ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 30 ottobre 2020

«Trésors de Venise», trasferta francese per la Fondazione Giorgio Cini

I tesori della Fondazione Giorgio Cini volano all’estero, e più precisamente in Francia. L’istituzione veneziana, che ha sede sull’isola di San Giorgio, ha annunciato, nei giorni scorsi, l’apertura di una mostra sulle opere della sua collezione al Centre d’art Hôtel de Caumont, riferimento culturale e artistico di Aix-en-Provence.
«Trésors de Venise» è il titolo del progetto espositivo, in cartellone dal 17 dicembre al 28 marzo, che vede la curatela di Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di storia dell’arte, in collaborazione con l’architetto Daniela Ferretti.
Dai dipinti ai disegni, dalle miniature alle stampe, senza dimenticare le sculture, gli avori e gli smalti, il percorso allineerà un’ottantina di opere, inclusi capolavori raramente visibili, consentendo ai visitatori di scoprire il gusto collezionistico, raffinato ed eclettico, di Vittorio Cini, il mecenate che Bernard Berenson definì come «l’italiano più faustiano che io abbia mia conosciuto».
Accanto a nomi della pittura toscana come Botticelli, Beato Angelico, Filippo Lippi e Piero di Cosimo, ci saranno maestri veneziani del calibro di Lorenzo e Giandomenico Tiepolo, Giambattista Piranesi e Giuseppe Porta detto il Salviati.
La mostra presenterà anche opere del Rinascimento ferrarese, in un percorso che spazierà da Cosmè Tura a Ludovico Mazzolino. E permetterà, infine, di vedere lavori di artisti contemporanei quali Vik Muniz, Adrian Ghenie ed Ettore Spalletti, che in anni recenti hanno dialogato con le opere esposte nella casa-museo di Vittorio Cini.
«La mostra ad Aix-en-Provence - spiega il curatore Luca Massimo Barbero - è un primo felice e importante tentativo di proporre a un pubblico internazionale alcuni esempi emblematici delle opere conservate nella casa-museo di Palazzo Cini accanto a una selezione dei tesori di cui il mecenate ha voluto dotare l’Istituto di storia dell’arte con munifica generosità. Percorrere le sale dell’Hôtel de Caumont è, quindi, per il pubblico come godere idealmente di ciò che potranno vedere in una vera e propria visita a Venezia».
L’appuntamento si rivela importante per la fondazione, che il prossimo anno festeggerà i settant’anni di attività, e che così potrà far scoprire anche al pubblico straniero la sua ricca e articolata collezione. 
Va ricordato che Vittorio Cini dotò l’istituzione di opere d’arte provenienti sia dalla sua raccolta personale sia dal frutto di acquisti e donazioni di rilievo. 
Fu proprio grazie alle acquisizioni del mecenate che nel 1962 nacque il pregevole e apprezzato Gabinetto dei disegni e delle stampe, una vera e propria gemma per gli amanti dell’arte. Qui confluirono le collezioni appartenute a Giuseppe Fiocco, Antonio Certani, Elfo Pozzi e Daniele Donghi e il corpus di miniature e manoscritti già Hoepli. 
Ad accrescere ulteriormente la consistenza e l’importanza delle raccolte si sono aggiunti nel tempo i lasciti di personalità della cultura, collezionisti e artisti legati da rapporti di amicizia con il fondatore o persuasi dal prestigio dell’istituzione. 
Non meno pregevole è la raccolta di Palazzo Cini a San Vio, dal 1919 residenza dell’imprenditore e dal 1984 casa-museo in seguito alla donazione da parte della principessa Yana Cini Alliata di Montereale, figlia del mecenate, di un cospicuo gruppo di dipinti toscani, alcune sculture di pregio e diversi oggetti di arte decorativa. 
Nel 1989 si è aggiunto a questo nucleo un gruppo di tavole ferraresi in deposito per gentile concessione dell’altra figlia di Vittorio Cini, Ylda Cini Guglielmi di Vulci; nel 2015 gli eredi Guglielmi hanno, infine, donato al museo altre opere d’arte di pregio, tra dipinti, maioliche e arredi. 
La casa, aperta al pubblico stagionalmente dopo i restauri del 2014, è oggi una tappa obbligata per gli amanti dell’arte insieme agli altri musei del cosiddetto Dorsoduro Museum Mile: la Gallerie dell’Accademia, la Collezione Peggy Guggenheim e Palazzo Grassi – Punta della Dogana. 
In tempi di spostamenti difficili a causa dell’emergenza sanitaria per il Covid-19, la Fondazione Cini porta così Oltralpe un angolo amato di Venezia, la Serenissima che conquistò tanti francesi illustri, da Marcel Proust a Claude Monet, e di cui Guy de Maupassant diceva: «esiste una città più ammirata, più celebrata, più cantata dai poeti, più desiderata dagli innamorati, più visitata e più illustre? […] Esiste un nome nelle lingue umane che abbia fatto sognare più di questo?»

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Piero di Cosimo, Madonna con bambino e due angeli, circa 1505–1510, olio su tavola, 163 x 133 cm. Palazzo Cini a San Vio, Venezia, Fondazione Giorgio Cini© Fondazione Giorgio Cini; [fig. 2] Luca Signorelli (?), Madonna con Bambino, circa 1470-1475, tempera su tavola, 61,8 x 53,3 cm. Venezia, Fondazione Giorgio Cini © Fondazione Giorgio Cini; [fig. 3] Giuseppe Porta, detto il Salviati, Resurrezione di Lazzaro, 1540-1545, olio su tela, 162 x 264 cm. Venezia, Fondazione Giorgio Cini © Fondazione Giorgio Cini; [fig. 4] Manifattura veneziana del XV-XVI secolo, Piatto in rame smaltato, rame champlevé smaltato, inciso e dorato, 29,8 cm diametro x 4cm spessore. Palazzo Cini a San Vio, Venezia, Fondazione Giorgio Cini © Fondazione Giorgio Cini

Informazioni utili
Trésors de Venise. La collection Cini. Hôtel de Caumont - Centre d’art d’Aix-en-Provence, 3, rue Joseph Cabassol - 13100 Aix-en-Provence, Francia. Sito internet: www.caumont-centredart.com. Dal 17 dicembre al 28 marzo 2021

giovedì 29 ottobre 2020

«Il primato dell’opera», nuovo allestimento per le collezioni novecentesche della Gam di Torino

È la «Natura morta con salame» (1919) di Giorgio De Chirico ad aprire il nuovo allestimento delle collezioni permanenti dedicate al Novecento della Gam - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino.
Articolato in diciannove sezioni, il percorso espositivo allinea centonovantaquattro opere, una quarantina delle quali provenienti dalla collezione Ettore De Fornaris, grazie alle quali è possibile approcciarsi alle principali correnti artistiche del secolo appena scorso, dalla Metafisica all’Arte povera, in un percorso che spazia anni Venti del Novecento all’inizio di questo millennio con la proposta di Giulio Paolini e della sua installazione «Requiem» (2003-2004).
«Il primato dell’opera» è il titolo del progetto espositivo, che è stato studiato con l’intento di permettere il confronto tra opera e opera; le sequenze di dipinti, sculture, installazioni, esposte secondo un taglio storico-artistico, sono affiancate così da poche informazioni essenziali che introducono alla lettura dei diversi linguaggi che gli artisti hanno elaborato.
«La prima sala -racconta Riccardo Passoni, direttore della Gam di Torino- è dedicata a tre delle figure che maggiormente hanno influito, su diversi piani, sulla principale arte italiana e internazionale del Novecento. Giorgio de Chirico ha generato un nuovo modo di pensare l’opera d’arte, alla ricerca di una rappresentazione che fosse anche disvelamento filosofico. Giorgio Morandi ha sviluppato un culto della forma e delle sue illimitate varianti, in una sorta di disciplina concettuale, con una continuità mentale e temporale che permette di presentare, all’inizio del percorso, anche le sue tarde Nature morte. Infine Filippo de Pisis, che ha tramandato una lezione di libertà totale da condizionamenti di tipo accademico, ma anche da scelte avanguardistiche, creando quasi uno stile-ponte solitario tra Impressionismo e Informale».
A questa premessa fa seguito un ordinamento che, sala dopo sala, ripercorre alcune fasi fondamentali della storia dell’arte novecentesca. Si inizia con le Avanguardie storiche, documentate, tra l’altro, dallo studio preliminare dell’opera «La città che sale» (1910) di Umberto Boccioni (capolavoro futurista conservato a New York), dagli esperimenti sul dinamismo del colore di Giacomo Balla, dai collage «immaginosi» e dadaisti di Max Ernst, dalla tela «Le baiser» (1925-1926) di Francis Picabia, senza dimenticare le ricerche di Gino Severini, Enrico Prampolini, Otto Dix e Paul Klee.
Vi è, quindi, una sezione dedicata alle stimolanti proposte artistiche nate a Torino tra le due guerre mondiali, dove scorrono le opere della maggior parte dei Sei di Torino, che si affermarono in Italia e all’estero intorno agli anni Trenta. A tal proposito, Riccardo Passoni racconta: «Enrico Paulucci, nei paesaggi scarni intende ripercorrere le strade maestre di Cézanne e Matisse. Carlo Levi, nella grande composizione ‘Aria’ (1929), sembra volersi confrontare con l’opera di Seurat, poi di Modigliani. Gigi Chessa (1898 – 1935) sembra eliminare ogni necessità di disegno e contorno, nelle sue opere, a favore di nuove soluzioni cromatiche e luministiche di grande fascino. […] Nella Marchesini sembra rendere omaggio critico al maestro Casorati».
Segue una sezione dedicata alla riscoperta e influenza di Amedeo Modigliani sugli artisti piemontesi anche grazie agli studi di Lionello Venturi, che teneva la cattedra di Storia dell’arte all’Università di Torino.
C’è, quindi, una sezione sulle acquisizioni fatte dalla Gam alle Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma tra la fine degli anni Venti e tutti gli anni Trenta. 
I riflettori si spostano, quindi, sull’Astrattismo italiano, rappresentato da artisti quali Fausto Melotti, Osvaldo Licini e Lucio Fontana. Mentre le sale successive ripercorrono le vicende di Roma e della scuola di via Cavour, indagano l’arte dopo il 1945 tra figurativo e astratto, e mostrano le sorprendenti acquisizioni della galleria torinese nel periodo post-bellico. Tra queste opere si trovano, per esempio, il piccolo e magico «Dans mon pays» (1943) di Marc Chagall, le grafie drammatiche di Hans Hartung, Pierre Soulages e Tal Coat, oltre a lavori di Pablo Picasso, Jean Arp, Eduardo Chillida.
Si passa, dunque, agli anni Cinquanta e alla stagione dell’Informale con gli alfabeti segnici di Carla Accardi, Giuseppe Capogrossi e Antonio Sanfilippo, le rappresentazioni del paesaggio e della natura di Renato Birolli, Ennio Morlotti e Vasco Bendini, il gesto veemente di Emilio Vedova, ma anche le riletture informali dei piemontesi Piero Ruggeri, Sergio Saroni, Giacomo Soffiantino o Paola Levi Montalcini.
Segue un focus sulla stagione del New Dada e della Pop art italiana e straniera, rappresentato tra gli altri da Piero Manzoni, Louise Nevelson, Yves Klein e Andy Warhol
Dopo un passaggio doveroso nella sezione dedicata al Museo sperimentale di arte contemporanea, con una selezione delle oltre trecento opere che arrivarono in dono alla fine del 1965 alla Gam (tra le quali si segnalano lavori di Giuseppe Uncini, Agostino Bonalumi e Carol Rama), il nuovo allestimento culmina nell’esperienza dell’Arte Povera, che si aprì a un nuovo linguaggio, alla ricerca di una libertà totale dai condizionamenti. Sono rappresentati tutti gli artisti del movimento teorizzato nel 1967 da Germano Celant e approdato per la prima volta in un museo nel 1970 proprio alla Gam di Torino: Pier Paolo Calzolari, Mario Merz, Giuseppe Penone, Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio.
Tutto il percorso è intervallato da sale personali dedicate. Riccardo Possoni motiva con queste parole la sua scelta: «Felice Casorati ha lasciato una lezione indelebile nel contesto torinese e nazionale. Arturo Martini ha contribuito a cambiare le connotazioni della scultura italiana. Alberto Burri e Lucio Fontana hanno modificato la veste materica e concettuale della loro opera influenzando l’arte internazionale dopo la seconda guerra mondiale. Grazie all’incremento delle collezioni possiamo ora riproporre, in un confronto di forte contrasto, il valore di azioni fondamentali quali la realizzazione del ciclo della «Gibigianna» di un altro artista al centro di relazioni internazionali, Pinot Gallizio. A Giulio Paolini, infine, è stato dato spazio per averci indicato l’esigenza di mantenere sempre un rapporto necessitante con la storia dell’arte, i suoi segni e richiami, e il loro valore per una vivificazione concettuale della forma».
Di sala in sala, la Gam di Torino offre, dunque, un percorso nel meglio dell’arte del Novecento, mettendo al centro l’opera d’arte e permettendo un confronto tra stili ed epoche. Un confronto reso ancora più raffinato dalla scelta di colori tenui e sobri come il bianco e un grigio che sembra virare al carta da zucchero per le pareti dello spazio espositivo, dando così maggior rilievo ai lavori esposti.

Didascalie delle immagini 
Allestimento della collezione novecentesca alla Gam di Torino. Foto Robino 

Informazioni utili 
«Il primato dell’opera». Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, via Magenta, 31 – Torino. Biglietti: intero 10,00 €, ridotto 8,00 €, ingresso gratuito Abbonamento Musei e Torino Card. Informazioni: tel. +39.011.4429518 – e-mail: gam@fondazionetorinomusei.it. Sito web: www.gamtorino.it. Dal 26 settembre 2020

mercoledì 28 ottobre 2020

Firenze, il Dante del Bronzino in mostra alla Certosa

L’Italia si prepara a celebrare Dante Alighieri, uno dei padri della letteratura italiana, nel settecentesimo anniversario dalla morte. In anticipo con il fitto calendario di eventi che animeranno il nostro Paese nel 2021, la suggestiva Pinacoteca della Certosa del Galluzzo, a Firenze, ospita in questi giorni la mostra «…con altra voce ritornerò poeta», ideata da Antonio Natali, già direttore della Galleria degli Uffizi, con Alessandro Andreini.
Cuore del progetto espositivo -che si avvale dell’organizzazione della Comunità di San Leolino, dell’Opera di Santa Maria del Fiore e dell’Opera di Santa Croce, sotto l’egida dell’Arcidiocesi di Firenze- è il «Ritratto allegorico di Dante» del Bronzino, al secolo Agnolo di Cosimo di Mariano.
L’opera, proveniente da una collezione privata fiorentina, fu realizzata tra il 1532 e il 1533 per Bartolomeo Bettini, intellettuale fiorentino che aveva commissionato al ritrattista rinascimentale anche le effigi -di cui al momento non c’è notizia certa- di Francesco Petrarca e di Boccaccio, altre due voci eminenti della cultura letteraria italiana. 
Questa informazione si desume da un episodio riferito da Giorgio Vasari nelle sue «Vite»; mentre l’attribuzione del ritratto, del quale esiste una replica nella Collezione Kress della National Gallery of Art di Washington, si deve a Philippe Costamagna e risale al 2002.
Quella offerta da Firenze è, dunque, un’occasione imperdibile per vedere un’opera di solito poco esposta, che si configura anche come uno dei ritratti più lirici e poetici del poeta toscano, ma anche per riscoprire la Certosa, complesso di grande fascino, costruito tra il 1342 e il 1356 per volontà di Niccolò Acciaiuoli, nel quale per quasi sette secoli arte e devozione, cultura umanistica e fede si sono sedimentate rendendolo un luogo dove «quella quiete, quel silenzio e quella solitudine» tanto cari a Pontormo, fanno pari con la bellezza e l’indubbio interesse che suscita.
Il «Ritratto allegorico di Dante», dal quale è stato desunto il volto xilografato che campeggia nel frontespizio della «Divina Commedia» pubblicata a cura di Francesco Sansovino nel 1564, è posto sul fondo della Pinacoteca, che sul lato sinistro ospita anche cinque affreschi pontormeschi raffiguranti le «Scene della Passione», alla realizzazione dei quali collaborò nel 1523 anche il Bronzino, mentre Firenze era ammorbata dalla peste. La scelta della Certosa come spazio espositivo per questo progetto non è dunque casuale.
Sempre nella sala della Pinacoteca si possono ammirare anche le copie in scala ridotta eseguite su tela da Jacopo da Empoli e da altri pittori fiorentini dell’Accademia delle arti del disegno intorno al 1582.
La lunetta realizzata dal Bronzino, già esposta in passato agli Uffizi nella Sala 65, prende spunto per il ritratto dantesco dalle parole del Boccaccio: «il suo volto fu lungo e il naso aquilino, gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia melanconico e pensoso». 
Il poeta ha in testa la corona d’alloro, mentre lo sguardo, assorto, guarda verso la montagna scalata a fatica del «Purgatorio». 
Tra le mani, invece, ha una copia della «Divina Commedia», aperta sul Canto XXV del «Paradiso», dal quale è tratto il titolo della mostra fiorentina: «…con altra voce ritornerò poeta». 
Questo sono anche le pagine in cui il poeta racconta la sua speranza tradita, l’attesa di fare ritorno al «bello ovile», nella Firenze che l’aveva esiliato e che egli guarderà da lontano, come nel dipinto in mostra alla Certosa, fino alla fine dei suoi giorni. Ma sono anche le pagine della speranza realizzata, quella di vedere le proprie fatiche letterarie finalmente premiate con l'alloro poetico.  

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bronzino, Dante. Collezione privata; [fig. 2] Uno scorcio della facciata della chiesa della Certosa di Firenze; [fig. 3] Jacopo Pontormo, Salita al Calvario, Certosa di Firenze

Informazioni utili 
…con altra voce ritornerò poeta.Pinacoteca della Certosa di Firenze, via della Certosa, 1 - Galluzzo - Firenze (posizione: https://goo.gl/maps/W9tRUyvVBjiUuFuv5). Orari: tutti i giorni, escluso il lunedì e la domenica mattina, dalle ore 10 alle ore 12 e dalle ore 15 alle ore 18. Ingresso: intero € 5,00. Informazioni: tel. 055.2049226 o certosadifirenze@gmail.com. Sito web: www.certosadifirenze.it. Fino al 31 dicembre 2021. 

martedì 27 ottobre 2020

Da Berlino a Rimini: la Madonna Diotallevi al museo «Luigi Tonini» per il cinquecentenario di Raffaello

Rimini
partecipa alle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario dalla morte di Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 – Roma, 1520), genio della pittura rinascimentale e indiscussa icona dell’arte italiana e mondiale.
Dopo centosettantotto anni la città romagnola torna a ospitare la Madonna Diotallevi, capolavoro giovanile dell’artista, databile presumibilmente al 1504, oggi conservato nella Gemäldegalerie, ovvero nella Pinacoteca statale del Bode Museum di Berlino.
L’opera, per anni attribuita al Perugino, il maestro del pittore urbinate, porta il nome dell’ultimo proprietario privato, cosa che avviene spesso nel catalogo raffaellesco per quanto riguarda le raffigurazioni della Vergine. Basti pensare, per esempio, alla «Madonna Solly», alla «Madonna Terranuova», alla «Piccola Madonna Cowper» o alla «Madonna del Granduca», tela che fu di proprietà di Ferdinando III Lorena.
Il dipinto oggi in mostra al museo «Luigi Tonini» apparteneva, infatti, ad Audiface Diotallevi, gonfaloniere della città di Rimini, vice-console del re di Francia e socio fondatore della locale Cassa di risparmio.
La storia di quest’opera, allo stato attuale delle conoscenze, non fornisce purtroppo informazioni né sulla sua precedente vicenda né sulla sua provenienza originaria.
Per quanto riguarda gli accadimenti antecedenti all’Ottocento ci si muove, infatti, solo nel campo delle ipotesi. Roberto Longhi, per esempio, sostiene che la tavola sia stata «dipinta a più tornate»: la prima intorno al biennio 1500-1502 e l’altra tra il 1504 e il 1505, durante il «periodo fiorentino». Questo perché la Madonna appare più «primitiva» e «peruginesca» rispetto alle figure del Bambino e di San Giovannino, che mostrano un’armonia e una plasticità formale ispirata alla lezione di Leonardo e di Michelangelo, padri di quell’humus creativo che animava la città toscana nei primi anni del Cinquecento.
Sappiamo, invece, per certo che il dipinto giunse da Rimini in Germania grazie allo spirito di iniziativa dello storico dell’arte tedesco Gustav Friedrich Waagen che nel 1842, in visita alla città romagnola, nella quale erano appena stati fondati i primi bagni sul mar Adriatico e che andava scoprendo la sua vocazione turistica, riuscì ad avere accesso alla collezione di Audiface Diotallevi, composta da circa centocinquanta opere.
Lo studioso riconobbe la tela, allora attribuita a Perugino, come opera giovanile del «Divin pittore». Se ne innamorò e la raccomandò per l’acquisto all’allora direttore generale dei Musei imperiali di Berlino Ignaz von Olfers: «questo dipinto presumibilmente sarà -scrisse- uno dei più richiesti del mondo». Il «numero uno» dei musei tedeschi si convinse della bontà del consiglio e procedette repentinamente all’acquisizione per la cifra di centocinquanta talleri Luigini.
Da allora dinnanzi alla «Madonna Diotallevi» si sono avvicendati i più grandi critici, da Passavant a Bode, da Cavalcaselle a Morelli, da Fischel a Venturi, da Berenson a Longhi, restituendo una serie di suggestioni e affascinanti letture.
La splendida tavola, frutto ancora acerbo ma già carico di promesse dell’arte raffaellesca, è stata collocata al primo piano del Museo di Rimini in un’area temporanea allestita nel rispetto dei protocolli anti-Covid e sarà accessibile a piccoli gruppi di massimo quattordici persone in compagnia di una guida qualificata.
Intorno al dipinto è stata costruita una mostra per la curatela di Giulio Zavatta, storico dell’arte dell’Università di Venezia, e con l’allestimento dello studio riminese Cumo Mori Roversi architetti.
L’esposizione presenta altre due opere, entrambe facenti parte della collezione Diotallevi ed emblematiche, con i loro bagliori d’oro, della Scuola riminese del Trecento: il «Crocifisso» di Giovanni da Rimini, donato da Adauto Diotallevi al museo cittadino nel 1936, e l’«Incoronazione della Vergine» di Giuliano da Rimini (meglio nota come polittico del duca di Norfolk) appartenuta allo stesso Audiface, che è stata restituita alla città nel 1998.
Il ritorno a Rimini della «Madonna Diotallevi» diventa così occasione anche per parlare della città romagnola e della sua nuova vocazione di ambasciatrice di bellezza nel mondo, come hanno dimostrato i recenti restauri del teatro Amintore Galli e della sede del Part, casa della collezione d’arte della Fondazione San Patrignano.

Vedi anche

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Raffaello, Madonna Diotallevi, 1504. Olio su tavola, 69 x 50 cm. Bode Museum, Berlino; [fig. 3] Giovanni da Rimini, Crocefisso. Foto: Paritani; [fig. 4] Giuliano da Rimini, Polittico. Foto: Paritani

Informazioni utili
Madonna Diotallevi. Museo della Città Luigi Tonini, via Luigi Tonini, 1 - Rimini. Orari: da martedì a sabato, ore 9.30-13.00 e ore 16.00-19.00; sabato domenica e festivi, ore 10.00-19.00; lunedì non festivi chiuso. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,00:; biglietto speciale famiglia € 20,00, gratuito fino ai 6 anni.Note: la visita può avvenire esclusivamente previa prenotazione, collegandosi al sito del Festival del Mondo Antico http://antico.comune.rimini.it/ oppure al sito http://www.museicomunalirimini.it/ | l’ingresso è consentito a gruppi di massimo 14 persone. Catalogo di NFC Edizioni, a cura di Giulio Zavatta. Informazioni: tel. 0541.793851. Fino al 10 gennaio 2021

lunedì 26 ottobre 2020

Firenze, Lorenzo Puglisi davanti al crocifisso di Michelangelo

Era il dicembre del 2000 quando il Crocifisso di Santo Spirito, scultura lignea policroma attribuita a Michelangelo, faceva ritorno nella sua casa fiorentina. Dopo vari tentativi, sul finire del millennio, i Padri agostiniani erano riusciti a trovare un accordo con Pina Ragionieri per riavere nella loro basilica l’opera che, dopo il ritrovamento e il successivo restauro, era stata collocata a casa Buonarroti.
Ritenuto perso all’epoca dell’occupazione francese, il crocifisso michelangiolesco, citato da Giorgio Vasari nelle sue «Vite», era stato rinvenuto nel 1962 dalla storica dell’arte tedesca Margrit Lisner, ricercatrice nota per il suo censimento sui crocifissi toscani del XV secolo effettuato su base stilistica, storica e tipologica.
Utili per la sua ricerca, resa possibile anche grazie all’ospitalità di padre Guido Balestri, erano state le fonti conosciute all’epoca: non solo il racconto di Giorgio Vasari, ma anche le descrizioni del pittore cinquecentesco Ascanio Condivi, che parlò per l’opera di una dimensione «poco meno che ’l naturale», e del Bottari, che, nel Settecento, definì il crocifisso «alto circa due braccia e mezzo».
La studiosa aveva ritrovato il manufatto proprio all’interno di Santo Spirito, nel Refettorio, sotto una ridipintura che ne alterava la forma e il carattere.
L’opera, che oggi orna la Cappella Barbadori della Sacrestia di Giuliano da Sangallo, fu realizzata da Michelangelo nel 1493, ad appena diciotto anni, «a compiacenza del priore» Niccolò di Lapo Bichiellini che gli diede «comodità di stanze». L’artista volle cioè ringraziare l’ordine religioso dell’ospitalità e dell’opportunità di studiare anatomia, ovvero di analizzare i cadaveri provenienti dall’ospedale del convento, cosa resa possibile anche grazie all’intercessione di Piero de’ Medici.
Michelangelo raffigurò il Cristo nella sua totale nudità, in posizione sofferente, con il capo reclinato verso sinistra e le gambe piegate, leggermente direzionate verso destra, così da dare una forte sinuosità all’intera composizione. Il modellato, nonostante la precisa resa anatomica, è morbido e attento ai dettagli più delicati, come la resa dei soffici capelli e dei peli del pube. Gesù appare quasi indifeso e fragile di fronte al dramma del martirio e alla morte.
Per festeggiare i vent’anni dal ritorno del crocifisso nella Basilica di Santo Spirito è stata organizzata da Francesca Sacchi Tommasi di Etra studio, in collaborazione con ArtCom Project, la mostra «Lorenzo Puglisi | Davanti a Michelangelo. Crocifissione, umanità, mistero»
 L’artista, che vive e lavora a Bologna, ha realizzato per l’occasione un dipinto a olio su tavola di pioppo sagomata a forma di croce con fondo nero, su cui compaiono solo i risultati della sua ricerca di essenzialità, cioè le rappresentazioni della testa inclinata, delle mani e dei piedi del Cristo morto in croce. La tecnica usata riprende una tradizione storico-artistica che origina dalla pittura dei primitivi e che nell’arte contemporanea si era completamente perduta.
Come scrive padre Giuseppe Pagano, «Lorenzo Puglisi sarà davanti a Michelangelo per esprimere tutta la forza della crocifissione, tutta l’umanità e il mistero. Rimane così l’interesse dell’artista per la natura umana e il mistero dell’esistenza, cercando di raffigurarla con una pittura nel buio, quasi a voler esprimere quella luce che c’è, che spinge, ma che è ancora trattenuta dall’oscurità, così come Michelangelo abbatte la realtà della morte in croce con la bellezza e il sorriso che sono già espressione di una realtà diversa da quella che si vede».
Dal canto suo Puglisi sottolinea che «la crocifissione è un’immagine simbolica e reale al tempo stesso, sia nella tradizione cristiana, sia nella riflessione più intima sulla condizione, la possibilità e la ragion d’essere dell’uomo, così come si può comprendere dal sapere trasmessoci nel tempo dagli antichi, in numerose forme. La visione della scultura di Michelangelo tocca il cuore e ha una leggerezza e una delicatezza rare. Per me pittore, da subito, è emersa l’esigenza di cercare una pittura vitale e scultorea, e Michelangelo ne è stato grande maestro. Per cui il mio tentativo di pittura si rivolge alla visione di qualcosa che è altro dal visibile empirico, ma col quale è inseparabilmente intrecciato, è mescolato ad esso; la ricerca dell’essenziale della rappresentazione, come ambizione e fine, è legato alla ricerca di essenzialità nella vita e ne è conseguenza e speranza di conoscere. Crocifissione, umanità, mistero. È tutto in queste tre parole».

Informazioni utili
Lorenzo Puglisi | Davanti a Michelangelo. Crocifissione, umanità, mistero. Basilica di Santo Spirito, piazza santo spirito, 30 – Firenze. Orari: lunedì-sabato ore 10-12.45 e 15-17.45; domenica ore 11.30-13.15 e 15-17.45; mercoledì chiuso. Biglietto: 2,00 euro. Informazioni: tel. 055.210030. Sito web: www.basilicasantospirito.it. Fino al 1° novembre 2020.

domenica 25 ottobre 2020

«La Treccani dei ragazzi», un’enciclopedia sul mondo contemporaneo che parla anche il linguaggio del fumetto

Che cosa ne sa la generazione dei Post-Millennials, i giovani nati tra il 1995 e il 2010, delle enciclopedie? Poco o niente. Per i nativi digitali, quelli che passano il loro tempo su Tik Tok e che hanno come modelli di riferimento influencer e youtuber, l’approfondimento passa attraverso la Rete. È, dunque, una bella sfida quella dell’Istituto italiano di enciclopedia Treccani che ha pensato a una nuova iniziativa editoriale interamente dedicata ai giovani cresciuti a pane e social.
È nata così - si legge nella nota di presentazione – «un’opera destinata all’educazione delle generazioni a venire», una stimolante «guida interdisciplinare alla comprensione del mondo contemporaneo e della sua storia», con approfondimenti sulle nozioni e i personaggi più significativi ed emblematici, utile sia per la crescita culturale e personale dei giovani studenti che per il loro percorso scolastico.
Al progetto hanno lavorato pedagogisti, giornalisti, storici, scienziati ed esperti di vari settori con lo scopo - si legge ancora nella presentazione – di «fornire ai ragazzi e ai loro genitori uno strumento di efficace funzione educativa che fosse complementare a quella della scuola».
La proposta di Treccani appare, dunque, molto utile in questo momento storico nel quale la frequenza scolastica non è più così scontata e c’è bisogno di nuovi strumenti per stimolare la mente dei ragazzi e per aiutarli a superare il momento di incertezza e disorientamento che stiamo vivendo.
L’opera può essere usata a seconda dell’età e dei vari livelli di apprendimento ed è pensata addirittura per la generazione Alpha, ovvero per i bambini che frequentano il primo ciclo scolastico. Ma è certo che la nuova enciclopedia soddisferà anche le curiosità dei genitori e dei fratelli maggiori grazie all’attualità e alla varietà dei temi trattati.
«La Treccani dei ragazzi», questo il nome dell'ultimo progetto della casa editrice romana, dà così vita a «un modo di fare cultura - si legge nella presentazione - che crea condivisione, capace di unire le generazioni, grazie al quale scoprire o riscoprire anche il piacere di sfogliare, mentre si acquisiscono le conoscenze necessarie per porre le basi di una visione del mondo corretta e consapevole, presupposto per la formazione di coscienze e persone migliori».
Acquistabile sul portale Emporium dallo scorso 15 ottobre, l'opera è composta da dieci volumi agili, maneggevoli e di facile consultazione, con all’interno 2500 voci, 40 box di approfondimento, circa 6000 immagini tra mappe, disegni, illustrazioni scientifiche e fotografie, e 10 storie a fumetti. Questi ultimi sono racconti «educativi e di formazione» illustrati da altrettanti artisti: Ilaria Palleschi, GUD, Eleonora Antonioni, Rita Petruccioli, Virginio Vona, Marta Baroni, Capitan Artiglio, Daniel Cuello, Rachele Aragno e Loputyn.
Quella della Treccani è anche un’enciclopedia al passo con i tempi: l’opera è, infatti, arricchita da una serie di contenuti digitali e percorsi scolastici di approfondimento a cui ogni giovane studente può accedere direttamente da casa.
Per rendere ancora più accattivante e stimolante l’enciclopedia si è pensato a copertine colorate diverse per ogni volume, il cui allineamento disegna una vivace scala cromatica con sfumature cha vanno dal rosso al blu, passando per il giallo e il verde.
Tra le tante voci, la selezione include parole e nomi come «arte», «ambiente», «Abramovic», «Banksy», «blockchain», «Brexit», «Cattelan», «comunità», «design», «equazioni», «ghetto», «Hirst», «labirinto», «paura» e «Zuckerberg», spiegate con grande chiarezza. Si vuole così sottolineare l'importanza di costruire un sapere trasversale alla base della conoscenza e dell'apprendimento.
La Treccani mette, dunque, a disposizione dei più giovani uno strumento di conoscenza certificata per guidarli nella comprensione del mondo e per aiutarli ad orientarsi nell’epoca delle fake news e dell’utilizzo del web come filtro della realtà, talvolta ingannevole. Ma non è tutto: la nuova enciclopedia offre alle generazioni Z e Alpha anche il piacere, ormai quasi dimenticato in quest’epoca iper-connessa, di sfogliare un bel libro.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] La Treccani dei ragazzi, 2020; [fig. 3] Illustrazione di Eleonora Antonioni per la voce Do Giovanni dell'enciclopedia La Treccani dei ragazzi, 2020; [fig. 4] Illustrazione di Ilaria Palleschi per la voce Bello e bellezza dell'enciclopedia La Treccani dei ragazzi, 2020; [fig. 5] Illustrazione di Rita Petruccioli per la voce Fake news dell'enciclopedia La Treccani dei ragazzi, 2020

Informazioni utili 

sabato 24 ottobre 2020

Milano, al Poldi Pezzoli la ‘nuova’ «Madonna con il Bambino» di Andrea Mantegna

Era il 1861 quando Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879) acquistava dallo storico dell’arte Giovanni Morelli (1816-1891), in difficoltà per un debito di gioco, un’opera destinata a diventare iconica all’interno della sua collezione: il piccolo e prezioso dipinto della «Madonna con il Bambino» (1490-1499) di Andrea Mantegna (1431 – Mantova, 1506).
Due anni dopo, nel 1863, il collezionista lombardo affidava la tela alle cure di Giuseppe Molteni (1800–1867), conservatore della Pinacoteca di Brera nonché ritrattista e amico di famiglia, noto nell’ambiente artistico per i suoi interventi di tipo «integrativo», che avevano la pretesta di migliorare l’aspetto estetico dei quadri antichi secondo il gusto accademico in vigore nel secondo Ottocento così da incontrare il favore della ricca committenza dell’epoca.
Per la «Madonna con il Bambino» quel restauro, purtroppo non solo conservativo, rappresentò una vera e propria metamorfosi.
Giuseppe Molteni eseguì, dapprima, una foderatura incollando sul retro una nuova tela, in modo tale da conferire sostegno al delicatissimo supporto originale, che risultava lacerato in corrispondenza della mano della Vergine.
L’artista impreziosì, poi, la veste rossa della Madonna con marezzature dorate e ridipinse completamente il suo manto blu dal risvolto verde, i cui pigmenti originali in azzurrite apparivano irrimediabilmente alterati.
Ma l’intervento conservativo non si limitò a questo: il restauratore prolungò anche arbitrariamente le braccia di Maria sui bordi laterali, dando l’impressione che la scena si svolgesse davanti a una finestra e, in tal mondo, alterò completamente l’impostazione compositiva e prospettica data all’immagine dal Mantegna.
Infine, Giuseppe Molteni verniciò la superficie, per saturare i colori originali percepiti come troppo «piatti» e «polverosi», con un effetto finale di «scurimento» dei toni, che alterò l’equilibrio cromatico della composizione e rese meno intellegibile la distinzione fra il fondo scuro e il manto della Vergine.
L’intero lavoro di restauro fece sì che i critici facessero fatica a inquadrare storicamente la tela, attribuita negli anni alle più varie fasi di attività dell’artista padovano: dal periodo giovanile, trascorso nella città natale, all'inizio del soggiorno mantovano, avvenuto tra il 1462 e il 1470, fino alla tarda attività, nell’ultimo decennio del Quattrocento.
Nel marzo 2019 il museo Poldi Pezzoli di Milano ha affidato, anche grazie al sostegno economico della Fondazione Giulio e Giovanna Sacchetti onlus, il recupero della tela all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.
Il lavoro di restauro -realizzato da Lucia Maria Bresci, con la collaborazione di Ciro Castelli, sotto la direzione di Marco Ciatti e Cecilia Frosinini, e in collaborazione con Andrea Di Lorenzo- è stato anticipato da un’approfondita campagna diagnostica. Questa prima fase è stata utile per comprendere a fondo la tecnica esecutiva e lo stato conservativo del dipinto, ma anche per definire più accuratamente l’entità dell’intervento di Giuseppe Molteni e, infine, per chiarire alcune piccole scoperte che si andavano rivelando.
«Dagli studi -raccontano i responsabili del restauro- è stato possibile comprendere che la «Madonna con il Bambino» era caratterizzata in origine da un effetto opaco e quasi pulvirulento della superficie, a imitazione degli stendardi o della pittura murale». La vernice a mastice, usata da Giuseppe Molteni per proteggere gli strati pittorici, aveva alterato profondamente l’opera rendendola esteticamente simile a un dipinto a olio e celando le peculiarità della tecnica esecutiva a tempera magra utilizzata dal Mantegna in questa tela e anche in altri suoi lavori come il «Cristo morto» della Pinacoteca di Brera, il grande «San Sebastiano» del Museo del Louvre e la «Madonna con Bambino» dell’Accademia Carrara di Bergamo.
Diffuso nel Quattrocento soprattutto nel Nord Europa, questo particolare procedimento pittorico -raccontano ancora i responsabili del restauro- «consiste nel dipingere su una finissima tela di lino, priva di preparazione e trattata tramite una leggera stesura di amido che la rende più impermeabile alla possibile penetrazione della componente liquida della miscela colore-legante. Quanto al film pittorico, questo è legato a tempera magra (verosimilmente colla animale) e applicato in sottilissime stesure pittoriche per ottenere come effetto estetico finale un’apparenza arida e opaca, enfatizzata e accompagnata, infatti, dall’assenza di verniciatura finale».
Per i restauratori non è stato semplice tornare alla versione antica, che oggi si ritiene essere stata realizzata dal Mantegna negli anni Novanta del Quattrocento, sul finire della vita. 
All’Opificio delle Pietre Dure di Firenze hanno, infatti, affrontato una vera e propria sfida, della quale, in letteratura, esisteva solo un altro caso di parziale successo, operato sull’«Adorazione dei Magi», sempre del Mantegna, del Getty Museum di Los Angeles, da parte di Andrea Rothe, restauratore di formazione italiana, recentemente scomparso.
Oggi possiamo dire che la sfida è stata vinta e che il restauro, iniziato con la graduale rimozione della vernice messa da Giuseppe Molteni, ha riservato anche qualche sorpresa: in corso di pulitura è affiorata una traccia della scritta «Nigra sum sed formosa», espressione tratta dal «Cantico dei Cantici». 
Non visibile a occhio nudo, questo lacerto può essere ammirato, fotograficamente e su un grafico di ricostruzione, nella mostra-dossier «Mantegna ritrovato», allestita al Museo Poldi Pezzoli di Milano, nel Salone dell’affresco, per il ritorno a casa della «Madonna con il Bambino».
L’allestimento della rassegna - realizzato da Unifor, su progetto di Luca Rolla e Alberto Bertini - presenta due stanze: la prima, introduttiva, con i pannelli esplicativi e un video che raccontano le diverse fasi di lavorazione; la seconda spoglia, con la sola opera di Mantegna. Una tenda cinge il tutto isolandolo dal resto del museo e concentrando l’attenzione unicamente sul capolavoro. Il visitatore si trova così a tu per tu con la Madonna mantegnesca. Può ammirare l’armonia estetica e, di conseguenza, contenutistica dell'opera, permeata da sentimenti di tenerezza e semplicità. Può lasciarsi ammaliare dall’immagine di una maternità, intima e dolcissima, lontana da ogni intento celebrativo e regale, quasi nobilitata dalla stessa povertà ed umiltà della Vergine, ben sottolineata dalla scritta, appena rinvenuta, «Nigra sum sed formosa». «Sono nera, ma bella».
 
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Madonna con Bambino Andrea Mantegna, Madonna con Bambino, 1490-1499. Tempera magra su tela, 35,5 x 45,5 cm. Milano, Museo Poldi Pezzoli; [figg. 2, 3 e 4] allestimento della mostra Mantegna ritrovato al Poldi Pezzoli di Milano, ottobre 2020; [fig. 5] Mantegna. Adorazione dei Magi, 1495-1505 ca. Tempera a colla e oro su tavola, cm 54,6x70,7. Los Angeles, Getty Museum

Informazioni utili
Mantegna ritrovato. Museo Poldi Pezzoli, via Manzoni, 12 – Milano. Orari: dal mercoledì al lunedì, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00; il museo resterà eccezionalmente aperto anche martedì 27 aprile e sabato 1° maggio.. Ingresso:  ridotto promozionale dal 26 aprile € 7,00. Informazioni: biglietteria, ferraris@museopoldipezzoli.it; tel. 02.79 4889/6334. Note: sono in programma visite guidate e laboratori per bambini; per informazioni e prenotazioni è possibile scrivere a servizieducativi@museopoldipezzoli.it. Sito internet: www.museopoldipezzoli.it.

giovedì 22 ottobre 2020

«Un marziano a Roma», un Ennio Flaiano precursore dei tempi al Menotti di Milano

Era il 1954 quando Ennio Flaiano scriveva il racconto satirico-scientifico «Un marziano a Roma», nel quale narrava il singolare, quanto imprevisto, atterraggio a Roma, e più precisamente a Villa Borghese, di una aeronave proveniente da Marte. Nel 1960 il racconto breve, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Il mondo», diventava una surreale, quanto discussa versione teatrale, pubblicata dalla casa editrice Einaudi di Torino.
Nello stesso anno, il 23 novembre 1960, lo spettacolo debuttava al Lirico di Milano, nell’allestimento della Compagnia del teatro popolare italiano; il debutto, con Vittorio Gassman nel ruolo del marziano Kunt, veniva accolto dal pubblico con fischi e pernacchie. Quella commedia anticipatrice dei nostri tempi e satira sui costumi italiani finiva così per essere il più grande fiasco nella storia teatrale recente. 
Ennio Flaiano -ricorda l’attrice Ilaria Occhini nel suo libro di memorie «La bellezza quotidiana» - non la prese benissimo, ma, pur nello stordimento per la situazione inattesa, se ne uscì con una delle sue battute caustiche e stranianti: «l’insuccesso mi ha dato alla testa».
Al di là dell’aneddoto, che racconta molto dello spirito divertente e divertito dello scrittore, e malgrado l’infelice “prima”, lo spettacolo è stato più volte riproposto nel corso degli anni da varie compagnie e nel 1983 è diventato anche un film per la televisione, prodotto dalla Rai, con la regia di Bruno Rasia e Antonio Salines.
A questa storia, che ha colpito anche l’attenzione di Federico Fellini, guarda il teatro Menotti di Milano per l’apertura della rassegna «Fragili come la terra», dedicata alle crisi ambientale, sociale e culturale che stiamo vivendo.
L’appuntamento è fissato per sabato 24 ottobre e sono già in calendario delle repliche per altre quattro giornate: il 25, il 30, il 31 ottobre e il 1° novembre.
Sul palco salirà un’attrice di talento e spessore come Milvia Marigliano, più volte candidata al Premio Maschere del teatro italiano, accompagnata dal trombettista Raffaele Kohler, diventato famoso nei giorni del lockdown per il video, virale sui social, nel quale suona «O Mia Bela Madunina» dietro a un’inferriata, alla finestra, in occasione di un flashmob
Firma la regia e l’adattamento dello spettacolo, una produzione Tieffe Teatro, Emilio Russo; il disegno luci porta la firma di Mario Loprevite.
«Un marziano a Roma» anticipa l’idea, oggi molto attuale, di società effimera, omologata e in bilico, tra il reale e l’immaginario, alla vana ricerca di un senso al nulla virtuale che ci circonda.
Il testo racconta l’epopea tragicomica di Kunt, un marziano arrivato sulla terra, con l’idea di fare un viaggio in un pianeta accogliente, placido e blu. 
La sua storia si consuma in pochi giorni, dal 12 ottobre 1953 al 6 gennaio 1954. 
Al suo atterraggio è il caos: il marziano è la novità, la notizia da raccontare a tutti. 
In poco tempo, Kunt diviene una superstar, tutti lo conoscono e tutti vogliono incontrarlo. Le televisioni lo invitano nei loro talk show. I giornali fanno «titoloni» sulle sue avventure. Le donne, infatuate, gli scrivo appassionate lettere d’amore. I cittadini romani si aspettano che lui risolva tutti i loro problemi e renda migliore la vita della città. 
Passata la curiosità iniziale, il marziano viene dapprima ignorato, costretto ad aggirarsi solo e malinconico per la città. Poi viene addirittura deriso. 
Quel mondo pieno di intellettuali annoiati, giornalisti venditori di fumo, gente che dibatte sul nulla, con la sua superficialità e la sua vanità, non è adatto a Kunt. Il marziano lo capisce e non gli resta che una scelta: fare ritorno nello spazio in silenzio e di nascosto senza nemmeno salutare. Così va la vita.

Vedi anche

Informazioni utili
Un marziano a Roma. Teatro Menotti, via Ciro Menotti, 11 – Milano. Orari biglietteria: dal lunedì al sabato, dalle ore 15.00 alle ore 19.00 | domenica, ore 14.30- 16.00 solo nei giorni di spettacolo | i biglietti sono acquistabili anche on line, con carta di credito, sul sito del teatro. Orari spettacolo: sabato 24 ottobre ore 20.00, domenica 25 ottobre ore 16.30, venerdì 30 ottobre ore 20.00, sabato 31 ottobre ore 19.30, domenica 1 novembre ore 19.30 Ingresso: intero 15,00, ridotto € 10,00. Informazioni: tel. 02.36592544 – biglietteria@tieffeteatro.it

mercoledì 21 ottobre 2020

A Milano un ciclo di visite guidate per conoscere «Il teatro scolpito» di Arnaldo Pomodoro

«Il teatro mi dà un senso di libertà creativa: mi sembra, in un certo senso, di poter materializzare la visionarietà». Così Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, 23 giugno 1926) parla del suo rapporto con il palcoscenico, che, nel corso della vita, lo ha portato a realizzare costumi e scenografie per più di quaranta spettacoli, dalla tragedia greca all’opera lirica, dalla musica al teatro contemporaneo. Dal 25 ottobre a questo particolare aspetto del fare creativo dello scultore e orafo romagnolo di nascita e milanese d'adozione, noto per le sue grandi sfere di bronzo dislocate in varie parti del mondo, sarà dedicato un ciclo di visite guidate open studio negli spazi, recentemente rinnovati, della Fondazione Pomodoro di Milano.
Maquettes
, figurini, tavole progettuali, fotografie di scena e un costume originale racconteranno ai visitatori un ambito ancora poco conosciuto dell’attività dell’artista, ma sperimentato sin dagli albori. Risale, infatti, al 1954 il premio per il progetto scenico dell’opera teatrale «Santa Giovanna dei Macelli» di Bertolt Brecht al Festival d’arte drammatica di Pesaro. Inizia così un viaggio straordinario e unico che porta Arnaldo Pomodoro a lavorare, per esempio, con Luca Ronconi per il dramma «Caterina di Heilbronn» del poeta tedesco Heinrich von Kleist, nell’allestimento proposto sul lago di Zurigo nel 1972, e con Ermanno Olmi nell’insolito dittico formato dall’opera lirica «Cavalleria rusticana» di Pietro Mascagni e da «Šárka» di Leoš Janáček, che va in scena al teatro La Fenice di Venezia nel 2009.
Il teatro è per il maestro romagnolo il luogo principe della ricerca. È lo stesso artista a dichiararlo: «l'esperienza teatrale mi ha aperto nuovi orizzonti e mi ha stimolato a sperimentare anche nel campo della scultura. In alcuni progetti per la scena, soprattutto nel caso di testi classici, ho realizzato grandi macchine spettacolari da cui poi ho tratto vere e proprie sculture. In altri casi ho preso lo spunto da progetti di sculture non realizzate». Macchine teatrali sono, per esempio, quelle costruite per una delle esperienze sceniche più affascinanti del Novecento: l’«Orestea di Gibellina» di Emilio Isgrò, tratta da Eschilo e messa in scena sui ruderi di Gibellina tra il 1983 e il 1985, con la regia di Filippo Crivelli.
Il programma culturale della Fondazione Pomodoro si arricchisce così di un nuovo percorso didattico, in aggiunta a quelli già attivi al «Labirinto» di via Solari 35, alla Fonderia De Andreis di Rozzano, nel centro di Milano con il tour «Pomodoroincittà» e nello stesso Studio Arnaldo Pomodoro, dove ogni mese si svolge un ricco programma di workshop incentrati sulle tecniche della scultura.
Il percorso «Il teatro scolpito» prevede per i prossimi mesi quattro visite guidate, in programma con il seguente calendario: 25 ottobre (ore 11), 8 e 22 novembre (ore 17), 13 dicembre (ore 17).
Questa iniziativa segna un nuovo passo nel progetto globale di conservazione, valorizzazione e promozione dell'archivio e dei suoi contenuti, avviato con la pubblicazione on-going del «Catalogue Raisonné» dell'artista e promosso dalla fondazione milanese con l'obiettivo di favorire una sempre più ampia conoscenza dell'opera di Arnaldo Pomodoro e una piena accessibilità al pubblico del proprio patrimonio materiale e immateriale.
Alla valorizzazione dell'archivio si affianca, poi, quella della collezione attraverso una serie di iniziative diffuse sul territorio, a cominciare dal comodato d’uso triennale del monumentale «Obelisco per Cleopatra», collocato per i prossimi tre anni nel piazzale antistante al Castello Campori di Soliera, nel Modenese.
Per presentare al meglio questo lavoro - progettato nel 1989 in riferimento alla messinscena del dramma storico «La passione di Cleopatra» di Ahmed Shawqi, rappresentato sui ruderi di Gibellina – è stata appena inaugurata a Soliera la mostra «Arnaldo Pomodoro. {sur}face», a cura di Lorenzo Respi. L'esposizione - accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo dedicato alla genesi e all'attuale collocazione dell'«Obelisco» - racconta l'esperienza teatrale di Arnaldo Pomodoro attraverso costumi di scena originali, disegni preparatori, bozzetti scenografici, fotografie e video dello spettacolo «Cleopatra», ma non solo.
Un altro aspetto poco noto dell'attività dell’artista, quello della produzione grafica, sarà, invece, al centro della mostra in programma per novembre alla Galleria d'arte contemporanea «Vero Stoppioni» di Santa Sofia, sull’Appennino Forlivese. L’esposizione, a cura di Renato Barilli, fa seguito alla recente inaugurazione del comodato d'uso quinquennale di un'altra opera monumentale di Arnaldo Pomodoro, «Cono tronco» (1972), da poco collocata sul lungofiume del Bidente nel Parco di sculture all'aperto di Santa Sofia.
Sono, inoltre, in via di definizione altri due importanti comodati di opere, quello al Museo del Novecento di Milano, nell'ambito del nuovo ordinamento della sezione che racconterà il periodo dagli anni Venti agli anni Cinquanta, e quello agli Horti dell'Almo Collegio Borromeo di Pavia, che sarà aperto al pubblico come oasi naturalistica e spazio d'arte contemporanea a cielo aperto.
Un programma, dunque, fitto di impegni quello che la Fondazione Pomodoro di Milano ha in cantiere nei prossimi mesi per diffondere la conoscenza di un artista-artigiano che al mondo del teatro ha lasciato le macchine di scena per la «Semiramide» di Gioachino Rossini, andata in scena nel 1982 al Teatro dell’Opera di Roma, la spirale metallica e i costumi vivaci e moderni del «Ballo in maschera» di Giuseppe Verdi, presentato a Lipsia nel 2005, e ancora le scene per l’opera «Teneke» di Fabio Vacchi, proposta nel 2007 al teatro alla Scala di Milano. Lavori dai linguaggi e dalle sensibilità diverse che hanno incontrato lo stesso stile, quello di Arnaldo Pomodoro e del suo inconfondibile «teatro scolpito».

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1[ Modellino di scena (scala 1:50) | fiberglass patinato, ottone e legno | da: La tempesta di William Shakespeare, regia di Cherif | Palermo, Cantieri Culturali della Zisa, 7 aprile 1998 | Fotografia Dario Tettamanzi, courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro; [fig. 2] Costume di Enea. Tessuto, ottone e fiberglass dorato | da: La tragedia di Didone regina di Cartagine di Christopher Marlowe  | Adattamento e regia di Cherif | Gibellina, Ruderi, 6 settembre 1986 | Fotografia di Pietro Carrieri, courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro; [fig. 3] Cavallo per Didone, 1986, legno, piombo e fiberglass - 36 × 76 × 31 cm | Catalogue Raisonné n. 803 | da: La tragedia di Didone regina di Cartagine di Christopher Marlowe, ddattamento e regia di Cherif | Gibellina, Ruderi, 6 settembre 1986 | Fotografia Studio Boschetti, courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro; [fig.4] Rive dei mari, 1987, fiberglass - 252 × 95 × 29 cm | da: Alceste di Christoph Willibald Gluck, regia di Virginio Puecher | Genova, Teatro Margherita, 26 febbraio 1987 | Fotografia Fondazione Arnaldo Pomodoro; [fig. 5]  Modellino di scena (scala 1:20), ottone patinato, plexiglass e legno | da: Alceste di Christoph Willibald Gluck, regia di Virginio Puecher | Genova, Teatro Margherita, 26 febbraio 1987 | Fotografia Studio Tettamanzi, courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro; [fig. 6]Arnaldo Pomodoro, Obelisco per Cleopatra. Foto Fotostudio Solierese #1; [fig. 7] Cono tronco, Santa Sofia, 2020. Foto: Nicola Andrucci  

Informazioni utili 
Visite guidate Open Studio - Il teatro scolpito. Dove: Studio Arnaldo Pomodoro, via Vigevano 3 - Milano (cit. 061). Quando: 25 ottobre (ore 11); 8 novembre (ore 17); 22 novembre (ore 17); 13 dicembre (ore 17). Durata: 60 min circa. Costo: biglietto intero € 11,00 / ridotto € 8,00; per adulti (dai 15 anni in su). Acquista i biglietti: https://fondazionearnaldopomodoro.it/visita/visita-open-studio-singoli/. Prenota una visita di gruppo: https://fondazionearnaldopomodoro.it/visita/visita-open-studio-gruppi/. Maggiori informazioni su tutte le attività della Fondazione Arnaldo Pomodoro sul sito: fondazionearnaldopomodoro.it

martedì 20 ottobre 2020

«Protect and respect!», quattro mascherine d’artista per il Maxxi di Roma

Sono diventate il simbolo della crisi sanitaria per il Covid-19 e accompagneranno ancora a lungo la nostra quotidianità. Per un obbligo di legge, ma anche (e si spera soprattutto) per rispetto verso gli altri, le mascherine hanno finito per diventare un accessorio imprescindibile. Introvabili nella prima fase della pandemia, oggi sono diventate sempre più originali e hanno inevitabilmente finito per incontrare anche il mondo dell’arte.
Lo scorso maggio la Galleria Contini di Venezia aveva lanciato la sua collezione, con opere, tra gli altri, di Fernando Botero, Manolo Valdés, Pablo Atchugarry e Igor Mitoraj. Poi sono arrivate le mascherine di Independent Republic e di Skira, con soggetti che spaziano dalla «Notte stellata» di Vincent Van Gogh a «La grande onda di Kanagawa» di Hokusai, da «L’urlo» di Edvard Munch a «La Venere» di Sandro Botticelli.
Il connubio tra arte e mascherine si arricchisce ora di una nuova proposta: «Protect and respect!», un’iniziativa di Alcantara a sostegno del Maxxi - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, fortemente colpito dalla chiusura durante i mesi della quarantena. Quattro gli autori coinvolti: Andrea Anastasio, Gentucca Bini, Elena Salmistraro e Sissi.
Gli artisti hanno lavorato insieme al dipartimento RD del brand italiano, ubicato tra Milano e la cittadina umbra di Nera Montoro, che ha sviluppato soluzioni ad hoc per rispondere agli input creativi e realizzare mascherine filtranti con finalità precauzionale destinate alla collettività. Stampato, tagliato al laser, in colori e decori diversi, l’Alcantara si è dimostrato ancora una volta un medium versatile, capace di ispirare e dare forma alla creatività. Il risultato è a tutti gli effetti una produzione artistica. I quattro progettisti, afferenti a diverse discipline (arte, moda, design), hanno disegnato, nello specifico, oggetti che partono da loro ricerche precedenti sul significato antropologico e simbolico del «mascheramento».
Andrea Anastasio, sensibile artista e designer romano affascinato dallo studio delle poetiche dell’arte concettuale e delle sue potenziali convergenze con l’industrial design, disegna una farfalla iridescente con le ali giuntate al contrario. Nel suo progetto «Battiti» la forma bivalve della mascherina diviene occasione per considerare ciò che in natura ha una morfologia simmetrica e speculare, dalle conchiglie agli uccelli, alle farfalle. Il disegno presenta due ali che vengono cucite per il lato lungo, all’opposto di come avviene in natura, generando un ibrido che fa riflettere sull’azione dell’artificiale sul mondo naturale e sui suoi effetti sull’ecosistema.
Gentucca Bini, stilista e designer milanese, strizza, invece, l’occhio a uno dei rituali che ci manca di più - il bacio - e lo fa con l’ironia. Nel suo progetto «Kiss me Zorro» la componente di gioco identitario della maschera si coniuga con quella protettiva della mascherina. «Tipico costume della tradizione popolare, -raccontano gli ideatori del progetto- Zorro è qui trasformato nell’eroe di una storia a lieto fine, dove l’obiettivo è quello di proteggere gli altri e noi stessi senza perdere il buonumore, con uno spirito che coniuga prudenza e divertimento».
Ha un’anima vivace e colorata e un significato che pesca nell’antropologia culturale «Gargolla», la mascherina firmata dalla designer e artista milanese Elena Salmistraro. L’effetto apotropaico e scaramantico è una delle più forti armi della comunicazione simbolica delle immagini. «I gargoyle delle cattedrali gotiche -raccontano ancora da Alcantara- ne sono un chiaro esempio: la loro funzione statica nell’ingegneria delle cattedrali si accompagna a quella simbolica di repulsione del maligno. Il disegno di questa mascherina recupera con un tratto contemporaneo l’antica finalità, utilizzata qui per esorcizzare un male altrettanto invisibile e per proteggerci dai suoi reali effetti deleteri».
Infine, Alcantara ha incontrato l'universo creativo di Sissi (alias Daniela Olivieri) eclettica artista e sperimentatrice bolognese, la cui ricerca si caratterizza per un’analisi quasi scientifica del corpo umano e per la necessità di ridisegnarne le forme. Le anatomie fantastiche dell’artista prendono possesso di una mascherina con un disegno che vive al limite tra organicità botaniche e fisicità corporee: la sua «Fioritura linguale» è un fiore fatto di lingue che fa anche pensare alla parola repressa o comunque modificata dall’uso di questo dispositivo di protezione, rendendo la nostra comunicazione meno verbale e più simbolica.
Le ali di farfalla di Andrea Anastasio, la maschera di Zorro di Gentucca Bini, il gargoyle protettivo di Elena Salmistraro e il fiore di Sissi sono, dunque, le quattro nuovo proposte di Alcantara, tutte pensate per «proteggersi con arte», ma anche per sfruttare il potere terapeutico della creatività. 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] «Gargolla» di Elena Salmistraro; [figg. 2 e 3] «Battiti» di Andrea Anastasio; [fig. 4]  «Fioritura linguale» di Sissi; [fig. 5]  «Kiss me Zorro» di Getucca Bini

Informazioni utili 
Le mascherine di Alcantara sono in vendita presso il bookshop del Maxxi di Roma e on-line nel canale e-commerce ad esso collegato al link: https://www.booktique.info/categoria-prodotto/maxxi-lifestyle/ al prezzo simbolico di 14,90 euro. Ufficio stampa: press@fondazionemaxxi.it | bf@share-pr.it. Per informazioni: www.maxxi.art | www.alcantara.com

lunedì 19 ottobre 2020

«Invisible Lines», giovani fumettisti in viaggio per l'Europa a disegnare l'invisibile

Come si disegna l’invisibile? Prova a rispondere a questa domanda il progetto di alta formazione ideato dal centro di civiltà e spiritualità comparate della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, con la consulenza di Matteo Stefanelli e in partnership con tre realtà europee d’eccellenza attive nel campo dell’illustrazione, della grafica e del fumetto d’autore: l’italiana Hamelin associazione culturale, la casa editrice ceca Baobab Books, e la francese Central Vapeur, un’associazione che riunisce professionisti e professioniste dell’editoria, delle arti visive e del settore educativo.
«Invisible Lines», questo il titolo del programma co-finanziato da Europa Creativa, permetterà a dodici giovani artiste e artisti, specializzati nel fumetto e nell’illustrazione, selezionati attraverso una call internazionale disponibile sul sito www.invisiblelines.eu e aperta fino al 10 dicembre compreso, di seguire un percorso formativo della durata di due anni
Il progetto si articola in tre workshop, condotti da tre grandi artisti – Stefano Ricci, Juraj Horváth, Yvan Alagbé – in Italia, Repubblica Ceca e Francia
Per promuovere l’iniziativa è stata ideata un’immagine guida da David B., maestro del racconto esoterico francese dallo stile raffinatissimo, che ha fatto scuola con il suo modo di intendere il disegno come strumento per indagare il rapporto tra individuo e Storia, tra realtà e finzione. L’immagine raffigura decine di volti – maschere, teste animali e visi umani – che guardano l’osservatore in un’immagine che a ogni sguardo rivela nuovi dettagli e che, se osservata da lontano, rivela un'unica figura.
David B. sarà, inoltre, ospite speciale di uno dei tre workshop: affiancherà Stefano Ricci nell’esplorazione dell’invisibile inteso come elemento di spiritualità insito nel quotidiano.
«Dare forma all’invisibile -raccontano dalla Fondazione Cini- è la sfida filosofica e ancor più estetica a cui saranno chiamati le autrici e gli autori selezionati. In un mondo in cui le immagini si moltiplicano, e spesso distorcono la percezione della realtà, interrogarsi su ciò che non si vede e disegnarlo è un’impresa necessaria. L’importanza dell’invisibile si può cogliere nei fenomeni spirituali e religiosi, spesso considerati in crisi, ma che trovano oggi nuova forza e nuovi spazi. Invisibile è paradossalmente il migrante e il rifugiato, al centro delle rappresentazioni dei media e tuttavia raramente presente con la propria storia e voce. L’invisibile lo possiamo cogliere anche in molti luoghi abbandonati che sono sparsi in tutta Europa, a causa del paesaggio urbano in continua evoluzione».
Queste diramazioni si confronteranno con la specificità di linguaggi come il fumetto e l’illustrazione che raccontano storie ma hanno nello spazio bianco e nell’ellissi il loro DNA.
Ogni tappa del percorso di formazione di «Invisible Lines» esplora una diversa sfumatura del concetto di invisibile. Alla Fondazione Cini il tema sarà quello dell’apparizione. In Repubblica Ceca l’attenzione sarà focalizzata sui paesaggi della regione storicamente abitata dai Sudeti e ora perlopiù abbandonata. I riflettori saranno, quindi, puntati sul’esperienza della migrazione, raccontata attraverso le testimonianze delle migranti e dei migranti del centro di accoglienza Bernanos di Strasburgo, dove i dodici partecipanti saranno raggiunti da un gruppo di autori e autrici scelti da Central Vapeur per la «24 heures de l’illustration #5», una maratona di ventiquattro ore di disegno.
«Invisible Lines» mette in dialogo artisti e artiste con grandi maestri in un percorso di creazione di opere originali. 
Ogni tappa è affidata a un maestro d’eccezione. In Italia si tratta di Stefano Ricci, tra i più importanti artisti italiani contemporanei, che nel suo lavoro ha attraversato linguaggi e stili, dal fumetto all’illustrazione, dalla pittura alla performance. L’architetto e illustratore per l’infanzia Juraj Horváth, vincitore del Most Beautiful Book in the World Award alla Fiera del libro di Lipsia nel 2001, animerà la tappa in Repubblica Ceca; mentre a Strasburgo toccherà al fumettista franco-beninese Yvan Alagbé, fondatore della casa editrice Frémok, tra le più importanti in Francia, che nelle sue storie racconta gli effetti della migrazione e del colonialismo sulla vita di personaggi comuni.
Sotto la loro guida, i dodici giovani talenti scelti produrranno storie disegnate che saranno poi esposte in tre dei principali festival di fumetto e illustrazione in Europa: il bolognese BilBOlbul Festival internazionale di fumetto, Central Vapeur e Tabook Festival.
Le stesse opere saranno poi pubblicate in un volume conclusivo che raccoglierà anche gli interventi critici di un convegno che avrà per tema il rapporto tra visibile e invisibile, tra immagine e mistero.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Immagine guida di «Invisible Lines», firmata da David. B; [fig. 2] Fondazione Giorgio Cini, Venezia; [fig. 3] Stefano Ricci; [fig. 4] Juraj Horváth

Informazioni utili 
www.invisiblelines.eu