ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 10 novembre 2021

In Umbria due mostre sui «Longobardi in Italia»

Con i loro Ducati, che si estendevano da Cividale del Friuli a Benevento, dalla Pianura padana all’attuale Puglia, ebbero un ruolo determinante nella formazione della coscienza italiana. Dal loro arrivo nel nostro Paese, nel 568 d.C., alla caduta di Pavia, nel 774 d.C., per opera dei Franchi di Carlo Magno, i Longobardi furono fondamentali nel disegnare l’assetto politico, culturale e sociale non solo dell’Italia di allora, ma anche di quella attuale, dando vita a una nuova identità «proto-nazionale».
Definitivamente superato un vecchio topos che li considerava invasori rozzi e sanguinari - Alessandro Manzoni, nella tragedia «Adelchi» (1822), li definì, per esempio, «rea progenie» e scrisse che per loro «fu gloria il non aver pietà» -, oggi sappiamo di essere debitori nei confronti di questi guerrieri di stirpe germanica per alcune parole della nostra lingua e per parte del nostro patrimonio storico, artistico e architettonico, quello realizzato fra il VI e l’VIII secolo, sintesi esemplare tra tradizione romana, spiritualità cristiana, influenze bizantine e valori mutuati dal mondo germanico. La recente storiografia ha, infatti, messo fine a quei concetti di «decadenza» e «barbarie» che venivano generalmente associati all’età che va dalla caduta dell’Impero romano alla nascita di quello carolingio affermando invece l’idea di un continuum del processo storico caratterizzato dalla positiva compenetrazione di civiltà diverse.
Da dieci anni, dal 25 giugno 2011
, la cultura della gens dalle lunghe barbe - per usare un’espressione del monaco Paolo Diacono, autore dell’«Historia Longobardorum» (789 d.C.) – viene, inoltre, celebrata anche dall’Unesco che ha inserito il sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)» nella sua World Heritage List. Fanno parte di questa rete l’area della Gastaldaga e il complesso episcopale a Cividale del Friuli (Udine), l’area monumentale con il Monastero di San Salvatore e Santa Giulia a Brescia, il Castrum con la Torre di Torba e la chiesa di Santa Maria Foris Portas a Torba e a Castelseprio (Varese), la Basilica di San Salvatore a Spoleto (Perugia), il Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno (Perugia), il Complesso di Santa Sofia a Benevento e il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo (Foggia).
In occasione del decimo anniversario del prestigioso riconoscimento di Unesco, l’Umbria diventa una vetrina privilegiata per chi volesse avvicinarsi alla conoscenza della civiltà longobarda con due esposizioni, entrambe curate dall’associazione Italia Langobardorum. A Campello sul Clitunno, nelle sale di Palazzo Casagrande, è stata allestita la mostra «Trame longobarde. Tra architettura e tessuti», uno straordinario lavoro di ricostruzione, sulla base di dati archeologici e di fonti letterarie come il testo di Paolo Diacono, della vita quotidiana di questo popolo, che ha lasciato tracce del suo passaggio anche a Pavia (capitale del regno dai tempi di Alboino) e a Monza (dove è custodita la corona ferrea). Mentre a Spoleto, nelle sale della Rocca Albornoz, è ospitata la mostra «Toccar con mano i Longobardi», realizzata in collaborazione con il Museo tattile statale Omero di Ancona.
La prima rassegna, aperta fino al 20 febbraio, è curata da Glenda Giampaoli e Giorgio Flamini, con il confronto scientifico di Donatella Scortecci, ed è inserita nel progetto «Musei che hanno la stoffa» della Regione Umbria.
L’allestimento propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso una ricostruzione di stoffe, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII se-colo d. C., che ha visto all’opera i detenuti del corso di tessitura, presente nella Casa di reclusione di Spoleto.
«Tutti i vestiti esposti - raccontano gli organizzatori - sono stati realizzati per metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo esattamente il numero dei fili di ordito e trama nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. L’altra metà degli abiti è stata, invece, realizzata impiegando una tela di cotone industria-le proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori».
La mostra «Toccar con mano i Longobardi», visibile fino al 6 marzo, propone, invece, un percorso tattile tra i beni longobardi di Unesco riprodotti in sette modellini tridimensionali, ma anche in altrettanti modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l'esplorazione dei loro contesti di provenienza.
A rendere il percorso ancor più accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di reclusione di Maiano a Spoleto, da ascoltare tramite Nfc e Qr code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione, infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati dei video con la tecnica del compositing nella Lis - Lingua dei segni italiana, insieme ad immagini e animazioni, sottotitoli e audio.
Le due mostre sono anche l’occasione giusta per visitare i due beni longobardi dell’Unesco presenti in Umbria. A Spoleto c’è la Basilica di San Salvatore, un edificio eccezionale per il linguaggio romano classico con cui è stata concepito che conserva la ricca trabeazione con fregio dorico, impostata su colonne doriche nella navata e corinzie nel presbiterio. A Campello sul Clitunno troviamo, invece, invece il Tempietto del Clitunno, un piccolo sacello in forma di tempio corinzio tetrastilo in antis con due portici laterali. La progettualità e la pe-rizia nell’impiego degli spolia antichi accomunano il Tempietto, al San Salvatore di Spoleto. All’interno si conservano dipinti murali di notevole qualità.

Didascalie delle immagini 
1. Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno (Perugia); 2. Basilica di San Salvatore a Spoleto (Perugia); 3. Complesso episcopale a Cividale del Friuli (Udine); 4. Complesso di Santa Sofia a Benevento; 5. Torre di Torba a Torba (Varese)

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martedì 9 novembre 2021

«La grande arte al cinema», arriva sui grandi schermi «Pompei, eros e mito»

«Quando si parla di Pompei il confine tra verità e leggenda è sfocato. La sua è una storia di sesso, potere, trasgressione e tragedia. La città di Pompei ha dovuto morire per raggiungere l'immortalità». Sono queste parole, recitate da Isabella Rossellini, ad aprire il trailer di presentazione del docu-film «Pompei, eros e mito», in proiezione il 29 e il 30 novembre e il 1° dicembre nelle migliori sale italiane, nell'ambito del progetto «La grande arte al cinema» di NexoDigital.
Il film -diretto dal poliedrico Pappi Corsicato, che di recente ha firmato anche il documentario su Julian Schnabel- porta il pubblico all’interno del sito archeologico più famoso al mondo, visitato ogni anno da oltre quattro milioni di persone provenienti da tutti gli angoli del globo.
Scena dopo scena, lo spettatore viene guidato indietro nel tempo di duemila anni. Viene condotto all’epoca della drammatica eruzione vulcanica del 79 d.C. per scoprire miti e personaggi di una città perduta e ritrovata, animata nel corso dei secoli da passioni violente e dotata di un estro e una vitalità straordinari.
Dalla storia d'amore tra Bacco e Arianna, nella celebre Villa dei misteri, al rapporto ambiguo tra Leda e il cigno, dalle lotte gladiatorie alla disperata ricerca dell'immortalità di Poppea Sabina, la seconda moglie dell'imperatore Nerone, il docu-film porta gli spettatori tra lacerti di affreschi, rovine e reperti della cittadina campana, sopravvissuti alla furia del Vesuvio, facendo scoprire o riscoprire opere che hanno ammaliato e influenzato artisti come Pablo Picasso e Wolfgang Amadeus Mozart.
Questi miti sono rivisitati da Pappi Corsicato in chiave contemporanea; «indossano -si legge nella sinossi- abiti moderni e sono sospesi in un tempo che appartiene sia al passato che al presente, per mostrare quanto l’eredità di Pompei sia ancor oggi una continua fonte di ispirazione artistica».
Guida d’eccezione tra i ciottoli delle strade di Pompei, sito archeologico che oggi è patrimonio mondiale dell’umanità di Unesco, è Isabella Rossellini. 
Il film permette, poi, di ascoltare gli interventi, tra gli altri, di Massimo Osanna (direttore generale del Parco archeologico di Pompei), Andrew Wallace-Hadrill (professore emerito di studi classici all’università di Cambridge), Catharine Edwards, (professore di studi classici e storia antica alla Birkbeck di Londra), Darius Arya (direttore dell'American Institute for Roman Culture) ed Ellen O’Gorman (professore associato di studi classici all’università di Bristol).
La colonna sonora porta, invece, la firma del compositore e pianista Remo Anzovino, che ormai da anni si cimenta raccontando in musica l’arte mondiale, tanto da essere stato premiato ai Nastro d’argento 2019 con una menzione speciale per le colonne sonore originali dei film.
La riscoperta di Pompei porta la data del 1748, quando re Carlo III di Borbone promosse i primi scavi ufficiali a Pompei a seguito dei primi ritrovamenti della vicina Ercolano. Fu da quel momento che cominciarono a riemergere con sempre maggior chiarezza i dettagli della catastrofe del 79 d.C., che seppellì gran parte del territorio intorno al Vesuvio.
Nel corso degli scavi di Pompei sono stati rinvenuti tesori, statue, affreschi, mosaici, reperti di vita quotidiana, ma anche ville e abitazioni private che ancor oggi ci raccontano la vita di una città vivace, con giardini, fontane e imponenti apparati decorativi.
I giochi di potere, i legami amorosi, l’ambizione smodata e il genio creativo, che si percepivano allora per le strade e si respiravano nei templi, tornano così a vivere grazie a questo film, che mette sotto i riflettori -afferma Isabella Rossellini sul finale del trailer- «una civiltà mossa dal genio, avvolta da dissolutezze, trasgressione, erotismo e peccato». Una civiltà che affascinò anche Wolfgang von Goethe, per la sua «pittura eseguita alla perfezione», per i suoi «vivaci colori», per i «lievi e leggiadri arabeschi».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Marte e Venere © Museo archeologico nazionale di Napoli; [fig. 2] Isabella Rossellini in Pompei Eros e Mito. Foto di Daniele Cruciani; [fig. 2] Il Mito di Arianna, Teseo e Bacco in Pompei Eros e Mito. Foto di Federica Belli; [fig. 4] Leda e Cigno © Museo archeologico nazionale di Napoli

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lunedì 8 novembre 2021

«Forever Green», quattro secoli di pittura all’insegna del verde

È la tinta del mantello di Beatrice nella «Divina Commedia» e quello della speranza sul fondo del vaso di Pandora. È il colore del movimento ambientalista, sinonimo di ciò che non inquina ed è biologico. È la luce rassicurante della batteria carica e il segnale di via libera sulle strade. Per gli occidentali, simboleggia la primavera, la rinascita e la calma. Per l’Islam, vuol dire gioia e leggerezza. Stiamo parlando del verde, il colore secondario creato dalla combinazione tra il giallo primario e il cyano (il blu), che nella storia dell’arte ha conosciuto fortune alterne, venendo addirittura associato, nei secoli bui del Medioevo, alle streghe, al male e al diavolo.
La tossicità dell'arsenico contenuto nel suo pigmento, che lo rendeva un vero e proprio veleno, non ha di certo contribuito alla fama positiva del verde. Solo l’Ottocento, il secolo della pittura di paesaggio, della scuola di Barbizon e degli impressionisti, ha visto l’affermazione di questo colore, al quale Ersel, società di Torino che si occupa di servizi di consulenza sugli investimenti, servizi fiduciari, di asset protection e di corporate advisory, dedica la sua nuova mostra.
Dopo «White Not» e «Red», l’ottocentesco Palazzo Ceriana in piazza Solferino, opera dell’architetto Carlo Ceppi, ospita così, fino al prossimo 26 novembre, «Forever Green», una panoramica sul colore verde, dalla pittura antica all’astrazione, a cura di Chiara Massimello, realizzata in collaborazione con la galleria Robilant+Voena di Torino e con alcuni collezionisti privati.
L’obiettivo dell’esposizione, che propone anche sguardo attento sugli artisti torinesi o su quelli che hanno gravitato nell’ambiente fecondo della città, «è di mostrare – raccontano gli organizzatori - come un quadro seicentesco possa essere felicemente accostato a un’opera di Schifano, oppure come un paesaggio ottocentesco dialoghi perfettamente con un’opera di Lucio Fontana».
Tra i pezzi storici è possibile ammirare un quadro di un’artista poco conosciuta come Giulia Crespi «Cerana», sorella del più noto Giovan Battista Crespi detto il Cerano, documentata a Milano dal 1610 al 1628, della quale viene esposto un ritratto di Sant’Isidoro (olio su tela, cm 87.5 x 66,5), il patrono dei raccolti e dei contadini, molto amato in vita per la sua generosità.
Rimanendo nell’ambito dell’arte più antica, in mostra si trovano anche un «Paesaggio classico» (olio su tela, 80 x 100 cm) del pittore fiammingo Hendrik Frans van Lint (Anversa 1684 – Roma 1763), che si specializzò a Roma nel genere della veduta, e la tela «Viaggio di Rebecca a Canaan» (olio su tela, 34x 59 cm) di Francesco Zuccarelli (Pitignano, 1702 – Firenze, 1788), esponente del rococò italiano. L’Ottocento è, invece, rappresentato da Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868 - Volpedo - 1907), con la tela «Fanciulla in campo» (olio su tela, firmata - 52 x 82 cm) del 1821, e da una serie di quattro «Allegorie» (Olio su tavola - 46 x 33 cm) di Scuola francese.
Grande protagonista dell’esposizione è, poi, il Novecento, che, attraverso autori come Gerardo Dottori, Bertozzi & Casoni, Maurizio Cattelan, Aldo MondinoHsiao Chin, Mario Merz, e Roberto Crippa, solo per fare qualche nome, propone un viaggio pittorico tra generi differenti, dal futurismo all’astrattismo, dall’informale al concettuale, dallo spazialismo alla pop art.
Tra i pezzi più interessanti esposti a Palazzo Ceriana c’è un paesaggio del torinese Giulio Boetto (Torino, 1894 – 1967), «Verso il pascolo» del 1927 (olio su tavola, 93 x 73cm), la cui pittura pastosa riesce a rendere perfettamente l’idea della luce estiva in montagna, l’aria tersa e il tempo lento. Mario Schifano (Homs, 1934 - Roma, 1998) è, invece, presente in mostra con un suo monocromo, «Piazzale solo» del 1970 (smalti su carta intelata, 120 x 120 cm); Lucio Fontana con un suo «Concetto spaziale» del 1966 (81 x 100 cm, pittura ad acqua su tela), una sequenza di buchi su fondo verde. Mentre di Salvo (Leonforte, 1947 – Torino, 2015) è esposto «25 Siciliani» del 1976 (olio su tavola, 23 x 30 cm), una piccola mappa della Sicilia, sua terra natale, su fondo e toni di verde.
A chiudere la carrellata, o meglio ad aprirla, è un lavoro di Mark Rothko (Latvia, 1903- New York, 1970): «Untitled» del 1964 (olio su carta intelata, 64,7 x 50,1 cm). L’artista crea, qui, un legame intimo e intenso con lo spettatore. Guardare la sua opera è come aprire una finestra sull’infinito e sull’incomprensibile. Non ci sono forme né figure, la superficie è divisa in rettangoli orizzontali, il colore verde domina con una forza ipnotica e totale. Si apre così a Torino un viaggio nel colore, che è anche un’esperienza contemplativa, dove grande protagonista è il mondo delle emozioni.

Didascalie delle immagini
1.Mark Rothko (Latvia, 1903- New York, 1970), Untitled, 1964. Olio su carta intelata, 64,7 x 50,1 cm. Collezione privata, Torino; 2. Giulio Boetto (Torino, 1894 – 1967), Verso il pascolo, 1927. Olio su tavola, 93 x 73cm. Collezione privata, Torino; 3. Lucio Fontana (Rosario di Santa Fé 1899 - 1968 Varese), Concetto Spaziale, 1964-1965. Acquerello su carta - 60 x 50 cm. Courtesy Collezione privata, Torino; 4. Giulia Crespi “Cerana” (documentata a Milano dal 1610 al 1628), Sant’Isidoro. Olio su tela, cm 87.5 x 66.5. Courtesy Robilant+Voena    

Informazioni utili

Forever Green. Ersel – Palazzo Ceriana, piazza Solferino, 11 - 10121 Torino. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9 alle ore 18. Ingresso libero. Fino al 26 novembre 2021