ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 18 giugno 2021

#Notizieinpillole: le cronache d'arte della settimana dal 14 al 20 giugno 2021

«INCANTO E VISIONE: VERSO LA MODERNITÀ»: ALLA GAM DI VERONA UN NUOVO PERCORSO ESPOSITIVO
Si intitola «Incanto e visione: verso la modernità» il nuovo percorso espositivo della Galleria d’arte moderna «Achille Forti» di Verona, le cui sale si sono da poco arricchite di importanti novità provenienti dalla collezione dei Musei civici.
Il progetto, curato da Francesca Rossi e Patrizia Nuzzo, presenta i linguaggi di quegli artisti che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, hanno saputo affrancarsi, con coraggio e fiducia nel futuro, dai lacci accademici, inaugurando nuove pratiche e processi artistici.
L’esposizione, strutturata attraverso la formula della rotazione delle opere, ha lo scopo di far conoscere gran parte dei lavori custoditi nei depositi, mai esposti prima d’ora al pubblico.
Partendo dalla lezione dei Macchiaioli toscani, con le opere di Telemaco Signorini, e dalla scuola di Posillipo, con i lavori di Guglielmo Ciardi, la mostra giunge, poi, alle atmosfere simboliste fin de siècle con Alfredo Savini, Angelo Dall'Oca Bianca, Ruperto Banterle, Mario Salazzari e Vincenzo De Stefani.
I linguaggi secessionisti - documentati attraverso un corpus di opere di Felice Casorati, Angelo Zamboni e Gino Rossi - insieme ai lavori divisionisti di Baldassare Longoni e alla splendida «Maternità» di Gaetano Previati, eccezionale prestito dalle collezioni del Banco Bpm, segnano l’approdo a una modernità ormai ineludibile. Sono, questi, gli anni in cui gli artisti si avviano a esplorare nuovi territori del linguaggio, dove la pittura non può che raccontare se stessa, attraverso la magia del colore, la tensione delle forme, l’incanto della luce, la ricchezza della materia.
All'interno dell'allestimento trova posto anche un nuovo spazio appositamente dedicato alle donazioni, dal titolo «Thanks to». Si tratta di un progetto voluto dalla direzione Musei civici per evidenziare il contributo di collezionisti e artisti che, con la loro generosità e passione per l’arte, contribuiscono ad accrescere e valorizzare il patrimonio pubblico. Inaugura lo spazio il progetto per il Ponte della Vittoria (1925) di Albano Vitturi, donato da Cristina Fraccaroli Tantini nel 2021.
La mostra è il primo nuovo percorso espositivo realizzato con il rinnovato impianto di illuminazione. Un progetto completato lo scorso marzo, che permette di valorizzare gli spazi espositivi e le opere, rendendo più attrattivo il museo e allo stesso tempo di risparmiare sui consumi di energia.
Per maggiori informazioni: www.gam.comune.verona.it.

PAVIA, ALDO CAZZULLO E PIERO PELÙ INAUGURANO «PROGETTO DANTE». AL CASTELLO VISCONTEO UNA MOSTRA PER RACCONTARE IL SUCCESSO LETTERARIO DEL SOMMO POETA
È un appuntamento in esclusiva lombarda quello che la città di Pavia ha scelto per inaugurare «Progetto Dante», cartellone di recital, conferenze, appuntamenti musicali promosso in occasione dei settecento anni dalla morte del Sommo poeta.  
Venerdì 18 giugno, alle ore 21:30, la splendida cornice del Castello Visconteo farà da scenario allo spettacolo «A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l'Italia», per la regia di Angelo Generali e con Aldo Cazzullo e Piero Pelù.
Il recital - inserito anche nel cartellone estivo «La città come palcoscenico», che ha avuto e avrà per protagonisti artisti e intellettuali del calibro di Coma Cose, Noa, Gino Paoli, Yuja Wang, Peppe Servillo e Vittorio Sgarbi -  prende spunto dal libro che Aldo Cazzullo ha da poco pubblicato per Mondadori, ricostruendo, parola per parola, il viaggio di Dante nell’«Inferno» e raccontandone gli incontri più noti, da Ulisse al conte Ugolino, con frequenti incursioni nella storia e nell’attualità. Accompagnato da musiche e immagini a testimonianza di quanto sia importante e ancora attuale l’eredità dell’Alighieri, il racconto del giornalista piemontese, firma di spicco del quotidiano «Il Corriere della Sera», sarà affiancato dalle suggestioni di un lettore speciale, che riporterà la lingua del poeta e la musicalità dei suoi versi: il fiorentino Piero Pelù.
Sempre il 18 giugno aprirà le porte, alla Biblioteca del Castello Visconteo, una mostra per raccontare Dante e la sua opera attraverso rari documenti provenienti dalla Biblioteca Bonetta, dai Musei civici e dal Collegio Ghislieri. Tra questi lavori sono esposti due preziosissimi fogli di pergamena, tratti da uno dei più antichi manoscritti della «Divina Commedia», entrambi recentemente riscoperti e assurti all'onore delle cronache nazionali, oltre alla prima edizione illustrata del poema, voluta da Lorenzo il Magnifico nel 1481 con incisioni tratte da disegni di Sandro Botticelli, e a un’aldina, curata da Pietro Bembo e stampata a Venezia nel 1502. Completa il percorso espositivo un’opera di video art di Rino Stefano Tagliafierro (nella foto),  in cui, attraverso la tecnica dell’animazione digitale, alcuni importanti dipinti classici prendono vita in una rappresentazione evocativa ed emozionale delle tre cantiche del capolavoro dantesco.
Infine un interessante ciclo di incontri, organizzato con la consulenza scientifica del Comitato di Pavia della prestigiosa Società Dante Alighieri, aiuterà il pubblico ad approfondire la figura del Sommo poeta e a scoprire le ragioni del suo successo, ancora immutato dopo 700 anni. Il 22 luglio Giuseppe Antonelli, professore ordinario di Linguistica italiana all’Università di Pavia, terrà la conferenza «Dante. Un'epopea pop». Il 9 settembre l’arpista Vincenzo Zitello e l’attore Davide Ferrari saranno protagonisti di «DivinaArmonia»; mentre il 22 ottobre si terrà l’incontro «Dal peccato alla virtù: l'amore in tre canti della Commedia», con Mirko Volpi, ricercatore  di Linguistica italiana all’Università di Pavia, e l’attore Davide Ferrari.
Il programma completo è consultabile on-line sul sito www.vivipavia.it/site/home/eventi/progetto-dante.html.

CINQUE ANTEPRIME INTERNAZIONALI PER L’ASIAN FILM FESTIVAL DI ROMA
Giappone
, Corea del Sud, Cina, Filippine, Hong Kong, Taiwan, Indonesia, Malesia, Thailandia, Vietnam e Singapore saranno undici i Paesi coinvolti nella diciottesima edizione dell'Asian Film Festival, la manifestazione organizzata da Cineforum Robert Bresson e diretta da Antonio Termenini, in programma dal 17 al 23 giugno al Farnese Arthouse di Roma (piazza Campo de' Fiori 56).
Il ricco calendario, che prevede quattro proiezioni quotidiane, comprende ventotto lungometraggi e due cortometraggi con cinque anteprime internazionali, sei anteprime europee e numerose anteprime italiane.
La manifestazione prevede, nella giornata del 19 giugno, un focus speciale sul cinema sudcoreano, il Korean Day, nel quale verranno presentati quattro lungometraggi e un cortometraggio, in collaborazione con l’Istituto di cultura coreano di Roma. Ad aprire la giornata sarà «Everglow» di So Joon-moon, un racconto agrodolce sulle «haenyeo», letteralmente «donne di mare», una comunità di tuffatrici e pescatrici dell’isola di Jeju, diventata patrimonio immateriale dell’umanità Unesco nel 2016. Seguiranno le proiezioni della commedia sentimentale «Our Joyful Summer Days» di Lee Yu-bin e il noir al femminile «Go Back» della regista indipendente Seo Eun-young. A chiudere la giornata sarà lo sguardo impertinente e autoriale di Hong Sang-soo, premio per la miglior regia al festival di Berlino, che porterà a Roma il film «The Woman Who Ran», uno spaccato di vita tutto al femminile.
Altro evento speciale, realizzato in collaborazione con l’Ambasciata del Vietnam in Italia, sarà il Vietnam Day, che nella giornata del 22 giugno vedrà la presentazione di quattro lungometraggi in anteprima assoluta: si spazierà dagli straordinari successi, ancora nelle sale in Vietnam, di «Dad I’m Sorry», commedia generazionale, e di «Blood Moon Party», nuovo inaspettato remake di «Perfetti sconosciuti», all’affascinante «Rom» e all’horror «Home Sweet Home».
I difficili e complessi rapporti familiari, il senso di perdita dovuto a problemi economici, lo sviluppo sostenibile e i cambiamenti climatici sono alcuni dei temi al centro del festival, che si aprirà con «Wife of a Spy» di Kiyoshi Kurosawa, già vincitore del Leone d’argento all’ultimo Festival di Venezia, film che mette a nudo quanto si è disposti a rischiare per difendere i propri valori nel Giappone militarista degli anni ’40. Tra i progetti in cartellone c’è anche l’anteprima europea dell’hongkonghese «Stoma» di Kit Hung, film quasi-biografico sul fotografo e regista prematuramente scomparso Julian Lee.
Per informazioni https://www.asianfilmfestival.info.

UNA VISITA GUIDATA ON-LINE ALLA PEGGY GUGGENHEIM DI VENEZIA
Vuoi scoprire i tesori della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia stando comodamente a casa? Ti piacerebbe passeggiare virtualmente tra i capolavori di Pablo Picasso, Giorgio de Chirico e Jackson Pollock, custoditi a Palazzo Venier dei Leoni, in compagnia di una guida? Martedì 22 giugno, alle ore 18.15, il museo lagunare propone una visita in live streaming, in inglese, con un focus su alcuni dei più iconici capolavori collezionati nell’arco di oltre trent’anni dalla lungimirante mecenate americana Peggy Guggenheim.
La visita ha una durata di circa 45 minuti, si svolge sulla piattaforma Zoom, e prevede una quota di iscrizione di 5,00 euro, comprensiva del diritto di prevendita. I partecipanti riceveranno il link per il collegamento via e-mail e avranno la possibilità, a fine tour, di poter interagire con la guida per domande ed eventuali curiosità.
Non è tutto. Il museo offre anche la possibilità di organizzare visite guidate sempre in streaming, a pagamento, per gruppi di più persone, che, in compagnia dei propri famigliari e con gli amici, possono così vivere un’esperienza unica che consentirà loro di immergersi in un percorso di visita appassionante e coinvolgente, anche se a distanza, tra le sale del museo. Le visite, della durata di un’ora, possono essere organizzate tutti i giorni dalle ore 18.30 alle ore 20.30, e il martedì dalle ore 10 alle ore 16. In questo caso, la prenotazione deve essere effettuata almeno 7 giorni lavorativi prima della data della visita ed è possibile prenotare in diverse lingue, a seconda della disponibilità delle guide.
Per maggiori informazioni, è possibile consultare il sito del museo al link https://www.guggenheim-venice.it/it/visita/visita-al-museo/visite-virtuali/visite-virtuali-aperte/.

giovedì 17 giugno 2021

«A Line Made by Walking»: un viaggio tra i castelli della Val di Non con Fulton, Girardi, Griffin, Long

È un viaggio tra i castelli più belli della Val di Non, ma anche tra le opere d’arte di una delle più significative raccolte contemporanee, la Panza Collection di Biumo, quello che propone la mostra diffusa «A Line Made by Walking. Pratiche immersive e residui esperienziali in Fulton, Girardi, Griffin, Long», a cura di Jessica Bianchera, Pietro Caccia Dominioni e Gabriele Lorenzoni.
Il percorso espositivo, visitabile fino al prossimo 30 ottobre, si snoda in quattro strutture trentine - i castelli Belasi, Coredo, Castel Nanno e Valer – e mette in mostra una selezione di opere, per lo più inedite, alle quali fa da filo conduttore il tema del camminare quale esercizio estetico.
Le ricerche di Richard Long, Hamish Fulton, Ron Griffin e Daniele Girardi – quattro artisti scelti per la mostra - si fondano, infatti, sul concetto di esperienza dello spazio attraversato e sulla volontà di recuperare una relazione più autentica non solo con la natura e il paesaggio, ma anche con il fare arte, andando a misurarsi con una dimensione ancestrale alla base della quale stanno il rapporto tra uomo e natura, ma anche un’idea di lavoro artistico come processo, di cui l’oggetto-opera non è che un residuo, una traccia dell’esperienza vissuta. Il risultato finale di questi progetti artistici è cioè un atto che non ha come fine ultimo la modificazione fisica di un territorio, ma che insiste sulla sua frequentazione, che non ha bisogno di lasciare tracce permanenti e arriva al primigenio rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale.
Il titolo scelto dai curatori per questo progetto deriva da una celebre opera di Richard Long del 1967, «A Line Made by Walking», una linea disegnata calpestando l’erba di un campo. «Il risultato di questa azione – raccontano i curatori - è un segno che rimarrà impresso solo nella pellicola fotografica e che scomparirà al rialzarsi dell’erba. Per la sua assoluta radicalità e semplicità formale quest’opera è considerata un passaggio fondamentale dell’arte contemporanea: da questo momento il camminare si trasforma in forma d'arte autonoma. In particolare, si tratta di un’opera germinale per il tipo di lavoro e di ricerca che conducono i quattro artisti in mostra».
Fulcro dell’esposizione, nato da un’idea dell’Apt Val di Non e dell’associazione culturale Urbs Picta, è lo spazio tardo duecentesco di Castel Belasi, legato alla famiglia Khuen e riccamente decorato con affreschi del Cinquecento che richiamano il modello decorativo del refettorio del castello del Buonconsiglio di Trento. Il maniero è stato sottoposto a recente restauro, grazie al quale sono state portate alla luce importanti decorazioni intorno alle porte dei saloni ed è stata svelata una facciata affrescata di notevole fattura.
In questa sede è esposta una selezione di ventuno lavori, quindici dei quali sono completamente inediti, mentre sei hanno fatto parte della Collezione Guggenheim New York dal 1996 al 2003. Tra le opere esposte c’è una serie di lavori di Daniele Girardi, tra cui un’installazione site-specific che rimanda al concetto di inaccessibilità dei territori esplorati, la cui ricerca dialoga in maniera particolarmente profonda con i maestri storici, riuscendo a portarne avanti i presupposti secondo nuove linee di pensiero ed elaborazione formale.
Castel Valer, abitato da più di seicento anni dai conti Spaur di Flavon e Valer, ospita nelle ex scuderie (ora parte integrante del nucleo abitativo) una serie di opere di Ron Griffin, che vede nell’incontro con le vastità desertiche del Nord America e nella loro esplorazione in solitaria un aspetto fondamentale della propria poetica alla ricerca di residui di umanità, frammenti di storie. L’inserimento delle opere in un contesto familiare, all’interno di questo complesso castellare ancora abitato, suggerisce una relazione profonda tra gli spazi dell’abitare e le opere d’arte qui inserite, tipica del collezionismo di Giuseppe Panza di Biumo.
Il percorso prosegue a Castel Nanno, che si presenta oggi, dopo un recente recupero, come un’elegante residenza cinquecentesca, manifestando con chiarezza alterne fasi di uso e abbandono, che vanno dalla sua edificazione come villa fortificata, a riparo in campagna della famiglia Madruzzo, per poi essere usato come caserma austro ungarica, ricovero coatto delle truppe italiane durante la Grande guerra e riparo per i tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, fino all’uso come deposito utile al lavoro nei campi. Il castello accoglierà un’installazione site-specific di Daniele Girardi: un intervento realizzato in loco con materiali del territorio e in stretto dialogo con la residenza in Val di Non esperita dall'artista nel 2020, secondo una prassi tipica del suo operare che prevede lunghi periodi di permanenza in situ.
Il percorso si conclude a Castel Coredo, austero palazzo documentato per la prima volta nel 1291, che oggi ha l’aspetto di una dimora signorile settecentesca in cui sono ben visibili le stratificazioni del tempo e che ospita, tra le altre ricchezze, un ritratto di bambina del pittore trentino Bartolomeo Bezzi e la prima edizione del celebre «Dioscoride», un trattato miniato di botanica stampato a Venezia nel 1565 del medico Pietro Andrea Mattioli, che soggiornò a lungo a Trento e in Val di Non. Questo castello è dedicato all’esposizione di tre libri d’artista di Hamish Fulton, Richard Long e Daniele Girardi, a cui si aggiunge un oggetto scultoreo di Ron Griffin in un dialogo serrato tra l’oggettistica raccolta nel tempo e la passione biblioteconomica della famiglia.

Didascalie delle immagini
1. Castel Nanno. Foto di Massimo Ripani; 2 e 3. Castel Valer. Foto di Massimo Ripani; 4. Richard Long, River Avon Mud Drawing, Edizione 14 di 40, 1995, Panza Collection, Mendrisio, ph. Alessandro Zambianchi, Milano; 5. Ron Griffin, Untitled (RGP 529-99), 1999, Panza Collection, Mendrisio, Hauser&Wirth, ph. Alessandro Zambianchi, Milano; 6. Ron Griffin, Untitled (Long Trailer) (RGP 355-95), 1995, Panza Collection, Mendrisio, Hauser&Wirth, ph. Alessandro Zambianchi, Milano

Informazioni utili 

mercoledì 16 giugno 2021

Il «segno inciso» di Giorgio Morandi in mostra a Bologna

«Che cos’è un’acquaforte?»
: prende spunto da questa domanda il terzo focus di «Re-Collecting», il programma di mostre ideato da Lorenzo Balbi per approfondire temi legati alle collezioni permanenti di arte moderna e contemporanea dell’Istituzione Bologna Musei, indagandone aspetti particolari e valorizzandone opere solitamente non visibili o non più esposte da tempo, per offrire prospettive inusuali e proporre nuovi percorsi di senso.
La nuova esposizione, in programma fino al 29 agosto, è allestita al Museo Morandi ed è curata da Lorenzo Selleri; centrale è il tema dell’incisione, della quale Giorgio Morandi fu maestro in senso stretto, dal momento che dal 1930 diventa docente di Tecnica dell'Incisione all'Accademia di Belle arti di Bologna, ma anche in senso lato, dati il suo rigore e la sua straordinaria capacità tecnica.
L’artista si dedicò alla grafica, e in particolare all’acquaforte, con impegno pari a quello dedicato alla pittura («dipingo e incido paesaggi e nature morte», dichiarò egli stesso nel 1937), tanto che ne divenne un interprete straordinario, tra i più significativi di tutto il panorama europeo del suo tempo.
La sua maestria è paragonabile a quella dei grandi incisori del passato, Rembrandt in primis, che studiava con assiduità e fermezza. Le riproduzioni su volumi in folio, così come le stampe originali che teneva esposte nella casa-studio di via Fondazza, e nella sua aula in Accademia, erano funzionali alla sua necessità di poterne carpire la tecnica perfetta. Così avvenne la sua formazione (non esistendo all’epoca in Accademia un corso di studi per questa disciplina specifica) e quella dei numerosi allievi che frequentarono la sua aula durante i ventisei anni del suo insegnamento. In quel periodo Morandi descrive così il tipo di addestramento impartito ai suoi studenti: «faccio eseguire qualche copia da incisori antichi e limito l’insegnamento all’acquaforte eseguita a puro segno».
Durante il suo magistero si alternarono nella sua aula studenti dai nomi noti, che acquisirono come suggeriva lo stesso maestro bolognese un «proprio timbro», come Luciano Minguzzi, Pompilio Mandelli, Quinto Ghermandi, Luciano Bertacchini, Leone Pancaldi, ma anche Vasco Bendini, Pirro Cuniberti, Dino Boschi, Luciano De Vita e Paolo Manaresi.
Nello sviluppo della sua tecnica Morandi puntò sul segno per andare oltre il bianco e il nero; attraverso il tratteggio, infatti, tradusse i rapporti tonali, o meglio chiaroscurali, giungendo a valersi di quelli che Brandi argutamente definì «colori sottintesi». Del resto la sua attività pittorica procedeva di pari passo. L’acquaforte, come pure la pittura, comportò per lui una fruizione lenta del mondo di cose che aveva sotto gli occhi, quasi una meticolosa distillazione. Ma è appunto in questa meditata operazione che riuscì a percepire la qualità di ciò che aveva di fronte, e quindi ad impadronirsene attraverso un’abilità tecnica straordinaria, che non divenne mai virtuosismo fine a se stesso.
Il percorso espositivo della mostra si apre con una natura morta cubo-futurista, tratta dalla prima e unica lastra incisa all’acquaforte nel 1915 (V.inc.3), e si conclude con un esemplare dell’ultima e unica natura morta che Morandi realizzò nel 1961 (V.inc.131).
Sette delle quattordici acqueforti esposte entrarono a far parte del patrimonio del Comune di Bologna nel 1961, quando Morandi le donò, conservando l’anonimato, in occasione del riordino delle raccolte della Galleria d’arte oderna allora ubicata presso Villa delle Rose.
Alcuni fogli appartenenti a collezioni private completano l’esposizione. Si tratta di opere concesse in comodato gratuito al museo in tempi più o meno recenti, come ad esempio «I Pioppi e la Grande natura morta con la lampada a petrolio» del 1930 (V.inc.76 e 75) e la già citata natura morta del 1961, appartenuta a Luciano Pavarotti. A queste si aggiunge la stampa della sola lastra, ad oggi nota, che Morandi incise con la tecnica della ceramolle.
Alcune vetrine permettono al pubblico di avere accesso a documenti che gettano luce sulla dedizione di Morandi verso la tecnica oggetto del focus espositivo e sui suoi lunghi anni di insegnamento. Tra questi spiccano le lettere dell’artista all’amico Mino Maccari e quelle di Carlo Alberto Petrucci, direttore della Calcografia nazionale di Roma a Morandi, oppure i registri, le note di qualifica e le relazioni provenienti dall’Archivio storico Accademia di Belle arti di Bologna.

Didascalie delle immagini
1. Morandi nella sua aula all'Accademia di Belle Arti di Bologna, Istituzione Bologna Musei | Casa Morandi; 2. Grande natura morta scura, 1934. Acquaforte su rame, Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi; 3. Giorgio Morandi, Paesaggio del Poggio, 1927. Acquaforte su rame. Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi; 4. Punte e bulini utilizzati da Giorgio Morandi per incidere. Istituzione Bologna Musei | Casa Morandi  

Informazioni utili 
«Morandi racconta. Il segno inciso: tratteggi e chiaroscuri». MAMbo – Museo d’arte moderna di Bologna - Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari di apertura: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, ore 16.00 – 20.00; sabato, domenica e festivi ore 10.00 – 20.00; chiuso lunedì. Ingresso: intero 6,00, ridotto 4,00. Informazioni: tel. +39.051.6496611. Sito internet: www.mambo-bologna.org. Facebook: MAMboMuseoArteModernaBologna | Instagram: @mambobologna| Twitter: @MAMboBologna | YouTube: MAMbo channel. Fino al 29 agosto 2021.

martedì 15 giugno 2021

L’estate di Trento è nel segno di Fede Galizia, la «mirabile pittoressa»

L’estate trentina sarà nel segno della pittura barocca. Dal prossimo 3 luglio il Castello del Buonconsiglio farà da cornice alla mostra «Fede Galizia, mirabile pittoressa», prima monografica dedicata all’artista, miniaturista di talento e pioniera del genere pittorico della natura morta con fiori e frutta, che ha contribuito a lasciare un’impronta femminile nella storia dell’arte a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento insieme ad altre pittrici quali Sofonisba Anguissola, Artemisia Gentileschi e Lavinia Fontana, ma non solo, attualmente riunite nella mostra «Le signore dell’arte».
Documentata a Milano a partire almeno dal 1587, Fede Galizia (1578? -1630) vive prevalentemente nella città lombarda fino alla morte, verificatasi intorno al 1630, a causa della peste di manzoniana memoria.
Il trasferimento, dalla nativa Trento, avviene sulla scorta del padre, Nunzio, artista impegnato nel mondo della miniatura, dei costumi, degli accessori, ma anche in quello della cartografia.
Giovanissima, l’artista inizia a lavorare nella bottega paterna, prendendo confidenza con tele, pennelli e colori. La prima opera nota è il «Ritratto inciso di Gherardo Borgogni», per le edizioni del 1592 e del 1593 di due raccolte di rime.
Entro il 1595 la pittrice realizza un numero considerevole di disegni e vari ritratti degni di nota, tra i quali quelli del padre, della madre, di due nobildonne milanesi (tutti perduti) e quello di «Paolo Morigia allo scrittoio», oggi conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Di questa tela colpisce la forte caratterizzazione fisiognomica e la resa ai dettagli. Straordinaria è, per esempio, la precisa attenzione che l'artista rivolge al riflesso delle finestre sulle lenti degli occhiali che lo storico tiene in mano.
Porta, invece, la data del 1601 un altro suo lavoro celebre: la tela «Giuditta con la testa di Oloferne», conservata alla Galleria Borghese di Roma e attualmente in mostra a Milano, nelle sale di Palazzo Reale. Negli anni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento l’artista si confronta più volte con questo tema biblico, come prova l'omonima tela conservata a Sarasota, al Ringling Museum of Art, realizzata nel 1596, che rappresenta la prima opera documentata su questo soggetto da parte di una donna pittrice. Nel lavoro l'interesse verte più sulla perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con cura meticolosa, piuttosto che sulle potenzialità drammatiche della scena. Viene, infatti, escluso dalla rappresentazione il momento violento della decapitazione, che sarà, invece, centrale nella successiva raffigurazione di Artemisia Gentileschi.
All’epoca Fede Galizia, coeva di Caravaggio, è già un’artista conosciuta tra i più importanti committenti, tanto che sue opere raggiungono, prima del 1593, tramite la mediazione di Giuseppe Arcimboldi, la corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo.
Negli anni successivi vengono realizzate alcune nature morte di straordinaria bellezza: rappresentazioni «attente» e «contristate» - per usare un'espressione del critico Roberto Longhi - di gelsomini, pesche pallide e voluttuose, ciliegie dal rosso viscerale, melograni, pere e grappoli d’uva, che s’affacciano sulla scena sbucando dal buio alla luce, mostrando tutta la loro poesia malinconica.
Nonostante il successo in vita, il ricordo di Fede Galizia sbiadisce nel tempo, anche per via della difficoltà nel catalogare e attribuire correttamente tutte le sue opere, in molti casi ascritte al contemporaneo e concittadino Panfilo Nuvolone. Solo negli ultimi decenni del Novecento la sua figura viene rivalutata e studiata, ma le ricerche pongono l’attenzione principalmente sul suo ruolo di pioniera del genere della natura morta autonoma, in cui suggestioni fiamminghe si fondono alla tradizione del naturalismo lombardo, come mostrano l'«Alzata con pesche e gelsomini» della collezione Campagnano di Firenze o la tavola «Mele, cesto con castagne e coniglio» del Museo civico di Cremona.
Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa – i curatori della mostra di Trento – pensano che sia giunto il momento di tracciare un ritratto più veritiero e più completo dell’artista, che realizzò anche numerosi ritratti, ultimo dei quali quello dell'anziano Ludovico Settala alla Pinacoteca Ambrosiana, e svariate pale d’altare, presenti in sedi tutt’altro che periferiche come, solo per fare un esempio, la città di Napoli, dove si trova il «San Carlo in estasi davanti alla reliquia del Santo Chiodo» della chiesa di San Carlo alle Mortelle.
«A tutt’oggi – si legge nella presentazione della rassegna - non esiste un repertorio completo delle numerose testimonianze letterarie che celebrano, in versi e in prosa, le doti di Fede Galizia, da intrecciare con un completo regesto documentario, che sarà approntato per l’occasione».
Le opere esposte saranno in tutto un’ottantina tra dipinti, disegni, incisioni, medaglie e libri antichi. Oltre a lavori di Fede Galizia, Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Barbara Longhi, ci saranno opere di Arcimboldi, Bartholomeus Spranger, Giovanni Ambrogio Figino, Jan Brueghel e Daniele Crespi, provenienti da importanti musei italiani come la Pinacoteca di Brera, il Castello Sforzesco di Milano, gli Uffizi di Firenze, l’Accademia Carrara di Bergamo, Palazzo Rosso di Genova, la Fondazione Cini di Venezia, la Galleria Borghese di Roma. Saranno presenti anche alcuni prestiti internazionali, dal Muzeum Narodowe di Varsavia, dal Ringling Museum of Art di Sarasota, dal Palacio Real de la Granja di San Ildefonso, oltre che da alcuni collezionisti privati.
Il percorso espositivo proverà così a rispondere ad alcune domande rimaste per lungo tempo senza risposta: perché Fede Galizia piaceva tanto ai suoi contemporanei? Quali sono le ragioni del suo successo nell’epoca in cui visse? Quanto ha pesato, in questo, il suo essere donna? Come cambia l’apprezzamento di un’opera d’arte tra il lungo crepuscolo del Rinascimento e il mondo di oggi?

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Fede Galizia, «Natura morta», 1610, Collezione privata; [fig. 2] Fede Galizia, «Alzata con prugne pere e una rosa», collezione privata, Bassano del Grappa; [fig. 3] Fede Galizia, «Cherubino seduto», Biblioteca ambrosiana, Milano; [fig. 4] Fede Galizia, «Ritratto di Paolo Morigia», Pinacoteca Ambrosiana, Milano; [fig. 5] Fede Galizia, «Giuditta e Oloferne», 1596 ca, olio su tela, Courtesy of Ringling Museum of Art Sarasota, Usa

Informazioni utili 
www.buonconsiglio.it

lunedì 14 giugno 2021

Dal dengaku al noh, viaggio nel teatro giapponese

La storia del teatro in Giappone ha radici antiche, seppure più recenti di quelle del teatro occidentale, e, rispetto a questo, ha avuto nei secoli uno sviluppo completamente differente, fatto di sovrapposizioni e parallelismi, che hanno permesso la convivenza di diversi teatri tradizionali, sino a oggi, con l’avvento del teatro d’ispirazione occidentale. Nella cosmopolita Tokyo gli abitanti possono così partecipare a spettacoli della tradizione giapponese, ma anche a rappresentazioni di drammaturgia classica e moderna, europea e americana, spesso eseguite dai gruppi internazionali più noti d’avanguardia e non.
Le prime importanti esperienze di spettacolo, musica, danza e canto, che sorgono nel Giappone vengono fatte risalire al dengaku, oggi scomparso e riconoscibile solo attraverso tracce che ne sono rimaste all'interno delle festività popolari in alcune parti del paese. Si trattava di rappresentazioni più che altro musicali (percussioni e flauti) e di danza, che accompagnavano nei villaggi a scopo propiziatorio eventi fondamentali dei riti stagionali legati all’agricoltura.
Altre forme molto antiche sono il sarugaku, rappresentazioni con elementi di giocoleria, acrobatica e mimica, il gigaku, teatro con maschere, il gagaku, genere più musicale, tutte forme oggi non più praticate ma che sono per alcuni versi, confluiti in quello che oggi conosciamo del teatro tradizionale giapponese: per esempio al sarugaku, molto devono il teatro noh, il kabuki e il bunraku.
Il bunraku è il tradizionale teatro dei burattini giapponese, con marionette grandi quanto i due terzi di una persona, manovrati da burattinai completamente vestiti di nero, in silenzio. La storia è raccontata da un narratore seduto, che dà la voce ai personaggi attraverso un canto narrativo accompagnato dallo shamisen. La sincronizzazione dei movimenti, della voce narrante e dell’accompagnamento musicale è incredibile, frutto della rara maestria e dell’altissima specializzazione che caratterizza tutte le forme teatrali giapponesi. Per assistere a uno spettacolo di bunraku l’Ente nazionale del turismo giapponese consiglia Osaka, dove il Teatro Nazionale del Bunraku rimane uno dei migliori per fare questa esperienza (per maggiori informazioni è possibile consultare la pagina www.ntj.jac.go.jp/english.html).
Gli amanti del monologo possono, invece, scegliere di assistere alla rappresentazione di un rakugo negli yose, teatri di varietà, come ad esempio l’Asakusa Engei Hall di Tokyo (www.gotokyo.org/it/spot/156/index.html). Kimono, ventaglio e fazzoletto sono gli unici ‘strumenti’ utilizzati dall’attore per fare divertire il suo pubblico.
Una forma di teatro più giovane, risalente al 1600, è il kabuki, letteralmente «essere fuori dall’ordinario». Secondo la leggenda questo tipo di spettacolo deriva dalle danze eseguite sulle rive del fiume Kamo a Kyoto.
Inizialmente le attrici erano solo donne, successivamente, come per tutte le forme teatrali tradizionali giapponesi, gli attori dovettero essere esclusivamente uomini, anche per le parti femminili, gli onnagata. Si può parlare di kabuki come una sorta di teatro globale, dove a trame più o meno stereotipate si accompagnano danze, canti ed esecuzioni musicali dei tipici strumenti giapponesi. Dai secoli XVIII e XIX le trame iniziano a ispirarsi a eventi storici e fatti di cronaca più eclatanti.
Il dramma kabuki, spesso dotato di una prosa divertente, si avvale, già dal XVII secolo, così, sempre più di effetti speciali, come il palcoscenico rotante, botole e montacarichi; oltre a saltimbanchi ed acrobati per evocare le scene di battaglia o le più epocali, tutti escamotage che rendono la narrazione più divertente.
Tokyo, Osaka e Kyoto hanno tutte teatri importanti con fitti cartelloni di spettacoli di kabuki.
Il noh è, invece, un genere teatrale sviluppatosi intorno alla fine del XIV secolo. Elemento fondamentale di questo spettacolo sono le maschere, che coprono interamente il volto degli attori e hanno il compito di veicolare un’ampia gamma di emozioni. Per questo, la loro realizzazione - che può richiedere fino a un anno - è affidata ad abilissimi artigiani che, con l’uso di strumenti tradizionali, pigmenti minerali e polvere di guscio d’ostrica lavorano e dipingono il legno per conferirgli l’espressività che le contraddistingue. Unisce musica, danza, rappresentazione teatrale: un’arte complessa e perfetta nel suo accordo di parti, tanto da valerle la nomina da parte dell’Unesco di Patrimonio immateriale dell’umanità.
È possibile assistere a rappresentazioni di noh in molti luoghi del Giappone, ma per regalare una cornice sofisticata all’altezza di questa esperienza, l’Ente nazionale del turismo giapponese consiglia i cartelloni dei teatri di Kanazawa.
Oltre i luoghi tradizionali del teatro giapponese, appena sarà possibile riprendere a viaggiare ci sono altri luoghi che vale la pena visitare. Al Suigian di Tokyo (https://suigian.jp/en/) è possibile, per esempio, assistere a rappresentazioni teatrali tra cui noh, bunraku e gagaku mentre si degustano deliziosi piatti di cucina giapponese a base di ingredienti freschi e ricercati.
A Kanazawa esiste un museo interamente dedicato al noh presso il quale è possibile indossare il kimono da attore e la relativa maschera (https://www.kanazawa-noh-museum.gr.jp/english/).

Passando al kabuki, il Kabuki-za di Tokyo è l’antico teatro sito nel quartiere di Ginza, dove è possibile assistere a spettacoli di questa arte teatrale, al quale è annesso anche un museo che racconta la storia di questo teatro nello specifico (https://www.kabuki-za.co.jp/). Sempre a Tokyo ma nel quartiere di Ueno, il Tokyo National Museum (https://www.tnm.jp) ospita una rara e preziosa collezione di maschere e vesti da scena del teatro noh appartenenti alla scuola Konparu del XV – XVI secolo.
Per chi ama davvero il teatro il Giappone è, dunque, una delle mete imprescindibili. Il panorama teatrale del Giappone oggi è, infatti, vastissimo, frutto di una tradizione che ha saputo mantenere le sue radici e i propri stilemi pur assorbendo codici giunti dall’esterno.

Informazioni utili 
www.japan.travel.it

sabato 12 giugno 2021

#notizieinpillole: cronache d'arte dal 1° al 13 giugno 2021

Dal virtual tour del Museo della musica di Bologna alle fotografie inedite di Luigi Ghirri per le ceramiche Marazzi, di seguito una selezione delle notizie di cui vi abbia parlato questa settimana sulla pagina Facebook di Fogli d'arte (@foglidarte). Buona lettura! 

SPAZI NUOVI AL CENTRO «LUIGI PECCI» DI PRATO PER L’ARCHIVIO DI LARA-VINCA MASINI
Nel 2010 con un atto di donazione, Lara-Vinca Masini, nota storica d'arte e critica militante fiorentina scomparsa il 9 gennaio scorso, lasciava al Centro Luigi Pecci di Prato, sede del Cid - Centro di informazione e documentazione arti visive, il suo archivio-biblioteca.
L’atto prevedeva che la donazione rimanesse in possesso della studiosa «vita natural durante» e che venisse da lei inventariata e ordinata, anche grazie al vitalizio concessole, negli ultimi dieci anni, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze.
L’archivio-biblioteca è ora nel nuovo piano seminterrato del museo pratese, diretto da Cristiana Perrella, dove ottocento metri quadrati, sono riservati proprio ai depositi e agli archivi, e verrà collocato definitivamente negli spazi rinnovati del Cid/Arti visive, sotto la supervisione di Stefano Pezzato.
L’arrivo dell’archivio Masini sarà, infatti, occasione per una ristrutturazione delle sale del centro pratese, con settecento metri quadrati di sale di lettura e consultazione che verranno riaperti al pubblico nel prossimo anno, con la finalità di rendere sempre più accessibili i materiali raccolti e conservati, facendone materia viva, origine di nuove idee e nuovo pensiero sull’arte.
Il Cid/Arti visive incrementa così notevolmente il proprio patrimonio documentale e amplia la sua vocazione scientifica e la sua natura d’istituzione per lo studio, la ricerca e la produzione culturale. Il centro è, infatti, una risorsa unica e preziosa in Toscana, con i suoi circa 66.000 volumi e un'emeroteca con oltre 300 riviste, frutto di una serie di acquisizioni (dal fondo dell’editore Ferruccio Marchi a quello di Francesco Vincitorio, direttore della rivista Nac, dall'archivio dell'artista Mario Mariotti a quello dell'architetto Leonardo Savioli e di sua moglie Flora Wiechmann, per citarne solo alcuni).
«I materiali del lascito Masini – si legge nella nota stampa - seguono l'ordine concepito dalla studiosa fiorentina e sono articolati in sezioni tematiche: movimenti artistici, critica e pubblicistica d'arte e d'architettura. Sono incluse le mostre d’arte con pubblicazioni e documenti di oltre 8000 artisti e più di 2000 titoli di collettive e le grandi rassegne; architettura e arti applicate, con materiali di oltre 700 architetti, materiali e titoli di design; movimenti artistici con titoli di Art Nouveau, Futurismo, Arte Programmata, Poesia Visiva e Concreta; centinaia di pubblicazioni di storia e critica dell’arte, arte e politica; riviste d’arte con circa 1200 numeri periodici; volumi, manifesti e documenti a corredo di mostre e pubblicazioni della stessa Masini; un migliaio di grafiche, 300 manifesti, 180 piccole opere e oggetti d’autore».

KUNST.STÜCK: CINQUE ETICHETTE D’AUTORE PER UN PINOT. IL PUBBLICO SCEGLIE L’OPERA VINCITRICE
Si può votare on-line la propria etichetta preferita per il Pinot Grigio 2019 della Cantina Kaltern, una delle aziende vitivinicole più importanti dell'Alto Adige con i suoi 450 ettari e circa 1.200 vigneti. Terminata la prima fase del corso «kunst.stück» (in italiano: «opera d'arte»), che ha visto arrivare centinaia di proposte da tutto il mondo, ora la passa palla al pubblico.
Fino al 15 giugno, al link https://www.kellereikaltern.com/it/frontend/LabelVoting si può scegliere una tra le cinque etichette d’artista arrivate in finale. I lavori selezionati, incentrati sul tema «Il grande momento di Cenerentola», portano la firma di Alessandra De Laurentis, Carlo Gentile, Clara Imperiale, Federico Petrolito e Maria Sannicola.
Tra abiti fatti di foglie e chicchi d’uva, orologi pronti a scoccare la mezzanotte e scarpette, i cinque finalisti hanno dato voce a tutti gli elementi che hanno reso celebre nel mondo la favola di Cenerentola.
Il Kunst.stück Pinot Grigio 2019 di Cantina Kaltern sarà presentato sul mercato, nella consueta tiratura limitata e con l’etichetta vincitrice, il prossimo anno.
Mentre si vota la propria opera preferita, si può anche dare un’occhiata alle altre etichette d’arte della collezione Kunst.stück (Pinot Bianco 2014, Cabernet Sauvignon 2015, Kalterersee 2016 e Merlot 2018), visibili nella sezione apposita del sito aziendale: https://www.kellereikaltern.com/it/vini/kunst.stueck/.  

VN 360°: IL MUSEO DELLA MUSICA DI BOLOGNA SI VISITA ON-LINE
Le sale del Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna si aprono agli utenti del Web. Lo studio di comunicazione italo-giapponese Veronesi Namioka ha ideato e realizzato un percorso virtuale immersivo VN 360°, che permette di scoprire l'intero percorso espositivo dello spazio felsineo, al cui interno sono conservati un centinaio di ritratti di personaggi illustri, più di ottanta strumenti musicali antichi e un’ampia selezione di documenti storici di enorme valore come trattati, volumi, libretti d’opera, lettere, manoscritti, partiture autografe.
Con questa nuova esperienza virtuale immersiva, una novità per i musei civici bolognesi, gli utenti possono compiere una vera e propria visita all'interno del primo piano di Palazzo Sanguinetti, splendido edificio di origine cinquecentesca situato in Strada Maggiore 34.
Il percorso, per il quale sono state realizzate foto panoramiche interattive da esplorare a 360 gradi, parte dallo spazio di accoglienza, adibito a biglietteria e bookshop, per terminare con uno sguardo sul secondo cortile interno, celebre per il paesaggio ad affresco realizzato da Luigi Busatti nell’Ottocento e per l'aiuola quadrata con piante di banano.
Se fino a ieri si visitava il Museo della musica per pezzi come il manoscritto «Quaerite primum regnum dei» che un Wolfgang Amadeus Mozart quattordicenne presentò per l'esame di ammissione all'Accademia Filarmonica nel 1770 o la vestaglia da camera appartenuta a Gioachino Rossini, oggi, grazie al percorso VN 360°, si possono scoprire tante altre curiosità. Cliccando su uno strumento storico, si potrà, per esempio, ascoltarne la sua musica. Il percorso virtuale permette, inoltre, di entrare in spazi normalmente inaccessibili durante la visita fisica, come la lanterna che illumina le arcate illusive dello scenografico scalone o i dettagli architettonici delle sale e dei soffitti affrescati tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo per mano di Vincenzo Martinelli, Pelagio Pelagi, Serafino Barozzi e Antonio Basoli, tra degli esempi più alti del periodo napoleonico e neoclassico a Bologna.
«Ogni aspetto – spiegano gli ideatori - è stato progettato con l’obiettivo di creare sinergia tra il museo fisico e il museo virtuale, fruibile da ogni angolo del mondo con un comune browser e accessibile da ogni tipo di dispositivo collegato a Internet». Il pubblico potrà così pianificare da remoto una visita al museo o ritornare virtualmente tra le sale bolognesi comodamente seduto sul divino di casa. Ovunque, in qualsiasi momento.
Per accedere al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna basta cliccare sul sito www.museibologna.it/musica

PARMA, RIAPRE LA CAMERA DELLA BADESSA 
Tra gli eventi che hanno segnato la ripresa delle attività per Parma Capitale italiana della cultura 2020 + 2021 c’è la riapertura della splendida Camera della Badessa, affrescata dal Correggio.
La stanza, la cui gestione è stata affidata al Comune di Parma, è uno degli ambienti del monastero benedettino di San Paolo, fondato verso l'anno 1000 dal vescovo Sigefredo II e giunto al suo massimo splendore negli anni in cui fu badessa Giovanna da Piacenza, dal 1507 al 1524.
Donna di vasta cultura, la religiosa emiliana resse per diciassette anni il convento come una grande corte rinascimentale, aprendo il suo appartamento ad artisti e letterati. Costruì spazi nuovi, come i chiostri, l’«horto» claustrale, l’oratorio di Santa Caterina e un grande appartamento per se stessa, con un ampio salone e cinque stanze per gli ospiti, al cui progetto lavorò l’architetto Giorgio Erba.
Una delle stanze fu decorata nel 1514 da Alessandro Araldi, pittore tra i più attivi e noti a Parma negli anni che precedettero l'arrivo in città del Correggio. La sua decorazione è ricca di citazioni bibliche e leggende pagane: una sorta di percorso iniziatico, con un complesso programma iconografico che vuole rendere omaggio alle virtù e alla dignità della committente.
Nel 1519, per affrescare un’altra delle sue camere «alla maniera moderna», la badessa chiamò Antonio Allegri, in arte Correggio, che introdusse a Parma un linguaggio pittorico compiutamente umanistico. Per l’originalità dell’invenzione artistica e la raffinatezza dei motivi decorativi, questo ambiente è riconosciuto oggi come un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano.
La Camera, di forma quasi cubica, è decorata con affreschi solo sulla cupola: una decorazione illusionistica con un pergolato di fronde e vimini intrecciati, con gruppi di putti che si affacciano all’interno della stanza, ritratti in atteggiamenti giocosi, alcuni dei quali allusivi al tema della caccia. La Camera è anche un inno al potere femminile: sul camino è raffigurata Diana, dea della castità, evidente riferimento alla badessa, la cui insegna araldica si trova al centro del soffitto.
Questo capolavoro del giovane Correggio venne completamente dimenticato dopo il 1524, quando il monastero di San Paolo fu trasformato in un convento di clausura: fu riscoperto, dopo due secoli di oblio, solo nel Settecento, dal pittore tedesco Anton Raphael Mengs.
In tempi recenti la Camera è stata a lungo chiusa, ma ora sarà accessibile con continuità per tutti gli appassionati, segnando una sorta di nuovo Rinascimento per Parma e per l’Italia tutta.
Per informazioni: www.parma2020.it.

[Le foto sono di Edoardo Fornaciari]

DA PHOTOLOGY UNA MOSTRA VIRTUALE SULLA VITA DA SPIAGGIA SECONDO MARTIN PARR
È un ritratto ironico e divertente delle stranezze che accomunano le persone di ogni latitudine in spiaggia la nuova mostra virtuale di Photology On-line Gallery: «Back to the Beach». Protagonista del progetto espositivo, per la curatela di Davide Faccioli, è Martin Parr, straordinario cronista per immagini della nostra epoca, con i suoi numerosi progetti di critica alla società moderna, al consumismo, al cibo e al turismo.
Fino al 31 luglio, sul sito https://www.photology.com/martinparr/, è possibile vedere una trentina di sue opere fotografiche, realizzate dagli anni ’90 in avanti, sulle spiagge di tutto il mondo, in un viaggio che spazia dalla Gran Bretagna, patria dell’artista, a luoghi di villeggiatura come Sorrento e Rio De Janiero.
Da diversi decenni, quasi quattro, le fotografie di Martin Parr documentano il turismo balneare, con primi piani di bagnanti intenti a prendere il sole, ma anche immagini che raccontano i tuffi in mare o l’immancabile pic-nic.
La Photology On-line Gallery ci regala così un amarcord della spiaggia come l’abbiamo vissuta fino a oggi, nell’era pre–Covid. Scorrono, infatti, sotto i nostri occhi le immagini di bagnanti, tutti appiccicati, incuranti della confusione che li circonda e della privacy sfacciatamente violata («Beach Therapy», Sorrento, Italy, 2014), ma anche fotografie di donne intente ad abbronzarsi come fossero sculture di Duane Hanson («Life’s a Beach», Knokke, Belgium 2001) e di uomini in costumi attillati («Life’s a Beach», Miami, Usa 1998).
La spiaggia si configura così come un vero e proprio «laboratorio umano», dove – secondo il racconto di Martin Parr - dimentichiamo i nostri rituali pubblici e privati e ci abbandoniamo senza paura di essere giudicati, liberi tra conchiglie, castelli di sabbia, materassini gonfiabili, sdraie e ombrelloni. 

[Nella foto: Martin Parr, Life's a Beach, Rio de Janeiro, Brazil, 2007. Pigment Print, printed 2016, 50x75cm. Edition 4-10. © Martin Parr  Magnum. Courtesy Rocket Gallery, London & Photo]

AD ORTIGIA NASCE UNA NUOVA GALLERIA: «MATERIARTE»
È dall’Ottocento un punto di riferimento per Ortigia, suggestiva e piccola isola di Siracusa. Ha ospitato personaggi di spicco come il celebre archeologo Paolo Orsi e lo scrittore Elio Vittorini. Conserva al suo interno un importante ritrovamento archeologico: il basamento d’ingresso del tempio di Athena, oggi inglobato nel Duomo di Siracusa, e un sito archeologico risalente al paleolitico. Stiamo parlando dell’hotel Roma, che ha da poco inaugurato, nei circa cinquecento metri quadrati della sua sala Athena, una galleria d’arte: «Materiarte» (tutti i giorni, dalle ore 10.00 alle ore 24:00; ingresso libero).
A tenere a battesimo lo spazio, curato da Marcella Damigella, è una mostra con una sessantina di opere tra pittura, scultura e fotografia, oltre a una selezione di bozzetti, disegni e altri oggetti.
Protagonisti del progetto espositivo sono Andrea Chisesi e Stefania Pennacchio. Il primo espone, per la prima volta in Sicilia, una selezione di lavori tratti dalla collezione «Pietre della memoria», che rievocano la figura di Michelangelo attraverso i versi di Gabriele d’Annunzio, oltre ad alcune grandi tele sui «fuochi d’artificio».
Stefania Pennacchio evoca, invece, con le sue sculture scudi, elmi e corazze di guerrieri, che sembrano riemergere all’interno del sito archeologico quasi si trattasse di un ritrovamento autentico.
Alle opere dei due artisti si aggiungono le fotografie dell’esordiente Emma Nica, popolate da figure androgine la cui essenza si libera dagli stereotipi e diventa immaginario puro.
Completa il percorso espositivo una proiezione di video, corti e documentari dei tre artisti.
Per informazioni: www.materiarte.com.


RINASCE LO STORICO MARCHIO LIBRI SCHEIWILLER
Rinasce e torna in libreria da giugno lo storico marchio Libri Scheiwiller, da sempre un’eccellenza nel mondo dell’editoria, che ha pubblicato, tra gli altri, Eugenio Montale, Alda Merini ed Ezra Pound. A raccoglierne e portarne avanti l’eredità è 24 ORE Cultura, con un rinnovato progetto editoriale che riguarda sia i titoli in catalogo sia la veste grafica, realizzata da Mario Piazza.
Per quanto riguarda l’immagine visiva, «mantenendo inalterata la riconoscibilità e iconicità del celebre marchio Scheiwiller, sono stati inseriti - si legge nella nota stampa - alcuni nuovi elementi, in continuità con la precedente versione storica. In particolare, i piccoli riquadri in copertina, che in origine variavano di colore a seconda della serie, diventano oggi tre grandi scacchi posti a delimitare il confine della copertina verso la costa dei libri. Proprio in costa, questi ricompaiono adattandosi ai diversi spessori dei libri, per dare vita a una sorta di «paesaggio - biblioteca architettonica» che si compone e cambia forma a seconda dei volumi che ne fanno parte».
Per l’occasione, verranno ripristinate storiche collane come «Idee» e «L’Arte e le Arti», arricchite con riflessioni dedicate a tematiche attuali, da approfondimenti filosofici, politici ed economici fino a dibattiti e a indagini sulle diverse forme di arti moderne e contemporanee. Alla produzione di queste collane e ad alcune ristampe tratte dal catalogo preesistente, sarà affiancato il lancio della nuova serie «Interviews», ispirata dall’omonimo magazine fondato da Andy Warhol negli anni Settanta. Si inizierà, nella giornata del 10 giugno, con l’uscita di «Sguardi sull’architettura contemporanea», a cura di Fulvio Irace, che vedrà la partecipazione di architetti di fama internazionale come Renzo Piano, Mario Botta, David Chipperfield, Steven Holl, Odile Decq, Tadao Ando. Nella stessa giornata uscirà anche «Sguardi sul design contemporaneo», nel quale Matteo Vercelloni ha interpellato celebri designer quali Philippe Starck, Ron Arad, Patricia Urquiola, Stefano Giovannoni, Michele de Lucchi, Antonio Citterio. Tra i primi titoli in uscita in libreria e on-line dal 10 giugno, disponibili da luglio anche in versione e-book, c’è anche, nella collana «Idee», «Vendere o farsi comprare? Un marketing gentile per la cultura» di Maurizio Luvizone, saggio che riflette sul tema della valorizzazione economica dell’arte e della cultura offrendo inediti punti di vista sul settore attraverso l’analisi di casi italiani in dialogo con modelli e suggestioni internazionali.
Di prossima pubblicazione, nell’autunno 2021, ci sono «La società dei consumi e altri saggi» di Jean Baudrillard, con prefazione di Stefano Giovannoni e Francesca Balena Arista, e «Geografie dell’arte. Mobilitas. Rinascimenti in Europa» di Bernard Aikema, un saggio che si propone di ridefinire la storia dell’arte rinascimentale attraverso gli spostamenti degli artisti, la circolazione delle incisioni e delle opere d’arte. A questo studio seguirà, nel 2022, «Curiositas. I Simboli nell’arte dei Rinascimenti», sempre a cura di Bernard Aikema, che approfondirà la complessità simbolica delle iconografie caratteristiche delle diverse scuole regionali e nazionali del Rinascimento europeo.
Per saperne di più: www.24orecultura.com.

LE FOTOGRAFIE INEDITE DI LUIGI GHIRRI PER MARAZZI SVELATE IN UN LIBRO, UN SITO E UNA MOSTRA

È il 1975 quando Luigi Ghirri (Scandiano – Reggio Emilia, 1943) varca le soglie dell’azienda Marazzi, fondata a Sassuolo nel 1935 e diventata in breve tempo leader nel settore della ceramica grazie al brevetto della monocottura. La ditta, che allora ha filiali in Francia e Spagna, è prossima a inaugurare un laboratorio di ricerca, il Crogiòlo, in cui artisti, designer, fotografi e architetti sono liberi di sperimentare. In questo contesto, la poetica sensibile del fotografo emiliano e l’attitudine sperimentale dell’azienda, che da sempre studia le infinite possibilità della materia, si incontrano e danno vita al Portfolio Marazzi, un progetto di ricerca fotografica in cui Luigi Ghirri coinvolge anche John Batho, Cuchi White e Charles Traub per interpretare i nuovi brevetti e le inedite collezioni della ditta di Sassuolo.
Conservate per anni nell’archivio dell’azienda emiliana, e per lo più mai esposte o pubblicate, fatta eccezione per il nucleo scelto per «Foto/Industria 2019», mostra a cura di Francesco Zanot al Mast di Bologna, le opere che il fotografo emiliano ha scattato in quel periodo sono oggi al centro di un percorso di recupero e valorizzazione.
Primo elemento di questa operazione è «Luigi Ghirri. The Marazzi Years 1975 – 1985», prezioso volume non destinato alla vendita, con testi dello scrittore Cosimo Bizzarri e del critico fotografico Francesco Zanot, all’interno del quale è raccolta una selezione di trenta fotografie realizzate dall’artista nel corso dei suoi dieci anni di sodalizio con l’azienda di Sassuolo. Questa stessa selezione è anche il primo nucleo di opere presentate all’interno del nuovo sito www.ghirri.marazzi.it, che sarà progressivamente arricchito con apparati, testi e informazioni sulle iniziative che verranno organizzate nel tempo. Infine, le immagini sono esposte, fino al prossimo 4 luglio, a Reggio Emilia, nell’ambito del festival «Fotografia europea».
Nelle fotografe realizzate in quegli anni per Marazzi, Luigi Ghirri guarda alla piastrella in modo nuovo. A differenza dei fotografi commerciali, si interessa profondamente al soggetto e lo interpreta liberamente: la piastrella diventa sfondo per una rosa, superficie su cui posare due pastelli, palcoscenico in miniatura per un pianoforte. «La ceramica -raccontava a tal proposito l’artista - è sempre stata un oggetto su cui si vengono a posare altri oggetti. Realizzando queste immagini, ho ripensato a tutto questo e ho cercato di ricostruire, con l’aiuto di superfici di diversi colori, nella sovrapposizione degli oggetti e delle immagini, uno spazio che, invece di essere lo spazio fisico e misurabile di una stanza, fosse l’idea dello spazio mentale di un momento, di una sovrapposizione che può prodursi o si produce, in una delle numerose stanze riscoperte grazie a queste superfici. Questo lavoro, al di là di altri significati, è la ricostruzione di alcune stanze della mia memoria». 

[Crediti delle immagini: Luigi Ghirri. The Marazzi Years 1975 – 1985 ©Eredi Luigi Ghirri Courtesy Marazzi Ceramiche]

venerdì 11 giugno 2021

«Il segno di Ustica», in un libro «l’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità»

Quella del 27 giugno 1980 era una sera d’estate come tante altre. In molti aeroporti d’Italia c’era chi partiva per le vacanze, chi tornava da un viaggio di lavoro e chi, all’atterraggio, avrebbe festeggiato il matrimonio di un amico o un esame andato bene. Lo stesso accadeva al «Guglielmo Marconi» di Borgo Panigale, nel Bolognese, dove intorno alle 20:00, due ore dopo l’orario previsto, decollava un aereo destinato a restare nella storia con il suo carico di misteri e di verità taciute. Era l’aeromobile Douglas DC-9 IH 870 della compagnia aerea Itavia, con destinazione Palermo, che un’ora dopo la partenza, alle 20:59, spariva dai radar nel tratto di mare compreso tra le isole di Ponza e Ustica, facendo perdere ogni traccia.
Su quell’aereo, i cui detriti furono trovati la mattina dopo, c’erano ottantuno persone, che ancora oggi cercano giustizia per la loro morte senza spiegazione: 64 passeggeri adulti, 11 ragazzi tra i due e i dodici anni, due bambini di età inferiore ai 24 mesi e 4 uomini dell’equipaggio.
Dopo decenni di indagini e di processi, tra reticenze e depistaggi, la tesi più accreditata è che il volo di linea Itavia IH870 si sia inabissato nel mare per errore, durante una battaglia in cielo tra un Mig libico, su cui ci sarebbe stato Gheddafi, e alcuni velivoli delle forze Nato.
Ma cos’è successo realmente quella sera? Perché quell'aereo è caduto? Cosa lo ha distrutto in volo? A quarantuno anni di distanza queste domande rimangono ancora senza risposta. La strage di Ustica è uno dei tanti misteri italiani ed è anche quello che più di tutti ha suggestionato il mondo delle arti, dal teatro alla danza, dalla letteratura al cinema, dalla poesia alla fotografia.
«A nessun evento, dal secondo Dopoguerra a oggi, è stata dedicata una mole altrettanto ampia, per quantità e qualità, di produzione artistica». Questa è la tesi del libro «Il segno di Ustica», a cura di Andrea Mochi Sismondi, autore e direttore del collettivo di produzione artistica e teatrale Ateliersi di Bologna, che con Fiorenza Menni, sua compagna di vita e lavoro, ha debuttato nel 2016 con l'opera poetica elettronica «De Facto», ideata a partire dal testo della sentenza-ordinanza depositata il 31 agosto 1999 dal giudice istruttore Rosario Priore, l’unico documento giudiziario complessivo cui possa fare riferimento chi cerchi di comprendere cosa sia accaduto nei cieli italiani la sera del 27 agosto 1980.
Edito da Cuepress, e in uscita il 22 giugno, il volume verrà presentato in anteprima giovedì 17 a Mantova, al Cinema del Carbone; seguiranno, poi, due incontri di presentazione in altrettanti luoghi simbolici come Bagnacavallo (24 giugno), dove è nata l’iniziativa «Teatri per la Verità», e Bologna (15 luglio), dove sono conservati i relitti dell’aereo.
Il libro è strutturato in una serie di conversazioni tra l’autore e gli artisti che, in questi quarantuno anni, hanno sentito l’urgenza di confrontarsi, attraverso diversi approcci e differenti linguaggi, con la strage di Ustica.
Grazie anche al ricco apparato iconografico e alle conversazioni con studiose e studiosi che hanno approfondito questa vicenda, «emerge con nettezza – si legge nella quarta di copertina - la forza delle opere prodotte, e il segno comune di un contributo originale e incisivo alla riflessione sulla dimensione politica dell’arte e sul suo rapporto con la storia».
Tra i protagonisti delle conversazioni c’è Christian Boltanski, uno tra gli interpreti più sperimentali e innovativi del nostro tempo, quello che più di chiunque altro ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria.
Nel 2007 l’artista francese ha realizzato, nell’allora nascente museo bolognese sulla strage di Ustica, un’imponente e drammatica installazione permanente intorno ai resti del DC-9. Oggi come allora dal soffitto dello spazio di via Saliceto, visitabile anche on-line, scendono ottantuno lampadine, una per ogni vittima, che si accendono e si spengono a intermittenza, al ritmo del respiro. Tutt’intorno ci sono ottantuno specchi neri che riflettono l’immagine di chi percorre il ballatoio posto attorno al relitto. Mentre, dietro ognuno di essi, ottantuno altoparlanti emettono parole e frasi sussurrate a sottolineare la casualità e l’ineluttabilità della tragedia. Infine, nove casse, coperte da un drappo nero, contengono, gli oggetti appartenuti alle vittime: scarpe, pinne, boccagli, occhiali e vestiti che documenterebbero la scomparsa di un corpo, rimangono così invisibili agli occhi dei visitatori.
Andrea Mochi Sismondi ha interpellato anche Nino Migliori, che a quella «guerra in tempo di pace» ha dedicato la mostra «Stragedia», allestita lo scorso anno, in occasione del quarantesimo anniversario, negli spazi dell’ex chiesa di San Mattia a Bologna.
L’esposizione nasceva da lontano. Nel 2007, poco tempo dopo che il relitto del velivolo, recuperato al largo dell’isola di Ustica, aveva compiuto lo straziante percorso a ritroso che dall’aeroporto di Pratica di Mare lo aveva riportato a Bologna, il fotografo emiliano aveva ottenuto il permesso per entrare negli ampi spazi dell'ex magazzino dell’azienda di trasporti cittadina Atc., che, da lì a poco, sarebbero diventato un museo. Nino Migliori era rimasto in quel luogo quattro notti e, a lume di candela, aveva fotografato i resti dell’aereo non ancora ricomposto nella sua forma originaria intorno allo scheletro della fusoliera. Il risultato sono ottantuno immagini, una per ogni vittima, che illuminano, con una tremula fiamma che ha il sapore di un cero votivo, i muti testimoni - rottami contorti, piegati, spezzati e rotti - di quella che il fotografo emiliano definisce una «stragedia», neologismo inventato per congiungere l’idea della tragedia a quella di una volontà stragista.
Non poteva, poi, mancare tra gli intervistati Marco Paolini, uno dei principali interpreti del teatro civile italiano, che nel 2000, qualche anno dopo lo spettacolo sul Vajont, ha scritto «I – Tigi. Canto per Ustica», un monologo, presentato in centinaia di repliche in tutta Italia, che parte dalla sentenza istruttoria depositata dal giudice Priore per raccontare una storia che contiene in sé – scrive l’autore - «tutti gli elementi della tragedia classica, come l’insepoltura, la mancanza di giustizia, il confronto impari tra vittime e potere».
Tra gli intervistati ci sono, anche Marco Risi, regista del film «Il muro di gomma» (1991), i giornalisti Michele Serra e Andrea Aloi, autori di un dossier per il settimanale «Cuore» dal titolo «Com'è profondo il mare. La strage di Ustica e la satira» (1994), la cantautrice Giovanna Marini, che ha firmato «Ballata di Ustica» e altri brani sulla tragedia, confluiti nell'opera «Cantata del secolo breve».
Per questo incontro tra cultura e storia, è stata fondamentale l'azione dell’associazione parenti delle vittime, che ha scelto di integrare la sua battaglia decennale per la verità con la sperimentazione artistica, assumendo un ruolo produttivo particolarissimo nel contesto della creatività contemporanea.
«Dalla voce degli artisti emerge la potenza dell'incontro con i parenti delle vittime, in particolare con Daria Bonfietti, con il relitto del DC-9 e con il materiale documentario relativo alla strage - afferma Andrea Mochi Sismondi -. L'incontro con la strage di Ustica solleva negli artisti la necessità di confrontarsi con il proprio sé più profondo, con la propria autenticità, andando oltre il proprio armamentario formale consolidato per ripensare il proprio gesto creativo. Le questioni sollevate dalla vicenda che forse - a causa delle innumerevoli menzogne, dei tanti depistaggi e dei continui insabbiamenti - più di ogni altra ha segnato il trauma collettivo della rottura del patto di fiducia tra Stato e cittadini, fa sì che Ustica porti gli artisti ad allontanarsi dalla retorica del «Mai più!» per concentrarsi invece sui nodi irrisolti, sulle crepe del contemporaneo, sugli aspetti ancora attuali che essa squarcia. Ecco perché il libro parla del passato ma guarda, attraverso l'arte e la sua capacità interpretativa, al presente e al futuro».

Didascalie delle immagini
1. Il segno di Ustica. Copertina del libro; 2. Andrea Mochi Sismondi. Ritratto di Margherita Caprilli; 3. Nino Migliori, Stragedia, 2007-2020. © Fondazione Nino Migliori; 4. Polvere (b) / Fuga. Opera musicale di Franck Krawczyk. Foto di Tomaso Mario Bolis; 5. I-TIGI Racconto per Ustica. Marco Paolini con il fondale creato appositamente per lo spettacolo da Germano Sartelli. Foto di Tomaso Mario Bolis; 6. Di fronte agli occhi degli altri, di Virgilio Sieni. In scena lo stesso Sieni insieme a Daria Bonfietti. Foto di Tomaso Mario Bolis; 7. Lamberto Pignotti,Memorandum I, composit, 50x35 cm, 2018

Informazioni utili
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