ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 7 novembre 2019

«L’abisso», Davide Enia al Piccolo con il suo monologo su Lampedusa

«Noi siamo figli di una traversata in mare». Siamo figli di Europa, una fanciulla della città fenicia di Tiro che, un giorno, decise di fuggire dal suo paese in fiamme, sotto assedio. Quella giovane donna corse sulla sabbia del deserto e, quando la terra finì, attraversò il mare sul dorso di un toro bianco, sotto le cui sembianze si nascondeva il dio Zeus, per giungere sull’isola di Creta, di cui, poi, divenne regina. «Questa è la nostra origine. Ecco chi siamo [….] Scuru».
Si chiude con il racconto mitologico dedicato alla madre di Minosse -una leggenda, questa, narrata anche da Omero nell’«Iliade» e da Ovidio nelle «Metamorfosi»- «L’abisso», il monologo scritto, diretto e interpretato dallo scrittore e drammaturgo Davide Enia che, da martedì 12 a domenica 24 novembre, sarà in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano.
Le repliche saranno precedute mercoledì 13 novembre, alle ore 17, da un incontro con il pubblico al Chiostro di via Ravello, occasione utile per approfondire i temi al centro della pièce, co-produzione del Teatro di Roma, del Biondo di Palermo e dell’Accademia Perduta - Romagna Teatri, in collaborazione con il Festival internazionale di narrazione Arzo.
Tratto dal romanzo «Appunti per un naufragio», pubblicato da Sellerio editore nel 2017, lo spettacolo porta il pubblico in quella terra complessa e affascinante che è la Sicilia e in quella piccola isola del Mediterraneo, Lampedusa, che da anni si trova ad affrontare, prima tra tutti, l’emergenza dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, i tanti sbarchi di migranti che arrivano nel nostro Paese in cerca di un futuro migliore.
«L’abisso» di cui parla l’autore nel titolo è, dunque, quello del nostro «mare magnum», che talvolta culla i sogni di chi ha detto addio per sempre alla sua patria fino alla vista di un lembo di terra che diventa sempre più grande, talaltra ingoia, tra onde gigantesche e nelle sue acque fredde, essere umani, portandosi via per sempre le loro speranze.
Davide Enia è uomo di mare. È nato a Palermo. La Sicilia è casa sua. Lampedusa la conosce bene. «Quando ho visto il primo sbarco ero con mio padre -racconta-. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi. Nell’arco degli anni sono tornato sull’isola, costruendo un dialogo continuo con i testimoni diretti: pescatori, personale della Guardia Costiera, residenti, medici, volontari e sommozzatori».
Le loro parole e, soprattutto, i loro silenzi sono diventati un racconto, testimonianza storica, percorso esistenziale: «Durante i nostri incontri -spiega ancora lo scrittore- si parlava in dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia».
La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali: gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare restituisce corpi senza vita di uomini, donne, bambini.
Non serve molto a Davide Enia per raccontare questa storia: una sedia per lui e una per il suo compagno di scena, Giulio Barocchieri, autore della partitura musicale composta secondo la logica dell’accumulo, dove «note e rumori si sommano uno all’altro, in progressione, senza scampo, creando disequilibri continui, echi distorti flebili ma persistenti».
Gli sbarchi, l’accoglienza, la cura dei profughi senza strutture sanitarie, il peso che ciascun migrante si porta addosso sono tanti piccoli frammenti di una stessa storia, non semplice da raccontare. Davide Enia si rende conto che il rischio della spettacolarizzazione della tragedia è dietro l’angolo. «Il lavoro -spiega l’autore- è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione del movimento interno».
È la parola, dunque, la grande protagonista di questo spettacolo di narrazione e di teatro civile, che nella passata stagione si è aggiudicato i premi Hystrio Twister 2019 e Le Maschere del teatro italiano 2019, riconoscimenti più che meritati. Davide Enia parla alle nostre coscienze, le scuote e la domanda che a più riprese si pone diventa anche nostra: «che cosa posso fare?». Impossibile rimanere indifferenti.

Informazioni utili
L’abisso. Piccolo Teatro Grassi , via Rovello, 2 – Milano. Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16. Durata: 75 minuti senza intervallo. Prezzi: platea € 33,00, balconata € 26,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 02.42411889. Sito internet: www.piccoloteatro.org. Dal 12 al 24 novembre 2019. 

mercoledì 6 novembre 2019

«Jazz Icons of the ‘60s», quando la musica è una passione di famiglia

Per quasi quarant’anni ha svolto un ruolo fondamentale nella divulgazione e promozione della musica jazz in Italia. Sofisticato intenditore musicale, impeccabile organizzatore di concerti, saggista e giornalista di settore tra i più autorevoli al mondo, Arrigo Polillo (Pavullo nel Frignano, 12 luglio 1919 - Milano, 17 luglio 1984) è stato tra le persone che hanno portato il grande jazz in Italia. C'è, infatti, il suo nome dietro a tante trasferte sui palcoscenici italiani, già a partire dai primi anni Cinquanta, di importanti protagonisti della scena internazionale, da Louis Armstrong a John Coltrane, da Ornette Coleman a Duke Ellington, da Ella Fitzgerald a Miles Davis e Thelonious Monk.
Quella passione per le note suadenti del jazz Arrigo Polillo è riuscito a trasmetterla anche al figlio Roberto, fotografo e informatico milanese, classe 1946, autore di progetti come «Impressions of the World», un viaggio in immagini attraverso venticinque Paesi di tutto il mondo, e «Future and The City», studio di ipotesi visive sulle città del futuro.
«Sono cresciuto con mio padre tra giradischi a tutto volume -racconta, infatti, Roberto Polillo- e fu proprio lui a incoraggiare la mia passione: la sua rivista («Musica Jazz», di cui fu caporedattore dal 1945 al 1965 e direttore dal 1965 al 1984, ndr), aveva bisogno di immagini. Così a 16 anni mi regalò una buona macchina fotografica e mi mise al seguito dei musicisti americani in tournée. Mi ritrovai a fotografare praticamente ogni icona jazz del Novecento. Stavo sempre con loro, ma li inquadravo quando non se ne accorgevano, mimetizzandomi sul palco o nei camerini».
Parte di quelle immagini sono ora in mostra a Milano, negli spazi della Galleria Aprés-coup Arte, nata due anni fa nel cuore del quartiere Porta Romana per iniziativa di David Ponzecchi, grazie alla collaborazione della Noema Gallery, realtà diretta da Aldo Sardoni nel cuore di Brera, che rappresenta il fotografo milanese in Italia.
«Jazz Icons of the ‘60s», questo il titolo della rassegna, è inserita nell’ambito degli eventi collaterali per la quarta edizione della rassegna «JazzMi», in programma a Milano fino al prossimo 10 novembre, che festeggia così i cento anni dalla nascita di Arrigo Polillo e i tre quarti di secolo di «Musica Jazz», la più longeva pubblicazione europea del settore.
L’esposizione, visitabile fino al 10 gennaio, allinea una quarantina di immagini, molte di grande formato, scattate durante una serie di concerti tenutisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta a Milano, San Remo, Bologna, Lugano, Pescara, Juan-Les-Pins, Montreaux e in molte altre città.
A selezionare gli scatti, ristampati a partire dai negativi originali dell’epoca, è stato il musicologo Francesco Martinelli, che per l’occasione si è avvalso del contributo del critico e storico della fotografia Roberto Mutti.
Davanti agli occhi del visitatore scorrono i volti dei più grandi interpreti del jazz: Louis Armstrong, Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk, Ella Fitzgerald, Ray Charles, Gerry Mulligan e Charles Mingus.
Non mancano lungo il percorso espositivo le foto di due tra gli interpreti di questa edizione del festival milanese «JazzMi»Herbie Hanckock e Archie Shepp,  che Roberto Polillo ha ripreso rispettivamente nel 1972 e nel 1974 in due concerti a Bergamo.
Ci sono in mostra alla Galleria Aprés-coup Arte anche alcuni scatti iconici della storia della musica di quegli anni, tutti ormai entrati nell'immaginario collettivo. È il caso della fotografia che ritrae il primo concerto di John Coltrane e del suo quartetto in Italia, al Teatro dell’Arte di Milano. È il 2 dicembre 1962.
Per Roberto Polillo, che ha iniziato la sua attività al settimo festival del jazz di Sanremo, è il vero inizio di un’avventura nel mondo della fotografia di musica. «Ricordo ancora distintamente, a distanza di anni -scrive il fotografo nel libro «Swing Bop and Free. Il Jazz degli anni ‘60»-, l’impressione fortissima di quel concerto: la musica e l’uomo Coltrane che, a due metri dalla mia macchina fotografica, in smoking, urlava con il suo strumento grondando rivoli di sudore, totalmente assorto in una rappresentazione quasi mistica, quale mai si era vista prima nel jazz».
Porta la data del 1962 anche un altro scatto di John Coltrane firmato da Polillo, che ha fatto il giro del mondo: il celebre e intenso profilo del musicista, con il sigaro in bocca. «Tutti -svela il fotografo milanese-hanno pensato che in questa foto Coltrane avesse uno sguardo particolarmente profondo, mistico...invece stava aspettando le valigie a Linate ed era in preda al jet lag».
Da allora Roberto Polillo segue sempre il padre nelle sue trasferte e scatta immagini che servono alla rivista «Musica Jazz»: ritratti dei musicisti più importanti al loro arrivo negli aeroporti, in teatro durante le prove e i concerti, e qualche volta fuori dal palco, dietro le quinte. È il caso dei due scatti di Miles Davis e Dizzy Gillespie presenti in mostra, nei quali i due musicisti sono fermati dall'obiettivo poetico e discreto di Roberto Polillo durante due concerti a Milano, il primo tenutosi nel 1964 al Teatro dell’Arte, il secondo al teatro Lirico nel 1966.
Il fotografo milanese -le cui opere sono esposte stabilmente alla Fortezza medicea di Siena, sede dell’Accademia nazionale del jazz- è protagonista, in questo inizio di novembre, anche della mostra collettiva «Milano Anni 60 - Storia di un decennio irripetibile», per la curatela di Stefano Galli, allestita negli spazi di Palazzo Morando a Milano.
È qui che si trova uno dei suoi scatti più belli: l'immagine di Miles Davis "beccato" a suonare un sassofono, e non l’inseparabile tromba. «Questa è una foto speciale –ha rivelato Roberto Polillo- e la situazione in cui fu scattata è stata raccontata da mio padre nel suo libro «Stasera Jazz». Miles si era molto arrabbiato, perché un giornalista lo aveva disturbato in teatro, subito prima dell’inizio del concerto, per un’intervista. Il giornalista fu cacciato in malo modo, e Davis per ripicca annunciò a mio padre (che organizzava il concerto) che non avrebbe più suonato. Tutto però alla fine si risolse per il meglio, e la foto documenta il momento della pace: Davis, scherzando con mio padre (che si vede sullo sfondo), imbracciò un sassofono imitando i movimenti impacciati di un sassofonista drogato. Io, che assistevo alla scena, riuscii a scattare al volo questa foto, mossa e sfuocata. Probabilmente l’unica foto esistente in cui Davis suona (o finge di suonare) un sassofono».
Uno dei tanti aneddoti, questo, che Roberto Polillo può raccontare, svelando il volto sconosciuto del periodo d’oro del jazz e quello dei suoi protagonisti, virtuosi della tromba, del sax, del pianoforte, ma soprattutto geni dell’improvvisazione.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Roberto Polillo, John Coltrane, Milano 1962; [fig. 2] Roberto Polillo, Ella Fitzgerald, Milano 1968; [fig. 3] Roberto Polillo, Duke Ellington, Milano 1966; [fig. 4] Roberto Polillo, Miles Davis e Arrigo Polillo, Milano 1964; [fig. 5] Roberto Polillo, Herbie Hancock, Bergamo 1972; [fig. 6] Roberto Polillo, Thelonious Monk, Milano 1964; [fig. 7] Roberto Polillo, Archie Shepp, Bergamo 1974

Informazioni utili
Roberto Polillo. Jazz Icons of the ‘60s. Galleria Aprés coup Arte, via Privata della Braida, 5 - Milano. Orari:dal martedì al sabato, dalle ore 11.30 alle 23.00. Ingresso libero. Sito: http://www.apres-coup.it/. Fino al 10 gennaio 2020.

martedì 5 novembre 2019

Sandro Becchetti e i «protagonisti» della nostra storia

Centinaia di grandi protagonisti dell’arte, della letteratura, della musica, del cinema, dello sport e della cultura sono passati per quattro decenni, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, davanti alla lente delle sue fotocamere per, poi, finire sulle pagine di importanti periodici e quotidiani nazionali, da «La Repubblica» a «Il Messaggero», da «L’Unità» a «L’Espresso», da «Paese Sera» a «Il Secolo XIX».
Sandro Becchetti (Roma, 25 dicembre 1935 – Lugnano in Teverina - Terni, 5 giugno 2013) non era un fotografo da appostamenti, scatti rubati e scoop scandalistici. È stato l’anti-paparazzo per eccellenza. Per lui un ritratto, rigorosamente in bianco e nero, era un incontro, una relazione tra esseri umani, anche se era ben consapevole che un clic, così come una chiacchierata superficiale, non avrebbe mai potuto raccontare l’intensità e la verità di una persona e della sua esistenza. Anzi.
«Intorno ad ogni foto -diceva, infatti, Becchetti- ciascuno può costruire la propria menzogna. Perché questa per me è stata la fotografia: la menzogna, una componente essenziale della verità. Le mie macchine fotografiche contenevano –per me, intendo dire– tutte le immagini possibili, ma come le platoniche ombre contenevano anche il loro contrario».
Al ritratto come «specchio dell’anima», dunque, il fotografo romano, che aveva scelto di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in Umbria, non ha mai creduto: «i segni di una faccia -diceva- dissimulano più che rilevare» e la fotografia è «un inganno mediocre: non condensa mai una vita».
Di certo le immagini in mostra fino al prossimo 8 dicembre a Castiglione del Lago, negli spazi suggestivi del cinquecentesco Palazzo della Corgna, «condensano», invece, puntualmente la storia e la cultura del nostro Paese a partire dagli anni Sessanta, quando Sandro Becchetti si muove sulla strada del reportage militante documentando la realtà sociale, politica e culturale dell'Italia. Tutto cambia con il servizio fotografico per i funerali di piazza Fontana a Milano. Il disgusto per un Paese «assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e l’indifferenza» gli fanno cambiare idea sul suo futuro: «nel profondo -racconta ancora Becchetti- cessai lì di essere fotografo e diventai ritrattista».
Davanti alla sua Leica passano tutti i grandi personaggi del tempo. Il celebre scatto con lo sbadiglio annoiato, per non dire sbeffeggiante, di Alfred Hitchock, risposta alle domande della stampa italiana, porta la firma del fotografo romano. Suoi sono anche il ritratto del pugile argentino Carlos Monzón, il cui volto reale non è il viso ma il pugno chiuso che lo ha reso un campione, e quello di un pensieroso Pier Paolo Pasolini, immortalato con l’amata madre.
È di Sandro Becchetti anche una delle fotografie più iconiche del cinema mondiale: Dustin Hoffman, solo, in un corridoio di un albergo romano ai tempi del film «Uomo da marciapiede».
Significativo è anche il suo ritratto di Moira Orfei, il cui viso è immortalato su un manifesto affisso a un bandone, ovvero l’icona che forse identifica più di tutte l’artista con il circo.
Nella mostra sul lago Trasimeno scorrono sotto gli occhi del visitatore anche le immagini di tanti altri protagonisti del Novecento: una giovanissima e suadente Claudia Cardinale, un furente Federico Fellini, un concentrato Giorgio Strehler, un giovanissimo Christo mentre lavora ad impacchettare un edificio e, poi, Andy Warhol, Joe Cocker, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Valentina Cortese, Dacia Maraini, Ornella Vanoni e tanti altri ancora.
I loro ritratti, nei quali si respira quello che Sandro Becchetti chiamava l’«inganno del vero», si alternano a volti di perfetti sconosciuti, mettendo a fuoco sguardi, particolari dell’abbigliamento o della corporeità, in un racconto che focalizza l’attenzione sulla partecipazione sociale e sul mondo del lavoro con i suoi disagi.
Il fotografo romano rende così immortale l’attimo fuggente dell’attualità, la nostra Storia, con le piccole e grandi battaglie quotidiane. Ed è su queste che Sandro Becchetti si concentra in quello che sembra essere il suo testamento artistico: «ho ricevuto molto più di quanto abbia dato. Sono cresciuto, grazie all’esperienza fotografica, soprattutto umanamente. Ritengo di essere diventato una persona migliore, perché migliore era il mondo che i protagonisti delle mie foto si auguravano e per il quale si battevano. Di questo non potrò mai ringraziarli abbastanza».

Informazioni utili 
Sandro Becchetti. Protagonisti. Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago (Perugia). Orari: ore 10.00-17.00; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. È possibile prenotare l’apertura straordinaria per visite riservate. Ingresso (comprensivo di ingresso anche alla Rocca del Leone): intero € 8,00; ridotto A € 6,00 (gruppi +15; fino a 25 anni); ridotto B € 3,00 (6-17 anni); gratuito bambini fino a 5 anni, residenti Comune di Castiglione del Lago. Visite guidate: in italiano € 80; in inglese € 100. Al costo si aggiunge il biglietto ridotto. Informazioni, visite guidate e laboratori per le scuole: Palazzo della Corgna, tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Prenotazioni: Call center 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-13.00), callcenter@sistemamuseo.it. Fino all’8 dicembre 2019