ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

sabato 30 aprile 2022

«On fire», alla Fondazione Cini di Venezia il fuoco dialoga con l’arte contemporanea

Non ha forma, peso e densità. È immateriale e naturalmente fuggevole, eppure scalda, brucia, scoppia, illumina, risplende, distrugge e crea. È un elemento vivo. È, per usare le parole del saggista e giornalista James Henry Leigh Hunt (Southgate, Middlesex, 1784 - Putney 1859), «il più tangibile dei misteri visibili». Il fuoco è, tra i quattro elementi naturali, quello che più ha affascinato il mondo dell’arte, dove ha assunto le funzioni e i significati più diversi, ora di accessorio narrativo, ora di  medium  creativo, ora di presenza sacrale, simbolo di purificazione, rigenerazione e nuovi inizi.
Dal fuoco della redenzione che scalda il Bambino in tante Adorazioni dei pastori alle eruzioni vulcaniche che caratterizzano molti dipinti di area napoletana, dall’immancabile candela che rischiara i notturni di George de La Tour al falò della convivialità presente nel quadro «Upa, upa» di Paul Gauguin, pittori e scultori hanno traghettato il fuoco, quale elemento figurativo, nel Novecento, il secolo delle sperimentazioni e delle performance.
Le Avanguardie del secondo Dopoguerra hanno, quindi, scritto un nuovo capitolo di questa storia millenaria: dagli anni Cinquanta in poi, gli artisti sono, infatti, riusciti ad appropriarsi degli effetti sia distruttivi che generatori del fuoco, impiegandolo su diversi materiali, e hanno usato questo elemento naturale come medium per innovare il loro stesso linguaggio pittorico e plastico.
A questa storia guarda la mostra «On Fire», a cura di Bruno Corà, allestita fino al 24 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore, negli spazi della Fondazione Giorgio Cini, e promossa con la galleria Tornabuoni in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Ventisei opere, tra cui diversi capolavori inediti o raramente mostrati al pubblico, suddivise in sei sezioni, documentano l’uso del fuoco come strumento di combustione dei materiali o come presenza viva con i propri effetti sensoriali, talvolta spettacolari, o, infine, come traccia pittorica attraverso il fumo della combustione.
Ad aprire il percorso espositivo, studiato per exempla, è Yves Klein, artista che fu attratto dall'aspetto dialettico del fuoco, simbolo di distruzione e rigenerazione, vita e morte, bene e di male. «Il fuoco – affermava - è per me il futuro senza dimenticare il passato. È la memoria della natura. È dolcezza, il fuoco ‘è dolcezza e tortura’. È il focolare e l'apocalisse. È un piacere per il bambino sapientemente sedutosi vicino al camino; punisce, tuttavia, ogni disobbedienza quando si vuole giocare troppo da vicino con le sue fiamme. È benessere e rispetto. È un dio tutelare e terribile, buono e cattivo». Nacquero da queste considerazioni le quattro «Peinture de feu» esposte, ovvero le «Antropometrie» degli anni Sessanta, ultima fase della ricerca dell'artista.
Ispirazione creativa e formazione scientifica si sposano, invece, nell’uso del fuoco fatto da Alberto Burri. «Per molto tempo ho voluto – annotava, a tal proposito, l’artista - approfondire il modo in cui il fuoco consuma, comprendere la natura della combustione e come tutto possa vivere e morire nella combustione per formare un'unità perfetta». La fiamma ossidrica dava all’artista umbro la possibilità di imprimere buchi, grinze e strappi, proprio come una cicatrice, alle materie che trattava – inizialmente carta, poi legno e plastica – anche grazie al lavoro manuale. «Nulla - raccontava Alberto Burri - è lasciato al caso. Quello che faccio qui è il tipo di pittura più controllato e controllabile...Bisogna controllare il materiale e questo si ottiene padroneggiando la tecnica».
Mentre per Armand Pierre Fernandez, in arte Arman, punto di partenza per l’uso del fuoco nella sua pratica artistica fu l’opera «Fauteuil d'Ulysse», realizzata negli anni Sessanta, con l'aiuto di Martial Raysse, per una mostra al Museo Stedeljik di Amsterdam. L'idea di questo lavoro, presente nella rassegna veneziana, venne all'artista durante una visita a una discarica, dove vide una poltrona stile Luigi XV che stava bruciando in cima a un mucchio di spazzatura. Da quest’opera principia una serie di combustioni con mobili eleganti e strumenti musicali che venivano consumati dal fuoco prima di essere stabilizzati dall'introduzione di resina. Distruggere un oggetto e farlo rivivere in forma nuova è, dunque, lo scopo del lavoro di Arman con il fuoco.
Dal Noveau Réalisme si passa, quindi, all’Arte povera con Pier Paolo Calzolari, le cui opere sono realizzate fin dall’inizio con materiali in costante conversazione tra loro, umili e provenienti dai contesti semi-industriali urbani o elementi naturali. Tra questi ci sono il fuoco, il legno, ma anche rottami, oggetti quotidiani e tubi al neon. In «Mangiafuoco» la pittura dialoga con la vitalità mutevole della materia, ovvero il fuoco soffiato sulla tela. «Il mio scopo - affermava l’artista - era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela».
Due lavori caratterizzano, poi, la presenza di Jannis Kounellis in mostra: «Margherita del fuoco» (1967), prima sua opera che fa uso della fiamma ossidrica e della bombola del gas, e «Senza titolo», una doppia lastra di ferro solcata da sette cannelli di rame, dai quali fuoriescono altrettante fiamme alimentate a gas, incorniciata da una sequela di grossi coltelli conficcati su panetti di piombo.
A chiudere il percorso espositivo è un’enorme biblioteca senza libri di Claudio Parmiggiani, realizzata in situ con il fumo e la fuliggine della combustione. L’opera, che pone al centro il tema della memoria, fa parte del ciclo delle «Delocazioni», «uno spazio vuoto di percezioni fisiche – si legge nella nota stampa -, dove però lo spettatore ha la sensazione di penetrare in un luogo abitato. L'assenza di oggetti esposti in precedenza rende i muri ancora più chiari; non c'è più che la loro traccia fuligginosa da vedere».
L’intero percorso espositivo dà sostanza alle parole di Gaston Bachelard: «l'alta dignità delle arti del fuoco deriva dal fatto che le loro opere portano il segno più profondamente umano, il segno dell'amore primitivo. (…) Le forme create dal fuoco sono modellate, più di ogni altra, come bene suggerisce Paul Valéry: 'a forza di carezze'».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alberto Burri, Rosso Plastica M3, 1961, Plastica, combustione su tela, 121,5 x 182,5 cm. ©Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri; [Fig. 2] Yves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 250 x 130 cm. © Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [fig. 3] ves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 142 x 303 cm.© Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [ig. 4] Jannis Kounellis, Margherita di Fuoco, 1967, Stella di ferro con fiamma ossidrica. diam. 150 cm. ©Claudio Abate, Roma; [fig. 5] Claudio Parmiggiani, Solo la terra oscura, 2020. Fumo e fuliggine su tavola, 240x1824cm. Foto Agostino Osio-Alto Piano. Courtesy Fondazione MAXXI

Informazioni utili
On Fire. Isola di San Giorgio Maggiore, Sala Carnelutti e Piccolo Teatro -  Venezia, Italia. Orari: aperto tutti i giorni (tranne il mercoledì), dalle 11 alle 19. Ingresso gratuito. Sito web: www.cini.it. Fino al 24 luglio 2022

mercoledì 27 aprile 2022

«Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni

«È un’esposizione sulle storie d’amore e i loro diversi tipi di coppie, giovani e vecchie, sull’erotismo, il tradimento, l’alienazione, l’inizio e la fine, il lutto, le tensioni tra lo spirito e il corpo, le parole (titoli e testi) e le immagini». Così Marlene Dumas (Città del Capo, Sudafrica, 1953) racconta la mostra «Open-end», la sua prima «grande personale» in Italia, allestita fino all’8 gennaio negli spazi di Palazzo Grassi, una delle sedi della collezione Pinault a Venezia
È la stessa artista a spiegare il titolo della rassegna, maturata durante i mesi di confinamento e di chiusura dei luoghi di cultura a causa della pandemia per il Covid-19, in un clima di malinconia per i tanti lutti che hanno caratterizzato gli ultimi due anni.
«Ci ho riflettuto molto – racconta Marlene Dumas - prima di trovare un titolo che riflettesse il mio stato d’animo e la mia percezione del mondo. Ho pensato al fatto di essere bloccata a casa, ai musei chiusi al pubblico e a Palazzo Grassi che dovrà essere aperto per accogliere questa mostra. Poi ho pensato alla parola ‘open’, aperto, e al modo in cui i miei dipinti siano aperti a diverse interpretazioni. Nelle mie opere lo spettatore vede immediatamente ciò che ho dipinto, ma non ne conosce ancora il significato. Dove comincia l’opera non è dove termina. La parola ‘end’, fine, che nel contesto della pandemia ha le proprie implicazioni, è al contempo fluida e melanconica».
Un centinaio di opere, selezionate da Caroline Bourgeois, raccontano la produzione più recente dell’artista, attraverso una selezione di dipinti e disegni che vanno dal 1984 a oggi, compreso un nucleo di opere realizzate proprio per la rassegna veneziana. Lavori di piccole dimensioni, come l’inchiostro e pastello su carta «About Heaven» (2001), «Mamma Roma» (2012) o «The Gate» (2001), si alternano ad altri di grande formato, da «Figure in a landscape» (2010) a «The making» of (2020), in un allestimento dal ritmo poetico, ora serrato, ora arioso, che occupa tutti e due i piani espositivi di Palazzo Grassi.
La maggior parte della produzione di Marlene Dumas è costituita da ritratti e figure umane che rappresentano l’intero spettro delle nostre emozioni: la sofferenza, l’estasi, la paura, la disperazione, la tenerezza, l’amore. Volti, corpi, e in alcuni casi organi sessuali, vengono resi sulla tela con una pennellata veloce, fluida ed essenziale, che negli ultimi anni si è fatta più pastosa, visibilmente materica, e con colori non naturalistici, tipici dello stile neoespressionista, che virano verso i toni del blu, del grigio, del rosso scuro e del giallo. Marlene Dumas spiega questa sua scelta figurativa così, con parole poetiche e simboliche: «La pittura è la traccia del tocco umano, è la pelle di una superficie. Un dipinto non è una cartolina».
Non mancano lungo il percorso espositivo - insieme potente ed enigmatico, intimo e provocatorio - autoritratti e opere che ritraggono personalità di spicco della nostra storia più recente, rivisitati in una chiave intima e inedita, da Pier Paolo Pasolini ad Anna Magnani, da Oscar Wilde a Marilyn Monroe, da Charles Baudelaire a «Dora Maar che ha visto piangere Picasso».
Un aspetto cruciale del lavoro di Marlene Dumas è l’uso di immagini provenienti da giornali, cartoline postali, libri, riviste di moda o film, ricombinate in una narrazione pittorica che mette insieme istanze socio-politiche, fatti di cronaca e storia dell’arte. A tal proposito, con una vena ironica, la stessa pittrice afferma: «sono un’artista che usa immagini di seconda mano ed esperienze di prim’ordine».
L’amore e la morte, le questioni di genere e razziali, la situazione di quelli che l’artista chiama i «dannati di questa terra», ovvero tutti coloro che sono stati privati dei propri diritti, l’innocenza e la colpa sono alcuni temi al centro del corpus di opere esposte, realizzate con un fare artistico molto corporeo, quasi erotico. «Dipingere per me è un’attività molto fisica – spiega, a tal proposito, Marlene Dumas – c’è qualcosa di primitivo. Uso il mio corpo e il corpo crea il dipinto, è il gesto che decide. Io penso molto, ma questo non necessariamente porta a un buon dipinto. Conta la tensione del momento nel quale sono fisicamente con i materiali, e anche questi devono trovare la loro strada nel dipinto. Vorrei che il quadro fosse come una danza». Una danza o una poesia, «una scrittura – conclude l’artista - che respira e fa dei balzi, e che lascia spazi aperti per consentirci di leggere tra le righe».

La proposta espositiva della collezione Pinault, per i giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, si completa con la mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies», a cura di Carlos Basualdo e Caroline Bourgeois, allestita fino al 27 novembre a Punta Dogana
Attraverso un percorso espositivo inedito, che affianca lavori storici a opere più recenti, alcune delle quali inedite o presentate per la prima volta in Europa, la rassegna si concentra su tre direttrici fondamentali della produzione dell’autore americano, vincitore del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale alla Biennale di Venezia nel 2009: lo studio d’artista come spazio di lavoro e creazione, l’uso performativo del corpo e la sperimentazione sonora. . 
Centrale nel percorso espositivo è una serie di installazioni video realizzate negli ultimi anni a partire dal celebre «Walk with Contrapposto» del 1968, che ritraeva Bruce Nauman avanzare lungo un corridoio di legno allestito nel suo studio mentre si sforzava di mantenere la posa chiastica: «Contrapposto Studies, I through VII» (2015/16), «Walks In Walks Out» (2015), «Contrapposto Split» (2017) e «Walking a Line» (2019). Si trovano, poi, esposti lavori storici come, per esempio, «Bouncing in the Corner No.1» (1968) , «Lip Sync» (1969) e «For Children »(2010).  Il risultato è un’esperienza immersiva per il visitatore, invitato a mettersi in gioco con il proprio corpo, i sensi e l’intelletto.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1-5] Vista dell'allestimento della mostra «Open-end» di Marlene Dumas. Courtesy: Palazzo Grassi, Venezia; [fig. 6]  Vista dell'allestimento della mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies». Courtesy: Punta Dogana, Venezia;

Informazioni utili 
Marlene Dumas. open-end- Palazzo Grassi, San Samuele 3231 – Venezia. Orari: tutti i giorni, tranne il martedì, dalle ore 10 alle ore 19. Biglietti: intero € 15,00, ridotto € 12,00. Maggiori informazioni sugli orari, le tariffe, le attività e le modalità di accesso sul sito: www.palazzograssi.it. Fino all’8 gennaio 2023

martedì 26 aprile 2022

Da Donatello ad Alessandro Vittoria, centocinquanta anni di scultura a Venezia

Nel 1450 Venezia è all’apice della sua potenza, grazie al ruolo di cerniera tra l’Oriente e il nord Europa. In questo scenario il gotico viene gradualmente abbandonato per lasciare spazio a uno stile nuovo e, allo stesso tempo, eterno che parte dal ritorno all’antico per dare vita al Rinascimento. È in questo periodo che Donatello (Firenze, 1386 – Firenze, 13 dicembre 1466), fa tappa a Padova, dove soggiornerà per dieci anni, dal 1443 al 1453. Il suo arrivo sancisce il sopraggiungere di influenze esterne al panorama artistico veneto, ancora tardo gotico, e contribuisce alla formazione di una nuova generazione di artisti che si specializzano nella fusione del bronzo e nelle sculture in terracotta. Simbolo di questa nuova plasticità è il «San Lorenzo», un busto in terracotta del 1440, scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia», allestita negli spazi della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, per la curatela di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini.
Originariamente nella lunetta del portale della Pieve di San Lorenzo a Firenze, il busto di «San Lorenzo» fu acquistato da Giovanni II, principe del Liechtenstein, nel 1889, e fino al 1938 esposto nella residenza estiva della famiglia a Vienna. Solo studi recenti di Francesco Caglioti, condotti tra il 2013 e il 2014 con l’ingresso del lavoro nella collezione di Peter Silverman e Kathleen Onorato, hanno dimostrato l’autografia donatelliana.
L’iconografia della scultura è quella tradizionale, presente in tanti busti reliquari del Medioevo: il santo levita, in eleganti fattezze giovanili, è raffigurato con la dalmatica diaconale, mentre nella mano destra tiene la palma del martirio e in quella sinistra il libro sacro (il Vangelo). Innovativa, invece, è la resa plastica di questa scultura che la mostra veneziana mette a confronto con una «Madonna in trono», sempre in terracotta, di Andrea Briosco detto il Riccio (fine XV secolo) e due raffigurazioni di San Sebastiano, un rilievo della bottega dei Lombardo, proveniente dalla sacrestia della chiesa veneziana dei Santi Apostoli, e un dipinto di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506), tra i simboli della collezione di Giorgio Franchetti esposta alla Ca’ d’Oro.
L’esposizione, la prima dedicata alla scultura del Rinascimento e della Tarda Maniera a Venezia, dedica, quindi, una sala al «Ritorno all’antico». La caduta di Costantinopoli prima (1453) e il ritrovamento del gruppo scultoreo del Laocoonte poi (1506) stimolano, infatti, negli scultori del tempo un nuovo modo di intendere l’estetica, fortemente ispirato alla classicità e allo stesso tempo aperto a nuove idee e tecniche. A rappresentare pienamente questo nuovo corso della storia della scultura è stato scelto il rilievo in marmo «La morte di Lucrezia», recentemente attribuito ad Antonio Lombardo e mai esposto fino a ora in un contesto museale. Realizzato probabilmente nel periodo ferrarese dell’artista, in cui fu eseguito anche il Camerino di alabastro per il duca Alfonso I, quest’opera è esemplificativa della volontà dell’epoca di rappresentare esempi di moralità e virtù patrizie. In questa seconda sala, è possibile ammirare anche l’«Apollo» di Antonio Minello e la «Cleopatra» di Giammaria Mosca, due opere esposte fino insieme, fino al 1624, nella collezione del marchese Costanzo Patrizi a Roma e per la prima volta riunite dopo quasi quattro secoli.
I rimandi alla classicità si notano anche nella rappresentazione dei soggetti sacri: le statue del «Cristo risorto» di Giovanni Battista Bregno rimandano rispettivamente al Doriforo di Policleto e all’Apollo del Belvedere, mentre il Cristo di Lorenzo Bregno, proveniente dalla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, si ispira ai ritratti romani sia nel formato che nella veste del soggetto, simile a una toga. Ha abiti di ispirazione classica anche la «Figura allegorica» di Antonio Rizzo, appartenente alle collezioni della Ca’ d’Oro, che indossa un peplo con un diploide stretto in vito da una cinta come una Nike ellenistica.
L’ultima sala del piano nobile del museo veneziano, sede dell’esposizione, è dedicata, invece, alla «Renovatio Urbis», quel momento in cui Venezia diventa rifugio per artisti e architetti in fuga dalla Roma pontificia, dopo il sacco del 1527. Tra di loro c’è Jacopo Sansovino, architetto e scultore che giunge nella città lagunare sostenuto dal grande collezionista e mecenate Domenico Grimani, che lo presenta al doge Andrea Gritti assicurandogli una rapida ascesa nel contesto culturale della Serenissima. Il suo stile influenza il gusto della città unendo scultura e architettura, come si può notare nella sua «Madonna del Bacio» o nei rilievi bronzei con episodi della vita di San Marco, realizzati per il pulpito della Basilica ed eccezionalmente esposti a Ca d’Oro grazie all’ottimo lavoro della Fondazione Venetian Heritage, organizzatrice dell’evento espositivo con la Direzione regionale musei veneto
Conclude il percorso una serie di busti patrizi, esempi di un modo nuovo di intendere il ritratto commemorativo in una società, quella veneziana, profondamente oligarchica e repubblicana, in cui l’esaltazione del singolo non era ben vista. Si deve ad Alessandro Vittoria lo sdoganamento definitivo di questa raffigurazione, espressamente ispirata agli ideali romani del patriziato in Età repubblicana. Fondendo fantasia antiquaria e verosimiglianza – come si evince dai busti in mostra che ritraggono Marino Grimani, Tommaso Rangone e Francesco Duodo – queste opere esaltano e rendono immortale una classe dirigente dedita a proiettare l’immagine di un governo saggio e sereno, animato dalla linfa vitale della Serenissima.
La rassegna, visitabile fino al 30 ottobre, ha il pregio di restituire ai visitatori, grazie all’esposizione di opere note e di lavori mai visti in contesti museali, la varietà interpretativa della tecnica scultorea, sottolineandone la ricchezza di materiali, le potenzialità espressive e le declinazioni estetiche all’interno di un contesto storico-artistico che troppo spesso predilige, nel discorso su Venezia, la pittura.
Altro punto di forza della mostra è la scelta della cornice espositiva, la Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, forte di una raccolta museale tra le più importanti in città per la qualità delle opere di diverse epoche e tipologie, da sempre uno dei capisaldi del collezionismo privato confluito in raccolte pubbliche e il luogo per eccellenza di concentrazione di capolavori scultorei provenienti da contesti monumentali dispersi, in larga parte concepiti per complessi ecclesiastici smembrati o non più̀ esistenti del territorio lagunare. Per questo motivo assume grande interesse anche la notizia che, al termine dell’esposizione, Venetian Heritage sottoporrà il palazzo a «un generale intervento di restyling e update espositivo».
La mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia» si prefigge, inoltre, di accompagnare il visitatore in un itinerario diffuso per calli e campielli veneziani: è stata, infatti, progettata un’apposita segnaletica che indica la presenza di capolavori scolpiti conservati all’interno delle chiese e dei musei cittadini per creare un dialogo integrato e diffuso tra diversi punti di interesse. Un’occasione, questa, per visitare Venezia con occhi nuovi. 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello (Firenze, 1386 ca. - Firenze, 1466) San Lorenzo, 1440 ca. Terracotta. Londra, Collezione privata. Curtesy Colnaghi Gallery; [fig.2] Tullio Lombardo (Venezia 1455 - 1532), Doppio ritratto. Marmo di Carrara, 47 x 50 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura; [fig. 3] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 4] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 5] Antonio Lombardo (Venezia, 1458 ca. - Ferrara, 1516) Morte di Lucrezia, 1508 - 1516 ca. Marmo di Carrara. Londra, Collezione privata. Courtesy of Colnaghi Gallery; [fig. 6] Gianmaria Mosca (Padova 1495/99 – Cracovia 1573), Porzia. Marmo, 45,5 x 33 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura

Informazioni utili 
«Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia». Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, Calle Ca' d'Oro, 3934 – Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10-19; la biglietteria chiude alle ore 18:30.Ingresso: intero € 13,00, ridotto € 9,00, ridotto per cittadini UE dai 18 ai 25 anni € 2,00. Sito internet: https://www.cadoro.org/. Fino al 30 ottobre 2022

lunedì 25 aprile 2022

Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano

«Solve et coagula», «Sciogli e condensa», dicevano i romani. È racchiusa in queste parole la magia del vetro, materiale figlio di un processo alchemico che, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, genera forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche, meraviglie che fanno – giustamente - definire l’alto artigianato un’arte.
Questa tecnica dalle origini antiche ha in Italia un importante centro creativo, l’isola di Murano, dove nel 1291 furono trasferite, in seguito a un editto del doge Tiepolo, tutte le fornaci attive a Venezia al fine di preservare la città, allora centro di scambi commerciali con l’Oriente lungo le vie della seta e delle spezie, dai frequenti incendi che, purtroppo, si sviluppavano frequentemente all’interno delle botteghe compromettendo la vita degli edifici vicini, costruiti in legno.
La concentrazione delle vetrerie a Murano permise alla Serenissima anche di controllarne l’attività, impedendo che i segreti di quest’arte venissero esportati all'estero e facendo così fiorire il commercio del vetro veneziano, le cui fornaci erano sempre foriere di nuove invenzioni. Sulla piccola isola lagunare vide, infatti, la luce, verso la metà del XV secolo, il cristallino o «cristallo veneziano», un vetro estremamente chiaro e trasparente, nato dalla fantasia e dalla perizia creativa di Angelo Barovier (1405-1460 circa), che garantì a Venezia il predominio artistico per oltre due secoli, fino alla comparsa sul mercato del vetro boemo.
Murano fu anche la patria del vetro placcato, che permetteva di far risaltare colori e decorazioni, del vetro ghiaccio, una lavorazione estremamente complessa per ottenere un effetto rugoso con piccole crepe, del lattimo, bianco come la porcellana, del vetro smaltato, del vetro calcedonio, della filigrana, dell’avventurina, del millefiori o vetro colorato, delle conterie e delle murrine.
Di secolo in secolo, l’isola lagunare ha saputo, dunque, mantenere viva la sua peculiare tradizione traghettandola nel Novecento, epoca che ha visto l’affermarsi di tanti importanti marchi come, per esempio, Barovier & Toso, Seguso, Venini, Avem e Vistosi, interessati a far incontrare l’artigianalità dei maestri «fiolari» con il mondo del design e dell’arte.

Questa storia, millenaria, rivive tra le sale del Museo del vetro, «uno dei simboli della venezianità nel mondo», fondato nel 1861 all’interno del gotico Palazzo Giustinian, che attualmente ospita uno dei progetti di «Muve contemporaneo», l’offerta dei Musei civici veneziani per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Silicon Dioxide».
Curata da Berengo Studio, la mostra, che trae il suo titolo dal materiale all’origine del vetro (il diossido di silicio, appunto), ripercorre - attraverso una quarantina di opere, alcune totalmente inedite, e un gruppo disegni, acqueforti e acquerelli - le tappe più significative della carriera di Tony Cragg (Liverpool, 9 aprile 1949), esponente di rilievo della scultura britannica (premio Tuner nel 1988) che ha incentrato la sua ricerca sull’uomo e sull’ambiente, naturale e artefatto.
Accanto agli storici assemblage, lavori di grandi dimensioni che accostano e sovrappongono gruppi di oggetti, sono esposte opere più recenti, alcune appena ultimate, che manifestano la curiosità dell’artista inglese per i vari effetti del vetro colorato, per la sua duttilità alchemica e la sua energia dinamica. Si tratta di lavori realizzati a partire dal 2009, quando Tony Cragg inizia la sua collaborazione con la fornace muranese di Berengo Studio. In mostra sono, dunque, affiancate installazioni su larga scala come «Bromide Figures» (1992), «Blood Sugar» (1992), «Cistern» (1999), collage di bottiglie in vetro satinato, e «Larder» (1999), colorato insieme di vasetti di conserve, a opere più intime come «Curl» (2000), «Spindles» (2021), «Bi» (2021) e la giocosa scultura «Climate» (2021). Tutti questi lavori, visibili fino al 21 agosto, riflettono sulla complessità della physis (il principio e la causa di tutte le cose), «conciliando la totale comprensione della natura organica della realtà con l’accettazione delle sue caratteristiche meno intelligibili», e, nello stesso, raccontano quello che Tony Cragg definisce il «potenziale infinito» del diossido di silicio.

In questi giorni, la piccola isola lagunare è anche sede di uno degli eventi collaterali della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Icône 2020». La mostra - ideata, prodotta e curata da Francesca Franco per l’Atelier muranese - esplora, attraverso schizzi preparatori, dipinti e materiale di documentazione, il processo di creazione della prima scultura in vetro realizzata da Vera Molnár, artista ungherese di nascita e parigina d’adozione, classe 1924, pioniera della computer art con oltre ottant’anni di carriera alle spalle, le cui opere fanno parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, del Victoriam and Albert Museum di Londra e del Centre Pompidou di Parigi. Partendo dalla prima opera d’arte digitale dell’artista, creata su tela nel 1975 («Computer-Icône/2») a partire da una serie di disegni realizzati al computer nel 1974 («Trapèzes»), la scultura «Icône 2020» esplora il concetto di dicotomia, dando forma all’equilibrio, difficile, tra ordine e disordine.

L’isola lagunare ospita, in concomitanza con la cinquantanovesima Biennale d’arte, anche la collettiva «Le forme del bere», che Elisa Testori ha curato per le sale di «InGalleria», l’art gallery di Punta Conterie, l’hub dall’anima poliedrica dove il design, le arti visive e l’enogastronomia contemporanea si compenetrano stimolando percorsi culturali e del gusto inusuali. La mostra, aperta fino al 31 dicembre, rende omaggio al bicchiere in vetro, oggetto della quotidianità e manufatto che, lungo la sua evoluzione, ha stimolato la creatività dei designer. Accanto a pezzi storici, vere e proprie icone ancora oggi sulle tavole di tutto il mondo, come l’elegante «Ovio» (1983) di Achille Castiglioni, i leggeri calici «Plume» (2000) di Aldo Cibic, i colorati «Goti de fornasa» (1992) di Barovier e Toso, lo scenografico «Esimio» (1993) di Alessandro Mendini, la «Corolla d’autore» (2000) di Vico Magistretti e le «Ballerine fortunate» (1986) di Matteo Thun, ma non solo, sono esposti i lavori di nove designer contemporanei
Lorenzo Damiani
, Giulio Iacchetti, Astrid Luglio, lo Studio Martinelli Venezia, mischer'traxler studio, Luca Nichetto, Philippe Nigro, Ionna Vautrin e Zaven sono stati invitati – racconta la curatrice - a progettare ognuno «una diversa tipologia di bicchiere: il set acqua-vino-digestivo, un bicchiere dedicato all’acqua, un bicchiere per il vino «della casa», la coppia acqua e vino, il boccale da birra, la coppetta da cocktail, la coppa da champagne, il bicchiere da whisky e il tipetto, ovvero il calice veneziano». Ecco così lavori che stupiscono per i loro nuovi codici formali e per le variazioni su forme archetipiche, come il «Filo di Zaven», con una sottile canna di vetro colorato che si fa stelo, i sette bevanti di «Amurius», omaggio alle sette isole muranesi (San Pietro, San Stefano, San Donato, dei Conventi, Sacca San Mattia, Navagero, Sacca Serenella), la coppa in vetro a bolle «Champagne!», «Tulipe», con la sua forma basculante ispirata alle forme femminili, o «Access», un set di sei pezzi che propone una riflessione sulla disponibilità e sull’accesso all’acqua potabile in alcune aree geografiche del mondo.
I processi produttivi sono diversi e i linguaggi artistici aprono nuove frontiere di ricerca, mettendo sotto i riflettori la contemporaneità di un materiale dalla storia antica: il vetro. Ma non un vetro qualunque. Il vetro di Murano, sinonimo di bellezza e pregio nel mondo .

Vedi anche 

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[Fig. 1] Tony Cragg, Larder, 1999. Preserve jars, 100 x 90 x 65 cm. Photo credit Lasse Koivunen; [fig. 2] Tony Cragg, Blood Sugar, 1992. Glass. Photo credit Michael Richter;  [fig. 3 e fig. 4] Tony Cragg: Silicon Dioxide. Exhibition view. Photo credit Michael Richter; [fig. 5] Vera Molnár, Icône 2020 (detail), 2021, Murano glass and 24K gold leaf, 60 x 60 cm, photo by Cristiano Corte ©, Courtesy New Murano Gallery; [figg. 6, 7 e 8] Mostra Forme del bere. Photo: Roberta Orio

Notizie utili 
Tony Cragg. Museo del vetro - Fondamenta Giustinian 8, 30121 Murano. Orari: Aperto tutti i giorni, dalle 10:00 alle 17:00; ultimo ingresso ore 16:00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto (Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero della Cultura (MiC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card) € 7,50; gratuito per esidenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; persone con disabilità e accompagnatore e altre categorie aventi diritto per legge. Informazioni: https://museovetro.visitmuve.it. Fino al 21 agosto 2022

Vera Molnár: Icône 2020. New Murano Gallery, spazi Atelier Muranese, Calle Alvise Vivarini, 6 - Murano (Venezia). Orari: tutti i giorni, dalle 10:00 alle 16:00. Ingresso libero. Informazioni: info@ateliermuranese.com. Sito dell'evento: www.ateliermuranese.com/icone2020. Fino al 27 novembre 2022 

Forme del bere. Punta Conterie, Fondamenta Giustinian, 1 - Murano (Venezia).Orari: da martedì a domenica, dalle 10:00 alle 18:00. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 041.5275174. Sito web:https://puntaconterie.com. Fino al 31 dicembre 2022

venerdì 22 aprile 2022

Venezia, a Palazzo Cini i disegni di Joseph Beuys

Con la sua poetica e la sua inconfondibile pratica artistica ha affrontato tematiche che, molti anni dopo, appaiono ancora urgenti e attuali: il problema ecologico, la spiritualità come strumento per imprimere una svolta nella Storia, l’istanza pacifista, il rapporto tra l’uomo e la natura, la volontà di stabilire una connessione profonda tra la pratica artistica e l’impegno sociale, la manipolazione dell’informazione e la partecipazione democratica alle scelte della politica.
Difficilmente etichettabile e inserito dalla critica ora tra i maestri del Minimalismo, ora tra i padri dell’Arte povera o tra i Concettuali, Joseph Beuys (Krefeld, 12 maggio 1921 – Düsseldorf, 23 gennaio 1986) è stato uno tra gli artisti più emblematici, profetici, anticonformisti e rivoluzionari del Novecento e uno tra i pochi realmente capaci di fare della propria vita un’opera d’arte.
Le performance degli anni Sessanta e Settanta, con i gesti ieratici, il silenzio colloquiante e il carisma dell’azione che vede in scena animali e materiali dalla forte valenza simbolica, gli valgono l’appellativo di «sciamano dell’arte». È lo stesso Joseph Beuys, in realtà, a suggerire il soprannome con il suo racconto, per molti fittizio e leggendario, di ciò che trasforma un aspirante medico in un utopista con il sogno di migliorare il mondo grazie all’arte. L’evento apocrifo accade nel marzo del 1944, durante la Seconda guerra mondiale: il ventitreenne, arruolato con la Luftwaffe (l’aviazione militare tedesca), nel ruolo di sergente radio-mitragliere, partecipa a una missione sul Fronte orientale. Il suo aereo precipita in una foresta della Crimea ed è lì, secondo la leggenda, che avviene la svolta. Joseph Beuys, in fin di vita, viene «magicamente» salvato da un gruppo di nomadi tartari che guariscono le sue gravi ferite con antiche pratiche della loro medicina tradizionale, facendo ricorso a grasso animale e fogli di feltro, materiali che, negli anni a venire, sarebbero tornati in continuazione nella pratica dell’artista, diventando simboli di salvezza e di connessione con la parte più pura e incontaminata dell’umanità.
Forte è anche il legame di Joseph Beuys con l’Italia, in particolare con Napoli, dove diventa amico del gallerista Lucio Amelio, e con il borgo abruzzese di Bolognano, dove, invitato da Lucrezia De Domizio e Buby Durini, porta avanti una serie di attività incentrate sull’agricoltura e sulla sostenibilità ambientale, a partire dalla creazione della «Piantagione Paradise» (1982) con la messa a dimora di settemila piante per il ripristino della biodiversità.
Moderno, anzi modernissimo, anche con questa azione, che dava forma all’idea di un’Italia idilliaca, bucolica e legata alle tradizioni, l’artista non è stato celebrato dal nostro Paese, in occasione del centenario della nascita (1921-2021), come meritava. A risarcire in parte il debito ci pensa la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, presenta la mostra-dossier «Joseph Beuys. Finamente Articolato», curata da Luca Massimo Barbero e realizzata in collaborazione con la galleria Thaddaeus Ropac
Scenario dell’evento, in cartellone fino al 21 novembre, è Palazzo Cini a San Vio, raffinata casa-museo, nel sestiere di Dorsoduro, che custodisce al suo interno capolavori di Giotto, Guariento, Botticelli, Filippo Lippi, Piero di Cosimo e Dosso Dossi, raccolti dal mecenate Vittorio Cini nel corso della sua vita. La riapertura dello spazio veneziano, realizzata come consuetudine grazie al supporto di Assicurazioni Generali, offre anche l’occasione per tornare ad ammirare due capolavori recentemente restaurati: il trittico devozionale ad ante mobili con al centro la Crocifissione del Maestro del Polittico della Cappella Medici (anni venti del XIV secolo) e la «Madonna con il Bambino» dell’artista ferrarese Lorenzo Costa.
La mostra «Finamente Articolato» si propone di restituire un’immagine di Joseph Beuys specifica e distinta da quella maggiormente nota, legata alle celeberrime «azioni politiche e concettuali» e alle «performance sciamaniche», presentando una quarantina di opere, tra cui lavori su carta e disegni, molti dei quali eseguiti già alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta. Il pubblico viene, dunque, condotto agli esordi dell’esperienza creativa del maestro tedesco, dominata da due temi chiave: la figura umana, spesso femminile, e quella animale, associate dalla terra, dai cicli stagionali e dalla fertilità.
Il percorso espositivo principia dalla scultura «Supporto per la schiena di un essere umano finamente articolato (tipo lepre) del XX secolo d.C.», fusa in ferro da un'originale forma in gesso che serviva come schienale terapeutico per sostenere un corpo ferito, nella quale c’è tutto l’immaginario beuysiano, «laddove si unisce il corpo, la protesi, l'uomo, l'animale, uniti in un'unica creatura, dai risvolti magici e mitologici». Tutto intorno ci sono opere come «Bleifrau (Lead Woman)», moderna Venere paleolitica di distillata eleganza, creata nel 1949 quando l’artista era ancora uno studente alla Staatliche Kunstakademie Düsseldorf, la scheggia di felce «Hirschkuh mit Jungem» (1948), la scultura in legno e cemento «Ofen mit Torso» (1948-1850), l’acquerello «Hirsch (Stag)» (1956) e il calco in cera di «Junges Pferdchen» (1955–86), ispirato al «Cavaliere polacco» di Rembrandt (1655).
Dai fogli selezionati «affiorano – si legge nella presentazione - l’interesse per le forme ancestrali delle culture arcaiche, l’attenzione alla febbricitante linea nordica di gotico-espressionista tedesca, l’evocativo richiamo alle pitture rupestri, tra le prime rappresentazioni umane che rimandano all’origine del pensiero mitico e simbolico».

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1. Joseph Beuys, Zwei Frauen, 1955. Pencil, watercolour, gouache and iron chloride on paper. Image 21 x 29,5 cm Frame 41 x 50 x 3 cm (JB 1146). Photo: Ulrich Ghezzi; 2. Joseph Beuys, Weibliche Figur, 1954. Iron chloride on brown paper. Image 24 x 16 cm Frame 45,5 x 36,5 x 3,5 cm (JB 1154).Photo: Ulrich Ghezzi; 3. Joseph Beuys, Hirschkuh mit Jungem (Doe with Calf), 1948. Bronze 17,2 x 56,8 x 1,2 cm (JB 1208). Photo: Jessyka Beuys; 4. Joseph Beuys,  Backrest for a fine-limbed person (Hare-type) of the 20th Century AD, 1972; 5. Joseph Beuys, Bleifrau (Lead Woman), 1949. Lead cast 6 x 22,6 x 6 cm (JB 1202). Photo: Tom Carter; 6.  Joseph Beuys, Junges Pferdchen (Young Horse), 1955 - 1986. Wax cast 120 x 81,5 x 28,5 cm (47,24 x 32,09 x 11,22 in) (JB 1209). Photo: Tom Carter 

Informazioni utili 
«Finamente Articolato». Palazzo Cini, Campo San Vio, Dorsoduro 864 - Venezia. Orari: ore 11 – 19, chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18:15) | aperture straordinarie nelle giornate del 25 aprile 2022 (ingresso gratuito per i residente nel Comune di Venezia) 1° maggio e 18 giugno 2022 – Art Night (ingresso gratuito dalle ore 18-24: ultimo ingresso ore  23:15). Ingresso: intero 10,00 €; ridotto 8,00 € (gruppi superiori a 8 persone/ragazzi 15–25 anni/over 65/Soci Touring Club Italiano/Soci Coop/Soci ALI/Possessori biglietti Casa Tre Oci); Ridotto Dorsoduro Museum Mile 7,00€ (per possessori di biglietti Peggy Guggenheim Collection, Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Gallerie dell’Accademia/possessori di voucher Generali e Visite guidate Fondazione Giorgio Cini); Ridotto 5,00 € (Residenti Comune di Venezia/Soci Guggenheim/studenti e docenti universitari U.E. delle facoltà di architettura, conservazione dei beni culturali, scienze della formazione, iscritti ai corsi di laurea in lettere o materie letterarie con indirizzo archeologico, storico artistico delle facoltà di lettere e filosofia, iscritti alle Accademie delle Belle Arti/ Aderenti alla convenzione Su e Zo per i Ponti); gratuito: minori di 15 anni (i minori devono essere accompagnati)/ membri ICOM (International Council of Museums)/diversamente abili accompagnati da un familiare o da un assistente socio-sanitario/giornalisti accreditati con tesserino/dipendenti Assicurazioni Generali/guide turistiche accreditate/ Amici San Giorgio. Sito web: www.palazzocini.it, www.cini.it. Fino al 21 novembre 2022

«Il latte dei sogni», una Biennale dalla forte identità femminile

Katharina Fritsch Elefant / Elephant, 1987 Polyester, wood, paint 420 × 160 × 380 cm With the additional support of Institut fur Auslandsbeziehungen – ifa 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia
È il 2013 quando l’editore messicano Fondo de Cultura Económica dà alle stampe «Leche del sueño» (in italiano «Il latte dei sogni»), una raccolta di racconti per bambini scritto e illustrato, negli anni Cinquanta del Novecento, dalla scrittrice, drammaturga, scultrice e pittrice britannica Leonora Carrington (1917- 2011), esponente di spicco del movimento surrealista, che ha portato su di sé lo stigma della follia e che ci ha lasciato un universo visionario e magico, a tinte volutamente nere, popolato da spiriti e streghe, dee mitologiche, creature ibride tra umano e animale: un universo iconografico nonsense e perturbante di forte malia, che molto deve allo studio delle favole celtiche, della cabala ebraica, del buddhismo tibetano, dell’esoterismo e dell’alchimia, degli archetipi junghiani e di capisaldi della letteratura mondiale che hanno dato spazio nella loro opera al tema del sogno e del fantastico, da Dante Alighieri a Lewis Carroll, da Baudelaire a Rimbaud.
Dopo la pubblicazione postuma, questo prezioso taccuino, composto da una sessantina di pagine che l’artista aveva ideato per esorcizzare il timore dei figli Gabriel e Pablo di fronte ai disegni realizzati per decorare le pareti di una stanza della loro casa di Città del Messico, è stato tradotto nel 2017 in inglese dal magazine «New York Review Books», con il titolo di «The milk of dreams», e l’anno successivo è stato pubblicato anche in Italia dalla casa editrice Adelphi, nella traduzione dall’inglese di Livia Signorini.
Precious Okoyomon To See The Earth Before the End of the World, 2022 Dimensions variable All works with the additional support of LUMA Foundation; Ammodo 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
 In questi giorni il volumetto della Carrington, che descrive un mondo magico nel quale «la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé», è sulla bocca di molti perché è stato scelto da Cecilia Alemani, milanese, classe 1979, già responsabile del programma di arte pubblica High Line di New York, come titolo per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia, in programma dal 23 aprile al 27 novembre 2022 al Padiglione centrale dei Giardini e nel complesso dell’Arsenale, negli spazi delle Corderie, delle Artiglierie, delle Gaggiadre e nel Giardino delle Vergini.
 
Capsula 1 – La Culla della Strega / The Witch’s Cradl, Eileen Agar, Gertrud Arndt, Josephine Baker Benedetta, Claude Cahun, Leonora Carrington, Ithell Colquhoun, Valentine de Saint-Point, Lise Deharme, Maya Deren, Leonor Fini, Jane Graverol, Florence Henri, Loïs Mailou, Jones Ida Kar, Antoinette Lubaki, Baya Mahieddine, Nadja, Amy Nimr, Meret Oppenheim, Valentine Penrose, Rachild, Alice Rahon, Carol Rama, Edith Rimmington, Enif Robert, Rosa Rosà, Augusta Savage, Dorothea Tanning, Toyen, Remedios Varo, Meta Vaux Warrick Fuller, Laura Wheeler Waring, Mary Wigman, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams, Photo by: AVZ - Andrea Avezzù RM - Roberto Marossi MRC - Marco Cappelletti MF – Marco Cappelletti con Filippo Rossi JS - Jacopo Salvi EB - Ela Bialkowska, Courtesy: La Biennale di Venezia
L’artista britannica, la «sposa del vento» e la «femme-enfant» di Max Ernst, ma soprattutto una femminista ante-litteram che ha insegnato alle donne che possono essere muse di sé stesse, è anche tra i protagonisti del percorso espositivo, che accende i riflettori su 1433 opere, 80 delle quali di nuova produzione, firmate da 213 artisti provenienti da 58 nazioni, 180 dei quali alla loro prima partecipazione. Il risultato è un percorso intenso e ambizioso, di forte impronta femminile (ma non femminista), grazie alla presenza di 191 donne, che si dipana attraverso tre tematiche: «la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra».
Delcy Morelos Earthly Paradise, 2022 Site-specific installation Mixed media: soil, clay, cinnamon, powder cloves, cocoa powder, cassava starch, tobacco, copaiba, baking soda and powdered charcoal Dimensions variable With the additional support of Ammodo 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
Il lavoro della Carrington è proposto all’interno della micro-mostra «La culla della strega», nella sala sotterranea del Padiglione centrale, la prima delle cinque capsule del tempo, presentate in un riuscito progetto di allestimento firmato dal duo FormaFantasma (al secolo i designer Andrea Trimarchi e Simone Farresin), e offerte al pubblico come «strumenti di approfondimento e introspezione», ovvero come parentesi dal sapore museale che mettono in dialogo l’arte di oggi (e di domani) con l’eredità del passato, con opere, poco note e talvolta mai viste, di artiste vicine ad alcune grandi avanguardie del Novecento come il Surrealismo, il Futurismo o il Bauhaus. La storia diventa così un cannocchiale per guardare il presente e provare a dare risposta ad alcune domande che Cecilia Alemani, prima curatrice donna italiana al timone della Biennale d’arte di Venezia, ha scelto come suoi (e, di conseguenza, nostri) fili d’Arianna: «Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo?».
Simone Leigh, Brick House, veduta dell’installazione, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
Nella sezione «La culla della strega», la più significativa e affascinante tra le cinque capsule del tempo, ideate sia come una premessa alle ricerche contemporanee esposte sia come una sorta di «risarcimento» nei confronti di donne artiste sul cui lavoro si è posata la polvere della storia, Leonora Carrington, in mostra con il misterioso «Portrait of the Late Mrs Partridge» (1947) e l’enigmatico «Portrait of Madame Dupin» (1949), vede come sue compagnie di viaggio una trentina di pittrici, scultrici, danzatrici e scrittrici, ribelli alle rappresentazioni classiche, il cui linguaggio creativo si è opposto all’idea dell’uomo unitario rinascimentale per dare voce al meraviglioso e al fantastico, per esplorare l’inconscio e il lato magico e occulto dell’esistenza. Si spazia dal cortometraggio «Witch’s Cradle» (1943) della pioniera del cinema americano Maya Deren (1917-1961), dal quale è tratto il titolo di questa sezione espositiva, all’immaginario onirico e surrealista di Leonor Fini (1907-1996) e di Remedios Varo (1908-1963), con Leonora Carrington una delle «due streghe stregate» del Messico (per usare una felice espressione di Octavio Paz), di cui è esposto l’autoritratto «Armonia» (1956), prestito mai visto in Europa.  Si va da Laura Wheeler Waring (1887-1948), sostenitrice dei diritti civili degli afroamericani, in mostra con le belle copertine Déco realizzate (negli anni Venti del Novecento) per la rivista «The Crisis», alla cantante e danzatrice americana Josephine Baker (1906-1975), simbolo di riscatto per la comunità nera e spregiudicata icona di libertà, che, come documenta un filmato muto che la vede esibirsi in uno scatenato charleston sul palco del famoso music hall parigino Folies Bergère, fu espressione di una fisicità positiva e liberata con i suoi seni al vento, le vertiginose gonne fatte di banane, i capelli alla maschietta, i meravigliosi copricapi di piume, i movimenti sensuali e sfrontati. Ci sono, poi, l’erotismo trasgressivo di Carol Rama (1918-2015) e le suggestioni futuriste di Benedetta Cappa (1897-1977), due dei ventisei artisti italiani in mostra in questa edizione della Biennale veneziana, ma anche i colori sgargianti e le suggestioni africane dell’americana Loïs Mailou Jones (1905-1998) e dell’algerina Baya Mahieddine (1931-1998), nonché le opere surrealiste di Dorothea Tanning (1910-2012) e il trasformismo delle fotografie in bianco e nero di Gertrud Arndt (1903-2000), che negli anni Trenta giocava con maschere e trucco a impersonare differenti tipologie di donne, dalle vedove addolorate alle geishe piangenti.
Piazza Ucraina by the Curators of the Ukrainian Pavilion Borys Filonenko, Lizaveta German, Maria Lanko realized in the context of the 59th International Art Exhibition with the collaboration of the Ukrainian Emergency Art Fund (UEAF) and the Victor Pinchuk Foundation, Piazza Ucraina is an open-air installation at the Giardini of La Biennale, designed by Ukrainian architect Dana Kosmina, Photo by: AVZ - Andrea Avezzù MRC - Marco Cappelletti EB - Ela Bialkowska, Courtesy: La Biennale di Venezia
La seconda capsula del tempo, intitolata «Le tecnologie dell’incanto», mette, invece, in scena, negli spazi dei Giardini, il rapporto tra il corpo umano e la tecnologia attraverso opere di artiste italiane come Grazia Varisco (1937), Marina Apollonio (1940) e Nanda Vigo (1936-2020), che hanno svolto le loro ricerche nell’ambito nel campo dell’arte programmatica e cinetica.
Mentre, sempre ai Giardini, la capsula del tempo «Corpo orbita» raccoglie opere di poesia concreta (con il trattamento libero o astratto dei caratteri verbali), di poesia visiva (con connubi di parole e immagini), di poesia-oggetto (con sculture a base di lettere o scomposizioni verbali) e di libri-oggetto o libri d’artista, offrendo un focus significativo su Mirella Bentivoglio (1922-2017) e sulla mostra «Materializzazione del linguaggio», curata per la trentottesima edizione della Biennale di Venezia, quella del 1978. In questa capsula, Cecilia Alemani presenta, tra l’altro, anche la documentazione fotografica di pratiche medianiche e sedute spiritiche, che ebbero per protagoniste le medium italiane Eusepia Palladino (1854-1918) e Linda Gazzera (1890-1932).
Capsula Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore / A Leaf a Gourd a Shell a Net a Bag a Sling a Sack a Bottle a Pot a Box a Container – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

In «Una foglia, una zucca, un guscio, una rete, una borsa, una tracolla, una bisaccia, una bottiglia, una pentola, una scatola, un contenitore», la quarta capsula del tempo, visibile in questo caso All’Arsenale, si intende, invece, fornire una chiave di lettura alternativa della storia dell’uomo, in cui gli atti di raccolta, alimentazione e cura, prettamente femminili, si affermano come essenziali rispetto a quelli di caccia e cattura. Qui trovano spazio, tra l’altro, i gusci-bozzoli di Maria Bartuszová (1936-1996), le opere tessili della dadaista Sophie Taeuber-Arp (1889-1943), le ceramiche dell’hawaiana Toshiko Takaezu (1922-2011), nonché i modelli anatomici di Aletta Jacobs (1854-1929), prima donna ammessa in un’università olandese e unica donna medico esercitante per lungo tempo nei Paesi Bassi. Una segnalazione la meritano, infine, anche le tavole dell’artista e naturalista Maria Sibylla Merian (1647-1717), che nel 1699 affrontò il primo viaggio scientifico mai intrapreso da una donna e, arrivata nella colonia olandese del Suriname, dedicò i successivi due anni a documentare il ciclo vitale delle farfalle tropicali.

Tau Lewis, Vena Cava, 2021 Recycled leather, acrylic paint, coated nylon, steel armature 330 cm × 310 cm × 122 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
Infine la capsula «La seduzione del cyborg», il cui titolo è preso a prestito da un’opera di Liner Sharmlison, comprende opere di artiste di inizio ’900 che hanno immaginato nuove combinazioni tra umano e artificiale. E ospita, tra le altre, Hanna Hoch (1889-1978), Louise Nevelson (1899-1988), Giannina Censi (1913-1995) e il curioso lavoro della scultrice statunitense Anna Coleman Ladd (1878-1939), che realizzò artigianalmente una serie di maschere prostetiche per i reduci della Prima guerra mondiale, sfigurati in combattimento. 
In questa sezione si trova anche Rebecca Horn (1944) con «Kiss of the Rhinoceros» (1989), un’opera che Melanie Kress presenta, nella guida, con queste parole: «due enormi bracci metallici, ciascuno culminante con un corno di rinoceronte in metallo, formano un cerchio quasi completo. I bracci si allontanano lentamente l’uno dall’altro e quando i corni si toccano, all’apice del cerchio, vengono attraversati da una scarica di elettricità. L’opera respira nelle aperture e chiusure ritmiche dei suoi bracci in acciaio. Horn riesce a rendere questo gesto del corpo umano in una figura cyborg che fonde animale, metallo e pezzi meccanici, mettendo così in discussione il primato o la purezza della forma umana».

Andra Ursuţa, veduta dell’installazione,  59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia
Fuori dalle capsule dominano le opere a parete, spesso con riferimenti a culture originarie, non-occidentali, non-bianche e non-binarie, ma non mancano opere monumentali, e di grande impatto visivo, a cominciare dalla enorme dea africana in bronzo, senz’occhi, che accoglie il visitatore all’Arsenale.Si tratta di «Brick House», un lavoro di Simone Leigh (1967), scultrice afroamericana che rappresenta anche gli Stati Uniti nel Paglione nazionale ai Giardini, con un racconto di opere che rimanda alla diaspora dal continente nero, allo schiavismo, alla forza delle donne. Tra le visioni più potenti ci sono anche l’elefante in scala 1:1 della tedesca Katharina Frisch (1956), i mascheroni di pelle riciclata della canadese Tau Lewis (1993), le grandi chele della spagnola Teresa Solar (1985), l’installazione «To see the earth before the end of the world» (2022), un paesaggio di terra, figure, piante, insetti e ruscelli realizzato dal britannico Precious Okoyomon (1993), e l'opera «Earthly Paradise» (2022), un labirinto odoroso a grandezza naturale di terra mista a fieno, farina di manioca, polvere di cacao e spezie come chiodi di garofano e cannella a firma del colombiano Delcy Morelos (1967).
Barbara Kruger Untitled (Beginning/Middle/End), 2022 Site-specific installation, print on vinylThree-channel video installation (on 3 flatscreen monitors), sound Dimensions variable 5 mins. 35 sec. With the additional support of Spruth Magers; Maharam 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:  Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
C’è, dunque, tanto da vedere in questa cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia, che si inchina riconoscente al passato e che, come sempre, è sismografo del presente. Un presente di grande instabilità e incertezza, che ci sta vedendo lentamente uscire da una pandemia, quella da Covid 19 (a causa della quale la manifestazione veneziana è stata posticipata di un anno), e che sente spirare minacciosi venti di guerra ai confini dell’Europa. La kermesse lagunare si è così arricchita in corso d’opera di uno dei lavori più fotografati di questa edizione: «Piazza Ucraina», un’installazione progettata dall’architetto Dana Kosmina, allo Spazio Esedra dei Giardini della Biennale, che vede la curatela di Borys Filonenko, Lizaveta German e Maria Lanko. Attorno a un monumento ricoperto di sacchi di sabbia, a rievocare la pratica messa in atto in guerra per proteggere i monumenti pubblici dai danni degli attacchi, vengono raccolti ed esposti dagli artisti ucraini disegni, testi, documenti diffusi attraverso i social network dalla popolazione. Ci troviamo così di fronte a una forma di testimonianza, in tempo reale e in continua evoluzione, che documenta, in perfetta linea con i propositi di questa Biennale veneziana, la capacità dell’arte di narrare il presente che si fa storia, di dare immagine a desideri e paure, di sognare un mondo nuovo.
Book render del catalogo della Biennale d'arte di Venezia 2022


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Informazioni utili
«Il latte dei sogni». 59. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: dal 23 aprile al 25 settembre, ore 11 – 19 (ultimo ingresso 18:45); dal 27 settembre al 27 novembre, ore 10 – 18 (ultimo ingresso 17:45); solo sede Arsenale, fino al 25 settembre: venerdì e sabato apertura prolungata fino alle ore 20 (ultimo ingresso: 19.45). Ingresso: intero € 25,00, ridotto € 20,00, i costi degli altri biglietti (gruppi, pluringresso e accredito) sono disponibili sul sito internet. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Da sabato 23 aprile a domenica 27 novembre 2022.