin. Lo spettacolo ripercorre la storia degli «anni di piombo», anche grazie a filmati in bianco e nero, raccontando le lotte operaie, gli scontri studenteschi e il rapimento Moro. «La scena – spiega l’autore – è un non luogo, dove il politico si trova faccia a faccia con lo studente, il brigatista con i familiari delle vittime, l’operaio con il magistrato». Di grande suggestione è la scelta registica di intervallare la narrazione con lo spegnimento di cinquantacinque lumini, uno per ogni giorno del sequestro.
Nel 2016 viene proposta anche l’orazione civile «L’agguato – Del perché rapimmo Aldo Moro», di e con il giornalista Pino Casamassima, uno dei più lucidi studiosi dell’eversione di sinistra, autore in quegli anni dei libri «Troveranno il corpo» (Sperling & Kupfer, Milano 2015) e «Attacco al cuore dello Stato» (Salerno editrice, Moro 2016), che racconta la morte del politico pugliese, «un regicidio che continua a inquietare».
Mentre nel 2017 vede la luce il monologo «Chi ha paura di Aldo Moro», una produzione del Collettivo Teatro Prisma di Bari, scritto e diretto da Giovanni Gentile, con in scena Barbara Grilli. Lo spettacolo non è una fredda ricostruzione dei fatti, ma un racconto emotivo composto da più punti di vista, quelli – si legge nella presentazione - di «un padre di famiglia, politico per professione e per passione, una ragazza appena laureata in Filosofia, un operaio della Siemens, un maresciallo dei carabinieri ligio al suo dovere, un governo che ‘non s’ha da fare’». Ne esce il ritratto di una generazione, che «da una parte e dall’altra della barricata, sconta ancora oggi lutti e dolori».
«55 giorni», la primavera del 1978 per Massini e Zingaretti
Il 2018, l’anno del quarantennale della morte del politico democristiano, vede sotto i riflettori un numero impressionante di spettacoli, quasi tutti ancora in cartellone, che raccontano i fatti della primavera 1978 da più punti di vista, alcuni dei quali inediti e originali.
Luca Zingaretti nell'orazione civile «55 giorni»
È il caso dell’orazione civile «55 giorni: l’Italia senza Moro», tratta dall’omonimo libro di Stefano Massini, edito dalla casa editrice Il Mulino di Bologna, che Luca Zingaretti, nella duplice veste di attore e regista, propone nella sera dell’8 maggio 2018 su Rai 1. Lo spettacolo, che vede in scena anche l’attrice Alessia Giuliani e Arturo Annecchino al pianoforte, è ambientato simbolicamente in una silenziosa e vuota via Caetani e si chiude con l’ultima lettera dello statista pugliese alla moglie Noretta, quella con le parole «bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli», recitata accanto alla Renault 4 (oggi conservata dalla Polizia di Stato) in cui fu trovato il corpo senza vita del politico democristiano.
Luca Zingaretti nell'orazione civile «55 giorni»
L’orazione civile, che si apre con immagini di repertorio e la registrazione della telefonata al giurista Francesco Tritto nel corso della quale Valerio Morucci annuncia la morte di Aldo Moro, riavvolge il nastro e ripercorre i cinquantacinque giorni dal 16 marzo al 9 maggio 1978 con uno sguardo nuovo, tratteggiando un affresco di quello che avviene nel nostro Paese mentre il presidente della Dc è chiuso nella cosiddetta «prigione del popolo».
In quelle settimane, raccontate anche attraverso fotografie e filmati d’epoca, Corrado continua a fare compagnia agli italiani dagli studi di «Domenica In». Maurizio Costanzo chiede a tutti «che cosa c’è dietro l’angolo?». Alighiero Noschese fa sorridere con le sue imitazioni nello show «Ma che sera». In Parlamento si vota la legge sull’aborto e si discute la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi. Rino Gaetano, in frac e scarpe da tennis, canta «Gianna», mentre Raffaella Carrà intona «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Nanni Moretti porta al cinema il suo «Ecce bombo» e sul piccolo schermo vengono trasmesse «Le avventure di Pinocchio» di Luigi Comencini. Sui campi di calcio primeggia la Juventus. Nei cieli si avvistano gli Ufo e Alan Sorrenti canta «Figli delle stelle». Una nota di cronaca riporta – sempre il 9 maggio 1978 – la notizia di un’esplosione sui binari della ferrovia tra Cinisi e Palermo, forse un attentato terroristico. C’è un morto. È Peppino Impastato. Ci vorranno vent’anni per scoprire il colpevole: la mafia. L’Italia, concludendo, continua a vivere pur sentendosi sospesa in una parentesi di tempo.
L’orazione civile, prodotta da Bibi Film Tv – Zocotoco, propone allo spettatore anche l’«Inno alla carità» di San Paolo di Tarso (la prima lettera ai Corinzi, quella sull’amore e sullo stile del servizio cristiano), alcuni articoli profetici di Mino Pecorelli per «Op» e la lettera che Pier Paolo Pasolini invia, il 14 novembre 1974, a «Il Corriere della Sera», nella quale scrive, denunciando un’intera classe politica: «Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (..). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so […] Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi».
Riflettori puntati sulla scorta di Moro
Aldo Moro con il capo-scorta Oreste Leonardi. Foto di dominio pubblico
Nel 2018, un altro punto di vista originale è quello offerto dallo spettacolo «L’ombra di Moro» di Patrizio J. Macci, reading diretto e interpretato da Pino Calabrese, con le musiche originali di Roberto Formentini e le video proiezioni di Gianluca Abbate, dedicato alla storia di Oreste Leonardi, il capo-scorta di Aldo Moro, «il suo uomo di fiducia nei momenti di lavoro e di tensione come negli attimi di svago», scrive Mario Calabresi. «L’intento dello spettacolo - si legge nella presentazione - è quello di dar voce attraverso di lui a tutti gli altri, poliziotti, carabinieri e uomini di ogni arma che hanno fatto della loro vita l’ultimo baluardo della difesa di qualcosa nella quale hanno creduto o hanno dovuto credere, cosicché il loro eroico sacrificio non venga mai dimenticato».
Copertina del libro «Gli eroi di via Fani» di Filippo Boni
Nel 2018, agli uomini che persero la vita in via Fani - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - è dedicato anche «Gli eroi dimenticati», spettacolo per la regia di Roberto Vitale, con Sofia Vitale, Federico Zovva e Filippo Boni. I fatti della primavera del 1978 vengono raccontati attraverso la figura di un anziano poliziotto, Francescantonio Vitale, comandante, negli «anni di piombo», della Polizia frontiera marittima di Trieste e, nella seconda metà degli anni Cinquanta, agente in servizio al Commissariato Vescovio di Roma, dove «incrociava Aldo Moro, un uomo – si legge nella presentazione - che in molti poliziotti chiamavano ‘penna bianca’ per il suo precoce ciuffo bianco tra i capelli».
Una scena dello spettacolo «Lo stato delle cose: Gli eroi di via Fani», per la regia di Teresa Cerere. Foto di Francesco Schiavone
La pièce è mutuata dal libro «Gli eroi di via Fani» (Longanesi, Milano 2918) del giornalista e storico di formazione Filippo Boni, che restituisce voce agli uomini della scorta di Aldo Moro e alle loro storie fatte di «povertà, fatica, lavori manuali e sveglie all’alba», attraverso i ricordi dei familiari, «componendo – si legge nella presentazione - uno straordinario affresco di un’Italia semplice e vera, che resistendo alle atrocità della storia si ostina a guardare al futuro».
Questo volume, con prefazione di Mario Calabresi, è lo spunto anche per lo spettacolo «Lo stato delle cose: Gli eroi di via Fani», per la regia di Teresa Cerere, con Federico Vigorito e David Marzi, quest’ultimo autore anche della riduzione scenica, che è stata rappresentato, in anteprima, nel marzo 2023 al teatro Sociale di Fasano, in Puglia, per iniziativa dell’associazione SenzaConfine.
«Spiriticchio», in scena il fioraio di via Fani
Una scena di «Spiriticchio. Il fioraio di via Fani». Foto: Manuela Giusto
Tra le rappresentazioni sceniche che offrono nuovi sguardi sui fatti della primavera del 1978 c’è anche «Spiriticchio. I fiori di Aldo Moro» (2022), spettacolo per ragazzi di Giovanni Chianelli e Giovanni Conforti, per la regia di Maurio Autore, con Ettore Nigro e il musicista Francesco Capriello, prodotto da Piccola Città Teatro – Associazione culturale Teen Theatre di Napoli.
A raccontare i fatti è Antonio Spiriticchio, un fioraio ambulante di Roma che tutte le mattine, a eccezione del lunedì (il suo giorno di riposo), si reca in prossimità dell'incrocio tra via Fani e via Stresa con il suo furgone Ford Transit, targato Roma R62867, per vendere fiori. Ma la mattina del 16 marzo 1978 il fioraio non è tra i testimoni del sequestro di Aldo Moro perché, la notte precedente, le ruote del suo veicolo sono state tutte e quattro tagliate. «Vandali, pensa» all’alba di un giorno senza lavoro. Ma la cosa, come capirà qualche ora dopo, è più grave: qualcuno ha cercato di non farlo essere d’intralcio durante quella che passerà alla storia come l’«operazione Fritz», il nome in codice dato dalle Brigate rosse al rapimento di Aldo Moro.
Una scena di «Spiriticchio. Il fioraio di via Fani». Foto di Manuela Giusto
Circondato dai fiori che gli fanno compagnia ogni giorno, Antonio Spiriticchio, un uomo, semplice, mite e dagli occhi ingenui, interpretato in scena da Ettore Nigro, racconta al pubblico «il suo mestiere, fatto di routine dura e poco redditizia, a contatto con le persone normali, mentre serve i clienti spiegando cosa significhi davvero un crisantemo o un narciso». Il fioraio ascolta la radio. Legge i giornali. Racconta i fatti di quei giorni angosciosi e, con il suo romanesco popolare, si interroga: «Chissà moando’ stà por omo, perché sarà pure presidente, ma dico, è pur sempre n’omo?».
Una scena di «Spiriticchio. Il fioraio di via Fani». Foto di Manuela Giusto
Il linguaggio simbolico dei fiori diventa così la chiave per narrare una storia di cui ancora oggi ci sfuggono i particolari, perché i fiori, come una premonizione, ci sono sempre stati nel «caso Moro». Raffaele Fiore è il nome di uno dei brigatisti in via Fani. Un mazzo di fiore è il segnale con cui una giovane militante, Rita Algranati, indica il passaggio delle automobili della scorta e dà il via al rapimento. «Dei petali vengono trovati sul corpo senza vita» dello statista pugliese. E i fiori sono l’unico modo in cui Antonio Spiriticchio, simbolo di tutti quelli che non c’erano in via Fani, può intrecciare la sua «piccola storia» alla «storia grande, che – raccontano Giovanni Chinelli e Giovanni Conforti nella presentazione - si mette in moto, inesorabile, calpestando tutti come schiacciasassi su un prato fiorito».
La nuova generazione di drammaturghi e il «caso Moro»
Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellelli
Dal linguaggio poetico ed emotivo del lungo «soliloquio» di Ettore Nigro si passa, sempre nel 2022, a quello fantasioso di «Roma N5. Aldo Moro: un’altra storia», spettacolo per la regia e la riduzione scenica di Salvatore Poleo, con Francesca Rifici, Beppe Bianchi, Riccardo Grilli e Fabrizio Orlandini, prodotto dall’associazione Astrolabio di Vigevano. La pièce, liberamente tratta dall’omonimo libro auto-pubblicato di Stefano Bellati, riscrive la storia. Siamo nell’aprile del 1986. Aldo Moro è stato liberato dalle Brigate rosse e ora sta per essere eletto presidente della Repubblica. In un penitenziario incontra due suoi carcerieri e, tra slogan ed emozioni, rivive con loro i fatti della primavera del 1978. Emerge chiara la tragedia di un uomo che ha visto crollare il suo ideale di politica come servizio per gli altri.
Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellelli
Ritornando al 2018, l’anno del quarantennale dalla morte di Aldo Moro, debutta anche «Io ci sarò ancora», spettacolo della compagnia «Il piccolo resto» e dell’associazione «L’AltraItalia» di Lanciano, per la regia di Eva Martelli e le musiche di Armando Minutolo, con in scena Paolo Sideri e Marco Bellelli, quest’ultimo autore anche del testo drammaturgico.
Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellell
La pièce, che gode del patrocinio del Senato della Repubblica, si configura come un dialogo sui cinquantacinque giorni che mette a confronto due differenti generazioni, quella di un giovane di oggi e quella di un bambino degli anni Settanta, per raccontare il trauma di un Paese di fronte a quella che Mario Luzi chiama «la sconcia stiva», il bagagliaio della Renault 4 targata Roma N57686.
Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellell
Il titolo dello spettacolo è mutuato da una lettera del politico democristiano a Benigno Zaccagnini del 24 aprile 1978: «[…] Non creda la Dc di aver chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della Dc si faccia quello che se ne fa oggi».
Sempre nel 2018 la compagnia Teatro Boxer di Padova, guidata da Andrea Pennacchi, firma la produzione dello spettacolo «La ferita nascosta, come ho conosciuto Aldo Moro, i suoi assassini e quella foto lì», per la regia di Gigi Dall’Aglio, storico fondatore del teatro Stabile di Parma, con il musicista Matteo Campagnol e l'attore Francesco Gerardi, quest’ultimo autore anche della drammaturgia.
La rappresentazione, che si avvale della consulenza del giornalista e politico Gero Grassi, ex membro della seconda Commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e sull'uccisione di Aldo Moro, racconta – si legge nella presentazione - «esclusivamente fatti accertati e comprovati dalla Magistratura» per condurre il pubblico «nel vortice di una storia in cui è difficile fare chiarezza».
Una scena de «La ferita nascosta, come ho conosciuto Aldo Moro, i suoi assassini e quella foto lì»
L'espediente narrativo è curioso: capitato per caso sul set di un film su Aldo Moro, il protagonista rivive il disagio che tanti anni prima, da bambino, viveva alla vista della famosa fotografia con la stella a cinque punte. In un clima inizialmente leggero, decide di raccogliere informazioni sulla storia di quell’immagine e in breve tempo si rende conto che – si legge nella presentazione - «la sua ferita nascosta è la «ferita nascosta di un intero Paese».
Dal monologo si passa alla forma dialogica con «Aldo Moro: una vita per la democrazia compiuta» (2021) di Salvatore Tomai, un docu-reading con musiche dal vivo a cura di Andrea Paciletti, prodotto da Terra Magica Arte Cultura di Taranto, che vede sul palco il regista Massimo Cimaglia, nel ruolo dello statista pugliese, e Alessandro Calamunci Manitta, nelle vesti di un giovane brigatista.
Una scena de «La ferita nascosta, come ho conosciuto Aldo Moro, i suoi assassini e quella foto lì»
La scena teatrale, ideata da Paolo Iraci, è «volutamente scarna e simbolica», e «distingue – si legge nella presentazione - due spazi: una sorta di gabbia di legno che rappresenta il luogo claustrofobico della prigionia e un tavolo in cui sono raccolti elementi passati alla storia come la Polaroid, la macchina da scrivere e il registratore delle Brigate rosse».
Lo spettacolo - che traccia una sorta di «Memoriale ideale» di Aldo Moro attraverso le sue lettere, i suoi scritti e i suoi discorsi - non si sofferma solo sui fatti della primavera del 1978, attraverso video storici e scene recitate, ma rievoca anche i luoghi in cui, a Taranto, è avvenuta la formazione intellettuale e spirituale dello statista pugliese. Quell’educazione che lo ha, poi, portato a dare vita – si legge nella presentazione – a «un laboratorio politico in cui le parole chiave erano: dialogo, ascolto, inclusione, democrazia, partecipazione, bene comune».
Massimo Cimaglia in «Aldo Moro: una vita per la democrazia compiuta»
Le parole dello statista pugliese sono al centro anche di «55 lettere» (2019), spettacolo scritto, diretto e interpretato da Alessio Binetti, che racconta «Moro tra fede e amore». Mentre «La solitudine del re» (2022) di Mauro Monni mette sotto i riflettori la consapevolezza dell’uomo di potere abbandonato al proprio destino tracciando un ritratto quasi shakespeariano dello statista. In questa lettura, il deputato pugliese è descritto – si legge nella presentazione - come «un Riccardo III dei giorni nostri destinato al martirio nel nome della fermezza istituzionale, condannato da una giustizia miope cercata nell’uso di armi e violenza destinata inevitabilmente alla sconfitta e all’oblio».
Mauro Monni in «La solitudine del re»
In questo ultimo periodo, dal 2021, la storia del «caso Moro» è stata raccontata anche attraverso visite guidate teatralizzate, per la regia del quarantenne Luca Basile, promosse da «I viaggi di Adriano» con la compagnia «Fenix1530 Luca Basile Production». Attraverso registrazioni audio, stralci di telegiornali, letture di lettere, musiche dei Virginiana Miller e «nuove scottanti rivelazioni» si offre allo spettatore un’esperienza di teatro en plein air nella Roma del ghetto ebraico, a pochi passi da via Caetani, «dove – raccontano gli organizzatori -, negli «anni di piombo» e della «guerra fredda», avevano sede i servizi segreti di tutti Paese».
Di tappa in tappa, da largo Argentina a piazzetta Mattei, la scena si fa sempre più carica di pathos e si affolla di tanti nuovi personaggi: l’ambasciatore americano Alan Campbell, il boss della mafia italo-americana Frank Coppola, esponenti dello Ior (la banca del Vaticano), il criminale comune Giustino De Vuono e anche qualche brigatista, tutti contro Aldo Moro e la sua politica di apertura nei confronti del Partito comunista.
«Se ci fosse luce», gli «anni di piombo» e il libero arbitrio
Nell’ormai lungo elenco delle produzioni teatrali dedicate ai fatti della primavera del 1978 ci sono anche spettacoli freschi di debutto, quasi tutti caratterizzati dal fatto che i loro autori hanno un’eco infantile di ricordi e un bagaglio di racconti riferiti, talvolta anche romanzati, in merito agli avvenimenti che uniscono due strade di Roma, via Fani e via Caetani, con una lunga scia di sangue.
Immagine promozionale del nuovo spettacolo di Marco Bisciaio
È il caso di «Tutti credettero che l’incontro tra i due giocatori di scacchi fosse casuale» (Gualdo Tadino, 16 marzo 2023), spettacolo di e con Marco Bisciaio, che utilizza come titolo una frase tratta dalle «Finzioni» di Jorge Louise Borges, ripresa da Leonardo Sciascia nel libro «L'Affaire Moro», e che, con una narrazione in bilico tra «leggerezza e tensione scenica», offre una panoramica sui fatti salienti del 1978, dal sequestro dello statista pugliese alla vittoria dell’Argentina ai Mondiali di calcio.
Fresco di debutto è, poi, «Aldo Moro e Peppino Impastato, per amore della politica» (Crema, 9 maggio 2023), di e con Giorgio Putzolu, racconto di due vite accomunate dal «senso del dovere e della giustizia».
Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia
Ha appena incontrato il calore del pubblico anche lo spettacolo «Se ci fosse luce» (Bologna, dal 28 marzo al 2 aprile 2023; Lugano, 22 e 23 aprile 2023), di e per la regia di Francesca Garolla, autrice milanese attiva sulla scena italiana e francese, recentemente selezionata nel progetto europeo Fabulamundi – Playwriting Europe. Prodotta da Lac – Lugano arte e cultura con Emilia Romagna Teatro Ert /Teatro nazionale, la pièce chiude una trilogia sulla libertà di scelta o negata, che in passato ha visto in scena «Tu es libre» e «Per la vita», e si configura come una riflessione su quanto le ferite del passato lascino traccia nel nostro presente.
Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia
Sul palco, in una scenografia spoglia, da obitorio o da interrogatorio poliziesco, abitata solo da un tavolo in ferro, ci sono quattro personaggi: «due uomini e due donne: un latitante, che è anche un padre; una figlia, che è anche una madre; una giudice, che è anche una donna; un uomo, che è anche un assassino», si legge nella presentazione. Gli attori Angela Dematté, Anahì Traversi, Giovanni Crippa e Paolo Lorimer interpretano, dunque, due vittime e due colpevoli di una stagione, quella degli «anni di piombo», la cui eredità sembra condizionarci ancora e che «ognuno di noi porta dentro di sé».
La narrazione, arricchita da foto d’epoca e frammenti storici, prende avvio dalla famosa telefonata del brigatista Valerio Morucci al giurista Franco Tritto, quella del 9 maggio 1978 in cui si comunica l’avvenuta esecuzione di Aldo Moro, non tanto per ricostruire la storia dei cinquantacinque giorni della prigionia del politico democristiano quanto per indagare sulle conseguenze, personali e collettive, di un’azione violenta compiuta consapevolmente, di un gesto che è «mano di un pensiero».
Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia
«Quali sono le ferite inflitte al futuro, che non siamo in grado di guarire nel presente? Come influisce su di noi e sugli altri ciò che facciamo o che subiamo? Qual è il prezzo delle nostre azioni? Cosa lasceremo ai nostri figli? Cosa lasceremo ai figli dei nostri figli? ‘Se ci fosse la luce, sarebbe bellissimo’, scriveva Aldo Moro. Ma se non ci fosse la luce, qualcuno avrebbe pietà delle nostre colpe?»: si e ci domanda, nelle note di regia, Francesca Garolla.
Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia
Attraverso una struttura che segue, in maniera trasfigurata, le fasi di un processo, dall’antefatto alla sentenza, l’autrice prova a dare risposta, proponendo – si legge nella presentazione dello spettacolo - «un nuovo modo di leggere la storia, di venire a patti con essa. Nella convinzione che sia necessario allontanarsene senza per forza dimenticare, condannare o perdonare, per poter dare finalmente buona sepoltura a tutti i morti, reali e metaforici, di quegli anni».
«Con il vostro irridente silenzio», Gifuni e gli scritti di Moro
Negli ultimi anni, tra le tante voci che con più o meno attenzione alle ricostruzioni storiche e rispetto per il dramma umano di sei famiglie, stanno raccontando il «caso Moro» a teatro, immergendosi in quella che alcuni storici - racconta Alessandro Barbero – hanno definito «una dimensione orribile, fatta quasi esclusivamente di morti ammazzati e di menzogne», brilla come una stella polare la voce di Fabrizio Gifuni con il suo monologo «Con il vostro irridente silenzio», il cui titolo è tratto da una lettera, mai recapitata, di Aldo Moro a Benigno Zaccagnini, il segretario del suo partito.
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
L’attore romano, che ha vestito i panni del leader democristiano anche al cinema in «Romanzo di una strage» (2012) di Marco Tullio Giordana e nel film in sei episodi «Esterno notte» (2022) di Marco Bellocchio, porta in scena uno «studio sulle lettere dalla prigionia e il Memoriale di Aldo Moro», che si avvale della preziosa consulenza degli storici Francesco Biscione e Miguel Gotor e che è diventato in un secondo tempo, nell’ottobre del 2022, anche un piccolo, ma prezioso libretto di un centinaio di pagine, edito da Feltrinelli.
Presentato per la prima volta agli spettatori, in forma di lettura pubblica, il 9 maggio 2018 alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, in occasione del Salone del libro di quell’anno, diretto da Nicola Lagioia, lo spettacolo ripercorre i cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 avvalendosi delle sole parole che il deputato pugliese scrisse all’interno della cosiddetta «prigione del popolo», evitando così ogni lettura agiografica e ogni tentazione di ricostruzione storica tesa a far girare a vuoto «la macchina dei sospetti».
Queste parole – presentate da Fabrizio Gifuni come «una sorta di meteorite piovuto sul nostro presente da un altro tempo e da un altro spazio» (p. 14) - formano un materiale corposo: si tratta di 419 fogli, di cui 245 pagine di Memoriale e circa una novantina di lettere, fotocopie dai manoscritti originali, mai reperiti, così come i nastri con le registrazioni dell’interrogatorio nel cosiddetto «tribunale del popolo».
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Di questa mole di scritti, vengono diffuse, nella primavera del 1978, solo ventotto missive, delle quali otto vengono pubblicate dai media e quindi rese note all’opinione pubblica, quattro per iniziativa dei brigatisti e altrettante per scelta dei destinatari, che erano il presidente della Repubblica Giovanni Leone, Bettino Craxi e la moglie Eleonora Chiavarelli Moro.
Insieme alle lettere vengono diffusi scarsi brani di «memorie difensive», in tutto otto pagine dedicate al senatore democristiano ed ex partigiano bianco Paolo Emilio Taviani, in quel frangente un personaggio apparentemente di secondo piano sulla scena politica italiana, ma ferreo sostenitore della ragione di Stato e quindi della «linea della fermezza», che si scoprirà in seguito, negli anni Novanta, essere stato il vero fondatore e il responsabile in Italia della struttura segreta «Stay Behind» («stare dietro») di matrice atlantista, da noi più conosciuta con il nome di «Operazione Gladio». Queste pagine, definite da Giulio Andreotti nei suoi Diari «un forte attacco autografo di Aldo a Taviani», vengono diffuse dalle Br allegate al comunicato n. 5, quello recapitato il 10 aprile 1978 e trovato, in seguito a una telefonata alla redazione de «La Repubblica», all’interno di un cestino dei rifiuti in via Palestro a Milano.
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Il resto del materiale viene rinvenuto, in due momenti distinti, nel covo brigatista di via Monte Nevoso, nello storico quartiere meneghino di Lambrate. La prima parte degli scritti – un «magro bottino» di sessantotto pagine, tra lettere già note, poche missive mai recapitate e quarantanove fogli battuti a macchina (attribuibili, dunque, a chiunque) - viene trovata nell’ottobre del 1978 dal Nucleo speciale anti-terrorismo, presieduto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il grosso della documentazione, questa volta fotocopie degli originali autografi (un non discutibile «sigillo di autenticità»), viene rinvenuto dodici anni dopo, il 9 ottobre 1990, durante dei lavori di ristrutturazione all’appartamento, da un muratore dietro a un’intercapedine, «un piccolo muro di Berlino in cartongesso» (p. 29), scrive nel libro Fabrizio Gifuni.
In quei giorni di solitudine e di terrore, rinchiuso nella cosiddetta «prigione del popolo», Aldo Moro è, dunque, «un fiume di parole inarrestabile», come giustamente racconta l’attore romano, classe 1966, nella presentazione del suo spettacolo. L’onorevole pugliese «parla, ricorda, scrive, risponde, interroga, confessa, accusa». Nelle sue lettere si rivolge «ai familiari, agli amici, ai colleghi di partito, ai rappresentanti delle istituzioni». Mentre scrive febbrilmente, con una lingua chiara e colta, «un lungo testo politico, storico, personale – il cosiddetto Memoriale – partendo dalle domande poste dai suoi carcerieri», annota anche brevi disposizioni testamentarie, consapevole che la sua situazione si fa sempre più precaria.
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Queste pagine subiscono, nel corso degli anni, una doppia dannazione. Nella primavera del 1978, quel poco che viene diffuso dalle Brigate rosse, viene mistificato, deriso, attaccato frontalmente e, infine, silenziato. I politici italiani e la stampa si affannano a dichiarare che queste missive dalla prigionia sono opera di un «pazzo» o di un drogato o comunque sono prive di valore perché risultanti da una costrizione, sono cioè opera di una persona vittima della sindrome di Stoccolma. Aldo Moro legge queste dichiarazioni sui giornali e, il 27 aprile 1978, risponde con una lettera indirizzata alla Democrazia cristiana, dando voce al proprio «sdegno per quest’ulteriore crudele tortura»: «È vero – scrive l’onorevole pugliese -: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio».
Oggi, seppure gli scritti morotei, un corpus di grande pregio stilistico e di nobile levatura politica, siano reperibili in rete e siano raccolti in preziose edizioni critiche (gli ultimi volumi sono stati pubblicati nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, per quanto riguarda le lettere e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo, in riferimento all’intero Memoriale), in pochi hanno avuto voglia di leggere le parole di Aldo Moro, in molti hanno preferito dimenticarle, facendole cadere così in un secondo «irridente silenzio».
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Fabrizio Gifuni le ha lette con attenzione e, dopo aver operato opportuni tagli e piccoli aggiustamenti per rendere queste carte più facilmente comprensibili anche a chi non ha vissuto la stagione degli «anni di piombo», ha deciso di portarle sul palco per vedere se hanno ancora una eco nelle nostro coscienze, o meglio – si legge nel libro edito da Feltrinelli – «per verificare […] se questo corpo è ancora in grado di produrre una temperatura e un campo magnetico significativo o se al contrario dovremmo concludere di trovarci in presenza di un corpo freddo e perduto nel tempo» (p.14).
Per dare il maggior risalto possibile alle parole morotee, che Fabrizio Gifuni definisce «lo scritto più nudo e scabro della storia d’Italia», è stata ideata una scenografia essenziale. Un perimetro bianco, abitato da tanti fogli sparsi, viene, di sera in sera, disegnato sul palcoscenico, dove trovano posto anche un leggio, un microfono, un tavolino, una sedia e un mucchietto di polvere di gesso, da mettere sul capo per ricreare, con una piccola azione rituale, la celebre frezza bianca di Aldo Moro e dare il via a un «esperimento» - riuscito - di teatro civile, o meglio di teatro che fa politica, per dare voce a una «presenza fantasmatica» (p. 11) che ancora oggi occupa il palcoscenico della nostra storia e riannodare così i fili che legano il passato al presente.
Con gesti misurati e il solo modulare della voce, Fabrizio Gifuni mette sotto l’occhio di bue tutto l’«arcobaleno» (p. 24) di pulsioni umane provate dal politico democristiano durante la prigionia, dalla rabbia allo struggimento, dalla tenerezza alla disperazione, dalla compassione alla violenza, dalla mitezza al disprezzo.
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Con una voce spesso dolente, altre volte rabbiosa o amaramente ironica, l’attore romano mette gli spettatori faccia a faccia con le ferite non ancora risanate della storia italiana perché, all’interno della cosiddetta «prigione del popolo», lo statista pugliese riavvolge il nastro, risponde alle domande dei suoi carcerieri e, come in un vero e proprio Mémoires, riflette su quello che ha visto mentre navigava nel mare periglioso della politica.
Aldo Moro parla di tutto: dalla strategia della tensione alla pista nera per la strage piazza Fontana (con la compiacenza della Dc), dai finanziamenti illeciti ai partiti al ruolo degli ambasciatori americani a Roma, dalla crisi della politica alla strategia anti-guerriglia della Nato, dalla supremazia di alcuni gruppi editoriali nella gestione del flusso delle notizie al suo pensiero - tagliente come una lama di coltello - sui colleghi di partito, a partire dal «dolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione» Benigno Zaccagnini e dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, descritto come «un registra freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana […] indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria […] il male».
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Nelle pagine morotee, bramose di vita e di verità, che Fabrizio Gifuni porta in scena, con grande passione civile, è drammaticamente palpabile la solitudine di un uomo di potere vittima di «un grande tradimento shakespeariano» che non riesce a comprendere e accettare: «La mia allucinante vicenda – scrive Aldo Moro - mi ha dato l’impressione di essere rimasto senza amici»; «Pur con tutte le mie colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni».
In questi fogli si distingue anche la premura per le piccole cose: «Ad Agnese vorrei chiedere di farti compagnia la sera, stando al mio posto nel letto e controllando che il gas sia spento […] Tramite Rana, bisognerebbe cercare di raccogliere cinque borse che erano in macchina», «Filmetti e foto del piccolo sono nella mia scrivania in studio», «Spero che, mancando io, Anna ti porti i fiori di giunchiglie per il giorno delle nozze», scrive Aldo Moro alla moglie.
Non manca tra le righe morotee l’invettiva politica, anche carica di acuminata ironia: «Il mio sangue ricadrà su di voi», «Non creda la Dc di aver risolto il problema […] io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa», «Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti», scrive Aldo Moro ai colleghi di partito.
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
In queste lettere c’è anche l’amore per la famiglia: «Ti ho voluto tanto bene, Agnesina, che ho concorso a tirar su con il suo chilo e ottocento grammi, dosando goccia a goccia con il cucchiaino il latte che non potevi succhiare»; «Caro Luca, non so chi e quando ti leggerà […] la lettera che ti manda quello che tu chiamavi il nonnetto. L’immagine sarà certo impallidita, allora. Il nonno del casco, il nonno degli scacchi, il nonno dei pompieri della Spagna, del vestito di torero, dei tamburelli. […] Il nonno che ti metteva la vestaglietta la mattina, ti dava la pizza, ti faceva mangiare sulle ginocchia. […] Continua ad essere dolce, buono, ordinato, memore, come sei stato. […] E quando sarà la stagione, una bella trottata con i piedini nudi sulla spiaggia e uno strattone per il tuo gommoncino».
Queste carte, scritte tra il 27-29 marzo e il 5 maggio 1978, delineano, dunque, un ritratto inedito e vibrante del politico pugliese. Aldo Moro non è più «il santino della Repubblica», ma è un rappresentante delle istituzioni con le sue luci e le sue ombre, che si è trovato di fronte a vicende così abitate dal «male» da dover distogliere lo sguardo. Non è più un «corpo di Stato», privato dalla Brigate rosse non solo della vita, ma anche di tutto ciò che era avvenuto prima di quella scellerata esecuzione, capace di prendersi con prepotenza la scena finendo così per offuscare un’eredità politica di alto profilo e una storia lunga trentatré anni ai vertici della «Cosa pubblica», principiata con i lavori per la Costituente e terminata con le «convergenze parallele» del «compromesso storico».
Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio». Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino
Infine, Aldo Moro non è più «il re deposto», ma un «primus inter pares» di un regno impareggiabile e privato, permeato dalla fede cristiana e dall’amore: la sua famiglia, dove era un tenero nonno, un padre premuroso, un marito attento e innamorato. Sono proprio per la moglie Noretta le ultima parole, intrise (anche materialmente) di lacrime e di una «tenerezza infinita»: «Tutto sia calmo. […] Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati puniti in altro modo, noi e i nostri piccoli. […] E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. […] Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. […] Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».
Bibliografia e sitografia essenziale
Dario Fo, «‘Il caso Moro’, Fabulazzo osceno», Kaos, Milano 1992;
Marco Baliani, «Corpo di Stato», Rizzoli, Milano 2003;
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022;
Stefano Massini, «55 giorni. L’Italia senza Moro», Il Mulino, Bologna 2018;
Daniele Timpano, «Aldo morto» (con contributi di Marco Baliani e di Matteo Brighenti), Cue Press, Bologna 2018;
Daniele Timpano, «Aldo Morto», in Daniele Timpano, «Storia cadaverica d’Italia», a cura di Graziano Graziani, Titivillus, Pisa 2012, pp. 103-155;
Marco Ongaro, «Moro. Opera tragique en un acte», Bonaccorso, Verona 2011;
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2008;
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016;
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà», Rizzoli, Milano 1985;
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982;
Filippo Boni, «Gli eroi di via Fani», con prefazione di Mario Calabresi, Longanesi, Milano 2018;
Ferdinando Imposimato, «I cinquantacinque giorni che hanno cambiato l’Italia. Perché Aldo Moro doveva morire?», Newton Compton, Milano 2013;
Anna Laura Braghetti, «Il prigioniero», Feltrinelli, Milano 2003;
Lia Perrone, «Il caso Moro tra storia e finzione», Ancona Transeuropa, 2020;
Miguel Gotor (a cura di), «Aldo Moro. Lettere dalla prigionia», Einaudi, Torino 2008;
Miguel Gotor, «Il Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano», Einaudi, Torino 2011;
«Il Memoriale di Aldo Moro», edizione critica curata da Michele De Sivo, De Luca Editore, Roma 2019;
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