Da oltre sessant'anni fanno giocare bambine e bambini di tutto il mondo, ma non smettono di affascinare gli adulti. Stiamo parlando dei mattoncini Lego, dichiarati nel 1999 «giocattoli del secolo» dalla rivista «Fortune», a cui Genertel, la compagnia diretta di Generali Italia nata nel 1994, dedica in questi giorni, con la complicità di Arthemisia e in occasione dei venticinque anni dalla sua fondazione, una mostra al Salone degli incanti di Trieste.
«I love lego» è il titolo della rassegna, che ha portato in Friuli Venezia Giulia oltre un milione di mattoncini, utilizzati per comporre città moderne e monumenti antichi per oltre cento metri quadrati di scenari.
Dalla metropoli contemporanea ideale alle avventure leggendarie dei pirati, dai paesaggi medievali agli splendori dell’Antica Roma, fino alla conquista dello spazio sono tanti i mondi in miniatura, progettati e costruiti a Trieste da RomaBrick, uno dei LUG (Lego® User Group) più antichi d’Europa, con il giocattolo ideato da Ole Kirk Kristiansen, falegname danese della piccola città di Billund, sede del più antico parco Legoland.
In altre parole, dietro ogni edificio, strada, mezzo o piazza che i visitatori del Salone degli incanti vedranno c’è un lavoro collettivo e assolutamente originale, frutto della collaborazione di un team che vanta al suo interno la presenza di numerosi architetti e ingegneri.
Ad accogliere il pubblico in mostra è un grande diorama ispirato alle avventure nei lontani mari caraibici, tra navi pirata, atolli di origine vulcanica e il leggendario kraken, un gigantesco cefalopode dai tentacoli lunghissimi, simili a un calamaro, costruito con oltre cinquemila pezzi.
Si approda, quindi, sullo spazio con la riproduzione di un insediamento minerario lunare, in cui l’uomo si avvale dell’aiuto di astronavi, droidi e macchinari per la ricerca di nuove risorse.
Sembra, questa, la riproposizione di tante scene avveniristiche viste al cinema e proprio alla «settima arte» si rifà il diorama «Nido d’aquila», ispirato alla saga «A Song of Ice and Fire» dello scrittore americano George R.R. Martin e alla pluripremiata serie televisiva «Game of Thrones».
Lo scenario, esposto per la prima volta al Lucca Comics and Games nel 2016 e in continua costruzione, occupa attualmente una superficie di quasi 3 metri quadrati e fa uso di oltre trecentomila pezzi, mentre la sommità dell’inespugnabile roccaforte, residenza della casata Arryn, raggiunge 1,80 metri di altezza.
Altro spettacolare diorama work in progress è quello dedicato alla città contemporanea, iniziato nel 2010 da Marcello Amalfitano, Marco Cancellieri, Antonio Cerretti e Manuel Montaldo. Con oltre 250mila mattoncini sono stati edificati stadi, tratte ferroviarie, zone verdi e aree ricreative, oltre al «BrickTheater», al «Legolad Hospital», al Museo archeologico e all’«Empire Brick Building», edificio ispirato al famoso grattacielo di New York.
Guardano, invece, al passato i diorami dedicati ai fori romani imperiali e a un castello di ispirazione medioevale. Il primo lavoro riproduce con 80mila mattoncini il Foro di Nerva o Transitorio, un insieme di monumentali piazze che costituivano il centro della città di Roma in epoca imperiale.
L’altro diorama, nato da un'idea di Marco Cancellieri e Jonathan Petrongari nel 2011, mette in mostra una città fortificata e un piccolo villaggio alle porte di Winterfell, la dimora della casata Stark nel profondo Nord. Ancora un omaggio, quindi, agli appassionati della serie televisiva «Game of Thrones».
Il progetto espositivo triestino prevede, inoltre, il coinvolgimento dei giovani artisti Fabio Ferrone Viola, Luigi Folliero, Irem Incedayi, Daniele Clementucci e Corrado Delfini con le loro opere a tema Lego: spunti pop e materiali di riciclo per raccontare come un gioco possa trasformarsi in arte.
Informazioni utili
I love Lego. Salone degli Incanti, Riva Nazario Sauro, 1 - Trieste. Orari: da martedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (ultimo ingresso 45 minuti prima) | aperture straordinarie: domenica 21 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; lunedì 22 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giovedì 25 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; mercoledì 1° maggio, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; domenica 2 giugno, dalle ore 10.00 alle ore 19.00. Biglietti: intero € 11,00, ridotto € 9,00; sono previste altre forme di riduzione per i dipendenti e i clienti Genertel. Informazioni: www.arthemisia.it , www.triestecultura.it. Fino al 30 giugno 2019
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 8 maggio 2019
lunedì 6 maggio 2019
I Ciardi, pittori di paesaggi e giardini
«Un buon ombrello bianco e il vero», una tavolozza di colori e la magia della natura a fare da compagna: non basta altro a Guglielmo Ciardi (Venezia, 1842-1917) quando, nei paesaggi campestri del suo amato Veneto, si dedica alla pittura.
Sono gli anni dell’arte en plein air, quelli degli stagni ridondanti di ninfee di Claude Monet, dalle alzaie dei macchiaioli e del verde dei parchi e dei giardini francesi che ammaliarono Pierre August Renoir, Camille Pisarro e tanti altri impressionisti.
Sono gli anni della «scuola del vero» veneziana, quella che ha un debito di riconoscenza nei confronti del paesaggista padovano Domenico Bresolin (1813 –1900), docente nella classe di «Vedute di paese e di mare» all’Accademia di belle arti di Venezia. È, infatti, questo artista, uno dei pionieri nell’uso del mezzo fotografico, che, nella tarda estate del 1865, invita alcuni dei suoi migliori allievi, tra cui Guglielmo Ciardi, a fare un’esperienza di immersione totalizzante nella pedemontana trevigiana, per studiare un paesaggio diverso da quello lagunare.
In quelle sei settimane di esercizio, Domenico Bresolin stimola i suoi giovani alunni a dipingere en plein air e a rapportarsi direttamente con la realtà naturale, superando così quei limiti che il «paesaggio di composizione», praticato all’interno delle aule, imponeva agli allievi.
Per Guglielmo Ciardi è la novità che segna una carriera. Qualche anno dopo, intorno al 1870, l’artista veneziano è ancora là, nella marca trevigiana, probabilmente lungo le rive del Sile, quando l’amico e collega Egisto Lancerotto (1847-1916) lo ritrae intento a dare forma e colori al paesaggio e alle sue variazioni di luce. Gugliemo Ciardi è giovane e barbuto. Sta seduto su un tronco d’albero davanti al suo cavalletto, su cui è montata una tela di circa cinquanta centimetri per settanta. Porta un berretto in testa e una camicia bianca su dei pantaloni da lavoro scuri. Studia i toni dell’atmosfera, il contrasto e l’integrazione tra le luci e le ombre.
Questo ritratto è stato scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «I Ciardi. Paesaggi e giardini» allestita al Palazzo Sarcinelli di Conegliano Veneto, per la curatela di Giandomenico Romanelli e l’organizzazione di Civita Tre Venezie.
Attraverso una sessantina di opere viene ripercorsa non solo la carriera di Guglielmo, ma anche quella dei figli Beppe (Venezia, 1875-Quinto di Treviso, 1932) ed Emma (Venezia, 1879-1933), protagonisti della stagione pittorica, italiana e internazionale, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, con la partecipazione alle Biennali di Venezia e a importanti appuntamenti espositivi tra Londra e Monaco, come ricordava Ugo Ojetti, nell’ottobre del 1909, sulle pagine del «Corriere della Sera».
Il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo pubblicato da Marsilio editore, prosegue, quindi, con un focus sugli esordi di Guglielmo, ancora influenzato dalla tradizione paesaggistica accademica, come si nota dal precocissimo e inedito dipinto «Paesaggio fuviale» del 1859.
Si possono, poi, ammirare una serie di straordinarie vedute campestri dei primi anni Settanta, spesso ambientate lungo quel suggestivo corso d’acqua di risorgiva che è il Sile, un territorio ancora incontaminato e lontano dalle seduzioni turistiche.
I prolungati soggiorni attorno a Quinto di Treviso, Fonzaso, Asiago e San Martino di Castrozza permettono a Guglielmo di instaurare un dialogo intimo con questi territori, protagonisti, anno dopo anno, delle sue opere paesaggistiche al pari della laguna veneziana (non trattata in questa mostra per esplicita scelta del curatore Romanelli).
Non mancano lungo il percorso espositivo paesaggi dolomitici, immagini dell’altipiano di Asiago e della Carnia, ritratti durante i lunghi soggiorni estivi in montagna. Tra le alte quote, Guglielmo si arrampica con il cavalletto portatile e la tavolozza per schizzare e dipingere in solitudine «dal vero», immerso nella natura e affascinato dall’ebbrezza della luce alpina, regalandoci quadri con verdi intensi che giocano con i toni argentini delle creste rocciose e gli azzurri dei cieli striati da nubi.
Guglielmo si dimostra, inoltre, sempre aggiornato sulla pittura europea di quegli anni: lo documentano i cicli degli anni Ottanta con stagni, ispirati alla pittura impressionista, o le suggestioni simboliste dell’ultima stagione, che risentono della fascinazione per la pittura nordica, apprezzata attraverso le esposizioni organizzate dalla Biennale di Venezia, di cui è l’artista tra i fondatori e alla quale partecipa per undici edizioni, fino al 1914.
La seconda sezione della mostra è dedicata, invece, al lavoro di Emma Ciardi, instancabile pittrice e viaggiatrice apprezzata a livello internazionale, cultrice della tradizione del vedutismo veneziano, capace di rielaborare le esperienze macchiaiole, impressioniste e tardo impressioniste con un’originale chiave espressiva.
L’artista riscopre la grande tradizione settecentesca di Francesco Guardi e delle sue «macchiette» (cioè le piccole scene collocate in parchi e giardini delle ville venete), riprendendone il brio e l’eleganza in chiave moderna. Le sue damine incipriate, i cavalieri danzanti in minuetti aggraziati, le carrozze, le livree dei valletti conquistano soprattutto il pubblico inglese.
Il paesaggio della Gran Bretagna, visitata e dipinta in compagnia del padre nel 1910, compare, poi, spesso nelle sue opere. Lungo il percorso espositivo si possono, per esempio, ammirare scorci del Tamigi e di Trafalgar Square, tutti giocati sui toni grigio-argentei tipici della City e del suo fiume, ma anche vivaci bozzetti «in cui -racconta Romanelli- passanti e mezzi di trasporto, come case e cieli, sono sagome di pasta colore che compongono lo spazio, elementi dinamici in cui la forma, perdendo definizione, si sfalda in vibrazioni di luce».
Il percorso si chiude con l’opera di Beppe Ciardi, presentata sotto una luce nuova che vuole mettere in evidenza la modernità e gli accenti simbolisti dell’autore, il quale, pur nella fedeltà alla poetica paterna, introduce elementi più tipicamente novecenteschi, frutto della fascinazione per l’opera di Arnold Böcklin, fino a dar spazio a una visione personale del paesaggio.
Nella sua pittura si afferma via via, oltre a una presenza pacata di animali e pastori, la centralità della figura umana che, grazie alla lezione di Ettore Tito, talora si emancipa fino a prevalere sul paesaggio.
Importante è per Beppe anche lo studio della pittura campestre di Giovanni Segantini, a cui lo introduce Vittore Grubicy de Dragon, pittore e noto promulgatore di concetti simbolisti e divisionisti. L’atmosfera cupa e brumosa delle opere dei primi anni lascia così spazio a toni più chiari e ricchi di luce; la pennellata si fa col tempo sempre più larga, avvolgente, gli impasti sempre più spessi e robusti.
Il percorso espositivo evidenzia così l’evoluzione del linguaggio di ciascuno dei tre autori, mettendo in evidenza peculiarità, convergenze e divergenze nel loro modo di trattare la pittura paesaggistica. Come osserva il curatore Giandomenico Romanelli «la ricchezza della loro scelta […] si misura nelle radicali novità che essi (e soprattutto Guglielmo) sanno introdurre in questo genere pittorico: la luce declinata in tutte le possibili atmosfere, la presenza viva e palpitante della natura nelle piante, nei campi, nelle messi, nelle distese di eriche; la maestosità spesso scabra delle masse montuose, colte nella luce azzurra dell’alba o in quella struggente e aranciata dei tramonti, i filari, i covoni, i corsi d’acqua».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Guglielmo Ciardi tra i figli Emma e Beppe; [Fig. 2] Gugliemo Ciardi, «Mattino alpestre (Sorapis)», 1894 circa. Olio su tela, 150 X 300 cm Venezia, Istituto Veneto di SS.LL.AA. – V.I.C.; [fig. 3] Guglielmo Ciardi, «Lungo il Sile», Anni Ottanta dell’Ottocento. Olio su tela, 105 X 81 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 4] Emma Ciardi, «Dame mascherate», 1909 circa. Olio su tela, 44,5 X 51,3 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 5] Emma Ciardi, «Oxford Street», 1908. Olio su cartone, 20 X 27cm Padova, Courtesy Galleria Arte Cesaro; [fig. 6] Beppe Ciardi, «Zattera», 1925 ca.. Olio su tela, 64 x 92 cm. Pordenone, Collezione privata; [fig. 7] Beppe Ciardi, «Il bagno o Ragazzi sul fiume», 1899. Olio su tavola, 36 x 56 cm. Voghera, Collezione privata. © Saporetti, Milano
Informazioni utili
«I Ciardi. Paesaggi e giardini». Palazzo Sarcinelli, via XX Settembre, 132 - Conegliano (Treviso). Orari: martedì – giovedì, ore 9.00 – 18.00; venerdì – domenica, ore 10.00 -19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 8,50 (studenti, adulti over 65 anni, convenzioni, gruppi con almeno 10 unità, residenti nel Comune di Conegliano nei giorni feriali) o € 7,00 (gruppi da 10 a 25 persone), ridotto scuole € 4,00, biglietto famiglia € 25,00. Informazioni: tel. 0438.1932123. Sito internet: www.mostraciardi.it. Fino al 23 giugno 2019
Sono gli anni dell’arte en plein air, quelli degli stagni ridondanti di ninfee di Claude Monet, dalle alzaie dei macchiaioli e del verde dei parchi e dei giardini francesi che ammaliarono Pierre August Renoir, Camille Pisarro e tanti altri impressionisti.
Sono gli anni della «scuola del vero» veneziana, quella che ha un debito di riconoscenza nei confronti del paesaggista padovano Domenico Bresolin (1813 –1900), docente nella classe di «Vedute di paese e di mare» all’Accademia di belle arti di Venezia. È, infatti, questo artista, uno dei pionieri nell’uso del mezzo fotografico, che, nella tarda estate del 1865, invita alcuni dei suoi migliori allievi, tra cui Guglielmo Ciardi, a fare un’esperienza di immersione totalizzante nella pedemontana trevigiana, per studiare un paesaggio diverso da quello lagunare.
In quelle sei settimane di esercizio, Domenico Bresolin stimola i suoi giovani alunni a dipingere en plein air e a rapportarsi direttamente con la realtà naturale, superando così quei limiti che il «paesaggio di composizione», praticato all’interno delle aule, imponeva agli allievi.
Per Guglielmo Ciardi è la novità che segna una carriera. Qualche anno dopo, intorno al 1870, l’artista veneziano è ancora là, nella marca trevigiana, probabilmente lungo le rive del Sile, quando l’amico e collega Egisto Lancerotto (1847-1916) lo ritrae intento a dare forma e colori al paesaggio e alle sue variazioni di luce. Gugliemo Ciardi è giovane e barbuto. Sta seduto su un tronco d’albero davanti al suo cavalletto, su cui è montata una tela di circa cinquanta centimetri per settanta. Porta un berretto in testa e una camicia bianca su dei pantaloni da lavoro scuri. Studia i toni dell’atmosfera, il contrasto e l’integrazione tra le luci e le ombre.
Questo ritratto è stato scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «I Ciardi. Paesaggi e giardini» allestita al Palazzo Sarcinelli di Conegliano Veneto, per la curatela di Giandomenico Romanelli e l’organizzazione di Civita Tre Venezie.
Attraverso una sessantina di opere viene ripercorsa non solo la carriera di Guglielmo, ma anche quella dei figli Beppe (Venezia, 1875-Quinto di Treviso, 1932) ed Emma (Venezia, 1879-1933), protagonisti della stagione pittorica, italiana e internazionale, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, con la partecipazione alle Biennali di Venezia e a importanti appuntamenti espositivi tra Londra e Monaco, come ricordava Ugo Ojetti, nell’ottobre del 1909, sulle pagine del «Corriere della Sera».
Il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo pubblicato da Marsilio editore, prosegue, quindi, con un focus sugli esordi di Guglielmo, ancora influenzato dalla tradizione paesaggistica accademica, come si nota dal precocissimo e inedito dipinto «Paesaggio fuviale» del 1859.
Si possono, poi, ammirare una serie di straordinarie vedute campestri dei primi anni Settanta, spesso ambientate lungo quel suggestivo corso d’acqua di risorgiva che è il Sile, un territorio ancora incontaminato e lontano dalle seduzioni turistiche.
I prolungati soggiorni attorno a Quinto di Treviso, Fonzaso, Asiago e San Martino di Castrozza permettono a Guglielmo di instaurare un dialogo intimo con questi territori, protagonisti, anno dopo anno, delle sue opere paesaggistiche al pari della laguna veneziana (non trattata in questa mostra per esplicita scelta del curatore Romanelli).
Non mancano lungo il percorso espositivo paesaggi dolomitici, immagini dell’altipiano di Asiago e della Carnia, ritratti durante i lunghi soggiorni estivi in montagna. Tra le alte quote, Guglielmo si arrampica con il cavalletto portatile e la tavolozza per schizzare e dipingere in solitudine «dal vero», immerso nella natura e affascinato dall’ebbrezza della luce alpina, regalandoci quadri con verdi intensi che giocano con i toni argentini delle creste rocciose e gli azzurri dei cieli striati da nubi.
Guglielmo si dimostra, inoltre, sempre aggiornato sulla pittura europea di quegli anni: lo documentano i cicli degli anni Ottanta con stagni, ispirati alla pittura impressionista, o le suggestioni simboliste dell’ultima stagione, che risentono della fascinazione per la pittura nordica, apprezzata attraverso le esposizioni organizzate dalla Biennale di Venezia, di cui è l’artista tra i fondatori e alla quale partecipa per undici edizioni, fino al 1914.
La seconda sezione della mostra è dedicata, invece, al lavoro di Emma Ciardi, instancabile pittrice e viaggiatrice apprezzata a livello internazionale, cultrice della tradizione del vedutismo veneziano, capace di rielaborare le esperienze macchiaiole, impressioniste e tardo impressioniste con un’originale chiave espressiva.
L’artista riscopre la grande tradizione settecentesca di Francesco Guardi e delle sue «macchiette» (cioè le piccole scene collocate in parchi e giardini delle ville venete), riprendendone il brio e l’eleganza in chiave moderna. Le sue damine incipriate, i cavalieri danzanti in minuetti aggraziati, le carrozze, le livree dei valletti conquistano soprattutto il pubblico inglese.
Il paesaggio della Gran Bretagna, visitata e dipinta in compagnia del padre nel 1910, compare, poi, spesso nelle sue opere. Lungo il percorso espositivo si possono, per esempio, ammirare scorci del Tamigi e di Trafalgar Square, tutti giocati sui toni grigio-argentei tipici della City e del suo fiume, ma anche vivaci bozzetti «in cui -racconta Romanelli- passanti e mezzi di trasporto, come case e cieli, sono sagome di pasta colore che compongono lo spazio, elementi dinamici in cui la forma, perdendo definizione, si sfalda in vibrazioni di luce».
Il percorso si chiude con l’opera di Beppe Ciardi, presentata sotto una luce nuova che vuole mettere in evidenza la modernità e gli accenti simbolisti dell’autore, il quale, pur nella fedeltà alla poetica paterna, introduce elementi più tipicamente novecenteschi, frutto della fascinazione per l’opera di Arnold Böcklin, fino a dar spazio a una visione personale del paesaggio.
Nella sua pittura si afferma via via, oltre a una presenza pacata di animali e pastori, la centralità della figura umana che, grazie alla lezione di Ettore Tito, talora si emancipa fino a prevalere sul paesaggio.
Importante è per Beppe anche lo studio della pittura campestre di Giovanni Segantini, a cui lo introduce Vittore Grubicy de Dragon, pittore e noto promulgatore di concetti simbolisti e divisionisti. L’atmosfera cupa e brumosa delle opere dei primi anni lascia così spazio a toni più chiari e ricchi di luce; la pennellata si fa col tempo sempre più larga, avvolgente, gli impasti sempre più spessi e robusti.
Il percorso espositivo evidenzia così l’evoluzione del linguaggio di ciascuno dei tre autori, mettendo in evidenza peculiarità, convergenze e divergenze nel loro modo di trattare la pittura paesaggistica. Come osserva il curatore Giandomenico Romanelli «la ricchezza della loro scelta […] si misura nelle radicali novità che essi (e soprattutto Guglielmo) sanno introdurre in questo genere pittorico: la luce declinata in tutte le possibili atmosfere, la presenza viva e palpitante della natura nelle piante, nei campi, nelle messi, nelle distese di eriche; la maestosità spesso scabra delle masse montuose, colte nella luce azzurra dell’alba o in quella struggente e aranciata dei tramonti, i filari, i covoni, i corsi d’acqua».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Guglielmo Ciardi tra i figli Emma e Beppe; [Fig. 2] Gugliemo Ciardi, «Mattino alpestre (Sorapis)», 1894 circa. Olio su tela, 150 X 300 cm Venezia, Istituto Veneto di SS.LL.AA. – V.I.C.; [fig. 3] Guglielmo Ciardi, «Lungo il Sile», Anni Ottanta dell’Ottocento. Olio su tela, 105 X 81 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 4] Emma Ciardi, «Dame mascherate», 1909 circa. Olio su tela, 44,5 X 51,3 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 5] Emma Ciardi, «Oxford Street», 1908. Olio su cartone, 20 X 27cm Padova, Courtesy Galleria Arte Cesaro; [fig. 6] Beppe Ciardi, «Zattera», 1925 ca.. Olio su tela, 64 x 92 cm. Pordenone, Collezione privata; [fig. 7] Beppe Ciardi, «Il bagno o Ragazzi sul fiume», 1899. Olio su tavola, 36 x 56 cm. Voghera, Collezione privata. © Saporetti, Milano
Informazioni utili
«I Ciardi. Paesaggi e giardini». Palazzo Sarcinelli, via XX Settembre, 132 - Conegliano (Treviso). Orari: martedì – giovedì, ore 9.00 – 18.00; venerdì – domenica, ore 10.00 -19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 8,50 (studenti, adulti over 65 anni, convenzioni, gruppi con almeno 10 unità, residenti nel Comune di Conegliano nei giorni feriali) o € 7,00 (gruppi da 10 a 25 persone), ridotto scuole € 4,00, biglietto famiglia € 25,00. Informazioni: tel. 0438.1932123. Sito internet: www.mostraciardi.it. Fino al 23 giugno 2019
sabato 4 maggio 2019
«Segni esemplari», Bodoni e il suo «Manuale tipografico»
L’opera avrebbe in realtà visto la luce solo una ventina di anni dopo, nel 1818, pubblicata postuma dalla vedova dello studioso, Margherita, con l’intento di portare a termine quello che era stato un progetto lungamente pensato, e infine, avviato dal marito.
Al suo interno è contenuta una collezione di 665 alfabeti diversi e una serie di circa 1300 fregi, oltre a una prefazione nella quale Giambattista Bodoni espone alcuni criteri di metodo legati al suo modo di operare: «tanto più bello sarà un carattere -scrive per esempio-quanto più avrà regolarità, nettezza, buon gusto e grazia».
Questa raccolta, della quale si è appena festeggiato il bicentenario dalla pubblicazione, è al centro della mostra «Segni esemplari», promossa dal Museo bodoniano al Palazzo della Pilotta di Parma, con la curatela di Silvana Amato, che si è avvalsa per l’occasione dell’ausilio di Grazia Maria De Rubeis e Caterina Silva.
Il «Manuale tipografico» del 1818, a dispetto del titolo, non appartiene né all’ambito dei compendi né a quello dei campionari. Ci troviamo piuttosto di fronte a un orgoglioso e monumentale riepilogo con cui Giambattista Bodoni voleva mettere nero su bianco, fissando nel tempo, la sua attività. L’incisore e tipografo di Saluzzo non era, in realtà, nuovo alla pubblicazione di una raccolta di caratteri. Già nel 1788 aveva, infatti, dato alle stampe un «Manuale tipografico», in questo caso privo di prefazione e di testo esplicativo.
Evidentemente, lo studioso -racconta Silvana Amato- aveva mutuato il termine dal piccolo manuale tecnico di Pierre-Simon Fournier, il «Manuel typographique» del 1764, ma i «due volumi esprimevano, seppur con lo stesso titolo, due oggetti con funzione diversa. Quello di Fournier, in effetti, era un vero manuale nel senso di strumento divulgativo di descrizione degli elementi essenziali di una pratica complessa, dall’incisione dei punzoni all’impressione delle matrici e alla fusione dei caratteri mobili. Quello di Bodoni era, invece, un campionario di caratteri e ornamenti da lui realizzati».
Accanto ai due volumi di Giambattista Bodoni, ai suoi punzoni, alle sue matrici e agli studi manoscritti, la mostra alla Pilotta presenta anche alcuni manuali e campionari di caratteri realizzati da altri autori prima e dopo il 1818, con l’intento di raccontare in maniera più che esaustiva la scrittura alfabetica nella sua forma tipografica.
L’esposizione, il cui progetto grafico è curato da Rosanna Lama e Nicolò Mingolini, si apre, poi, anche al contemporaneo, presentando il lavoro di un selezionato gruppo di grafici internazionali. Si tratta di «testimonianze visive– racconta ancora Silvana Amato- che ci permettono di rintracciare, attraverso l’evoluzione della forma dei caratteri, lo svolgersi stesso della nostra storia, e di sfruttare l’occasione per avviare nuovi discorsi critici intorno al tema della scrittura come strumento di conoscenza».
Un omaggio, dunque, di grande interesse quello che il Palazzo della Pilotta fa a Giambattista Bodoni, uno dei più grandi innovatori della stampa tipografica, pioniere, insieme al collega francese Didot, dei cosiddetti caratteri tipografici moderni, e narratore con il suo «Manuale» della storia e della tecnica di un'arte antica, fondamentale per lo sviluppo dell'editoria.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Minuta autografa di lettera del 29 dicembre 1800 ad Andrés Franco Castellanos; [fig. 2] Lettera theta dell’alfabeto greco che appartiene ai cosiddetti caratteri “esotici” disegnati da Giambattista Bodoni è tratta dalla pagina 42 del secondo volume del «Manuale tipografico» del 1818; [fig. 3] Manifesto realizzato per la mostra dal grafico inglese Patrick Thomas che illustra su un muro uno dei primi principi acquisiti quando era studente: la crenatura (ovvero lo spazio bianco tra le lettere) si controlla meglio se il testo è rovesciato
Informazioni utili
«Segni esemplari». Palazzo della Pilotta - Galleria Petitot della Biblioteca Palatina, - Parma. Orari: dal lunedì al giovedì, dalle ore 9.00 alle ore 18.00, il venerdì e il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00. Ingresso: € 3,00. Informazioni: info@museobodoniano. Sito internet: www.museobodoniano.it. Fino al 18 maggio 2019
giovedì 2 maggio 2019
Brescia Photo Festival: la fotografia è donna
Da Man Ray a Robert Mapplethorpe, da Vanessa Beecroft a Francesca Woodman, da Julia Margaret Cameron a Mihaela Noroc ed Elisabetta Catalano: sono sguardi differenti di grandi artisti che dall’Ottocento a oggi hanno lasciato il proprio nome nel grande libro della storia mondiale della fotografia quelli che vanno in scena a Brescia in occasione della terza edizione del Brescia Photo Festival.
Da giovedì 2 a domenica 5 maggio dieci sedi espositive cittadine -per un totale di 4mila metri quadrati- ospiteranno diciannove esposizioni tra mostre tematiche, monografiche e one-off, in gran parte produzioni originali, oltre a talk con artisti, workshop, concerti, proiezioni cinematografiche e visite guidate.
Filo conduttore di questa edizione del festival, le cui rassegne temporanee proseguiranno in gran parte fino a settembre inoltrato, è la complessità dell’universo femminile nella società contemporanea: la donna davanti all'obiettivo come fonte di ispirazione creativa e la donna dietro l'obiettivo, come realizzatrice di opere fotografiche, sono, infatti, una costante importantissima e imprescindibile nel panorama internazionale.
La manifestazione, che si inaugurerà con un concerto per pianoforte del veneziano Alessandro Taverna (giovedì 2 maggio, alle ore 18), sarà anche un’importante occasione per valorizzare il patrimonio museale di Brescia, a partire dal Complesso di Santa Giulia, antico monastero femminile di origine longobarda, al cui interno saranno ospitate ben nove mostre del festival.
Il percorso può idealmente partire con la rassegna «Davanti l’obiettivo», a cura di Mario Trevisan, che racconta il nudo femminile attraverso un centinaio di scatti di artisti di fama internazionale, in un viaggio che va dagli albori della fotografia a oggi, passando dagli anni ’20 e dalla Parigi del periodo surrealista all'America Latina degli inizi del ‘900, senza dimenticare il Giappone e la sua cultura.
Al Museo di Santa Giulia viene proposta anche un’esposizione sulle più importanti fotografie italiane, «Dietro l’obiettivo», con oltre cento scatti provenienti dalla collezione di Donata Pizzi. Attraverso le opere in mostra –da quelle di reportage a quelle più spiccatamente sperimentali– affiorano i mutamenti concettuali, estetici e tecnologici che hanno caratterizzato la fotografia italiana dell’ultimo cinquantennio, dal 1965 al 2018.
Sempre alle donne fotografe è dedicata l’installazione «Parlando con voi», ideata da Giovanni Gastel, con trenta schermi su cui scorrono interviste esclusive e sequenze di opere e pubblicazioni di una trentina di artiste.
Chiude idealmente il trittico sul ritratto dal XIX al XXI secolo, ammiccando anche alla cultura del selfie, la rassegna «Autoritratto al femminile», a cura di Donata Pizzi e Mario Trevisan, con cinquanta opere che non si fermano alla semplice e formale produzione del ritratto, ma sono caratterizzate da una forte ricerca nella rappresentazione intimista del soggetto/oggetto.
Sempre al Museo di Santa Giulia sono allestite due monografiche, a cura della collezione Massimo Minini, con altrettante artiste alla loro prima volta in Italia: Julia Margaret Cameron, la più importante ritrattista di epoca vittoriana, ed Elisabetta Catalano, testimone della storia d’Italia dagli anni Settanta ai giorni nostri, di cui sono esposti trenta ritratti di grandi personaggi del Novecento.
Un’altra eccezionale prima per il nostro Paese è la mostra «Mihaela Noroc. The Atlas of Beauty», a cura di Roberta D'Adda e Katharina Mouratidi, che allinea quarantaquattro scatti tratti dal progetto sul mondo femminile e sul concetto di bellezza multiculturale, iniziato nel 2013 dalla fotografa romena e che ora conta oltre 2mila ritratti da più di cinquanta Paesi.
A completare questo percorso artistico-culturale al Complesso di Santa Giulia sono due progetti speciali, con altrettante opere uniche poste in dialogo immateriale con il patrimonio museale e i suoi modelli senza tempo.
L’esposizione «Dea. La Vittoria alata dalle immagini d’archivio a Galimberti» è dedicata alla straordinaria statua di bronzo, simbolo della città di Brescia, temporaneamente in restauro. Nella sezione romana del museo a immagini dell’Archivio fotografico dei Musei civici, che ripercorrono la storia della Vittoria alata, si affiancano tre opere inedite di Maurizio Galimberti, realizzate con la tecnica del fotocollage.
In «VBSS.002», esposta nella Basilica di San Salvatore (dal 2011 Patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco), Vanessa Beecroft ritrae se stessa come una Madonna che allatta due gemelli neri anziché un bambino bianco.
Un ulteriore progetto one-off, allestito nella Pinacoteca Tosio Martinengo, da poco riaperta dopo un lungo restauro, è «Ma-donne». Un meraviglioso scatto di Tazio Secchiaroli con Sophia Loren nell’inedita veste di una Madonna, icona per eccellenza della femminilità, si inserisce in un dialogo senza tempo con le opere della collezione permanente di pittura raffiguranti la Madonna, in un percorso trasversale a epoche e stili. Ai dipinti del percorso museale si aggiunge, in occasione della mostra, la «Vergine consolatrice» di Francesco Hayez, opera dipinta negli anni 1851-1853 su commissione del Comune di Brescia e ispirata alla grande tradizione del Rinascimento.
Un’altra location coinvolta nel festival è Ma.co.f. – Centro della fotografia italiana, situato nel barocco Palazzo Martinengo Colleoni. Qui quattro mostre indagano il ruolo della donna nella società e nel mondo del lavoro negli ultimi 70 anni, in Italia e all’estero.
«Happy Years. Sorrisi e malizie nel mito di Betty Page e nel mondo delle pin up», a cura di Renato Corsini e Francesco Fredi, espone una trentina di fotografie vintage degli anni ’50: immagini di Betty Page scattate da Paula Claw, insieme a un inedito reportage realizzato da Nicola Sansone sull'America di quel periodo e pubblicazioni e documenti originali d'epoca che parlano dell’affermazione dei diritti femminili e del ruolo della donna nell’America postbellica.
«Una, nessuna, centomila», a cura del Collettivo donne fotoreporter, racconta l’esperienza di dieci fotografe italiane, tra cui Kitti Bolognesi, Marcella Campagnano e Giovanna Calvenzi, che nel 1976 indagarono la relazione fra donna e fotografia, giocando con ruoli e stereotipi propri dell’immaginario femminile e ironizzando sui luoghi comuni legati al mestiere di fotografo.
«La rivoluzione silenziosa. Donne e lavoro nell’Italia che cambia», a cura di Tatiana Agliani, è un racconto fotografico corale della storia del lavoro delle donne in Italia e dei cambiamenti che ha portato nella condizione femminile, in un paese in trasformazione. Un centinaio di immagini, dai maestri del neorealismo agli autori contemporanei come Paola Agosti, Federico Garolla, Uliano Lucas, Giorgio Lotti, Paola Mattioli, Nino Migliori, Carlo Orsi e Ferdinando Scianna delineano aspirazioni e desideri che mutano, limiti e condizionamenti sociali, concezioni di sé e del proprio ruolo nella società, nuove possibilità, orizzonti culturali e prospettive di vita di quattro generazioni di donne.
A chiusura la proposta del Ma.co.f. è una monografica, a cura di Carolina Zani, che omaggia il fotografo bresciano Gian Butturini: trentacinque fotografie in bianco e nero raccolte tra quelle dei suoi numerosi reportage, raccontano la sua visione dell’universo femminile. Le protagoniste di questa mostra sono donne rappresentate dall'artista nella loro tenerezza e sensibilità, forza e passione, senza pose o rigorosi canoni estetici, ma attraverso semplici gesti e sguardi.
Il Brescia Photo Festival, quest’anno, uscirà anche fuori dai confini cittadini. A Montichiari sarà possibile vedere, dal 10 maggio, la mostra «Hollywood versus Cinecittà», a cura di Renato Corsini e Margherita Magnino, che mette a confronto le fotografie dei paparazzi della Roma della «Dolce Vita» con quelle della stampa hollywoodiana dell’America degli anni ’30. Mentre a Desenzano del Garda sarà ospitata, dall’11 maggio, «Miss Italia. Miti e leggende dell’era delle Miss», a cura di Renato Corsini, che racconta i miti e le leggende del celebre concorso, oltre all’evoluzione dell’estetica femminile, attraverso gli scatti di due grandi maestri della fotografia italiana, Federico Patellani e Gianni Berengo Gardin. La rappresentazione fotografica del concorso è sempre stata quella ufficiale, con gli scatti in posa destinati ai rotocalchi o alle dirette televisive, questa mostra vuole invece indagare dietro le quinte scoprendo i retroscena del concorso.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Vanessa Beecroft, VBSS.002, 2006-2008Digital C-Printcm. 230,8x177,8Collezione San Patrignano–Work in progress; [fig. 2] Hollywood versus Cinecittà. Sophia Loren. Foto: G.Palmas. Brescia Photo Festival 2019; [fig. 3] M. Noroc, The Atlas of Beauty - Milan, Italy, 2017; [fig. 4] Foto di Rudolf Koppitz per Donne davanti l’obiettivo; [fig. 5] Dietro l'obiettivo. Dalla collezione di Donata Pizzi. Courtesy of Letizia Battaglia, La bambina e il buio, Baucina, 1980; [fig. 6] Betty Page fotografata da Bunny Yeager
Informazioni utili
www.bresciaphotofestival.it
Da giovedì 2 a domenica 5 maggio dieci sedi espositive cittadine -per un totale di 4mila metri quadrati- ospiteranno diciannove esposizioni tra mostre tematiche, monografiche e one-off, in gran parte produzioni originali, oltre a talk con artisti, workshop, concerti, proiezioni cinematografiche e visite guidate.
Filo conduttore di questa edizione del festival, le cui rassegne temporanee proseguiranno in gran parte fino a settembre inoltrato, è la complessità dell’universo femminile nella società contemporanea: la donna davanti all'obiettivo come fonte di ispirazione creativa e la donna dietro l'obiettivo, come realizzatrice di opere fotografiche, sono, infatti, una costante importantissima e imprescindibile nel panorama internazionale.
La manifestazione, che si inaugurerà con un concerto per pianoforte del veneziano Alessandro Taverna (giovedì 2 maggio, alle ore 18), sarà anche un’importante occasione per valorizzare il patrimonio museale di Brescia, a partire dal Complesso di Santa Giulia, antico monastero femminile di origine longobarda, al cui interno saranno ospitate ben nove mostre del festival.
Il percorso può idealmente partire con la rassegna «Davanti l’obiettivo», a cura di Mario Trevisan, che racconta il nudo femminile attraverso un centinaio di scatti di artisti di fama internazionale, in un viaggio che va dagli albori della fotografia a oggi, passando dagli anni ’20 e dalla Parigi del periodo surrealista all'America Latina degli inizi del ‘900, senza dimenticare il Giappone e la sua cultura.
Al Museo di Santa Giulia viene proposta anche un’esposizione sulle più importanti fotografie italiane, «Dietro l’obiettivo», con oltre cento scatti provenienti dalla collezione di Donata Pizzi. Attraverso le opere in mostra –da quelle di reportage a quelle più spiccatamente sperimentali– affiorano i mutamenti concettuali, estetici e tecnologici che hanno caratterizzato la fotografia italiana dell’ultimo cinquantennio, dal 1965 al 2018.
Sempre alle donne fotografe è dedicata l’installazione «Parlando con voi», ideata da Giovanni Gastel, con trenta schermi su cui scorrono interviste esclusive e sequenze di opere e pubblicazioni di una trentina di artiste.
Chiude idealmente il trittico sul ritratto dal XIX al XXI secolo, ammiccando anche alla cultura del selfie, la rassegna «Autoritratto al femminile», a cura di Donata Pizzi e Mario Trevisan, con cinquanta opere che non si fermano alla semplice e formale produzione del ritratto, ma sono caratterizzate da una forte ricerca nella rappresentazione intimista del soggetto/oggetto.
Sempre al Museo di Santa Giulia sono allestite due monografiche, a cura della collezione Massimo Minini, con altrettante artiste alla loro prima volta in Italia: Julia Margaret Cameron, la più importante ritrattista di epoca vittoriana, ed Elisabetta Catalano, testimone della storia d’Italia dagli anni Settanta ai giorni nostri, di cui sono esposti trenta ritratti di grandi personaggi del Novecento.
Un’altra eccezionale prima per il nostro Paese è la mostra «Mihaela Noroc. The Atlas of Beauty», a cura di Roberta D'Adda e Katharina Mouratidi, che allinea quarantaquattro scatti tratti dal progetto sul mondo femminile e sul concetto di bellezza multiculturale, iniziato nel 2013 dalla fotografa romena e che ora conta oltre 2mila ritratti da più di cinquanta Paesi.
A completare questo percorso artistico-culturale al Complesso di Santa Giulia sono due progetti speciali, con altrettante opere uniche poste in dialogo immateriale con il patrimonio museale e i suoi modelli senza tempo.
L’esposizione «Dea. La Vittoria alata dalle immagini d’archivio a Galimberti» è dedicata alla straordinaria statua di bronzo, simbolo della città di Brescia, temporaneamente in restauro. Nella sezione romana del museo a immagini dell’Archivio fotografico dei Musei civici, che ripercorrono la storia della Vittoria alata, si affiancano tre opere inedite di Maurizio Galimberti, realizzate con la tecnica del fotocollage.
In «VBSS.002», esposta nella Basilica di San Salvatore (dal 2011 Patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco), Vanessa Beecroft ritrae se stessa come una Madonna che allatta due gemelli neri anziché un bambino bianco.
Un ulteriore progetto one-off, allestito nella Pinacoteca Tosio Martinengo, da poco riaperta dopo un lungo restauro, è «Ma-donne». Un meraviglioso scatto di Tazio Secchiaroli con Sophia Loren nell’inedita veste di una Madonna, icona per eccellenza della femminilità, si inserisce in un dialogo senza tempo con le opere della collezione permanente di pittura raffiguranti la Madonna, in un percorso trasversale a epoche e stili. Ai dipinti del percorso museale si aggiunge, in occasione della mostra, la «Vergine consolatrice» di Francesco Hayez, opera dipinta negli anni 1851-1853 su commissione del Comune di Brescia e ispirata alla grande tradizione del Rinascimento.
Un’altra location coinvolta nel festival è Ma.co.f. – Centro della fotografia italiana, situato nel barocco Palazzo Martinengo Colleoni. Qui quattro mostre indagano il ruolo della donna nella società e nel mondo del lavoro negli ultimi 70 anni, in Italia e all’estero.
«Happy Years. Sorrisi e malizie nel mito di Betty Page e nel mondo delle pin up», a cura di Renato Corsini e Francesco Fredi, espone una trentina di fotografie vintage degli anni ’50: immagini di Betty Page scattate da Paula Claw, insieme a un inedito reportage realizzato da Nicola Sansone sull'America di quel periodo e pubblicazioni e documenti originali d'epoca che parlano dell’affermazione dei diritti femminili e del ruolo della donna nell’America postbellica.
«Una, nessuna, centomila», a cura del Collettivo donne fotoreporter, racconta l’esperienza di dieci fotografe italiane, tra cui Kitti Bolognesi, Marcella Campagnano e Giovanna Calvenzi, che nel 1976 indagarono la relazione fra donna e fotografia, giocando con ruoli e stereotipi propri dell’immaginario femminile e ironizzando sui luoghi comuni legati al mestiere di fotografo.
«La rivoluzione silenziosa. Donne e lavoro nell’Italia che cambia», a cura di Tatiana Agliani, è un racconto fotografico corale della storia del lavoro delle donne in Italia e dei cambiamenti che ha portato nella condizione femminile, in un paese in trasformazione. Un centinaio di immagini, dai maestri del neorealismo agli autori contemporanei come Paola Agosti, Federico Garolla, Uliano Lucas, Giorgio Lotti, Paola Mattioli, Nino Migliori, Carlo Orsi e Ferdinando Scianna delineano aspirazioni e desideri che mutano, limiti e condizionamenti sociali, concezioni di sé e del proprio ruolo nella società, nuove possibilità, orizzonti culturali e prospettive di vita di quattro generazioni di donne.
A chiusura la proposta del Ma.co.f. è una monografica, a cura di Carolina Zani, che omaggia il fotografo bresciano Gian Butturini: trentacinque fotografie in bianco e nero raccolte tra quelle dei suoi numerosi reportage, raccontano la sua visione dell’universo femminile. Le protagoniste di questa mostra sono donne rappresentate dall'artista nella loro tenerezza e sensibilità, forza e passione, senza pose o rigorosi canoni estetici, ma attraverso semplici gesti e sguardi.
Il Brescia Photo Festival, quest’anno, uscirà anche fuori dai confini cittadini. A Montichiari sarà possibile vedere, dal 10 maggio, la mostra «Hollywood versus Cinecittà», a cura di Renato Corsini e Margherita Magnino, che mette a confronto le fotografie dei paparazzi della Roma della «Dolce Vita» con quelle della stampa hollywoodiana dell’America degli anni ’30. Mentre a Desenzano del Garda sarà ospitata, dall’11 maggio, «Miss Italia. Miti e leggende dell’era delle Miss», a cura di Renato Corsini, che racconta i miti e le leggende del celebre concorso, oltre all’evoluzione dell’estetica femminile, attraverso gli scatti di due grandi maestri della fotografia italiana, Federico Patellani e Gianni Berengo Gardin. La rappresentazione fotografica del concorso è sempre stata quella ufficiale, con gli scatti in posa destinati ai rotocalchi o alle dirette televisive, questa mostra vuole invece indagare dietro le quinte scoprendo i retroscena del concorso.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Vanessa Beecroft, VBSS.002, 2006-2008Digital C-Printcm. 230,8x177,8Collezione San Patrignano–Work in progress; [fig. 2] Hollywood versus Cinecittà. Sophia Loren. Foto: G.Palmas. Brescia Photo Festival 2019; [fig. 3] M. Noroc, The Atlas of Beauty - Milan, Italy, 2017; [fig. 4] Foto di Rudolf Koppitz per Donne davanti l’obiettivo; [fig. 5] Dietro l'obiettivo. Dalla collezione di Donata Pizzi. Courtesy of Letizia Battaglia, La bambina e il buio, Baucina, 1980; [fig. 6] Betty Page fotografata da Bunny Yeager
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venerdì 19 aprile 2019
Tullio Pericoli, le Marche e i suoi paesaggi dell’anima
Sono passati tre anni da quando un drammatico terremoto devastò il centro Italia. Un sisma, soprattutto quando porta con sé lutti e distruzione, diventa quasi sempre occasione per ripensare alla fragilità di un territorio come quello italiano, ma soprattutto per riflettere sull’«anima dei luoghi», ovvero su quei legami complessi e mutevoli che si instaurano tra i suoi abitanti e che vanno a comporre la memoria, individuale e collettiva, di una comunità.
Da quell’agosto del 2016, la città di Ascoli Piceno ha visto ridisegnato il volto del territorio che la circonda: oltre alle gravi lesioni subite dai campanili cittadini delle chiese della Madonna del Ponte e di Sant’Angelo Magno, è il panorama intorno, quell’insieme di verdi colline e dolci declivi che si avvicendano fino al mare, simbolo e orgoglio della terra marchigiana, a non essere più lo stesso.
Ripensare a quell’ambiente, ma anche alla frattura fisica ed emotiva che lo ha colpito, è l’obiettivo della mostra-evento «Tullio Pericoli. Forme del paesaggio. 1970-2018», allestita per oltre un anno, fino al 2 maggio 2020, al Palazzo dei Capitani, edificio medioevale dalla caratteristica torre merlata, affacciato sul «salotto buono» di piazza del Popolo.
Ascoli Piceno ha, dunque, invitato uno dei suoi figli più illustri, Tullio Pericoli (Colli del Tronto - Ascoli Piceno, 1936), a raccontare le radici del suo vissuto attraverso la pittura, o meglio la pittura di paesaggio, un genere che lo ha visto per oltre cinquant’anni dare, con il suo tratto leggero ed elegante, forma e colore a luoghi reali e del cuore, dalle Laghe al Piceno, regalandoci un diario per immagini «fitto -per usare le parole di Giorgio Manganelli- di segni, di tracce e di appunti».
Ne è nato un percorso antologico, per la curatela di Claudio Cerritelli, con una scelta di centosessantacinque opere, commisurata alle caratteristiche ambientali del Palazzo dei Capitani, un luogo simbolo per Tullio Pericoli che oltre sessant’anni fa, nel 1958, tenne qui la sua prima mostra, tappa iniziale di un percorso che, oltre a dipingere, lo ha visto disegnare per importanti testate giornalistiche come il «Corriere della Sera», «L’Espresso», «Linus», «La Repubblica», «The Guardian» ed «El País», nonchè lavorare per il teatro in qualità di scenografo e costumista, illustrare storie e scrivere libri.
«Le «forme del paesaggio» -raccontano a Palazzo dei Capitani- sono proposte, sala per sala, come un viaggio a ritroso nei quasi cinquanta anni di ricerca che l’artista ha dedicato a questo tema: a partire dalle opere più recenti si risale alle radici della pittura di Tullio Pericoli, tramite un susseguirsi di momenti analitici ed emozionali che esplorano il volto mutevole della nostra terra a partire dalla sua natura più profonda».
Si tratta di momenti differenti di un unico viaggio caratterizzato da un segno rigoroso, pur quando emotivo, fatto da «una mano che pensa», una mano che ha avuto modo di riflettere a lungo su quel paesaggio che ha trovato tra i suoi più illustri cantori Lorenzo Lotto. Quei luoghi -racconta lo stesso artista- «ho potuto guardarmeli e fissarmeli nella memoria da tanti punti di vista, alti, bassi e obliqui, sognarli, pensarli e tradurli nella lingua che so parlare meglio».
Il periodo iniziale di questa ricerca si identifica nel ciclo delle «Geologie», realizzato tra il 1970 e il 1973, che vede sulla tela immagini stratificate, sezioni materiche, strutture sismiche.
La fase successiva, che va dal 1976 al 1983, pone in evidenza un diverso trattamento del tema paesaggistico. Il visitatore si ritrova a tu per tu con vedute luminose e lievi - acquerelli, chine e matite su carta-, che l’artista concepisce come «orizzonti immaginari, memorie di alfabeti, tracce di antiche scritture».
L’esplorazione di nuove morfologie paesaggistiche si avverte in un consistente gruppo di opere, realizzate tra il 1998 e il 2009, che, dopo aver rappresentato lo scenario dei colli marchigiani, va progressivamente esplorando i dettagli della natura, i segni e i solchi delle terre.
«Il paesaggio, dipinto per frammenti, è -raccontano gli organizzatori- una mappa costruita con equilibri diversificati, rapporti instabili che l’artista coglie nella trama di stratificazioni materiche».
L’esposizione documenta, infine, in modo ampio e articolato la stagione più recente, quella iniziata nel 2010, in cui Tullio Pericoli ha individuato nuove profondità del paesaggio, con continui rinnovamenti dell’esperienza pittorica. Queste opere, che traggono origine anche dagli sconvolgimenti paesaggistici dovuti agli eventi sismici, si trovano nella prima sala e accolgono il visitatore in mostra.
Forme dissestate, movimenti tellurici del segno e del colore ci restituiscono la drammatica fragilità del territorio marchigiano e di tutto il patrimonio paesaggistico italiano, segnato più che dagli eventi della «natura madre e matrigna» -per usare un’espressione cara a un altro marchigiano illuste, Giacomo Leopardi- dall’incuria dell’uomo e dalla sua incapacità di uno sguardo volto alla tutela.
Questi paesaggi -scrive Salvatore Settis nel catalogo pubblicato dalle Edizioni Quodlibet- «sono altamente soggettivizzati»; sono come «segmenti rivelatori di un volto». Qui -spiega ancora lo storico e archeologo calabrese- «la ricerca di nuove convenzioni rappresentative, di matrice geologica, archeologica o cartografica, si sposa a una marcata intensità emotiva, che attraverso il gesto del pittore evoca tutta una grammatica del vivere, il modo d’intendere il paesaggio di chi lo andò lentamente forgiando per secoli». È così che in Tullio Pericoli la pittura di paesaggio si fa, magicamente, storia e sentimento, racconto reale eppure immaginario di un luogo.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tullio Pericoli, «Scena», 1999. Acquerello e inchiostro su carta, cm 57,5x76,5; [fig. 2] Tullio Pericoli, «Paesaggio instabile», 1998. Acquerello e inchiostro su carta, cm 51x72; [fig. 3] Tullio Pericoli, «Vita fra le rocce», 2000. Olio su tela, cm 60x80; [fig. 4] Tullio Pericoli, «Pittore e paesaggio», 1999. Acquerello su china e carta, cm 76x57; [fig. 5] Tullio Pericoli, «Paesaggio», 1979. Acquerello e china su carta, cm 57x76; [fig. 6] Tullio Pericoli, «Triassico», 1971. Acrilici e tecnica mista su tela, cm 120x120
Informazioni utili
«Tullio Pericoli. Forme del paesaggio. 1970-2018». Palazzo dei Capitani, piazza del Popolo – Ascoli Piceno. Orari: martedì, mercoledì, giovedì e venerdì, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00; sabato, domenica, festivi e prefestivi, ore 10.00-20.00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Sito internet: www.formedelpaesaggio.it. Fino al 2 maggio 2020.
Da quell’agosto del 2016, la città di Ascoli Piceno ha visto ridisegnato il volto del territorio che la circonda: oltre alle gravi lesioni subite dai campanili cittadini delle chiese della Madonna del Ponte e di Sant’Angelo Magno, è il panorama intorno, quell’insieme di verdi colline e dolci declivi che si avvicendano fino al mare, simbolo e orgoglio della terra marchigiana, a non essere più lo stesso.
Ripensare a quell’ambiente, ma anche alla frattura fisica ed emotiva che lo ha colpito, è l’obiettivo della mostra-evento «Tullio Pericoli. Forme del paesaggio. 1970-2018», allestita per oltre un anno, fino al 2 maggio 2020, al Palazzo dei Capitani, edificio medioevale dalla caratteristica torre merlata, affacciato sul «salotto buono» di piazza del Popolo.
Ascoli Piceno ha, dunque, invitato uno dei suoi figli più illustri, Tullio Pericoli (Colli del Tronto - Ascoli Piceno, 1936), a raccontare le radici del suo vissuto attraverso la pittura, o meglio la pittura di paesaggio, un genere che lo ha visto per oltre cinquant’anni dare, con il suo tratto leggero ed elegante, forma e colore a luoghi reali e del cuore, dalle Laghe al Piceno, regalandoci un diario per immagini «fitto -per usare le parole di Giorgio Manganelli- di segni, di tracce e di appunti».
Ne è nato un percorso antologico, per la curatela di Claudio Cerritelli, con una scelta di centosessantacinque opere, commisurata alle caratteristiche ambientali del Palazzo dei Capitani, un luogo simbolo per Tullio Pericoli che oltre sessant’anni fa, nel 1958, tenne qui la sua prima mostra, tappa iniziale di un percorso che, oltre a dipingere, lo ha visto disegnare per importanti testate giornalistiche come il «Corriere della Sera», «L’Espresso», «Linus», «La Repubblica», «The Guardian» ed «El País», nonchè lavorare per il teatro in qualità di scenografo e costumista, illustrare storie e scrivere libri.
«Le «forme del paesaggio» -raccontano a Palazzo dei Capitani- sono proposte, sala per sala, come un viaggio a ritroso nei quasi cinquanta anni di ricerca che l’artista ha dedicato a questo tema: a partire dalle opere più recenti si risale alle radici della pittura di Tullio Pericoli, tramite un susseguirsi di momenti analitici ed emozionali che esplorano il volto mutevole della nostra terra a partire dalla sua natura più profonda».
Si tratta di momenti differenti di un unico viaggio caratterizzato da un segno rigoroso, pur quando emotivo, fatto da «una mano che pensa», una mano che ha avuto modo di riflettere a lungo su quel paesaggio che ha trovato tra i suoi più illustri cantori Lorenzo Lotto. Quei luoghi -racconta lo stesso artista- «ho potuto guardarmeli e fissarmeli nella memoria da tanti punti di vista, alti, bassi e obliqui, sognarli, pensarli e tradurli nella lingua che so parlare meglio».
Il periodo iniziale di questa ricerca si identifica nel ciclo delle «Geologie», realizzato tra il 1970 e il 1973, che vede sulla tela immagini stratificate, sezioni materiche, strutture sismiche.
La fase successiva, che va dal 1976 al 1983, pone in evidenza un diverso trattamento del tema paesaggistico. Il visitatore si ritrova a tu per tu con vedute luminose e lievi - acquerelli, chine e matite su carta-, che l’artista concepisce come «orizzonti immaginari, memorie di alfabeti, tracce di antiche scritture».
L’esplorazione di nuove morfologie paesaggistiche si avverte in un consistente gruppo di opere, realizzate tra il 1998 e il 2009, che, dopo aver rappresentato lo scenario dei colli marchigiani, va progressivamente esplorando i dettagli della natura, i segni e i solchi delle terre.
«Il paesaggio, dipinto per frammenti, è -raccontano gli organizzatori- una mappa costruita con equilibri diversificati, rapporti instabili che l’artista coglie nella trama di stratificazioni materiche».
L’esposizione documenta, infine, in modo ampio e articolato la stagione più recente, quella iniziata nel 2010, in cui Tullio Pericoli ha individuato nuove profondità del paesaggio, con continui rinnovamenti dell’esperienza pittorica. Queste opere, che traggono origine anche dagli sconvolgimenti paesaggistici dovuti agli eventi sismici, si trovano nella prima sala e accolgono il visitatore in mostra.
Forme dissestate, movimenti tellurici del segno e del colore ci restituiscono la drammatica fragilità del territorio marchigiano e di tutto il patrimonio paesaggistico italiano, segnato più che dagli eventi della «natura madre e matrigna» -per usare un’espressione cara a un altro marchigiano illuste, Giacomo Leopardi- dall’incuria dell’uomo e dalla sua incapacità di uno sguardo volto alla tutela.
Questi paesaggi -scrive Salvatore Settis nel catalogo pubblicato dalle Edizioni Quodlibet- «sono altamente soggettivizzati»; sono come «segmenti rivelatori di un volto». Qui -spiega ancora lo storico e archeologo calabrese- «la ricerca di nuove convenzioni rappresentative, di matrice geologica, archeologica o cartografica, si sposa a una marcata intensità emotiva, che attraverso il gesto del pittore evoca tutta una grammatica del vivere, il modo d’intendere il paesaggio di chi lo andò lentamente forgiando per secoli». È così che in Tullio Pericoli la pittura di paesaggio si fa, magicamente, storia e sentimento, racconto reale eppure immaginario di un luogo.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tullio Pericoli, «Scena», 1999. Acquerello e inchiostro su carta, cm 57,5x76,5; [fig. 2] Tullio Pericoli, «Paesaggio instabile», 1998. Acquerello e inchiostro su carta, cm 51x72; [fig. 3] Tullio Pericoli, «Vita fra le rocce», 2000. Olio su tela, cm 60x80; [fig. 4] Tullio Pericoli, «Pittore e paesaggio», 1999. Acquerello su china e carta, cm 76x57; [fig. 5] Tullio Pericoli, «Paesaggio», 1979. Acquerello e china su carta, cm 57x76; [fig. 6] Tullio Pericoli, «Triassico», 1971. Acrilici e tecnica mista su tela, cm 120x120
Informazioni utili
«Tullio Pericoli. Forme del paesaggio. 1970-2018». Palazzo dei Capitani, piazza del Popolo – Ascoli Piceno. Orari: martedì, mercoledì, giovedì e venerdì, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00; sabato, domenica, festivi e prefestivi, ore 10.00-20.00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Sito internet: www.formedelpaesaggio.it. Fino al 2 maggio 2020.
giovedì 18 aprile 2019
Bosch, Brueghel e Arcimboldo: il Cinquecento incontra il virtuale e diventa «spettacolo»
L’arte del Cinquecento incontra la tecnologia digitale. Il risultato è uno spettacolo di trenta minuti, con oltre duemila immagini in scala 1:1500, proiettate su mille metri quadrati, e una colonna sonora che spazia dalle «Quattro stagioni» di Antonio Vivaldi a «Stairway to Heaven» dei Led Zeppelin, senza dimenticare i «Carmina Burana» di Carl Orff e Modest Petrovič Mussorsky con i suoi «Quadri di un’Esposizione».
Il tutto permetterà al visitatore di immergersi in un’atmosfera lirica e poetica, popolata da creature fantastiche e allegoriche dai colori vivi e cangianti, in cui lo stile fiammingo delle opere di Hieronymus Bosch e della dinastia Brueghel si incontra con l’arte burlesca e metaforica di Arcimboldo.
Ad ospitare questo progetto espositivo, che nasce sulla scia di tanti altri eventi artistici immersivi e di realtà virtuale in cantiere negli ultimi anni, pur innovandone lo stile, sono gli Arsenali Repubblicani di Pisa.
La regia della mostra-spettacolo, ideata in Francia da Culturespaces a Carrières de Lumières e giunta in Italia grazie ad Arthemisia e Sensorial Art Experience, porta la firma di Gianfranco Iannuzzi, Renato Gatto e Massimiliano Siccardi. Mentre la colonna sonora è stata curata da Luca Longobardi, autore anche della composizione originale per soprano, archi ed elettronica che apre la mostra-spettacolo.
Le atmosfere magiche e sognanti di Bosch, Brueghel e Arcimboldo, autori di opere per lo più inamovibili dalla loro sede e quindi di non facile fruizione, rivivono in mostra grazie a cinquantaquattro proiettori che trasformano in tele e schermi le superfici del suggestivo complesso trecentesco della darsena pisana, dalle vetrate al piano pavimentale.
Alchimia, religione, astrologia, vanità, tentazioni e vizi: tutti i temi che hanno reso grandi i tre artisti cinquecenteschi scorrono davanti agli occhi del visitatore che, grazie alla tecnologia, potrà scrutare nei minimi dettagli le opere, trovandosi a pochi millimetri dalla realtà ritratte, come solo uno studioso con la sua lente di ingrandimento.
Lo spettacolo, diviso in tre parti, inizia con un viaggio nel mondo idealizzato da Bosch: «Il giardino delle delizie», con il suo universo mistico e folle, introduce il visitatore alla mostra, mettendolo, poi, a confronto con personaggi mistici e grotteschi, allegorie di luoghi demoniaci fatti di tentazioni e visioni armoniose di una realtà precedente al peccato originale.
Tra le altre opere di Bosch che il visitatore può ammirare durante la mostra-spettacolo ci sono «Ascesa all’Empireo» (1500), «Tavola dei sette peccati capitali e delle quattro cose ultime» e «Il Giudizio universale», mentre dei Brughel scorrono lungo le pareti «Il giardino dell’Eden e la caduta dell’uomo» (1615 ca., con Pieter Paul Rubens), «Paesaggio fluviale», «Allegoria della Musica» e «Torre di Babele» (1563).
La rappresentazione della vita quotidiana e del paesaggio fiammingo con le sue feste delle stagioni, le danze e i banchetti proiettano così il pubblico, con questi lavori, in momenti di autentica allegria popolare.
Il percorso si chiude con Arcimboldo e le sue celebri nature morte che si ricompongono in ritratti antropomorfi, eccelsi esempi di fantasia e maestria tecnica. Ecco così «Terra» (1570 ca.), «Quattro stagioni in una testa» (1590 ca.), «Primavera» e «Autunno», tratte dalla serie «Quattro stagioni», eseguita per l’imperatore Massimiliano II.
Con l'epilogo della mostra si torna al «Giardino delle delizie», già visto nel prologo, ora in una visione contemporanea: un finale fuori dal tempo e dallo spazio, con la possibilità per il pubblico di muoversi in un giardino incantato popolato da creature straordinarie.
L’arte del Cinquecento si fa così pop e didattica, coinvolgendo anche un pubblico di non esperti. Lo provano i 650mila spettatori della tappa francese, affascinati da Bosch, Brueghel e Arcimboldo, dai loro mondo incantati che, per trenta minuti, diventano luoghi da toccare e in cui camminare per vivere un’esperienza immersiva che stimola la fantasia e l’emotività.
Informazioni utili
Bosch, Brueghel e Arcimboldo. Una mostra spettacolare. Arsenali Repubblicani, via Bonanno Pisano, 2 – Pisa. Orari: tutti i giorni, ore 9.30 – 19.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Biglietti: intero € 13,00, ridotto da € 11,00 a € 6,00. Informazioni e prenotazioni: tel. +39.050806841. Sito internet: www.mostraspettacolare.it/Pisa. Fino al 30 giugno 2019.
Il tutto permetterà al visitatore di immergersi in un’atmosfera lirica e poetica, popolata da creature fantastiche e allegoriche dai colori vivi e cangianti, in cui lo stile fiammingo delle opere di Hieronymus Bosch e della dinastia Brueghel si incontra con l’arte burlesca e metaforica di Arcimboldo.
Ad ospitare questo progetto espositivo, che nasce sulla scia di tanti altri eventi artistici immersivi e di realtà virtuale in cantiere negli ultimi anni, pur innovandone lo stile, sono gli Arsenali Repubblicani di Pisa.
La regia della mostra-spettacolo, ideata in Francia da Culturespaces a Carrières de Lumières e giunta in Italia grazie ad Arthemisia e Sensorial Art Experience, porta la firma di Gianfranco Iannuzzi, Renato Gatto e Massimiliano Siccardi. Mentre la colonna sonora è stata curata da Luca Longobardi, autore anche della composizione originale per soprano, archi ed elettronica che apre la mostra-spettacolo.
Le atmosfere magiche e sognanti di Bosch, Brueghel e Arcimboldo, autori di opere per lo più inamovibili dalla loro sede e quindi di non facile fruizione, rivivono in mostra grazie a cinquantaquattro proiettori che trasformano in tele e schermi le superfici del suggestivo complesso trecentesco della darsena pisana, dalle vetrate al piano pavimentale.
Alchimia, religione, astrologia, vanità, tentazioni e vizi: tutti i temi che hanno reso grandi i tre artisti cinquecenteschi scorrono davanti agli occhi del visitatore che, grazie alla tecnologia, potrà scrutare nei minimi dettagli le opere, trovandosi a pochi millimetri dalla realtà ritratte, come solo uno studioso con la sua lente di ingrandimento.
Lo spettacolo, diviso in tre parti, inizia con un viaggio nel mondo idealizzato da Bosch: «Il giardino delle delizie», con il suo universo mistico e folle, introduce il visitatore alla mostra, mettendolo, poi, a confronto con personaggi mistici e grotteschi, allegorie di luoghi demoniaci fatti di tentazioni e visioni armoniose di una realtà precedente al peccato originale.
Tra le altre opere di Bosch che il visitatore può ammirare durante la mostra-spettacolo ci sono «Ascesa all’Empireo» (1500), «Tavola dei sette peccati capitali e delle quattro cose ultime» e «Il Giudizio universale», mentre dei Brughel scorrono lungo le pareti «Il giardino dell’Eden e la caduta dell’uomo» (1615 ca., con Pieter Paul Rubens), «Paesaggio fluviale», «Allegoria della Musica» e «Torre di Babele» (1563).
La rappresentazione della vita quotidiana e del paesaggio fiammingo con le sue feste delle stagioni, le danze e i banchetti proiettano così il pubblico, con questi lavori, in momenti di autentica allegria popolare.
Il percorso si chiude con Arcimboldo e le sue celebri nature morte che si ricompongono in ritratti antropomorfi, eccelsi esempi di fantasia e maestria tecnica. Ecco così «Terra» (1570 ca.), «Quattro stagioni in una testa» (1590 ca.), «Primavera» e «Autunno», tratte dalla serie «Quattro stagioni», eseguita per l’imperatore Massimiliano II.
Con l'epilogo della mostra si torna al «Giardino delle delizie», già visto nel prologo, ora in una visione contemporanea: un finale fuori dal tempo e dallo spazio, con la possibilità per il pubblico di muoversi in un giardino incantato popolato da creature straordinarie.
L’arte del Cinquecento si fa così pop e didattica, coinvolgendo anche un pubblico di non esperti. Lo provano i 650mila spettatori della tappa francese, affascinati da Bosch, Brueghel e Arcimboldo, dai loro mondo incantati che, per trenta minuti, diventano luoghi da toccare e in cui camminare per vivere un’esperienza immersiva che stimola la fantasia e l’emotività.
Informazioni utili
Bosch, Brueghel e Arcimboldo. Una mostra spettacolare. Arsenali Repubblicani, via Bonanno Pisano, 2 – Pisa. Orari: tutti i giorni, ore 9.30 – 19.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Biglietti: intero € 13,00, ridotto da € 11,00 a € 6,00. Informazioni e prenotazioni: tel. +39.050806841. Sito internet: www.mostraspettacolare.it/Pisa. Fino al 30 giugno 2019.
mercoledì 17 aprile 2019
«Gulp! Goal! Ciak!», un secolo di cinema e fumetto alla Mole di Torino
Nascono entrambi alla fine dell’Ottocento e hanno un intento comune, quello di raccontare non solo a parole, ma anche con le immagini. Eppure sono diversissimi: uno è sempre in movimento e impone allo spettatore i suoi ritmi; l’altro è fermo sulla carta e le emozioni devono essere attivate dal lettore, al quale spetta il compito di creare dentro di sé i suoni, suggeriti dalle parole inserite nelle didascalie e nelle nuvolette, nonché dalle onomatopee. Stiamo parlando del cinema e del fumetto, arti alle quali il Museo nazionale del cinema di Torino dedica, insieme con lo Juventus Museum, la mostra «Gulp! Goal! Ciak!», nata da un’idea di Gaetano Renda e curata da Luca Raffaelli.
Il percorso di visita, fruibile fino al prossimo 20 maggio, parte dall’Aula del Tempio, cuore della Mole Antonelliana, dove nella chapelle del Caffè Torino si trovano i primi esempi di fumetti, linguaggio teorizzato dal ginevrino Rodolphe Töpffer nella prima metà del diciannovesimo secolo. Nella Sala dedicata all’animazione si possono, invece, ammirare importanti acetati originali, in gergo tecnico «rodovetri», sui quali venivano disegnati e colorati i personaggi, che poi sarebbero stati fotografati sopra la giusta scenografia.
Da qui, salendo sulla rampa elicoidale, si snoda un percorso che allinea oltre duecento film e altrettanti fumetti, cinquantaquattro tavole originali, sessanta schermi per più di novanta metri di proiezioni lineari, ai quali si aggiungono i busti di Catwoman e di Batman e cinque manifesti originali, appartenenti alle collezioni del Museo nazionale del cinema.
«L’alternanza di tavole originali e di oggetti, le proiezioni e le postazioni interattive sfruttano il verticalismo antonelliano -raccontano gli organizzatori- e accompagnano il visitatore alla scoperta dei rapporti tra cinema e fumetto, individuando peculiarità di due linguaggi che progressivamente tendono ad avvicinarsi, grazie anche alla loro potenza espressiva e comunicativa».
Quasi in apertura della mostra, in un angolo della scala elicoidale, si trova uno spazio dedicato a Winsor McCay, uno dei primi e più grandi artisti della storia del fumetto e del cinema d’animazione.
Il suo personaggio più celebre è Little Nemo, che apparve per la prima volta nel 1905 sulle pagine del «New York Herald». Le sue avventure, tutte sorprendenti e straordinarie, si concludono sempre con un brusco risveglio. Insieme a questo personaggio, al quale fu dedicato nel 1911 anche un film di animazione, sono in mostra Flap il pagliaccio, il nero Imp e la Principessa di Slumberland.
Il percorso prosegue, quindi, sulla rampa e si sviluppa in sei aree tematiche che raccontano i film storici, il manga e l’anime giapponese, i grandi nomi della storia del fumetto e i loro personaggi più famosi, gli eroi meno conosciuti, i supereroi della D.C. Comics, le trasposizioni cinematografiche di Tim Burton e i romanzi a fumetti che sono diventati film.
Ecco così che il visitatore può ammirare le improvvisazioni da cabaret delle Sturmtruppen o il complesso e variegato mondo del «dio del manga» Osamu Tezuka. Può rivivere le avventure di Batman, Asterix, Hugo Cabret o di Tintin, personaggio del belga Hergé che, nel 2011, Spielberg ha voluto animare con la tecnica della motion capture.
In cima alla rampa, sei cappelle mettono in mostra le performance dei fumettisti, sia quando si mettono davanti alla macchina da presa sia quando vi si mettono dietro, come avviene, per esempio, per Hugo Pratt diretto da Leos Carax, Pino Zac diretto da Monicelli, Bonvi guidato da Samperi e da Sergio Staino, e Gianluigi Bonelli, padre di Tex, nella versione inedita di regista di un piccolo cameo.
Ci sono poi tre film mai realizzati da altrettanti maestri del cinema italiano e disegnati da fumettisti. Massimo Bonfatti interpreta, per esempio, «Capelli lunghi», storia di due ribelli nell’Italia del boom economico, scritta da Mario Monicelli alla fine degli anni Sessanta. Milo Manara racconta «Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet», un film mai fatto pieno di misteri, scritto da Federico Fellini insieme a Brunello Rondi e a Dino Buzzati. Ivo Milazzo, infine, realizza «Un drago a forma di nuvola», storia di un libraio parigino travolto da un amore insolito, che rischia di mettere in crisi il delicato rapporto con la figlia, la cui sceneggiatura fu scritta da Ettore Scola, insieme a Giacomo Scarpelli e Silvia Scola.
Non manca lungo il percorso espositivo una cappella, allestita da Panini, dedicata a Topolino, il settimanale a fumetti più longevo d’Italia, che nei prossimi mesi ospiterà nelle sue pagine alcune storie originali sul cinema. Mentre a chiudere la mostra è un gioco dove ai film viene tolto il sonoro e vengono aggiunte le onomatopee. I ruoli cambiano -verrebbe da dire-, ma la magia resta la stessa.
La mostra, che sarà arricchita da visite guidate e laboratori per bambini e famiglie, prosegue idealmente alla Bibliomediateca Mario Gromo, dove, a partire da materiali conservati nelle sue collezioni, viene proposta una selezione di fumetti in cui il cinema è declinato secondo percorsi diversi e complementari, in un reciproco scambio di influenza tra personaggi e storie. Si tratta di un percorso plurale, declinato secondo sei macro-categorie, alle quali si aggiunge un focus specifico sull’universo di «Star Wars». Ecco così che il visitatore potrà vedere come divi del piccolo schermo quali Charlot, Marilyn Monroe o Rodolfo Valentino siano stati trasfigurati da matite e chine o come un capolavoro del cinema muto quale «Cabiria», diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone, riviva nelle tavole illustrate pubblicate da «Topolino» negli anni Quaranta.
Lo Juventus Museum propone, invece, un percorso alla scoperta di come il calcio sia stato affrontato dal fumetto. «C’è un linguaggio migliore per raccontare l’emozione di uno scarpino che tocca il pallone, della sfera che solca l’aria mentre gli sguardi di tutti (giocatori e spettatori) sono coinvolti nel destino di quella traiettoria?». Si è chiesto Luca Raffaelli per costruire questo percorso espositivo. La risposta sembra essere no, guardando le sale del museo torinese dove si trovano personaggi dei fumetti di professione calciatori come l’inglese Roy of the Rovers di Walter Booth, Eric Castel del francese Raymond Reding o il celeberrimo Capitan Tsubasa di «Holly e Benji», ideato dal giapponese Yoichi Takahashi. Ci sono, poi, in mostra anche personaggi che occasionalmente si sono trovati a giocare con un pallone, da Peppa Pig ai Simpson, e tavole di disegnatori quali Mordillo, Forattini e Giannelli.
Un percorso, dunque, completo quello proposto a Torino per celebrare due linguaggi espressivi, cinema e fumetto, che, da oltre un secolo, si incontrano e percorrono un sentiero comune, fatto di prestiti, reciproche influenze e omaggi, con la medesima volontà di mettere il mondo in immagini, spesso trasfigurandolo e trasformandolo.
Informazioni utili
«Gulp! Goal! Ciak!». #Museo nazionale del cinema, via Montebello 20 – Torino. Orari: lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì, domenica, ore 9.00-20.00; martedì e sabato, ore 9.00-23.00.Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00, ridotto scuole € 3,50. Informazioni: info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. #Juventus Museum, via Druento 153 (int. 42) -Torino. Orari: lunedì-venerdì, ore 10.30-18.00; sabato-domenica e festivi, ore 10:30-19:30; chiusura il martedì. Ingresso: € 22,00 museo+stadium tour, € 15,00 solo museo. Informazioni: juventus.museum@juventus.com. Catalogo: Silvana editoriale. Fino al 20 maggio 2019 | La chiusura della mostra è stata prorogata al 17 giugno 2019.
Il percorso di visita, fruibile fino al prossimo 20 maggio, parte dall’Aula del Tempio, cuore della Mole Antonelliana, dove nella chapelle del Caffè Torino si trovano i primi esempi di fumetti, linguaggio teorizzato dal ginevrino Rodolphe Töpffer nella prima metà del diciannovesimo secolo. Nella Sala dedicata all’animazione si possono, invece, ammirare importanti acetati originali, in gergo tecnico «rodovetri», sui quali venivano disegnati e colorati i personaggi, che poi sarebbero stati fotografati sopra la giusta scenografia.
Da qui, salendo sulla rampa elicoidale, si snoda un percorso che allinea oltre duecento film e altrettanti fumetti, cinquantaquattro tavole originali, sessanta schermi per più di novanta metri di proiezioni lineari, ai quali si aggiungono i busti di Catwoman e di Batman e cinque manifesti originali, appartenenti alle collezioni del Museo nazionale del cinema.
«L’alternanza di tavole originali e di oggetti, le proiezioni e le postazioni interattive sfruttano il verticalismo antonelliano -raccontano gli organizzatori- e accompagnano il visitatore alla scoperta dei rapporti tra cinema e fumetto, individuando peculiarità di due linguaggi che progressivamente tendono ad avvicinarsi, grazie anche alla loro potenza espressiva e comunicativa».
Quasi in apertura della mostra, in un angolo della scala elicoidale, si trova uno spazio dedicato a Winsor McCay, uno dei primi e più grandi artisti della storia del fumetto e del cinema d’animazione.
Il suo personaggio più celebre è Little Nemo, che apparve per la prima volta nel 1905 sulle pagine del «New York Herald». Le sue avventure, tutte sorprendenti e straordinarie, si concludono sempre con un brusco risveglio. Insieme a questo personaggio, al quale fu dedicato nel 1911 anche un film di animazione, sono in mostra Flap il pagliaccio, il nero Imp e la Principessa di Slumberland.
Il percorso prosegue, quindi, sulla rampa e si sviluppa in sei aree tematiche che raccontano i film storici, il manga e l’anime giapponese, i grandi nomi della storia del fumetto e i loro personaggi più famosi, gli eroi meno conosciuti, i supereroi della D.C. Comics, le trasposizioni cinematografiche di Tim Burton e i romanzi a fumetti che sono diventati film.
Ecco così che il visitatore può ammirare le improvvisazioni da cabaret delle Sturmtruppen o il complesso e variegato mondo del «dio del manga» Osamu Tezuka. Può rivivere le avventure di Batman, Asterix, Hugo Cabret o di Tintin, personaggio del belga Hergé che, nel 2011, Spielberg ha voluto animare con la tecnica della motion capture.
In cima alla rampa, sei cappelle mettono in mostra le performance dei fumettisti, sia quando si mettono davanti alla macchina da presa sia quando vi si mettono dietro, come avviene, per esempio, per Hugo Pratt diretto da Leos Carax, Pino Zac diretto da Monicelli, Bonvi guidato da Samperi e da Sergio Staino, e Gianluigi Bonelli, padre di Tex, nella versione inedita di regista di un piccolo cameo.
Ci sono poi tre film mai realizzati da altrettanti maestri del cinema italiano e disegnati da fumettisti. Massimo Bonfatti interpreta, per esempio, «Capelli lunghi», storia di due ribelli nell’Italia del boom economico, scritta da Mario Monicelli alla fine degli anni Sessanta. Milo Manara racconta «Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet», un film mai fatto pieno di misteri, scritto da Federico Fellini insieme a Brunello Rondi e a Dino Buzzati. Ivo Milazzo, infine, realizza «Un drago a forma di nuvola», storia di un libraio parigino travolto da un amore insolito, che rischia di mettere in crisi il delicato rapporto con la figlia, la cui sceneggiatura fu scritta da Ettore Scola, insieme a Giacomo Scarpelli e Silvia Scola.
Non manca lungo il percorso espositivo una cappella, allestita da Panini, dedicata a Topolino, il settimanale a fumetti più longevo d’Italia, che nei prossimi mesi ospiterà nelle sue pagine alcune storie originali sul cinema. Mentre a chiudere la mostra è un gioco dove ai film viene tolto il sonoro e vengono aggiunte le onomatopee. I ruoli cambiano -verrebbe da dire-, ma la magia resta la stessa.
La mostra, che sarà arricchita da visite guidate e laboratori per bambini e famiglie, prosegue idealmente alla Bibliomediateca Mario Gromo, dove, a partire da materiali conservati nelle sue collezioni, viene proposta una selezione di fumetti in cui il cinema è declinato secondo percorsi diversi e complementari, in un reciproco scambio di influenza tra personaggi e storie. Si tratta di un percorso plurale, declinato secondo sei macro-categorie, alle quali si aggiunge un focus specifico sull’universo di «Star Wars». Ecco così che il visitatore potrà vedere come divi del piccolo schermo quali Charlot, Marilyn Monroe o Rodolfo Valentino siano stati trasfigurati da matite e chine o come un capolavoro del cinema muto quale «Cabiria», diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone, riviva nelle tavole illustrate pubblicate da «Topolino» negli anni Quaranta.
Lo Juventus Museum propone, invece, un percorso alla scoperta di come il calcio sia stato affrontato dal fumetto. «C’è un linguaggio migliore per raccontare l’emozione di uno scarpino che tocca il pallone, della sfera che solca l’aria mentre gli sguardi di tutti (giocatori e spettatori) sono coinvolti nel destino di quella traiettoria?». Si è chiesto Luca Raffaelli per costruire questo percorso espositivo. La risposta sembra essere no, guardando le sale del museo torinese dove si trovano personaggi dei fumetti di professione calciatori come l’inglese Roy of the Rovers di Walter Booth, Eric Castel del francese Raymond Reding o il celeberrimo Capitan Tsubasa di «Holly e Benji», ideato dal giapponese Yoichi Takahashi. Ci sono, poi, in mostra anche personaggi che occasionalmente si sono trovati a giocare con un pallone, da Peppa Pig ai Simpson, e tavole di disegnatori quali Mordillo, Forattini e Giannelli.
Un percorso, dunque, completo quello proposto a Torino per celebrare due linguaggi espressivi, cinema e fumetto, che, da oltre un secolo, si incontrano e percorrono un sentiero comune, fatto di prestiti, reciproche influenze e omaggi, con la medesima volontà di mettere il mondo in immagini, spesso trasfigurandolo e trasformandolo.
Informazioni utili
«Gulp! Goal! Ciak!». #Museo nazionale del cinema, via Montebello 20 – Torino. Orari: lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì, domenica, ore 9.00-20.00; martedì e sabato, ore 9.00-23.00.Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00, ridotto scuole € 3,50. Informazioni: info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. #Juventus Museum, via Druento 153 (int. 42) -Torino. Orari: lunedì-venerdì, ore 10.30-18.00; sabato-domenica e festivi, ore 10:30-19:30; chiusura il martedì. Ingresso: € 22,00 museo+stadium tour, € 15,00 solo museo. Informazioni: juventus.museum@juventus.com. Catalogo: Silvana editoriale. Fino al 20 maggio 2019 | La chiusura della mostra è stata prorogata al 17 giugno 2019.
lunedì 15 aprile 2019
Il Museo del Prado? Una «corte delle meraviglie» da grande schermo
«Il giorno in cui si entra per la prima volta in un museo come quello di Madrid resta scolpito come una data storica nella storia di un uomo […] Il piacere che provavo era così grande che, arrivando alla porta, mi fermai e dissi: ‘Suvvia! Che cosa hai fatto nella vita per meritarti l’onore di penetrare in questo luogo?’». Così Edmondo De Amicis nel 1871, in occasione del suo primo viaggio in Spagna, parlava dell’emozione provata nel visitare il Museo del Prado, una delle collezioni più cospicue e stupende mai accumulate nel corso della storia con le sue oltre millesettecento opere esposte ed altre settemila conservate.
«Fatta più con il cuore che con la ragione», ovvero costruita senza alcune strategia mercantile, la collezione del Prado è «un inventario dal gusto raffinato», che rispecchia le passioni artistiche di re, regine e diplomatici, ma che annovera al proprio interno anche opere giunte a Madrid grazie a successioni ereditarie legate alla corona, doni tra dinastie regnanti d’Europa e guerre tra Stati, oltre che dai lasciti di semplici cittadini che hanno così voluto legare per sempre il loro nome a quello del prestigioso museo spagnolo.
Prendendo a prestito le parole di André Malreaux, scritte nel libro «Les voix du silence», «un museo è uno di quei luoghi che ci danno dell’uomo l’idea più alta». Questo vale anche -e soprattutto- per il Prado, al cui interno sono conservati veri e propri capolavori come «Il giardino delle delizie» di Hieronymus Bosch, trittico con scene bibliche che descrive la storia dell’umanità attraverso la tradizione cristiana medioevale, o l’«Incoronazione di spine» di Antoon van Dyck, con la sua raffigurazione altamente realistica della muscolatura del Cristo o, ancora, «Il buon pastore» di Bartolomé Esteban Murillo, in cui la semplicità della scena agreste nasconde un messaggio dalla forte carica simbolica: la volontà del Padre è di prendersi cura di tutti, soprattutto dei più piccoli e indifesi.
A duecento anni dalla fondazione, la storia del Museo del Prado, un «tesoro di intensità» (a detta dello scrittore e pittore Antonio Saura), diventa un docu-film per i tipi di Nexo Digital, che si è avvalsa per l’occasione del soggetto di Didi Gnocchi, della sceneggiatura di Sabina Fedeli e Valeria Parisi, esperta in comunicazione video, quest’ultima, a cui si deve anche la regia della pellicola.
Il nuovo appuntamento del progetto «La grande arte al cinema», intitolato «Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie» e in cartellone nelle sale italiane da lunedì 15 a mercoledì 17 aprile, vede, inoltre, la partecipazione straordinaria del premio Oscar Jeremy Irons, attore britannico conosciuto per le sue interpretazioni in film come «ll mistero Von Bulow», «Il danno», «Mission», «Io ballo da sola» e «La casa degli spiriti». Sarà lui a guidare gli spettatori alla scoperta del patrimonio di bellezza e arte del museo spagnolo, a partire dal Salon de Reinos, il vecchio salone delle feste e degli spettacoli teatrali, un'architettura volutamente spoglia che si anima di vita, luci e proiezioni, riportando così il visitatore al glorioso passato della monarchia spagnola e al Siglo de Oro, quando alle pareti erano appesi molti dei capolavori oggi esposti al Prado, simboli di un viatico universale in grado di comprendere e raccontare i pensieri e i sentimenti degli esseri umani.
Il film diventa così un viaggio non solo attraverso i duecento anni di vita del museo madrileno -la cui fondazione risale al 19 novembre 1819 (giorno in cui per la prima volta si parlò di Museo Real de Pinturas)-, ma anche in almeno sei secoli di storia, perché la vita della prestigiosa collezione del Prado ha inizio con la nascita della Spagna come nazione e con il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia.
Grande protagonista di questo percorso è -non poteva essere diversamente- Francisco Goya, presente al Prado con un corpus ricchissimo di oltre novecento opere, compresi gran parte dei disegni e delle lettere, come la corrispondenza con l'amico d'infanzia Martin Zapater. Tra i suoi quadri al centro del docu-film c’è «Il 3 maggio 1808», dipinto che narra l’effetto della rivolta degli spagnoli contro l'esercito francese, la cui influenza su molti artisti moderni è evidente. Basti pensare a Pablo Picasso, che ha guardato a quest’opera, simbolo di tutte le guerre, per la sua «Guernica».
Tra gli obiettivi del film vi, infatti, anche quello di dimostrare quanto l’arte contenuta in questo museo illumini il nostro presente e ponga interrogativi per il nostro futuro, raccontando la società coi suoi ideali, i suoi pregiudizi, i vizi, le nuove concezioni, le scoperte scientifiche, la psicologia umana, le mode.
Il film non racconta, però, solo le opere conservate al museo, ma anche il paesaggio delle architetture reali che sono state teatro e custodi della nascita e dello sviluppo delle collezioni d'arte. Vélazquez, Rubens, Tiziano, Mantegna, El Greco sono così alcuni dei protagonisti di questo racconto, che focalizza l’attenzione anche su sedi quali l'Escorial, Pantheon dei reali, il Palazzo Reale di Madrid, il Convento de Las Descalzas Reales e, appunto, il Salon de Reinos.
La nascita del Museo del Prado è, infatti, una storia avvincente, che inizia nel 1785 quando Carlo III di Borbone incarica l’architetto di corte, Juan de Villanueva, di disegnare un edificio per ospitare il Gabinete de Historia Natural. Sarà questa la sede del museo che conosciamo oggi, luogo di bellezza, in cui si possono, tra l’altro, ammirare -racconta il film- le opere della fiamminga Clara Peeters, che ha il coraggio di dipingere dei micro-autoritratti all'interno delle sue tele e rivendicare il ruolo femminile dell'arte, o la «Donna barbuta» di Ribera, dove una figura con il volto coperto da una folta barba allatta al seno il neonato che porta in braccio.
Lo sviluppo del docu-film intreccerà, quindi, alla narrazione d’arte anche lo studio dell’architettura e l’analisi di preziosi materiali d’archivio e verrà scandita dalle testimonianze dei vari esperti del museo intervistati, a partire dal direttore Miguel Falomir, ma anche da interventi di personalità di spicco come lord Norman Foster, architetto del progetto del Salón de Reinos (premio Pritzker), Helena Pimenta, direttrice della Compañía Nacional de Teatro Clásico di Madrid, Laura Garcia Lorca, nipote del poeta Federico Garcia Lorca, Marina Saura, figlia del pittore Antonio Saura, la ballerina Olga Pericet e la fotografa Pilar Pequeño.
«Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie» si configura, dunque, come un appuntamento da non perdere perché -come dice il trailer, prendendo a prestito una frase di Pablo Picasso- «l’arte lava via dalla nostra anima la polvere della vita di tutti i giorni».
Informazioni utili
Il film può essere richiesto anche per speciali matinée al cinema dedicate alle scuole. Per prenotazioni: Maria Chiara Buongiorno, progetto.scuole@nexodigital.it, tel. 02.8051633.
«Fatta più con il cuore che con la ragione», ovvero costruita senza alcune strategia mercantile, la collezione del Prado è «un inventario dal gusto raffinato», che rispecchia le passioni artistiche di re, regine e diplomatici, ma che annovera al proprio interno anche opere giunte a Madrid grazie a successioni ereditarie legate alla corona, doni tra dinastie regnanti d’Europa e guerre tra Stati, oltre che dai lasciti di semplici cittadini che hanno così voluto legare per sempre il loro nome a quello del prestigioso museo spagnolo.
Prendendo a prestito le parole di André Malreaux, scritte nel libro «Les voix du silence», «un museo è uno di quei luoghi che ci danno dell’uomo l’idea più alta». Questo vale anche -e soprattutto- per il Prado, al cui interno sono conservati veri e propri capolavori come «Il giardino delle delizie» di Hieronymus Bosch, trittico con scene bibliche che descrive la storia dell’umanità attraverso la tradizione cristiana medioevale, o l’«Incoronazione di spine» di Antoon van Dyck, con la sua raffigurazione altamente realistica della muscolatura del Cristo o, ancora, «Il buon pastore» di Bartolomé Esteban Murillo, in cui la semplicità della scena agreste nasconde un messaggio dalla forte carica simbolica: la volontà del Padre è di prendersi cura di tutti, soprattutto dei più piccoli e indifesi.
A duecento anni dalla fondazione, la storia del Museo del Prado, un «tesoro di intensità» (a detta dello scrittore e pittore Antonio Saura), diventa un docu-film per i tipi di Nexo Digital, che si è avvalsa per l’occasione del soggetto di Didi Gnocchi, della sceneggiatura di Sabina Fedeli e Valeria Parisi, esperta in comunicazione video, quest’ultima, a cui si deve anche la regia della pellicola.
Il nuovo appuntamento del progetto «La grande arte al cinema», intitolato «Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie» e in cartellone nelle sale italiane da lunedì 15 a mercoledì 17 aprile, vede, inoltre, la partecipazione straordinaria del premio Oscar Jeremy Irons, attore britannico conosciuto per le sue interpretazioni in film come «ll mistero Von Bulow», «Il danno», «Mission», «Io ballo da sola» e «La casa degli spiriti». Sarà lui a guidare gli spettatori alla scoperta del patrimonio di bellezza e arte del museo spagnolo, a partire dal Salon de Reinos, il vecchio salone delle feste e degli spettacoli teatrali, un'architettura volutamente spoglia che si anima di vita, luci e proiezioni, riportando così il visitatore al glorioso passato della monarchia spagnola e al Siglo de Oro, quando alle pareti erano appesi molti dei capolavori oggi esposti al Prado, simboli di un viatico universale in grado di comprendere e raccontare i pensieri e i sentimenti degli esseri umani.
Il film diventa così un viaggio non solo attraverso i duecento anni di vita del museo madrileno -la cui fondazione risale al 19 novembre 1819 (giorno in cui per la prima volta si parlò di Museo Real de Pinturas)-, ma anche in almeno sei secoli di storia, perché la vita della prestigiosa collezione del Prado ha inizio con la nascita della Spagna come nazione e con il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia.
Grande protagonista di questo percorso è -non poteva essere diversamente- Francisco Goya, presente al Prado con un corpus ricchissimo di oltre novecento opere, compresi gran parte dei disegni e delle lettere, come la corrispondenza con l'amico d'infanzia Martin Zapater. Tra i suoi quadri al centro del docu-film c’è «Il 3 maggio 1808», dipinto che narra l’effetto della rivolta degli spagnoli contro l'esercito francese, la cui influenza su molti artisti moderni è evidente. Basti pensare a Pablo Picasso, che ha guardato a quest’opera, simbolo di tutte le guerre, per la sua «Guernica».
Tra gli obiettivi del film vi, infatti, anche quello di dimostrare quanto l’arte contenuta in questo museo illumini il nostro presente e ponga interrogativi per il nostro futuro, raccontando la società coi suoi ideali, i suoi pregiudizi, i vizi, le nuove concezioni, le scoperte scientifiche, la psicologia umana, le mode.
Il film non racconta, però, solo le opere conservate al museo, ma anche il paesaggio delle architetture reali che sono state teatro e custodi della nascita e dello sviluppo delle collezioni d'arte. Vélazquez, Rubens, Tiziano, Mantegna, El Greco sono così alcuni dei protagonisti di questo racconto, che focalizza l’attenzione anche su sedi quali l'Escorial, Pantheon dei reali, il Palazzo Reale di Madrid, il Convento de Las Descalzas Reales e, appunto, il Salon de Reinos.
La nascita del Museo del Prado è, infatti, una storia avvincente, che inizia nel 1785 quando Carlo III di Borbone incarica l’architetto di corte, Juan de Villanueva, di disegnare un edificio per ospitare il Gabinete de Historia Natural. Sarà questa la sede del museo che conosciamo oggi, luogo di bellezza, in cui si possono, tra l’altro, ammirare -racconta il film- le opere della fiamminga Clara Peeters, che ha il coraggio di dipingere dei micro-autoritratti all'interno delle sue tele e rivendicare il ruolo femminile dell'arte, o la «Donna barbuta» di Ribera, dove una figura con il volto coperto da una folta barba allatta al seno il neonato che porta in braccio.
Lo sviluppo del docu-film intreccerà, quindi, alla narrazione d’arte anche lo studio dell’architettura e l’analisi di preziosi materiali d’archivio e verrà scandita dalle testimonianze dei vari esperti del museo intervistati, a partire dal direttore Miguel Falomir, ma anche da interventi di personalità di spicco come lord Norman Foster, architetto del progetto del Salón de Reinos (premio Pritzker), Helena Pimenta, direttrice della Compañía Nacional de Teatro Clásico di Madrid, Laura Garcia Lorca, nipote del poeta Federico Garcia Lorca, Marina Saura, figlia del pittore Antonio Saura, la ballerina Olga Pericet e la fotografa Pilar Pequeño.
«Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie» si configura, dunque, come un appuntamento da non perdere perché -come dice il trailer, prendendo a prestito una frase di Pablo Picasso- «l’arte lava via dalla nostra anima la polvere della vita di tutti i giorni».
Informazioni utili
Il film può essere richiesto anche per speciali matinée al cinema dedicate alle scuole. Per prenotazioni: Maria Chiara Buongiorno, progetto.scuole@nexodigital.it, tel. 02.8051633.
domenica 14 aprile 2019
«Il viaggio a Reims», in mostra a Bologna le «memorie di uno spettacolo» rossiniano
Nella città emiliana il compositore trascorse gran parte della sua giovinezza: studiò al Liceo musicale e fu aggregato alla prestigiosa Accademia Filarmonica senza nemmeno sostenere il necessario esame di ammissione.
Non può stupire, dunque, che in occasione dei centocinquanta anni dalla morte di Gioachino Rossini, ricordata nel 2018, Bologna abbia organizzato numerosi eventi per onorarne la memoria.
In ideale proseguimento con quelle celebrazioni, il Museo internazionale e biblioteca della musica ospita il progetto espositivo «Il viaggio a Reims. Memorie di uno spettacolo», a cura di Giuseppina Benassati e Roberta Cristofori.
La mostra, già presentata nei mesi passati al ridotto del teatro Comunale di Ferrara, celebra quello che il giudizio storico della critica riconosce come uno dei maggiori spettacoli del Novecento: «Il viaggio a Reims», dramma giocoso in un atto realizzato in prima rappresentazione all’Auditorium Pedrotti di Pesaro nel 1984, in occasione del Rossini Opera Festival, con la direzione di Claudio Abbado, la regia di Luca Ronconi e le scene di Gae Aulenti.
Nel 1992 Ferrara, che vedeva il crescere della neonata manifestazione Ferrara Musica, colse al volo l’occasione e realizzò una ripresa memorabile dell'opera rossiniana. A dirigere fu ancora Abbado, alla guida della Chamber Orchestra of Europe e di un cast di altissimo livello.
Questa storia rivive ora a Bologna grazie alla rassegna «Il viaggio a Reims. Memorie di uno spettacolo», allestita fino al prossimo 5 maggio. Il nucleo principale della rassegna si compone di una selezione di trentadue immagini fotografiche, tra gigantografie e formati più piccoli, realizzate da Marco Caselli Nirmal durante la recita del 1992, che ritraggono i tre protagonisti dello spettacolo, insieme alle maestranze, agli orchestrali e a un cast che annoverava eccellenze quali Cecilia Gasdia, Ruggero Raimondi, Carlos Chausson, Lucia Valentini Terrani, Enzo Dara, Cheryl Studer, Frank Lopardo, William Matteuzzi e Lucio Gallo sino ad arrivare a Placido Domingo.
Le istantanee colte durante le prove raccontano il lavoro dietro le quinte, gli allestimenti scenici, i confronti ed i dialoghi tra direttore e i cantanti, tra regista e autore degli allestimenti, geniali creatori e amici di lungo corso, mirando così alla documentazione del processo di creazione dello spettacolo e del lavoro quotidiano all’interno di un teatro durante la progettazione e realizzazione di esso.
Significativi appaiono i ritratti di Claudio Abbado -Marco Caselli Nirmal ne è stato il fotografo ufficiale per oltre vent’anni- e di Luca Ronconi, regista geniale, innovativo e profondo conoscitore del teatro e del suo funzionamento.
Gli scatti sono stati selezionati da un fondo di circa 2.800 fotografie che oggi appartiene allo straordinario Archivio del teatro comunale di Ferrara. Composto da oltre 250.000 immagini, questo patrimonio è stato oggetto di un recente progetto di catalogazione e digitalizzazione, finanziato e coordinato dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna che lo ha reso consultabile su web attraverso l’Opac del Polo bibliotecario ferrarese.
Oltre all’esposizione di cinque bozzetti disegnati da Gae Aulenti per le scenografie, un video con ulteriore materiale fotografico e l’installazione del cavallo e della carrozza originali realizzati per la scenografia, già presentati a Ferrara, la tappa bolognese si arricchisce di una nuova sezione di immagini, opera dello stesso Caselli Nirmal, dedicate allo spettacolo andato in scena al teatro Comunale di Bologna nel 2001, sotto la direzione di Daniele Gatti.
Una naturale integrazione alla mostra viene, inoltre, offerta dalle collezioni del museo al primo piano di Palazzo Sanguinetti, in «uno spazio che -suggerisce Roberto Grandi, presidente dell’Istituzione Bologna Musei- vede Rossini muoversi di stanza in stanza fra strumenti musicali, ripiani e bacheche». In particolare, la figura di Gioachino Rossini si incontra nella sala 7 del percorso espositivo dove, accanto a documenti e oggetti personali che documentano lo stretto legame del compositore con Bologna, si trova esposto il libretto dell’opera «Il viaggio a Reims», scritto da Luigi Balocchi e ispirato da «Corinna o l'Italia» di Madame de Staël.
Le preziose memorie di quest'opera rossiniana, la cui prima si tenne a Parigi nel Théâtre Italien il 19 giugno 1825, rivivono in un catalogo di Longo Editore, curato da Giuseppina Benassati e Roberta Cristofori, che contiene la riproduzione di ottantacinque immagini fotografiche di Marco Caselli Nirmal, sei bozzetti di scena disegnati da Gae Aulenti e i programmi di sala delle edizioni di Ferrara (1992) e Bologna (2001).
Un ricco apparato di testi arricchisce il volume. Tra gli autori ci sono Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, Vittorio Emiliani, autore della più aggiornata e accattivante biografia del genio pesarese, Marino Pedroni, direttore del teatro Comunale di Ferrara, Roberto Grandi, presidente dell’Istituzione Bologna Musei, Gianfranco Mariotti, presidente onorario del Rossini Opera Festival di Pesaro.
Il catalogo presenta, inoltre, le interviste rilasciate da Alessandra Abbado e dal soprano Cecilia Gasdia, oggi sovrintendente e direttore artistico della Fondazione Arena di Verona.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] I musicisti della Chamber Orchestra of Europe e il Maestro Claudio Abbado durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig. 2] Enzo Dara (Barone di Trombonok, maggiore tedesco fanatico per la musica), Ruggero Raimondi (Don Profondo, letterato, amico di Corinna, membro di varie accademie e fanatico per le antichità), Walter Matteuzzi (Conte di Libenskof, generale russo, d’un carattere impetuoso, innamorato della marchesa Melibea ed estremamente geloso) e Carlos Chausso (grande di Spagna, uffizial generale di marina, innamorato di Melibea) avvolti nelle bandiere. Teatro Comunale di Ferrara, 20 febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig. 3] Il Maestro Claudio Abbado suona il violoncello con i musicisti della Chamber Orchestra of Europe durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig.4] La scenografa e costumista Gae Aulenti durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (© Marco Caselli Nirmal); [fig. 5] Il Maestro Claudio Abbado applaude gli interpreti. Teatro Comunale di Ferrara, 20 febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig. 6] Il regista Luca Ronconi, il direttore Claudio Abbado e la scenografa e costumista Gae Aulenti durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311)
Informazioni utili
«Il viaggio a Reims. Memorie di uno spettacolo». Museo e biblioteca internazionale della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna. Orari: da martedì a domenica, festivi compresi, ore 10.00 – 18.30; chiuso i lunedì feriali e il 1° maggio. Ingresso: sala mostre temporanee gratuito; collezione permanente del museo intero € 5,00, ridotto € 3,00, gratuito Card Musei Metropolitani Bologna. Informazioni: tel. 051.2757711, museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 5 maggio 2019
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