ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 31 luglio 2017

Botero, una carriera lunga cinquant’anni

È la grande scultura in bronzo «Cavallo con briglie», di oltre una tonnellata e mezzo di peso e alta più di tre metri, ad aprire il percorso espositivo della retrospettiva che Roma dedica, fino al prossimo 27 agosto, a Fernando Botero (Medellín - Colombia, 19 aprile 1932), in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno. Come una sorta di cavallo di Troia l’opera è posta all’ingresso del Complesso del Vittoriano con l’intento di incuriosire i turisti e i romani, così da invitarli a entrare in un mondo dai colori brillanti e dalle forme opulente, ammantato di una dimensione fiabesca e senza tempo, che fonde le suggestioni dell’arte latino-americana con quelle dei grandi maestri del passato, soprattutto dell’epoca rinascimentale.
Sono cinquanta le opere che il curatore Rudy Chiappini ha selezionato per questa mostra, già attesa per il prossimo autunno a Verona, dove sarà allestita, a partire dal 21 ottobre e fino al 29 aprile 2018, negli spazi di Palazzo Forti. Si tratta di dipinti e sculture, realizzati tra il 1958 e il 2016, che raccontano di una straordinaria carriera non ascrivibile a nessuna corrente pittorica, seppur spesso accostata al Surrealismo, il cui linguaggio -giocato su un’esasperata dilatazione delle forme, nonché su un colore smagliante steso in grandi campiture piatte e uniformi, senza contorni e ombreggiature- è facilmente riconoscibile, e anche molto amato, dal grande pubblico.
Nudi immersi in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia, nature morte dai canoni classici, ritratti austeri di vescovi e matador, scampoli di vita circense, scene di quotidianità delle popolazioni andine, della amata Antioquia, con uomini e donne che sembrano privati dei propri sentimenti: questo e molto altro anima l’arte di Fernando Botero e scorre lungo le pareti dell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano.
Giotto, Piero della Francesca, Leonardo, Mantegna, Velázquez e Goya sono punti di riferimento imprescindibili per l’artista sudamericano. Gli offrono un’inesauribile fonte di ispirazione, che spesso lo ha portato a dare vita a una propria personale re-interpretazione dell’opera di questi maestri, scoperti durante un suo viaggio in Italia e in Spagna nei primi anni Cinquanta. Sono nati così lavori come «La Fornarina» (2008), rilettura del sinuoso e sensuale capolavoro di Raffaello, o il celebre «Dittico di Piero della Francesca» (1998), «L’infanta Margherita Teresa» (2006), ironico omaggio a Velasquez, o ancora il ritratto di «Rubens e sua moglie» (2005) che mantiene inalterata l’atmosfera intimista, corroborata dalla sinuosa impronta boteriana.
Anche le nature morte dell’artista guardano alla lezione del passato. Lo si può notare in «Natura morta con frutta e bottiglia» (2000), il cui particolare clima di complicità discende dalle equivalenti composizioni concepite nel Seicento dallo spagnolo Francisco de Zurbarán per arrivare quindi a Paul Cézanne, capace di infondere una spiccata personalità, se così si può dire, anche a una mela che conquista la scena.
Non meno forte è l’attaccamento di Fernando Botero alla sua terra natale. Nel linguaggio espressivo dell’artista colombiano si respira, infatti, una radicata dimensione popolare, un profondo attaccamento alla propria cultura, alla memoria mai venuta meno della quotidianità di Medellín. Egli stesso lo racconta con queste parole: «si ritrova nella mia pittura un mondo che ho conosciuto quando ero molto giovane, nella mia terra. Si tratta di una specie di nostalgia e io ne ho fatto l’aspetto centrale del mio lavoro. […] Io ho vissuto quindici anni a New York e molti anni in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito latino-americano. La comunione con il mio Paese è totale».
Sono figlie di questo attaccamento alle proprie origini opere come «Le sorelle» (1969-2005), «Il club del giardinaggio» (1997), «Atelier di sartoria» (2000) e «Picnic» (2001) con i suoi placidi innamorati. Queste caratteristiche si ravvisano anche nelle tante opere dedicate al circo, «un soggetto bellissimo e senza tempo» -per usare le parole dell’artista-, del quale ci viene consegnata una carrellata di ritratti di grande bellezza, da Pierrot ad Arlecchino, dalla cavallerizza impegnata nel suo numero ai clown sui loro improbabili trampoli, dall’elefante ai cavalli.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Allestimento della mostra che Roma dedica, negli spazi del Complesso del Vittoriano, a Fernando Botero. Foto di Iskra Coronelli

Informazioni utili
Fernando Botero. Complesso del Vittoriano - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30 - 20.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto € 10,00 (audioguida inclusa) o € 8,00, ridotto scuole €  5,00. Informazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 27 agosto 2017. 


venerdì 28 luglio 2017

«Tutti gli ismi di Armando Testa», al Mart di Rovereto la pubblicità con la P maiuscola

Cento anni fa nasceva a Torino uno delle menti creative più feconde della pubblicità italiana: Armando Testa. Per ricordare la travolgente fantasia di questo importante protagonista della nostra cultura visiva, che ha regalato alla storia del Carosello Rai personaggi iconici come Carmencita e Caballero della Lavazza o l’ippopotamo Pippo della Lines, il Mart di Rovereto ospita per l’intera estate, negli ampi e luminosi spazi del secondo piano, la mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa», a cura di Gianfranco Maraniello e Gemma De Angelis Testa.
L’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa editore, si sviluppa in un unico grande ambiente scandito da alcune salette che fungono da contrappunto narrativo. Attraverso la presentazione di circa centocinquanta opere tra sculture, manifesti, pubblicità, spot televisivi, bozzetti, quadri, installazioni, estratti di celebri interviste e filmati di repertorio, il percorso è segnato dalla stessa voce del pubblicitario torinese, che con la sua grafica inconfondibile ha accompagnato gli italiani negli anni del boom economico e della rivoluzione della televisione come medium di massa.
Ad aprire il percorso espositivo è una videointervista nella quale il pubblicitario dichiara che, dopo aver perso un cliente a causa di una proposta troppo azzardata, nella sua agenzia si disse: «Il Testa qualche volta ha delle cose azzeccate negli «ismi», chiamiamoli «ismi» tutti i modernismi. Qualche volta però sarà bene guardare di più il marketing!». Questi «ismi» sono il perno attorno a cui ruota l’intero progetto del Mart.
Futurismo, Astrattismo, Surrealismo sono, infatti, fonti alle quali Armando Testa attinge per il suo lavoro. Lampanti appaio, per esempio, i riferimenti al Bauhaus e non meno chiari sono gli omaggi a Mondrian e Malevič come provano l’uso dei colori primari e delle forme geometriche. Anche il cinema e la fotografia sono linguaggi a cui il creativo guarda per carpire tecniche e strutture, dando così vita a opere in cui le grammatiche culturali si ibridano e incontrano i riferimenti più comuni, rendendo la quotidianità un territorio fantastico ricco di significazione.
«Armando Testa -raccontano al Mart- intuisce che il mondo sta cambiando e che i linguaggi della modernità diventano patrimonio comune, identità condivisa. Precursore assoluto, inaugura un nuovo modo di fare pubblicità, sintesi perfetta tra rappresentazione e simbolo. Tra metafore, miraggi, sogni, favole, metamorfosi, le sue creazioni concedono un’evasione dall’ovvietà del reale, rispondendo ai bisogni primari dello spettatore: divertimento, emozione, coinvolgimento».
A Rovereto trovano posto in mostra alcuni dei protagonisti più celebri dei mondi di Testa, icone inconfondibili a cui generazioni di italiani guardano con sorrisi nostalgici e che risultano una divertente scoperta per i più giovani. Dall’«Uomo moderno», ideato per egli allegri manifesti della Facis, a Carmencita e Caballero, protagonisti della pubblicità per il caffè Paulista di Lavazza, il visitatore incontra Punt e Mes per il vermut Carpano, gli sferici extra terrestri del pianeta Papalla per Philco, l’ippopotamo Pippo, gli elefanti Pirelli, i rinoceronti Esso e molto altro ancora.
La mostra propone anche presente un nucleo di opere inedite che illustra la produzione propriamente artistica di Armando Testa, portata avanti parallelamente al suo lavoro in agenzia.
L’esposizione roveretana si sofferma, nello specifico, sulle passioni iconografiche ripetute e reinterpretate durante quella che fu una lunga carriera. «L’allestimento, che include manifesti del primo periodo fortemente pittorici, quadri, fotografie, serigrafie e sculture, approfondisce – raccontano ancora dal museo roveretano- i topoi ricorrenti, come quello degli animali o quello delle dita, presentato al Mart per la prima volta in maniera unitaria.
Ricco si rivela anche il gruppo di materiali ispirati al cibo, tema a cui l’artista si dedicò fin dalla fine degli anni Sessanta, precorrendo ancora una volta i tempi».
Procedendo per suggestioni tematiche, la rassegna illustra la ricerca del pubblicitario italiano, restituendo il volto di un artista a tutto tondo la cui attività supera l’ambito della comunicazione ed entra in contatto diretto con le energie e le sperimentazioni che hanno segnato gli ultimi settant’anni.
Giochi di parole, slittamenti semantici e la chiave dell’umorismo come strumento per aprire le porte della fantasia sono tra le caratteristiche fondamentali delle numerose visioni rappresentate. Armando Testa raggiunge così tutti i pubblici, piacendo tanto ai frequentatori delle gallerie, dei musei e dei cinematografi, quanto ai consumatori meno avvezzi ai linguaggi colti. Attraverso una formidabile capacità visionaria e raffinata efficacia semiotica, l’artista rielabora stilemi e canoni della storia dell’arte e li traduce in materiale per la comunicazione di massa. Inventa mondi fantastici capaci di parlare anche ai giovani d’oggi e che fanno di lui, per usare le parole di Gillo Dorfles, un sempre attuale «(...) visualizzatore globale dei rapporti fra uomo e mondo, fra produzione e consumo, fra creatività pura e creatività finalizzata a uno scopo».

Didascalie delle immagini
[Figg. 1,2, 3 e 4] Veduta dell'allestimento della mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa» al Mart di Rovereto. Fotografie di Jacopo Salvi

Informazioni utili
«Tutti gli «ismi» di Armando Testa». Mart, Corso Bettini, 43 - Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso:
intero € 11,00, ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00,  biglietto famiglia € 22,00, gratuito fino ai 14 anni e Amici del museo. Informazioni: Numero verde 800.397760  o
info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 15 ottobre 2017

giovedì 27 luglio 2017

«Spartaco», la schiavitù nel mondo antico e oggi

La storia di Roma è la storia di una società, di una cultura e di un'economia essenzialmente schiaviste. Il nostro sguardo ammirato rivolto all'antico non deve nasconderci questa verità: l'impero romano e la sua organizzazione così avanzata, che in alcuni casi ha fatto parlare di proto-capitalismo, non avrebbe potuto reggersi senza lo sfruttamento, abilmente organizzato, delle capacità e della forza lavoro di milioni di individui senza libertà, senza diritti e senza proprietà, neppure quella del proprio corpo. Senza gli schiavi, motore silenzioso e quasi invisibile dell’impero, difficilmente si sarebbe sviluppato il latifondo a cultura intensiva. Il commercio non avrebbe potuto distribuire merci su scala globale solcando numerose rotte, così come l’industria tessile, le fabbriche dei laterizi, la produzione industriale della ceramica e le imprese estrattive di cava e di miniera non avrebbero potuto far fronte ai consumi delle grandi concentrazioni urbane sorte intorno al Mediterraneo. Persino il divertimento e il tempo libero –ovvero tutto quel sistema che comprendeva teatro, circo e terme– non avrebbe potuto sopravvivere senza una larga percentuale di lavoro servile. Basti pensare che stime recenti hanno calcolato la presenza tra i 6 e i 10 milioni di schiavi su una popolazione di 50-60 milioni di individui.
A questa storia rivolge la propria attenzione la mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», ospitata fino al 17 settembre al Museo dell’Ara Pacis di Roma, che vede il coinvolgimento nella parte curatoriale di un team di archeologi, scenografi, registi e architetti, coordinato dal punto di visto scientifico da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo.
Oltre duecentocinquanta reperti archeologici provenienti da importanti istituzioni italiane e straniere come il Louvre di Parigi, i Musei Vaticani, la Galleria Tretyakov di Mosca, il Maschio Angioino di Napoli e le Terme di Diocleziano (solo per fare qualche nome) ricostruiscono la complessità del mondo degli schiavi nell’antica Roma a partire dall’ultima grande rivolta guidata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C., una protesta che coinvolse oltre settantamila gladiatori della Scuola di Capua e che venne repressa nel sangue da una decina di legioni al comando di Crasso.
Le opere sono inserite in un racconto immersivo composto da installazioni audio e video che riportano in vita suoni, voci e ambientazioni del contesto storico, la cui regia visiva e sonora è stata curata da Roberto Andò.
Il percorso espositivo è, inoltre, arricchito da una selezione di dieci fotografie, selezionate da Alessandro Mauro di Contrasto e firmate da Lewis Hine, Philip Jones Griffith, Patrick Zachmann, Gordon Parks, Fulvio Roiter, Francesco Cocco, Peter Magubane, Mark Peterson e Selvaprakash Lakshmanan, che rappresentano forti denunce visive di forme di schiavismo dell’epoca post-industriale e contemporanea.
L’attenzione all’attualità in mostra è data anche dai contributi forniti dall’Ilo - Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite nei temi della politica sociale, impegnata nell’eliminazione del lavoro servile e di altre forme di schiavitù legate al mondo del lavoro.
Il percorso si snoda attraverso undici sezioni, a partire da «Vincitori e vinti», in cui si racconta l’età delle conquiste e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di vinti in ogni campagna militare: 300.000 prigionieri a seguito delle guerre puniche, 30.000 dalla sola città di Taranto nel 209 a.C., 150.000 durante le razzie dell’Epiro, 40.000 arrivati dalla Sardegna nel 174 a.C., altri 50.000 da Corinto nel 146 a.C.., circa 150.000 presi tra i Cimbri e i Teutoni ai tempi di Caio Mario e, secondo alcune fonti, più di un milione, catturati dall’esercito di Giulio Cesare in Gallia.
A mantenere alto il numero degli schiavi nell’antica Roma era, fin dai tempi remoti, la loro riproduzione naturale, ovviamente favorita dai padroni, ma anche la povertà, che costringeva molti a vendere i propri figli e a farne così dei servi, o le pendenze con la legge.
Di sezione in sezione, il visitatore può scoprire, per esempio, che gli schiavi domestici -cuochi (praepositus cocorum), camerieri (ministratores), assaggiatori (praegustatores), barbieri (tonsores), pettinatrici (ornatrices), addetti al guardaroba (ad vestem) o ai gioielli (ab ornamentis) e portatori di lettighe (lecticarii)- avevano dei privilegi rispetto agli addetti ai lavori pesanti, concentrati principalmente nei campi e nelle miniere, e in alcuni casi creavano addirittura rapporti di affetto e intimità con i loro padroni.
Difficile era anche la situazione delle donne. «Prehende servam: cumvoles, uti licet», ovvero «Prenditi la schiava come vuoi, come è tuo diritto», è quanto si legge, per esempio, in un graffito pompeiano. I padroni utilizzavano, dunque, le loro serve come un bene su cui investire, mettendole incinte o favorendo il loro accoppiamento, vendendole a casa di piacere o destinandole ad ambienti particolari della propria casa, le cosiddette cellae meretricae. Non possiamo, però, escludere del tutto che talvolta le schiave-amanti acquisissero ruoli di rilievo nella vita familiare, come nel caso della schiava di Moregine, che poteva sfoggiare un dono prezioso come il bracciale d'oro serpentiforme, che riporta l’iscrizione «Dominus ancillae suae». A raccontare questo aspetto della vita servile ci sono anche le spintriae, dischi di bronzo, della dimensione di una moneta, che dovevano anche possedere un qualche valore, forse corrispondente al numero ordinale su di esse riportato.
Schiavi erano anche i professionisti dello spettacolo, a cominciare dagli aurighi e dai gladiatori, vere e proprie star del firmamento romano.
Chi calcava il palcoscenico -attori comici, tragici, mimi, cantanti e danzatori- aveva uguale la sua dose di gloria, pur facendo un lavoro considerato non rispettabile. L’affermazione del mimo, basato sulla capacità espressiva e acrobatica del singolo performer, consacrò, per esempio, nuovi idoli: ad esempio lo schiavo Publilio Siro, un contemporaneo di Giulio Cesare di grande arguzia e avvenenza, o la famosa mima Licoride, nata schiava quindi liberata, amante di grandi personalità politiche, come Marco Antonio, e amata da uno dei poeti più famosi del I secolo a.C., Cornelio Gallo.
Accanto a questi lavori che venivano bollati con il marchio di infamia ve ne erano, però, altri -oggi stimati, come quello del medico e del chirurgo- esercitati da schiavi, molto spesso greci, di particolare cultura e abilità.
La mostra documenta anche la manumissio, ovvero «la strada verso la libertà», vera e propria occasione offerta dal diritto romano agli schiavi più meritevoli e a quelli che erano riusciti, arricchendosi, a comprare la propria libertà. Si trattava, comunque, di una pratica diffusa e unica nella storia della schiavitù tanto che gli schiavi liberati, i liberti, potevano divenire a pieno titolo cittadini romani, con tutti i diritti connessi e poche limitazioni, che peraltro scomparivano per la generazione successiva. Con questa logica, paradossale, il sistema schiavistico romano metteva in moto un vero e proprio ascensore sociale su base, almeno teoricamente, meritocratica.
Interessante è anche la sezione dedicata alla schiavitù in epoca moderna, che presenta, tra l’altro, un’immagine di Fulvio Roiter, datata 1953, che ritrae dei lavoratori nella miniera di zolfo di Caltanisetta e uno scatto di Lewis H. Hine con due bambini intenti a riparare i fili spezzati di un telaio in una fabbrica tessile di Macon, in Georgia, nel 1909. Un invito a non dimenticare e a continuare e a impegnarci nella lotta contro le nuove schiavitù.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Frammento di mosaico figurato, Paris, Musée du Louvre Département des Antiquitès greques, étrusques et romaines Photo© RMN-Gran Palais (musée du Louvre)/Hervé Lewandowski; [fig. 2] Bracciale in oro con iscrizione incisa, Moregine. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Soprintendenza Speciale Pompei; [fig. 3] Ritratto di auriga, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo alle Terme; [fig. 4] Lanternarius addormentato, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Museo delle Terme di Diocleziano; [fig. 5] Gerla per lavoro in miniera. Madrid, Museo Arqueòlogico Nacional

Informazioni utili
«Spartaco. Schiavi e padroni a Roma». Museo dell’Ara Pacis, lungotevere in Augusta – Roma. Orari: tutti i giorni, dalle ore 9.30 alle ore 19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00; speciale scuola ad alunno € 4,00 (ingresso gratuito a un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale Famiglie € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni). Informazioni: 060608 (tutti i giorni, dalle ore 9.00 alle ore 19.00). Sito internet: www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it. Fino al 17 settembre 2017.

martedì 25 luglio 2017

«L’offensiva su carta», la Grande guerra raccontata dal Fondo Luxardo

Con i suoi cinquemilasettecento pezzi tra giornali, periodici, bollettini, manifesti, volantini e pubblicazioni relativi alla Grande Guerra, il Fondo Luxardo, conservato nei Civici musei udinesi, è tra i più importati al mondo per ripercorrere la storia della prima guerra mondiale attraverso il linguaggio dell’arte e della comunicazione. Si rivela, dunque, preziosa la mostra «L’offensiva su carta», allestita negli spazi dell’istituzione friulana per la curatela di Giovanna Durì, Luca Giuliani e Anna Villari, che si sono avvalsi dell’aiuto di Sara Codutti e Fernando Orlandi. La rassegna, visibile fino al 7 gennaio, non si limita a presentare i soli materiali della Luxardo, utili anche per ricostruire il costume e la storia dell’arte di quel periodo storico, ma si estende al cinema d’epoca per arrivare ad illustratori contemporanei quali Hugo Pratt e Gipi.
Anna Villari, che di questa ricognizione storico artistica sui tesori della Luxardo è la responsabile, evidenzia come «l’illustrazione e la grafica italiane degli anni della Prima guerra mondiale, sulla scia di studi passati e anche delle diverse occasioni espositive legate alla ricorrenza del centenario, continuino a rivelarsi un settore particolarmente ‘generoso’ e ancora in parte inesplorato, sia nella quantità e varietà dei materiali che nella analisi e riflessione critica».
Quando l’Italia entra in guerra, dal punto di vista artistico si stanno ancora assaporando le delizie e i compiacimenti del gusto art nouveau, con l’eleganza del segno e la leggerezza delle atmosfere come chiavi di volta. In un versante culturale più raffinato ed esclusivo, l’inizio del secolo vede anche il manifestarsi di un altro e ben diverso versante espressivo, attraversato e da inquiete correnti tardo simboliste, in parte vicine a influenze mitteleuropee e secessioniste, e da fermenti futuristi e d’avanguardia, ancor più audaci e rivoluzionari. Allo scoppiare della guerra, sia le raffinate atmosfere Liberty sia le più innovative sperimentazioni avanguardiste, appaiono improvvisamente inadeguate a comunicare attraverso i vecchi e nuovi canali della illustrazione popolare, ora utilissimo veicolo di propaganda per parlare, con un linguaggio efficace e insieme rassicurante, tanto ai soldati che alla popolazione, sempre più invitata a sostenere, emotivamente e economicamente, il conflitto in corso. Questo avviene in misura ancora maggiore durante l’ultimo anno di guerra, quando l’istituzione da parte dello Stato maggiore dell’Esercito di un apposito servizio dedicato alla propaganda si preoccupa di confortare e rinvigorire la fede patriottica delle truppe anche attraverso la diffusione di giornali illustrati.
Ma come rispondono a questa nuova urgenza gli artisti e i professionisti dell’illustrazione, coinvolti e chiamati a comunicare, in un certo senso anche a vendere, la guerra? Molti degli illustratori attivi nelle redazioni di riviste come «San Marco», «La Trincea», «La Tradotta», «Il Montello», «La Ghirba» e «Signorsì» provengono dal mondo della grafica editoriale, dei giornali e dell’illustrazione di libri per l’infanzia, un genere che si era sempre più consolidato nell’Italia post risorgimentale, e il cui stile ora appariva utile per sostenere il carattere eminentemente educativo delle attività coordinate dal cosiddetto «Servizio P», che vedeva tra le fila dei suoi intellettuali e animatori un pedagogista del calibro di Giuseppe Lombardo Radice. La vocazione edificante, i toni di monito, incitamento, scherzoso supporto psicologico usati di volta in volta nelle diverse rubriche, negli articoli e, in modo ancora più immediato e empatico, attraverso le immagini, erano del resto dopo Caporetto chiare direttive dello Stato maggiore, e obiettivo primario dei giornali destinati ai soldati.
Uno stile giocoso e fantastico ereditato da quel mondo e il ricorso a caricature e deformazioni satiriche che rappresentano appena una leggera evoluzione di gusto rispetto a ciò che si ritrova nei giornali del tardo Ottocento caratterizzano questa fase comunicativa, nella quale emergono nuove esperienze figurative come quelle di Umberto Brunelleschi e Antonio Rubino.
In mostra è possibile vedere anche vignette pressoché sconosciute del grande cartellonista Leonetto Cappiello e le produzioni di autori meno noti al grande pubblico come Enrico Sacchetti, Filiberto Mateldi, Bruno Angoletta e Primo Sinopico. Sono esposte anche le prime prove pubbliche di giovanissimi soldati come Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Ardengo Soffici, che pubblicano sulla rivista «La Ghirba», ma anche i lavori di Mario Sironi, autore qui di vignette dai tratti brutali e dai toni scurissimi e tetri che saranno propri della sua successiva produzione, e del poeta paroliberista Francesco Cangiullo.
Mentre sulla «Trincea» e sul «Signorsì» è protagonista il disturbante e poco classificabile Aroldo Bonzagni, illustratore sospeso tra un simbolismo «maledetto» e un crudo realismo di matrice quasi espressionista,già firmatario nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi.
«Dalle migliaia di illustrazioni e vignette pubblicate in quei mesi di guerra, dalle decine e decine di nomi di artisti più o meno noti al pubblico, emerge, dunque, una varietà e ricchezza di esiti e ricerche che rende singolarmente feconda l’esperienza della illustrazione di guerra, -afferma ancora Anna Villani- e il Fondo Luxardo una miniera di materiali e di fonti il cui interesse e il cui valore figurativo e di testimonianza superano la contingenza storica per arrivare – intatti – fino a noi».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Luigi Daniele Crespi, «Cravatte», copertina de «La Trincea», n.35 (ultimo numero), 16 gennaio 1919; [fig. 2] Antonio Rubino, «L’ardito si diverte», «La Tradotta», n.18, 15 ottobre 1918; [fig. 3] Ardengo Soffici, «Trecentomila morti in un mese Generale!... » , copertina de «La Ghirba», n.3, 21 aprile 1918[fgi. 4] Leonetto Cappiello, «L’uragano dell’ovest», «Sempre avanti», 1918, n. 8, 27 ottobre 1918

Informazioni utili 
«L’offensiva su carta». Musei civici udinesi - Castello di Udine, piazzale del Castello, 1 - Udine. Orari: fino al 30 aprile 2017 e dal 1° ottobre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.00; dal 1° maggio al 30 settembre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 4,00. Informazioni utili: tel. 0432.1272591 o civici.musei@comune.udine.it. Fino al 7 gennaio 2018.


domenica 23 luglio 2017

Piranesi e le antichità romane

«È così pieno dell'aria, del cielo, del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà e da farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha ancora veduta». È ben raccontato in queste parole dello scrittore Giuseppe Rovani l'innamoramento a prima vista per la Città Eterna del giovane Giovan Battista Piranesi (Mogliano Veneto, 4 ottobre 1720 – Roma, 9 novembre 1778), qui giunto a soli vent'anni, nel 1740, al seguito dell'ambasciatore veneziano Francesco Venier. Con le «parlanti ruine» dell’Urbe l’architetto veneto instaura subito un dialogo personalissimo: le analizza, le studia, le reinventa dando vita a una miriade di strepitose opere grafiche che cristallizzano nel tempo la grandezza dell’antico passato capitolino.
Il Ponte e Castel Sant’Angelo, piazza di Spagna, il Campidoglio e la sua scalinata, il Pantheon, le grandi basiliche cittadine, il porto di Ripetta con i velieri che navigano lungo il Tevere: sono solo alcune delle bellezze architettoniche che l’artista fissa in un numero impensabile di schizzi, disegni, incisioni e acqueforti con l’intento di tutelare e salvaguardare la memoria di un mondo che sta scomparendo ed è sempre più al centro di quel viaggio di iniziazione e crescita culturale che è il Grand Tour internazionale.
È lo stesso Giovan Battista Piranesi a parlare, nel 1756, di questo suo intento documentarista: «vedendo che i resti degli antichi edifici di Roma, sparsi in gran parte negli orti e in altri luoghi coltivati, -si legge nel volume «Antichità romane»- diminuiscono giorno per giorno o per l’ingiuria del tempo o per l’avarizia dei proprietari che con barbara licenza li distruggono clandestinamente e ne vendono i pezzi per costruire edifici moderni, ho deciso di fissarli nelle mie stampe».
Quelle stesse stampe, dalle ardite visioni prospettiche e dai volenti effetti luministici, sono al centro della mostra «Piranesi. La fabbrica dell’utopia», a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi, allestita fino al 15 ottobre a Roma, negli spazi di Palazzo Braschi.
Si tratta di oltre duecento opere grafiche, equamente ripartite tra la Fondazione Giorgio Cini di Venezia e le collezioni del museo romano, che ricostruiscono la parabola creativa di questo importante artista settecentesco, noto per aver applicato la matrice vedutistica della propria formazione veneta a una forte passione per l’archeologia e le antichità romane, delle quali rivendica la superiorità sia su quella dei barbari, sostenuta dall'inglese Ramsay, sia su quella greca, sostenuta dal tedesco Johann Joachim Winckelmann. Accanto a questi lavori grafici sono esposti anche i marmi, oggi conservati nelle collezioni della Sovrintendenza capitolina, derivati dalla celebre Forma Urbis severiana, la prima pianta di Roma fatta scolpire su pietra da Settimio Severo, che Giovan Battista Piranesi tentò di ricostruire nella sua originaria composizione. A completamento della mostra è, inoltre, possibile vedere delle immagini fotografiche di Andrea Jemolo dell’unica ed effettiva realizzazione architettonica lasciataci dall’artista veneto, ovvero la chiesa di S. Maria del Priorato, in cima al colle Aventino.
Tra le serie grafiche, il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di De Luca editori d’arte, vede esposte, nello specifico, le grandi «Vedute di Roma», dalle amplificate prospettive architettoniche, i fantasiosi «Capricci», eseguiti ancora sotto l’influsso di Tiepolo, le celeberrime e suggestive visioni della serie delle «Carceri», fino alle varie raccolte di antichità romane, rese con prospettive fedeli, quasi fotograficamente perfette e attente ai più minuti dettagli.
Dalla Fondazione Cini provengono, inoltre, le realizzazioni tridimensionali di alcune invenzioni piranesiane mai realizzate e ricavate dal ricchissimo repertorio delle «Diverse Maniere di adornare i Cammini» (1769) o di alcuni pezzi antichi, riprodotti e divulgati da Piranesi nella serie dei «Vasi candelabri cippi sarcofagi tripodi…» (1978), come il celeberrimo tripode del Tempio di Iside a Pompei, vero e proprio masterpiece dell’arredo neoclassico e Impero. Le ri-creazioni piranesiane tridimensionali sono state realizzate dall’Atelier Factum Arte di Madrid, diretto da Adam Lowe, tramite modellazione in 3D e procedimento stereolitografico, in occasione della mostra «Le arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designer», organizzata dalla Fondazione Giorgio Cini nel 2010.
Dall’intera mostra emerge il volto di un artista che, stando alle parole di Luigi Ficacci, «fu un innovatore decisivo per la storia dell’acquaforte e tale è riconosciuto, nello specifico scientifico: il suo lessico calcografico, per l’inedita varietà tonale delle morsure e gli effetti dell’inchiostrazione, così come per la sconosciuta qualità del cromatismo grafico, produssero conseguenze determinanti presso le individualità artistiche che, nei secoli e fino all’attualità, vi si riferirono, restandone segnate secondo modalità assolutamente proprie e spesso non coincidenti con lo sviluppo storico complessivo della storia del gusto».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Battista Piranesi Mausoleo di Cecilia Metella, 1762, acquaforte, Museo di Roma; [Fig. 2] Giovanni Battista Piranesi , Veduta del Campidoglio e di S. Maria d'Aracoeli,1746-1748, acquaforte, Museo di Roma; [fig.3] Giovanni Battista Piranesi, Basilica di San Sebastiano, 1750-1760, acquaforte, Museo di Roma; [fig. 4] Foto di Andrea Jemolo, Tempio di Giano, da Vedute di Roma, 1745-1778

Informazioni utili 
«Piranesi. La fabbrica dell’utopia». Museo di Roma - Palazzo Braschi, piazza Navona, 2 o piazza San Pantaleo, 10 – Roma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); chiuso il lunedì. Ingresso (solo alla mostra): intero € 9,00; ridotto € 7,00; speciale scuola € 4,00 ad alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale famiglia € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni); per altre tariffe è possibile consultare il sito www.museodiroma.it. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museodiroma.it. Fino al 15 ottobre 2017.

venerdì 21 luglio 2017

Call for Artist, nel Nord-est interventi site-specific per la valorizzazione territoriale

Lupi disegnati, scolpiti, grafitati o riprodotti in installazioni: ecco quanto cerca il concorso di idee «Lupi in città!» lanciato dal Muse di Trento, in collaborazione con il Mart di Rovereto e Palazzo Strozzi di Firenze, per «Life Wolfalps», progetto cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito della programmazione «Life+ 2007-2013», con l’intento di realizzare azioni coordinate per la conservazione a lungo termine della popolazione alpina del lupo.
Il bando, la cui scadenza è fissata al 1° settembre, richiede la presentazione di progetti artistici che declinino il rapporto uomo-lupo o che individuino strategie funzionali ad assicurare una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali, sia nei territori dove questo animale è già presente da tempo, sia nelle zone in cui il processo di naturale ricolonizzazione è attualmente in corso.
Le opere d'arte/installazioni ispirate ai contenuti e agli obiettivi del progetto selezionate, in tutto otto, verranno esposte a partire dal tardo autunno nel centro storico di Trento, en plein air. La loro realizzazione sarà preceduta da un primo periodo di residenza degli artisti al Muse.
Nella prima fase di selezione, non si richiede l’invio di progetti di opere dettagliati o specifici. Si richiede, invece, l’invio di materiali che contengano le linee guida secondo le quali i candidati intendono sviluppare le loro opere. Le idee progettuali inviate dovranno essere decontestualizzate (non ideate, dunque, per essere esposte in un luogo specifico). La scelta delle opere d’arte avverrà nell’ottica di una successiva itineranza della mostra.
Possono partecipare alla selezione artisti italiani che, al momento della presentazione della domanda, non abbiano compiuto i quaranta anni di età. Street art, videoarte, new media art, scultura, pittura, disegno e installazione sono le discipline ammesse. La giuria sarà formata da un rappresentante per ciascun ente coinvolto nel progetto, affiancati da Adriana Polveroni e Arturo Galansino.
Un premio per la valorizzazione territoriale è stato lanciato anche da Ca’ Corniani, la storica tenuta di Genagricola che con i suoi millesettecento ettari di estensione nell’entroterra di Caorle, in provincia di Venezia, è una delle più grandi aziende agricole italiane. Il bando, a invito e a cura di Eight Art Project, vedrà cinque artisti europei invitati Elena Tettamanti e Antonella Soldaini -Monica Bonvicini, Alberto Garutti, Carsten Höller, Tobias Rehberger e Remo Salvadori- a ideare per i tre punti di accesso della residenza veneta altrettanti interventi site-specific con l’obiettivo di raccontare la ricchezza di quest’area dalla vocazione fortemente agricola e produttiva.
Gli artisti invitati ragioneranno sul concetto di soglia, a partire dagli ingressi via terra e via acqua alla tenuta: tre Soglie, fisiche e simboliche, il cui significato è da interpretare nell’accezione data da Robert Venturi di «punto di tensione tra due polarità».
La cerimonia di premiazione è prevista per il 12 ottobre negli spazi della Triennale di Milano; mentre il progetto vincitore -selezionato da una giuria composta, tra gli altri, da Gabriella Belli, Beatrice Merz, Pippo Ciorra e Vicente Todolì- verrà inaugurato nel maggio 2018, in occasione della sedicesima Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia.

Informazioni utili
«Lupi in città!». Informazioni e bando completo su www.muse.it e www.lifewolfalps.eu. Deadline: 1° settembre 2017
«Tre soglie». Concorso ad invito. Informazioni e bando completo su cacorniani.genagricola.it/. Premiazione: 12 ottobre 2017

mercoledì 19 luglio 2017

Pistoia omaggia Giovanni Pisano

L’arte antica fa il suo debutto a Palazzo Fabroni. In occasione di Pistoia capitale italiana della cultura, l’edificio trecentesco fatto costruire dalla famiglia Dondori, che dal 1990 è sede di numerose esposizione d’arte contemporanea, apre le porte al genio di Giovanni Pisano, scultore vissuto a cavallo tra Duecento e Trecento che proprio a Pistoia, negli spazi della pieve romanica di Sant’Andrea, ha lasciato una delle sue opere più importanti: il famoso pulpito marmoreo terminato nel 1301. La rassegna, nata da un’idea di Giovanni Agosti, si avvale della curatela di Roberto Bartalini e Sabina Spannocchi, che hanno selezionato poche opere, dalle quali risulta la straordinaria gamma creativa e l’inventività iconografica dell’artista, oltre al suo dominio di materie diverse come pietra e legno.
Si parte con un preludio: il rilievo con le «Stimmate di San Francesco» di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di Santa Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di San Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna.
Le altre otto stanze sono dedicate a Giovanni Pisano. Nella seconda trova spazio una «Madonna con Bambino», tondo in marmo che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore, proveniente dalla collegiata di Sant’Andrea e attualmente conservato al Museo di Empoli. Le forme armoniche mostrano come l’artista avesse iniziato a muovere i primi passi sotto la guida paterna, ma la torsione del volto della Vergine permette di cogliere, in fieri, quell’idea di movimento che Pisano svilupperà nell’arco della sua carriera.
Per tutto il Medioevo fu frequente la pratica di riutilizzare le opere d’arte a seconda di nuove esigenze del culto: ne è un probabile esempio l’opera lignea esposta nella terza stanza, un «Angelo in veste di diacono che ostende la testa di San Giovanni Battista». Il delicatissimo Angelo, che regge una grande e drammatica testa del Battista, presenta dissonanti aspetti stilistici: l’Angelo, in tutto corrispondente ai più noti esempi di scultura gotica francese della metà del Duecento, reggeva probabilmente in mano un oggetto più piccolo. Il volto del Battista, molto grande e dalle palesi differenze stilistiche rispetto al corpo della statua, è sicuramente attribuibile a Giovanni Pisano, all’epoca ancora giovane.
Il momento in cui l’arte di Giovanni Pisano inizia a distinguersi nettamente da quella del padre Nicola è esemplificato, in mostra, da una delle cosiddette «Ballerine», figure ideate per le ghimberghe del Battistero di Pisa. Si tratta di statue che dovevano risultare visibili a distanza e quindi erano scolpite con fare rapido e abbreviato. Queste figure femminili danzanti, che sembrano originate e tenute in vita da un soffio d’aria, offrono i primi saggi del dinamismo impetuoso e dell’espressionismo caratteristici del Pisano. «Fu solo dopo la guerra, quando le grandi figure furono tirate giù dalle nicchie e poste nel Battistero [a Pisa], che io potei vederle da vicino e fu allora che fui colpito dalla tremenda forza drammatica che avrei poi indicato come la caratteristica qualità scultorea, lo stile e la personalità di Giovanni» scrisse nel 1969 lo scultore britannico Henry Moore.
Nelle successive quattro stanze, quattro Crocifissi diversi, ciascuno testimone di una diversa maturazione artistica dello scultore. Il Crocifisso della chiesa di San Bartolomeo in Pantano, opera monumentale sconosciuta ai più, va ascritto all’ultima, straordinaria fase creativa: è molto diverso dagli altri suoi crocifissi lignei, sia per le dimensioni che per la resa formale. Privo dell’effetto di torsione e del dinamismo di altri lavori, è concepito non come oggetto processionale, ma per essere posto in relazione simbolica con la mensa dell’altare.
Il Crocifisso della Cattedrale di Siena è l’unico tra quelli processionali a conservare ancora la croce originale ed è un’opera della prima maturità dell’artista, databile al 1285-90. Il corpo presenta un netto stacco rispetto alla croce ed esprime tensione drammatica attraverso un movimento articolato: a differenza delle forme abbreviate che Giovanni Pisano prediligeva nello scolpire il marmo, quest’opera lignea si contraddistingue per un alto grado di finitezza nell’intaglio.
Il Crocifisso della pieve di Sant’Andrea mostra, invece, un’evoluzione rispetto al precedente nel movimento tormentato, che riguarda ogni fibra del corpo e che induce nello spettatore un forte sentimento di compassione. Tra i Crocifissi realizzati nella maturità da Pisano questo è il meno spigoloso, anche per la qualità del legno di noce impiegato.
Mentre l’ultimo crocifisso ad essere presentato è quello della chiesa di Santa Maria a Ripalta, conservato oggi nella pieve di Sant’Andrea, venerato per i miracoli che gli si riferirono durante la pestilenza di fine Trecento e concepito per essere portato in processione.
L’ultima opera esposta è marmorea: una sobria figura allegorica della «Giustizia», che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo con quest’opera le vette di un’espressività meno stridente, più armonica, con la dolce mestizia del volto della «Giustizia».

Informazioni utili
Omaggio a Giovanni Pisano. Palazzo Fabroni, via Sant’Andrea 18 – Pistoia. Orari: dal martedì alla domenica e festivi, lunedì 24 luglio e lunedì 14 agosto, ore 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00 - ridotto € 3,00. Giornale della mostra: € 4,00. Informazioni: 0573 371214. Sito internet: www.pistoia17.it | www.palazzofabroni.it. Fino al 20 agosto 2017.

lunedì 17 luglio 2017

Tra «sogno e colore»: il mondo di Miró in mostra a Bologna e Recanati

«Il Miró uomo si trasforma nel Miró pittore quando prende in mano il pennello. Allora tutto quello che gli vive dentro -i sogni, i sentimenti, la gioia, il dolore- gli si riversa all'esterno, per poi esplodere sulla tela», così lo scrittore George E. Kent raccontava il ricco mondo interiore e il modus operandi del pittore, scultore e ceramista spagnolo che con la sua arte ha dato forma a una poetica unica in bilico tra sogno e colore.
A raccontare il codice artistico del genio catalano è, fino al prossimo 17 settembre, una mostra allestita a Bologna, negli spazi di Palazzo Albergati, che vede in prima linea la Fondazione Pilar e Joan Miró di Maiorca, diretta da Francisco Copado Carralero, all’interno della quale sono conservati oltre cinquemila lavori dell’artista e nella quale è possibile vedere anche il suo studio, con pennelli, tavolozze e attrezzi del mestiere rimasti lì dal giorno in cui è morto, come lui li aveva lasciati.
«Miró! Sogno e colore» -questo il titolo della rassegna bolognese, che vede la curatela scientifica di Pilar Baos Rodríguez- raccoglie, nello specifico, centotrenta opere, tra cui cento olii di sorprendente bellezza e di grande formato, che ripercorrono il rapporto dell’artista con la variopinta e fascinosa isola di Maiorca, dove egli visse dal 1956 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1983.
Qui, sulle isole Baleari, nel paese natale della madre Dolores e della moglie Pilar e nella grande tenuta di campagna di Son Boter, Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) realizza un sogno a lungo agognato: un «grandissimo studio», fatto costruire dall'amico architetto Josep Lluis Sert, dove -per usare le sue stesse parole- «disporre di spazio sufficiente per molte tele», «cimentarsi nella scultura, nella ceramica, nella stampa» e, «per quanto possibile, andare oltre la pittura da cavalletto».
In questo bianco edificio, inondato di luce e immerso nel verde e nella pace della natura, l’artista reinventa il suo stile e il suo alfabeto espressivo si fa via via più anticonformista e selvaggio, senza perdere quella vena contemplativa, giocosa, magica, onirica e apparentemente ingenua, fatta di segni ritmici e fantastici, di grafismi stilizzati e fanciulleschi, di macchie pure e squillanti, che lo ha fatto conoscere nel mondo. Ne nasce un canto libero -da «usignolo della pittura moderna», per usare le parole di Carlo Argan-, estraneo ai dettami dei principali movimenti pittorici del tempo, seppure inserito nell’ambito del Surrealismo e con un occhio rivolto, negli ultimi anni, all’esperienza dell’Action painting e dell’Espressionismo astratto americano.
Nei trent’anni trascorsi a Maiorca, Joan Mirò si dedica ai suoi temi prediletti, dalle donne agli uccelli, da code d’aquilone a paesaggi astrali. Con il passare del tempo, il pennello sgocciola; il gesto si fa ampio e istintivo, forse brutale. Nascono lavori, quelli degli ultimi anni, fatti con le dita, stendendo il colore con i pugni e spalmando gli impasti su compensato, cartone e materiali di riciclo.
L’insaziabile sperimentalismo porta l’artista a confrontarsi con la sua opera anche attraverso l’intero corpo: cammina sulle sue tele e vi si stende sopra, sporcandosi «tutto –lo scrive egli stesso nel 1974- di pittura, faccia, capelli».
In alcuni casi le squillanti macchie di blu, rosso, giallo e verde, che rendono riconoscibile a tutti l’arte di Joan Mirò, lasciano spazio a una tavolozza cromatica ridotta al bianco e nero, a una figurazione che evoca la predilezione dell’artista sia per l’arte rupestre sia per la calligrafia orientale, conosciuta direttamente nei suoi due viaggi in Giappone, avvenuti nel 1966 e nel 1969.
Nel suo studio di Maiorca, l’artista si confronta anche con la ceramica, la scultura e i libri d’artista. Crea collage e «dipinti-oggetto», che traggono ispirazione da ciò che raccoglie sull’isola e colleziona, interessato non tanto all’aspetto estetico o formale quanto all’energia che gli trasmette ciascun materiale.
Tra le opere esposte a Bologna, allineate in base a un percorso cronologico e tematico allo stesso tempo, si possono ammirare capolavori come «Femme au clair de lune» (1966), «Oiseaux» (1973) e «Femme dans la rue» (1973), oltre a schizzi, tra cui quello per la decorazione murale per la Harkness Commons-Harvard University.
Una delle stanze al primo piano è allestita per un’esperienza immersiva: un gioco di emozioni da vivere sdraiandosi sul divano contemplando le proiezioni delle opere sul soffitto. La visione è accompagnata da musica, che permette all’osservatore di stabilire una connessione molto intima con le opere dell’artista, per conoscere meglio le creazione di un esploratore di sogni e racconti fantastici che di sé diceva: «lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l'ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado».
A Joan Mirò e al suo profondo e giocoso legame con le parole e la poesia è dedicata anche la mostra in programma a Recanati, negli spazi di Villa Colloredo Mels, fino al prossimo 5 novembre. L’esposizione, corredata da un catalogo con testi di Sebastiano Guerrera, è incentrata sulle litografie realizzate dall’artista catalano nel 1971 per il libro «Le lezard aux plumes d’or».
La genesi del libro fu piuttosto travagliata. Già nel 1967, l’artista aveva realizzato diciotto litografie a colori che illustravano il poemetto per conto dell’editore Louis Broder. Ma le stampe risultarono lacunose nella resa dei colori a causa, pare, di un difetto nella fabbricazione della carta e l’intera tiratura fu distrutta. Poiché nel frattempo le matrici erano state annullate non fu possibile ristamparle e il pittore catalano dovette attendere alla realizzazione di nuove lastre, che furono stampate da Mourlot e pubblicate, sempre da Broder, solo nel 1971.
Le nuove litografie «diventano -scrive Sebastiano Guerrera- il luogo dove la scrittura-segno si determina e si trasfigura, in tutta la sua concretezza lineare, nell’immagine-segno», dando vita anche a «una baraonda cromatica in cui le immagini zampillano» con una profusione che non conosce limiti. «È evidente -aggiunge lo studioso che ci troviamo in un contesto fiabesco. Perché Miró fu sempre un pittore di favole ed è palese la sua propensione ad un tipo di poesia che, pur mettendo in luce echi degli automatismi surrealisti e affinità col nonsense dadaista, si fa testimone di relazioni animistiche e magiche tra uomo e natura, di un mondo in cui gli animali -ma anche le cose inanimate- aiutano il mondo a rinascere: perciò il genere di Mirò, come scriveva Argan, «è la favola, che si richiama e rivolge pur sempre ad una infanzia, all’eterna condizione di infanzia dell’uomo».


Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Joan Miró, Untitled, 1978. Olio su tela, 92x73 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 2]  Joan Miró, Maqueta para Gaudí X, 1975. Gouache, ink, pencil, pastel and collage on paper, 30,2x25,2 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 3] Joan Miró, Untitled, 1950. Ceramic. Stoneware and porcelain, 38,5x29x13 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 4  e 5] Immagini tratte dal volume  «Le lezard aux plumes d’or».

Informazioni utili 
«Miró! Sogno e colore». Palazzo Albergati, via Saragozza, 28 - Bologna. Orari: tutti i  giorni, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00; ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00. Informazioni: tel. 051.030141. Sito internet: www.palazzoalbergati.com. Fino al 17 settembre 2017 

«Miró. Le lezard aux plumes d’or». Villa Colloredo Mels – Recanati. Orari: fino al 1° settembre - tutti giorni, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00; tutti venerdì fino alle ore 23.00; dal 1° settembre - dal martedì alla domenica, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00. Ingresso: intero € 10,00; ridotto € 8,00 (gruppi minimo 15 persone, possessori di tessera FAI, Touring Club, Italia Nostra, Coop, Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Bordest, Estense); ridotto € 5,00 (gruppi accompagnati da guida turistica abilitata, gruppi scolastici da 15 a 25 studenti); omaggio minori fino a 19 anni (singoli), soci Icom, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e la persona che li accompagna; con il biglietto della mostra si accede al circuito museale di Recanati (Musei Civici di Villa Colloredo Mels, Museo dell’Emigrazione Marchigiana, Museo Beniamino Gigli, Torre del Borgo). Informazioni e prenotazioni: Sistema Museo - Call center, tel. 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00, il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00, escluso i festivi); callcenter@sistemamuseo.it. Sito internet: www.infinitorecanati.it. Fino al 1° ottobre 2017. Prorogata al 5 novembre 2017.

sabato 15 luglio 2017

«La terra inquieta», quando l’arte racconta il fenomeno migratorio

È una mostra che consegna all’arte e a una polifonia di voci la responsabilità di raccontare la storia e il nostro presente, a partire da un tema di scottante attualità quale quello delle migrazioni e della crisi dei rifugiati, «La terra inquieta», progetto espositivo curato da Massimiliano Gioni per la Triennale di Milano, con la Fondazione Nicola Trussardi, che porta fino al prossimo 20 agosto, nelle sale del museo di via Alemagna, le opere di sessantacinque artisti internazionali provenienti da quaranta Paesi, tra i quali Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia.
Installazioni, video, sculture, dipinti, immagini di reportage, assemblaggi di reperti, materiali storici e oggetti di cultura materiale tratteggiano un ritratto collettivo capace di restituire voce e dignità alle moltitudini senza volto del nostro tempo, gettando luce anche sul ruolo politico e sociale, nell’accezione più nobile del termine, che l’arte ha nel raccontare i cambiamenti e le trasformazioni del nostro breve e instabile scorcio di secolo, il presente come territorio in fibrillazione e sempre più globalizzato e interconnesso.
La rassegna milanese, che prende a prestito il titolo da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, ricostruisce così, all’interno della galleria al piano terra della Triennale per poi proseguire al piano superiore, l’odissea dei migranti e le loro storie individuali e collettive grazie a un percorso che si snoda attraverso una serie di nuclei geografici e tematici: il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide.
Seguendo le trasformazioni dell’economia e le relazioni pericolose che si intrecciano tra corpi, merci, capitali e rotte di scambio e commercio nell’epoca della globalizzazione, «La Terra Inquieta» si configura, dunque, -per usare le parole degli organizzatori- come il «racconto di uomini che attraversano confini e –assai più tristemente– la storia di confini che attraversano gli uomini».
Al centro dell’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo bilingue edito da Electa, è posta l’installazione-video «The Mapping Journey Project» dell’artista marocchina Bouchra Khalili, che raccoglie le storie di migranti che hanno attraversato interi continenti alla ricerca di un varco nella fortezza Europa, mentre con un pennarello tracciano su una cartina il percorso fatto, nascondendo sotto la semplicità di quel gesto un’odissea drammatica.

Dalla Panda stracarica di oggetti e senso di non appartenenza di Manaf Halbouni, che ha lasciato Damasco per sfuggire al servizio militare e che ora non può più fare rientro in patria, a una bellissima «Mappa» di quelle che Alighiero Boetti faceva ricamare alle artigiani di Kabul, il visitatore si ritrova davanti a lavori raccontati da artisti che conoscono e descrivono in prima persona il mondo da cui provengono i migranti e per questo ne parlano con il senso di responsabilità di chi vuole restituire la complessità di un evento drammatico senza incorrere nelle consuete banalizzazioni e nei sentimentalismi ai quali siamo abituati dai tradizionali canali di informazione. «Il risultato -scrive Massimiliano Gioni- sono opere d’arte in cui i codici tradizionali del giornalismo e della narrazione documentaria si accompagnano ad approcci più vicini a quelli della letteratura, dell’autobiografia e della finzione. È precisamente in questo scontro tra narrazioni discordanti che l’opera di molti artisti cerca di inserire un coefficiente di dubbio e di critica al linguaggio delle immagini e dei mezzi di comunicazione di massa in particolare». Nascono così racconti, sospesi tra l’affresco storico e il diario in presa diretta, come quelli di John Akomfrah, Yto Barrada, Isaac Julien, Yasmine Kabir o Steve McQueen. Queste e altre opere esposte aprono una riflessione sul diritto all’immagine che è un altro dei temi fondamentali affrontati dai molti artisti contemporanei, il cui lavoro si confronta con una rappresentazione delle migrazioni globali e della crisi dei rifugiati molto spesso contraddistinta dalla voracità e dalla velocità comunicativa dei media.
Lo sguardo obliquo delle fotografie di Yto Barrada, le elisioni di volti e dettagli nei video di Mounira Al Solh o le trasformazioni grottesche nei disegni e nelle animazioni di Rokni Haerizadeh, sono solo alcuni degli esempi più lampanti con cui questi artisti della crisi globale rifiutano di soccombere all’estetizzazione della miseria e cercano piuttosto di restituire dignità ai migranti, ritraendoli come soggetti storici, capaci di compiere scelte e decisioni, o proteggendoli dall’eccesso di visibilità a cui sono sottoposti dai mezzi di comunicazione di massa.
Da Kader Attia con i suoi abiti sparsi sul pavimento ad Adel Abdessemed con il suo barcone pieno di immondizia, da Mona Hatoum a Meschac Gabaacquista con le sue tre lanterne affiancate a una pila di coperte grigie, da El Anatsui a Hassan Sharif, sono molti gli artisti che raccontano speranze, manchevolezze e crisi associate alla cosiddetta globalizzazione in un esercizio che spesso è di empatia e di dialogo tra culture.
Conclude l’ampia mostra un video di Steve Mc Queen girato in 35 millimetri che riprende, dall’alto di un elicottero, un'inconsueta immagine della Statua della Liberà. È proprio a Ellis Island, davanti a questo monumento simbolo, che all’inizio del ventesimo secolo le fotografie di Lewis Hine e di Augustus Sherman documentavano un’esperienza della migrazione dura, ma comunque molto diversa da quella contemporanea. Eppure i sogni e le paure non erano gli stessi? E sui volti dei migranti di ieri e di oggi non vediamo le stesse espressioni confuse e spaventate di fronte a una terra promessa, che spesso si rivela, invece, matrigna? Quasi a dire che la storia si ripete ciclicamente e che non sempre impariamo dal nostro passato.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3 e 5] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Gianluca di Ioia; [fig. 4] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Marco De Scalzi

Informazioni utili
«La terra inquieta». La Triennale di Milano, via Alemagna, 6 – Milano. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 20.30; ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,50, ridotto gruppi € 5,50, ridotto scuole € 4,50. Informazioni: tel. 02.724341 o info@triennale.org. Sito internet: www.triennale.org. Fino al 20 agosto 2017.

giovedì 13 luglio 2017

Pintoricchio e «il mistero svelato di Giulia Farnese»

«Ritrasse sopra la porta d'una camera la Signora Giulia Farnese nel volto d'una nostra Donna, e nel medesimo quadro la testa d'esso Papa Alessandro che l'adora»: una affermazione di poco, o nessun interesse, per la storia dell’arte se non per il fatto che a metterla nero su bianco fu, nel 1550 e ancora nel 1568, Giorgio Vasari, all'interno della biografia del Pintoricchio, contenuta nell’opera «Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori».
L’affermazione del famoso biografo aretino elevava a rango di verità storica un gossip del tempo, riportato per scritto anche da François Rabelais e Stefano Infessura, secondo cui il controverso papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), nutriva una vera e propria predilezione per la raffinata, giovane e bellissima Giulia Farnese (1475-1524), ironicamente nota alla corte pontificia come «sponsa Christi», tanto da farla ritrarre all’interno dei suoi appartamenti in Vaticano, nelle fattezze della Vergine, con lui adorante, in ginocchio, ai suoi piedi.
Ma quella riportata da Giorgio Vasari era solo una diceria malevola o una verità storica? E la Madonna raffigurata, bellissima ed eterea, chi era? Era veramente la concubina del papa? E che fine hanno fatto i frammenti dell’affresco, fatto staccare, centocinquanta anni dopo la sua realizzazione, da papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi (1655-1667), e smembrato in tre parti, con l’intento di dimenticare quella vicenda, frutto visibile di un pontificato, quello di Rodrigo Borgia, che aveva assecondato intrecci dinastici, veleni di palazzo, calunnie e gelosie? A queste domande prova a rispondere, dopo secoli di ricerche e di indagini scientifiche, la mostra «Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese», allestita fino al 10 settembre ai Musei capitolini di Roma, per la curatela di Cristina Acidini, Francesco Buranelli, Claudia La Malfa e Claudio Strinati, con la collaborazione di Franco Ivan Nucciarelli e con la supervisione di Francesco Buranelli.
L’esposizione, corredata da un interessante catalogo della Gangemi editore, vuole introdurre il visitatore in quello stupefacente periodo della cultura romana di fine Quattrocento e nel grande fermento umanistico che lo caratterizza, tutto rivolto alla riscoperta della memoria dell'antica Roma, sulla quale la Chiesa, quasi una sorta di «nuova Atene», fonda il proprio «rinascimento» politico e religioso.
Sono gli anni in cui l'arte della stampa, da poco inventata da Johannes Gutenberg, fiorisce e molti editori aprono le proprie stamperie in città, a partire da Sweynheym, Pannatz e Eucharius Silber che hanno una sede a Campo de’ Fiori. Vengono pubblicate le opere dei grandi retori latini, Cicerone e Quintiliano, dei filosofi greci, dei poeti e dei drammaturghi antichi. I monumenti della classicità sono ammirati da pellegrini e visitatori e i cortili dei grandi palazzi dei membri della Curia e del mondo laico si riempiono di statue, rilievi e iscrizioni antiche. Alessandro VI è amante del lusso, del bello e dell’arte al pari dei suoi contemporanei: tra l’autunno del 1492 e la fine del 1494, chiama a Roma uno degli artisti più estrosi del tempo, Bernardino di Betto, detto il Pintoricchio (c.1454-1513), per fargli decorare il suo appartamento nel Palazzo apostolico della Basilica di San Pietro, sei grandi stanze nel corpo quattrocentesco fatto edificare da papa Niccolò V, cui è stata aggiunta una torre.
Tra pitture ricche di contenuti umanistici e teologici, che evocano in maniera sapiente l’arte romana antica e che dimostrano l’interesse del pittore per l’ornato prezioso, si trovava l’opera citata dal Vasari nelle sue «Vite». Quel dipinto, menzionato dall'artista e scrittore aretino in modo fuggevole, e solo per raccontare l’adorazione di papa Borgia per la «Signora Giulia» -una passione adulterina per altro condannata pubblicamente da Girolamo Savonarola- si impregnò, con il tempo, di storie e significati tali da offuscare, alla sensibilità del tempo, il valore artistico nella sua composizione d’insieme.
Oggi sappiamo che, quasi sicuramente, Giorgio Vasari non ebbe mai accesso agli appartamenti papali e che per descriverli si servì prevalentemente di informazioni di seconda mano e delle incisioni a stampa che (soprattutto per le Stanze di Raffaello) iniziarono ben presto a far scuola di quelle meraviglie.
La storiografia ci dice anche che, come spesso accade, il «venticello della calunnia» che qualcuno alitò in maniera impalpabile, ma efficace sulla decorazione dell’appartamento Borgia si rivelò vincente: papa Pio V (Antonio Ghislieri, 1566-1572) fece nascondere l’opera da una doppia pesante tappezzeria da parati e da un nuovo dipinto della «Madonna del Popolo». Alessandro VII, con la complicità del cardinale nipote Flavio I Chigi, lo disperse in più frammenti: le due immagini della Madonna e del Bambino, ormai due dipinti a sé stanti con cornici volutamente differenti e circa duecento numeri di distanza nell’inventariazione, entrarono a far parte della collezione privata dei Chigi, mentre il ritratto di Alessandro VI scomparve definitivamente. L’esatta composizione del dipinto, tuttavia, non andò perduta grazie a una copia realizzata nel 1612 dal pittore Pietro Fachetti.
Oggi, a oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, è possibile presentare per la prima volta vicini i due frammenti: quello del volto della Madonna, mai esposto fino a ora, insieme a quello ben noto del «Bambino Gesù delle mani», conservato all’interno della collezione della Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia.
Ma la mostra offre anche l’occasione di rivedere la «leggenda» sulla presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia, destituendo di ogni fondamento una delle convinzioni più durevoli della storia dell’arte moderna. Le sembianze della Vergine risultano, infatti, vicinissime al più classico tipo dei volti di Madonna del Pintoricchio: un viso dolcemente allungato, senza nessuna ricerca ritrattistica, pieno di amorevole concentrazione e assorto compiacimento nei confronti della scena alla quale sta assistendo. Ne da prova il confronto fra l’opera al centro della mostra e altre due tele del pittore entrambe esposte a Roma: la «Madonna della Pace» di San Severino Marche e la «Madonna delle Febbri» di Valencia, alle quali sono accostate un’altra trentina di capolavori del Rinascimento e sette antiche sculture di età romana, provenienti dalle raccolte capitoline, che documentano quanto l’artista abbia attinto all’antico.
Il volto ritrovato della «Madonna» del Pintoricchio, messo accanto al «Bambino delle mani», ci permette, dunque, di ricomporre parzialmente un’opera di forte valenza iconografica ed evidente significato teologico, riconoscendovi, invece, una rarissima iconografia di investitura divina del neoeletto pontefice. Una lettura, questa, «che spazza definitivamente il campo da tutte le precedenti interpretazioni decisamente più “terrene”, -dichiara Francesco Buranelli- che ne hanno al tempo stesso tramandato la memoria e provocato la distruzione e che restituisce alla Chiesa e al mondo un’opera somma che ha già pagato un caro prezzo per la miopia del genere umano».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Bambin Gesù delle mani, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 48,6 x 33,5 x 6,5 circa. Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano; [fig. 2] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 39,5 x 28, 5 x 5. Collezione privata; [fig. 3] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna della Melagrana, c. 1508-1509. Tempera su tavola, cm 54.5 x 41. Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 387; [fig. 4] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna delle Febbri, c. 1497. Olio su tavola, cm 158 x 77,3. Valencia, Museo de Bellas Artes de Valencia (colleción Real Academia de Bellas Artes de San Carlos), inv. 273

Informazioni utili 
«Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese». Musei Capitolini - Palazzo Caffarelli, piazza del Campidoglio – Roma. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso (integrato per il museo e comprensivo di tassa di turismo): intero € 15,00, ridotto € 13,00. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni, ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it. Fino al 10 settembre 2017