ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 11 giugno 2021

«Il segno di Ustica», in un libro «l’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità»

Quella del 27 giugno 1980 era una sera d’estate come tante altre. In molti aeroporti d’Italia c’era chi partiva per le vacanze, chi tornava da un viaggio di lavoro e chi, all’atterraggio, avrebbe festeggiato il matrimonio di un amico o un esame andato bene. Lo stesso accadeva al «Guglielmo Marconi» di Borgo Panigale, nel Bolognese, dove intorno alle 20:00, due ore dopo l’orario previsto, decollava un aereo destinato a restare nella storia con il suo carico di misteri e di verità taciute. Era l’aeromobile Douglas DC-9 IH 870 della compagnia aerea Itavia, con destinazione Palermo, che un’ora dopo la partenza, alle 20:59, spariva dai radar nel tratto di mare compreso tra le isole di Ponza e Ustica, facendo perdere ogni traccia.
Su quell’aereo, i cui detriti furono trovati la mattina dopo, c’erano ottantuno persone, che ancora oggi cercano giustizia per la loro morte senza spiegazione: 64 passeggeri adulti, 11 ragazzi tra i due e i dodici anni, due bambini di età inferiore ai 24 mesi e 4 uomini dell’equipaggio.
Dopo decenni di indagini e di processi, tra reticenze e depistaggi, la tesi più accreditata è che il volo di linea Itavia IH870 si sia inabissato nel mare per errore, durante una battaglia in cielo tra un Mig libico, su cui ci sarebbe stato Gheddafi, e alcuni velivoli delle forze Nato.
Ma cos’è successo realmente quella sera? Perché quell'aereo è caduto? Cosa lo ha distrutto in volo? A quarantuno anni di distanza queste domande rimangono ancora senza risposta. La strage di Ustica è uno dei tanti misteri italiani ed è anche quello che più di tutti ha suggestionato il mondo delle arti, dal teatro alla danza, dalla letteratura al cinema, dalla poesia alla fotografia.
«A nessun evento, dal secondo Dopoguerra a oggi, è stata dedicata una mole altrettanto ampia, per quantità e qualità, di produzione artistica». Questa è la tesi del libro «Il segno di Ustica», a cura di Andrea Mochi Sismondi, autore e direttore del collettivo di produzione artistica e teatrale Ateliersi di Bologna, che con Fiorenza Menni, sua compagna di vita e lavoro, ha debuttato nel 2016 con l'opera poetica elettronica «De Facto», ideata a partire dal testo della sentenza-ordinanza depositata il 31 agosto 1999 dal giudice istruttore Rosario Priore, l’unico documento giudiziario complessivo cui possa fare riferimento chi cerchi di comprendere cosa sia accaduto nei cieli italiani la sera del 27 agosto 1980.
Edito da Cuepress, e in uscita il 22 giugno, il volume verrà presentato in anteprima giovedì 17 a Mantova, al Cinema del Carbone; seguiranno, poi, due incontri di presentazione in altrettanti luoghi simbolici come Bagnacavallo (24 giugno), dove è nata l’iniziativa «Teatri per la Verità», e Bologna (15 luglio), dove sono conservati i relitti dell’aereo.
Il libro è strutturato in una serie di conversazioni tra l’autore e gli artisti che, in questi quarantuno anni, hanno sentito l’urgenza di confrontarsi, attraverso diversi approcci e differenti linguaggi, con la strage di Ustica.
Grazie anche al ricco apparato iconografico e alle conversazioni con studiose e studiosi che hanno approfondito questa vicenda, «emerge con nettezza – si legge nella quarta di copertina - la forza delle opere prodotte, e il segno comune di un contributo originale e incisivo alla riflessione sulla dimensione politica dell’arte e sul suo rapporto con la storia».
Tra i protagonisti delle conversazioni c’è Christian Boltanski, uno tra gli interpreti più sperimentali e innovativi del nostro tempo, quello che più di chiunque altro ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria.
Nel 2007 l’artista francese ha realizzato, nell’allora nascente museo bolognese sulla strage di Ustica, un’imponente e drammatica installazione permanente intorno ai resti del DC-9. Oggi come allora dal soffitto dello spazio di via Saliceto, visitabile anche on-line, scendono ottantuno lampadine, una per ogni vittima, che si accendono e si spengono a intermittenza, al ritmo del respiro. Tutt’intorno ci sono ottantuno specchi neri che riflettono l’immagine di chi percorre il ballatoio posto attorno al relitto. Mentre, dietro ognuno di essi, ottantuno altoparlanti emettono parole e frasi sussurrate a sottolineare la casualità e l’ineluttabilità della tragedia. Infine, nove casse, coperte da un drappo nero, contengono, gli oggetti appartenuti alle vittime: scarpe, pinne, boccagli, occhiali e vestiti che documenterebbero la scomparsa di un corpo, rimangono così invisibili agli occhi dei visitatori.
Andrea Mochi Sismondi ha interpellato anche Nino Migliori, che a quella «guerra in tempo di pace» ha dedicato la mostra «Stragedia», allestita lo scorso anno, in occasione del quarantesimo anniversario, negli spazi dell’ex chiesa di San Mattia a Bologna.
L’esposizione nasceva da lontano. Nel 2007, poco tempo dopo che il relitto del velivolo, recuperato al largo dell’isola di Ustica, aveva compiuto lo straziante percorso a ritroso che dall’aeroporto di Pratica di Mare lo aveva riportato a Bologna, il fotografo emiliano aveva ottenuto il permesso per entrare negli ampi spazi dell'ex magazzino dell’azienda di trasporti cittadina Atc., che, da lì a poco, sarebbero diventato un museo. Nino Migliori era rimasto in quel luogo quattro notti e, a lume di candela, aveva fotografato i resti dell’aereo non ancora ricomposto nella sua forma originaria intorno allo scheletro della fusoliera. Il risultato sono ottantuno immagini, una per ogni vittima, che illuminano, con una tremula fiamma che ha il sapore di un cero votivo, i muti testimoni - rottami contorti, piegati, spezzati e rotti - di quella che il fotografo emiliano definisce una «stragedia», neologismo inventato per congiungere l’idea della tragedia a quella di una volontà stragista.
Non poteva, poi, mancare tra gli intervistati Marco Paolini, uno dei principali interpreti del teatro civile italiano, che nel 2000, qualche anno dopo lo spettacolo sul Vajont, ha scritto «I – Tigi. Canto per Ustica», un monologo, presentato in centinaia di repliche in tutta Italia, che parte dalla sentenza istruttoria depositata dal giudice Priore per raccontare una storia che contiene in sé – scrive l’autore - «tutti gli elementi della tragedia classica, come l’insepoltura, la mancanza di giustizia, il confronto impari tra vittime e potere».
Tra gli intervistati ci sono, anche Marco Risi, regista del film «Il muro di gomma» (1991), i giornalisti Michele Serra e Andrea Aloi, autori di un dossier per il settimanale «Cuore» dal titolo «Com'è profondo il mare. La strage di Ustica e la satira» (1994), la cantautrice Giovanna Marini, che ha firmato «Ballata di Ustica» e altri brani sulla tragedia, confluiti nell'opera «Cantata del secolo breve».
Per questo incontro tra cultura e storia, è stata fondamentale l'azione dell’associazione parenti delle vittime, che ha scelto di integrare la sua battaglia decennale per la verità con la sperimentazione artistica, assumendo un ruolo produttivo particolarissimo nel contesto della creatività contemporanea.
«Dalla voce degli artisti emerge la potenza dell'incontro con i parenti delle vittime, in particolare con Daria Bonfietti, con il relitto del DC-9 e con il materiale documentario relativo alla strage - afferma Andrea Mochi Sismondi -. L'incontro con la strage di Ustica solleva negli artisti la necessità di confrontarsi con il proprio sé più profondo, con la propria autenticità, andando oltre il proprio armamentario formale consolidato per ripensare il proprio gesto creativo. Le questioni sollevate dalla vicenda che forse - a causa delle innumerevoli menzogne, dei tanti depistaggi e dei continui insabbiamenti - più di ogni altra ha segnato il trauma collettivo della rottura del patto di fiducia tra Stato e cittadini, fa sì che Ustica porti gli artisti ad allontanarsi dalla retorica del «Mai più!» per concentrarsi invece sui nodi irrisolti, sulle crepe del contemporaneo, sugli aspetti ancora attuali che essa squarcia. Ecco perché il libro parla del passato ma guarda, attraverso l'arte e la sua capacità interpretativa, al presente e al futuro».

Didascalie delle immagini
1. Il segno di Ustica. Copertina del libro; 2. Andrea Mochi Sismondi. Ritratto di Margherita Caprilli; 3. Nino Migliori, Stragedia, 2007-2020. © Fondazione Nino Migliori; 4. Polvere (b) / Fuga. Opera musicale di Franck Krawczyk. Foto di Tomaso Mario Bolis; 5. I-TIGI Racconto per Ustica. Marco Paolini con il fondale creato appositamente per lo spettacolo da Germano Sartelli. Foto di Tomaso Mario Bolis; 6. Di fronte agli occhi degli altri, di Virgilio Sieni. In scena lo stesso Sieni insieme a Daria Bonfietti. Foto di Tomaso Mario Bolis; 7. Lamberto Pignotti,Memorandum I, composit, 50x35 cm, 2018

Informazioni utili
https://www.cuepress.com/catalogo/il-segno-di-ustica

giovedì 10 giugno 2021

In Val Seriana un anno di iniziative per i cinquecento anni dalla nascita di Giovan Battista Moroni

6.	Cover del volume Giovan Battista Moroni. Opera completa di Simone Facchinetti. Ed. Officina Libraria
Cinquecento anni fa ad Albino, cittadina della Val Seriana, nasceva il pittore Giovan Battista Moroni, una delle figure più rappresentative del panorama artistico lombardo del Cinquecento, famoso soprattutto per la sua copiosa attività di ritrattista, caratterizzata da un'attenta traduzione della realtà e da un intenso approfondimento psicologico dei modelli.
Mostre, narrazioni, restauri, pubblicazioni scientifiche, convegni, incontri, concerti, spettacoli teatrali, escursioni a tema, eventi di animazione culturale, progetti fotografici, creazioni di moda, visite guidate e appuntamenti enogastronomici compongono il ricco cartellone di iniziative, che da giugno alla primavera del 2022, renderà omaggio all’artista nella terra che lo ha visto nascere e in cui ha vissuto e operato per una buona parte della sua vita.
L’immagine scelta per fare da filo rosso al progetto, intitolato «Moroni 500. Albino 1521 – 2021», è un abbraccio, quello tra Maria ed Elisabetta sullo stendardo albinese, restaurato per l’occasione. Quell’abbraccio, carico di speranza per la nuova normalità che stiamo vivendo, avvolge tutta la Val Seriana, un vero e proprio museo diffuso dedicato all’artista, che spazia da Ranica a Fino del Monte, per giungere al capoluogo di provincia, Bergamo, coinvolgendo musei, istituzioni culturali, parrocchie, scuole e associazioni, a partire dall’Accademia Carrara di Bergamo, dal Fai – Fondo per l’ambiente italiano e dalla Fondazione Adriano Bernareggi.
Giovan Battista Moroni, «Stendardo della Visitazione» (verso), particolare dopo il restauro. Parrocchia di San Giuliano, Albino. Foto Studio Da Re
A segnare l’apertura del progetto, organizzato da PromoSerio, è la mostra «Il codice Moroni», un «innovativo storytelling espositivo», curato da Barbara Mazzoleni e Orietta Pinessi, per svelare in chiave contemporanea tutti (o quasi) i segreti dell’artista rinascimentale.
Articolata in due sedi espositive, le chiese di San Bartolomeo e di San Giuliano ad Albino, l’esposizione propone, fino al prossimo 22 agosto, un percorso narrativo partecipato, multidisciplinare e «multimaterico», che accosta ai dipinti oggetti, tessuti, pigmenti, rari documenti autografi, volumi cinquecenteschi, ricognizioni fotografiche sul territorio, testimonianze documentarie e didattiche.
A San Bartolomeo, edificio del XV secolo che con la sua affascinante pelle affrescata costituisce uno dei monumenti storici più interessanti della Val Seriana, si squaderna un racconto che fa luce su vari aspetti della personalità di Giovan Battista Moroni e che permette al pubblico anche di calarsi in un set moroniano per farsi un selfie nei panni di un personaggio dipinto dall’artista.
I visitatori possono, inoltre, osservare gli abiti del quadro «Il sarto» e quelli del ritratto dei celebri coniugi Spini, filologicamente ricostruiti da Alessio Palmieri Marinoni, ma anche imbattersi nella stilista albinese Simona Brena alle prese con la confezione in diretta di una copia del vestito indossato dalla principessa salvata da San Giorgio nel Polittico moroniano di Fiorano al Serio.
4.	Giovan Battista Moroni, Portrait of a Lady ('La Dama in Rosso'). © The National Gallery, London
Nei giorni della mostra, dal 19 luglio al 1° agosto, la Fondazione Arte della Seta Lisio di Firenze organizzerà, poi, ad Albino una Summer School di alta sartoria storica, nella quale verrà riprodotto l’abito dalla «Dama in rosso» Lucia Albani, sfoggiato nel ritratto di Giovan Battista Moroni custodito alla National Gallery di Londra.
Nella chiesa di San Giuliano si entra, invece, nel mondo delle «Immagini per lo spirito». Due interventi di restauro, affidati ad Antonio Zaccaria, restituiscono piena leggibilità compositiva e cromatica al già citato «Stendardo della Visitazione» della chiesa di San Giuliano, simbolo del progetto albinese, e al «Crocefisso adorato dai santi Bernardino e Antonio da Padova», unanimemente considerato il capolavoro del Moroni sacro.
A questa mostra, per la quale sono state pensate anche delle visite guidate narrate, ne seguiranno altre due: il 18 settembre inaugurerà «Giovan Battista Moroni. Ritorno ad Albino», a cura di Simone Facchinetti e Paolo Plebani, con una selezione di opere legate alla città natale dell’artista, dalle prove giovanili ai ritratti di concittadini fino a dipinti di devozione privata; mentre dall’11 dicembre ci sarà «Moroni Sequel», nella quale Gianriccardo Piccoli si confronterà con le suggestioni moroniane.
Giovan Battista Moroni, Ritratto di Bernardo Spini. Fondazione Accademia Carrara, Bergamo
Ad Albino sono anche in programma un festival di musica classica (dal 4 settembre), una speciale rievocazione storica (18 settembre), due giornate di valorizzazione del patrimonio storico-artistico (16 e 17 ottobre) e uno spettacolo teatrale dal titolo «La Passione di Gesù Cristo secondo Moroni» (8 aprile 2022).
Dal 25 giugno l’iniziativa moroniana accenderà i riflettori anche fuori dalla cittadina della Val Seriana. Si inizierà con Palazzo Moroni a Bergamo Alta. Incontri e conferenze faranno da preludio all’autunno, quando verranno aperte, a seguito di importanti lavori di restauro, le grandi sale affrescate del piano nobile, dove si trovano i celebri ritratti di «Gian Gerolamo Grumelli (Il Cavaliere in Rosa)» e di «Isotta Brembati», e il giardino del palazzo. Da quel momento, grazie alla collaborazione con il Fai – Fondo per l’ambiente italiano, ogni domenica sarà dedicata all’artista rinascimentale, che i visitatori potranno scoprire grazie a un ciclo di visite guidate.
Mentre, dal 9 luglio al 28 novembre, l’Accademia Carrara di Bergamo, in cui sono conservati numerosi capolavori moroniani, garantirà biglietti scontati alla comunità albinese (5 euro anziché 10) e ai visitatori delle mostre in programma ad Albino (8 euro anziché 10).
Giovan Battista Moroni, Ritratto di Pace Rivola Spini. Fondazione Accademia Carrara, Bergamo
Il 15 ottobre ci sarà, invece, la prima assoluta del Catalogo generale dell’opera di Giovan Battista Moroni, curato da Simone Facchinetti (ed. Officina Libraria, Milano), una vera e propria impresa editoriale, che si è protratta per molti anni, durante i quali sono state raccolte le informazioni relative alle oltre duecento opere del pittore, conservate nel territorio bergamasco, ma anche disseminate nei principali musei europei e statunitensi, oltre che in molte collezioni private.
Non mancherà, poi, un convegno di studio, una due giorni organizzata in collaborazione con Fondazione Adriano Bernareggi, in cui dialogheranno i più grandi studiosi nazionali e internazionali che si sono occupati del Moroni e ne hanno curato le più importanti mostre recenti.
L’artista verrà celebrato anche dal mondo enogastronomico. Grazie ad Ascom Confcommercio Bergamo, da luglio i ristoratori della Val Seriana aderiranno all’iniziativa «A tavola con Moroni», proponendo menù con piatti del ‘500, dai «maccaroni» al «Brodo lardiero di cinghiaro», che potranno essere abbinati a una speciale bottiglia di Valcalepio con un’etichetta dedicata all’artista rinascimentale. Per chiudere con dolcezza, grazie a La Dolciaria Bergamasca, sarà, infine, possibile assaggiare il «Cinnamomo», l’antico confetto orobico che fu capace di conquistare Moroni e l’intera Europa.

Didascalie delle immagini
1. Cover del volume «Giovan Battista Moroni. Opera completa» di Simone Facchinetti. Ed. Officina Libraria; 2. Giovan Battista Moroni, «Stendardo della Visitazione» (verso), particolare dopo il restauro. Parrocchia di San Giuliano, Albino. Foto Studio Da Re; 3. Giovan Battista Moroni, Portrait of a Lady (La Dama in Rosso). © The National Gallery, London; 4. Giovan Battista Moroni, Ritratto di Bernardo Spini. Fondazione Accademia Carrara, Bergamo; 5. Giovan Battista Moroni, Ritratto di Pace Rivola Spini. Fondazione Accademia Carrara, Bergamo

Informazioni utili
«Moroni 500. Albino 1521 – 2021». Informazioni: tel. 035.704063; infopoint@valseriana.eu. Facebook: ValSeriana e Val di Scalve. Instagram: valseriana_e_scalve. Sito internet: www.valseriana.eu.

mercoledì 9 giugno 2021

Il «Bestiario infernale»: Dante Alighieri e gli animali della «Divina Commedia» nelle xilografie di Gianni Verna

Dalle «tre fiere» del primo Canto dell’«Inferno» - la lonza, il leone e la lupa – alle api citate nel Canto XXXI del «Paradiso», paragonate agli angeli dell’Empireo: la presenza degli animali nella «Divina Commedia» è inaspettatamente ampia e variegata. Si spazia dai mosconi, dalle vespe, dai serpenti, dai cani e da altre bestie che tormentano le anime dei dannati, incontrate ‘realmente’ da Dante e Virgilio nel loro viaggio ultraterreno, ad animali chiamati alla ribalta attraverso metafore, similitudini, allusioni e perifrasi. È il caso, per esempio, degli «stornei», delle gru e delle colombe, a cui il «Sommo poeta» paragona le anime dei lussuriosi nel Canto V dell’«Inferno», o del grifone cristologico e dell’aquila imperiale, citati nel «Paradiso». Agli animali della «Commedia» dantesca è stato dedicato recentemente, nel 2019, il libro «Il bestiario dell’aldilà» di Giuseppe Ledda, docente all’Università degli studi di Bologna, che ha scritto anche altri volumi sullo scrittore toscano: «La guerra della lingua. Ineffabilità, retorica e narrativa nella Commedia di Dante» (2002), «Dante» (2008), «La Bibbia di Dante» (2015) e «Leggere la Commedia» (2016).
In occasione dei settecento anni dalla morte del poeta toscano, gli animali danteschi tornano alla ribalta con Gianni Verna (Torino, 1942), instancabile artista, allievo di Francesco Casorati e Francesco Franco, che da anni si dedica alla xilografia e che, nel 1987, ha dato vita con Gianfranco Schialvino a un «operativo cenacolo a due», per usare un’espressione di Angelo Dragone, dal quale è nata anche «Smens», unica rivista stampata ancora con caratteri di piombo e direttamente dai legni originali appositamente incisi a cui collaborano importanti studiosi, scrittori poeti e artisti.
In questi giorni, il «Bestiario infernale» dell’artista torinese conclude il percorso espositivo della mostra «Omaggio a Dante 1321 - 2021», in programma al Forte di Bard, in Valle d’Aosta. Cuore dell’esposizione è un prezioso incunabolo dell’opera dantesca, «La Comedia del Divino Poeta Fiorentino Dante Aleghieri», stampato a Brescia nel 1487 da uno dei primi editori che in Italia utilizzò la stampa a caratteri mobili, appena inventata da Gutenberg. Si tratta di Bonino de Boninis, al quale si deve anche l’aver scelto di illustrare l’opera dantesca con una sessantina di xilografie di artisti a lui contemporanei. 
In attesa di poter vedere la mostra in presenza, sul Web è presente, dallo scorso Dantedì, un’anteprima video, in cui l’attore Andrea Damarco legge alcune terzine del celebre poema introdotto dalla direttrice del Forte di Bard, Maria Cristina Ronc.
Nel Medioevo i «Bestiari», particolari volumi a tema letterario e figurato che raccontavano le curiosità del mondo animale accompagnate da spiegazioni moralizzanti o da riferimenti tratti dalla Bibbia, allo scopo di stupire ed erudire il volgo, erano molto in voga. Dante Alighieri si dimostra, dunque, figlio del suo tempo. I «Bestiari» sono anche per lui strumenti spirituali utili nel cammino di conversione ed espiazione dell’uomo, «fondendo nella componente semantica del loro nome -ricorda Gianfranco Schialvino in catalogo - i contenuti dei miti pagani, delle fonti bibliche e teologiche, e delle «Naturales historiae» d’età classica ed ellenistica».
Gianni Verna, artista «che non conosce soste», di ottima fama e consolidato mestiere, propone un percorso non solo tra gli animali reali raccontati da Dante Alighieri, ma anche tra creature mitologiche dai tratti insieme umani e ferini: Caronte, Minosse, Cerbero, Gerione, le Furie, le Arpie, Lucifero, Malacoda, il Minotauro, i Centauri, i Giganti, le Arpie, Proserpina, Medusa, Belzebù e i Draghi. 
Tra gli animali raffigurati ci sono il veltro, il destriero, le vespe, l’aquila, le gru che «van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga», le colombe, i «porci in brago», la «scrofa azzurra e grossa», «la falsa vacca», il toro «che gir non sa, ma qua e là saltella», i mosconi e i serpenti, «le rane innanzi a la nimica biscia», «i ranocchi pur col muso fuori», «i dalfini, quando fanno segno a’ marinar’ con l’arco de la schiena», l’anitra, il cane «ch’abbaiando agogna, / e si racqueta poi che ’l pasto morde», e le «nere cagne, bramose e correnti», il leone e l’oca, l’orsa e il falcone e lo sparviero, i «lupicini» e il «vipistrello». Questi animali son raccontati da Gianni Verna con precisi tratti di bulino e sempre più spesso con vigorosi colpi di sgorbia, dai quali emerge lo spirito di osservazione dell’artista e il suo pregevole sforzo di interpretazione delle cantiche dantesche, lette ora con devozione e riconoscenza, ora con ironia e dissacrazione.
«La sovrabbondanza di immagini animali nei canti dell’Inferno – che l’artista ha scolpito in due lunghe lastre di noce, conducendo in processione come Noè sull’arca e Mosè attraverso il mare, decine e decine di figure ora morfologicamente inappuntabili, ora elaborate con raffinata sensibilità, ora riducendole all’essenzialità di un segno –, può essere interpretata – racconta Gianfranco Schialvino in catalogo - come un allegorico panorama della degradazione dei dannati, privati d’ogni aspetto umano a causa del peccato e della dannazione. Ma la similitudine animalesca non intende assolutamente svolgere questa generica funzione, essendo anzi numerose le analogie animali che Dante ha usato per gli spiriti del Purgatorio e del Paradiso e perfino per gli angeli: si tratta quindi di una grande varietà di riferimenti che non possono essere ridotti univocamente alla funzione generica di segni della degradazione bestiale dei dannati».
Gianni Verna ci restituisce, dunque, un suo personalissimo «Bestiario infernale», che svolge non soltanto una funzione ornamentale, di commento e di esposizione, ma contribuisce anche,  «attraverso l’attivazione della propria autonomia iconica, - per usare ancora le parole di Gianfranco Schialvino -  a ricostruire la rilevanza culturale di una personalissima epopea dantesca».

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