ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 28 ottobre 2024

«Convito di vetro», alle Gallerie dell'Accademia di Venezia gli artisti muranesi «colloquiano» con il Veronese

È uno dei quadri più iconici delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ed è anche la scena di banchetto più emblematica del Rinascimento veneziano e dell’intera storia dell’arte. Stiamo parlando del grande telero «Convito in casa di Levi», capolavoro di Paolo Caliari detto il Veronese (Verona, 1528 - Venezia, 1588) realizzato nel 1573 su commissione dei religiosi domenicani per il refettorio del convento veneziano dei Santi Giovanni e Paolo in sostituzione di una tela di analogo soggetto dipinta da Tiziano e bruciata in un incendio due anni prima.
Ispirato all'episodio biblico dell'«Ultima cena», l’olio su tela di grandi dimensioni (settanta metri quadrati di superficie dipinta su una tela di 560 x 1309 centimetri) affronta il tema con uno stile mondano e festoso, già sperimentato dall’artista veneto a partire dalle «Nozze di Cana» del 1563, tela oggi conservata al Louvre di Parigi.

Proprio la frizzante convivialità della scena raffigurata con colori chiari e luminosi, e con il chiaroscuro ridotto al minimo, all’interno di una cornice architettonica monumentale di ispirazione classicheggiante, che vedeva la presenza di figure inconsuete come il servo che perde sangue dal naso, il buffone nano con il pappagallo, gente ebbra e persino alcuni alabardieri «armati alla tedesca», costrinse il Veronese a fronteggiare le accuse di eresia da parte del tribunale della Santa Inquisizione.
In sua difesa l’artista dichiarò, con ostentata ingenuità: «nui pitori si pigliamo la licentia che si piglino i poeti et i matti. Se nel quadro vi avanza spacio io l’adorno di figure, secondo le inventioni». Il Veronese difese cioè il proprio diritto a usare la fantasia e a inserire personaggi di «ornamento» alla scena centrale, stando tuttavia attento a porre tutte le figure più fantasiose all’esterno dello spazio occupato da Cristo.
Obbligato comunque a emendare in tre mesi gli «errori» contenuti nel dipinto, di fatto già ultimato, il pittore ovviò al problema trasformando quella che doveva essere un'«Ultima Cena» in un «Convito a casa di Levi», esplicitando in primo piano il riferimento a un altro passo biblico, tratto dal quinto capitolo del vangelo di Luca (7, 36-50), con l’iscrizione «Fecit D. Covi. Magnu. Levi – Lucae Cap. V.».
«C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”»: sono, queste, le parole evangeliche a cui il pittore veneto dà colori e forma con la sua arte. Un’arte da cui sprigiona «un senso di letizia, di giovinezza, di calma appagante», «il pieno abbandono all’incanto del colore puro, fresco, primaverile, […] vibrante alla luce d’un cielo sereno», scriveva Adolfo Venturi all’inizio del Novecento nel suo manuale di storia dell’arte.

Chi, in questi giorni, visita le Gallerie dell’Accademia di Venezia vede il capolavoro del Veronese, saccheggiato dai francesi alla fine del XVIII secolo per essere esposto al Musée Napoleon di Parigi (a partire dal 1797) e restituito all’Italia nel 1815, in una veste inedita, ovvero utilizzato come scenografica quinta teatrale di un’opera site-specific dal forte impatto visivo: «Convito di vetro». Si tratta di un opulento tavolo delle meraviglie lungo otto metri per due su cui sono esposti, in uno stringente gioco di rimandi con il «Convito a casa di Levi», oltre duecento manufatti tra brocche, bottiglie, calici, bicchieri, caraffe, decanter, alzate, vasi, candelieri, ciotole e bomboniere, ma anche fiori, ortaggi e frutta, disegnati da ventisette designer e realizzati a Murano nell’arco di circa un secolo, dagli anni Venti del Novecento ai giorni nostri. Le lastre di vetro su cui sono allestiti i trentadue servizi, provenienti da collezioni pubbliche e private, esaltano il riflesso e i colori scintillanti del vetro; mentre la tovaglia bianca è un richiamo visivo al vicino dipinto del Veronese.

Dopo «Cristiano Bianchin, Figure» (2018), «Ritsue Mishima – Glass Works» (2022) e «Laura De Santillana. Oltre la materia» (2023), il museo veneziano ha così aperto ancora una volta le porte alla «Venice Glass Week» - evento settembrino che anima ogni angolo della città celebrando la sapiente cultura artistica, artigiana e industriale muranese - e, questa volta, lo ha fatto avvalendosi della collaborazione della Pentagram Stiftung e della curatela di Sung Moon Cho, storica dell’arte specializzata in servizi da tavola del Novecento.
 
Vale la pena sottolineare che, fin dall’inizio dell’attività, Murano ebbe un ruolo fondamentale nell’arte del vetro da tavola, in particolare nei secoli XV-XVI, quando le fornaci presenti sull’isola tradussero in vetro il linguaggio classico del tempo, ampliando al contempo la gamma degli oggetti di uso domestico realizzati. Nei dipinti veneziani rinascimentali, di cui alcuni notevoli esempi sono conservati alle Gallerie dell’Accademia, si possono osservare diverse tipologie di questi oggetti: bicchieri, calici, brocche, caraffe, piatti, coppe e compostiere, che ispirarono, all’inizio del XX secolo, una vera e propria rinascita estetica del vetro da tavola di Murano. È anche questa la storia che viene raccontata dall’installazione a cura di Sung Moon Cho, che ha scelto come criterio espositivo l’ordine cronologico, invitando i visitatori all’osservazione in senso orario.

La prima sezione è dedicata alla V.S.M. Cappellin Venini & C., fondata nel 1921 e protagonista del primo movimento di modernizzazione. Sensibili al nuovo interesse per il linguaggio classico e consapevoli del cambiamento di gusto verso la sobrietà che stava dominando le nuove residenze borghesi, Paolo Venini e Giacomo Cappellin – con il loro direttore artistico, il pittore Vittorio Zecchin - diedero vita a un nuovo repertorio di servizi da tavola in vetro, dalle forme sobrie ed essenziali, di grande raffinatezza anche per l’uso di colori delicati e discreti (come il fumé, l’ambra, il pagliesco, l’ametista, l’azzurro e il verdognolo), in un evidente richiamo alla tradizione vetraria del Cinquecento. Emblematico di questo nuovo stile è il cosiddetto vaso «Veronese», disposto al centro della tavola in quattro varianti, che i maestri vetrai muranesi realizzarono prendendo come modello il vaso con piede e collo allungato dipinto nell’«Annunciazione» (1580) del maestro veneto, conservato alle Gallerie dell’Accademia.

La sezione successiva è, invece, dedicata agli anni Trenta, periodo in cui il gusto stava evidentemente evolvendo verso forme più geometriche nonché colori vivaci e audaci, grazie all’apporto di due grandi artisti quali Carlo Scarpa e Napoleone Martinuzzi. Entrambi diedero un notevole contributo alla rinascita del vetro da tavola, sperimentando e reinventando varie tecniche antiche di Murano, come è evidente nei portacandele «Fungo» in vetro sommerso o corroso, nel servizio in mezza filigrana o nella coppa interamente realizzata in pasta vitrea rossa.

Proseguendo il nostro viaggio nel tempo, nei decenni successivi alla Seconda Guerra mondiale e fino agli anni Ottanta, la creatività di designer italiani e stranieri rivitalizzò la produzione di oggetti da tavola in vetro a Murano, come dimostra la terza sezione, con un focus sulla fornace di Paolo Venini, che svolse un ruolo pionieristico nell'instaurare un legame tra design e artigianato, collaborando con importanti designer milanesi come Gio Ponti e Massimo Vignelli, ma anche con l’americano Charles Lyn Tissot. Della famiglia Venini sono esposti anche i lavori di Ludovico Diaz de Santillana e di Laura de Santillana, della quale si può ammirare un suo raro e unico servizio da tavola (denominato «Sei sensi»), che non è mai stato mostrato finora in Europa.

Mentre per il periodo che va dagli anni Novanta a oggi, la mostra presenta artisti dai profili più diversi, alcuni dei quali introducono una rinnovata consapevolezza del tema attuale della sostenibilità e del riciclo dei materiali o della salvaguardia della tradizione dell’arte vetraria muranese, in pericolo di estinzione. Per gli anni Duemila, si evidenzia il contributo di artisti visivi che impiegano il vetro come mezzo privilegiato quali Maria Grazia Rosin e Tristano di Robilant. Mentre l’oggi è rappresentato da designer quali Stories of Italy, T Sakhi – Tara & Tessa Sakhi e YALI Glass, i cui oggetti, adattati alle esigenze contemporanee, consentono di apprezzare la qualità e la storia dell'artigianato muranese nella vita quotidiana. Infine, Lilla Tabasso (1973) e Bruno Amadi (1946) decorano il centro della tavola con fiori e verdure dalle forme meravigliosamente realistiche, frutto della lavorazione a lume. I loro sono manufatti emblematici di una storia che si rinnova giorno dopo giorno, rimanendo sempre attenta al bello e all’artigianalità.

Vedi anche 
Venezia, restaurato il polittico di Santa Chiara di Paolo Veneziano
 
Didascalie delle foto
Vista della mostra «Convito di vetro» nella sala X delle Gallerie dell'Accademia a Venezia. Fotografie di Matteo De Fina

Informazioni utili 
Gallerie dell’Accademia, Campo della Carità 1050 – Venezia. Orari di apertura: lunedì, dalle ore 8:15 alle ore 14:00 (la vendita dei biglietti termina alle ore 13:00); da martedì a domenica, dalle ore 8:15 alle ore 19:15 (la vendita dei biglietti termina alle ore 18:15). Biglietti; intero € 15.00, ridotto € 2.00 (giovani 18 -25 anni cittadini dell'UE e acquisto con 18app), gratuito per i minori di 18 anni; Prima mattina € 10,00 (biglietto individuale acquistabile tra le 8:15 e le 9:00 con ultimo ingresso entro e non oltre le 9:15); Due giorni € 22,00 (biglietto individuale valido 2 giorni nell’anno solare); Arteritivo € 10,00 (biglietto individuale dedicato ai giovani tra i 26 e i 35 anni non compiuti, valido tutti i venerdì tra le 17:15-19:00; ultimo ingresso entro e non oltre le 18:15); Insieme € 12,00 (biglietto individuale dedicato ai gruppi tra i 10 e i 25 adulti sopra i 26 anni). L'accesso alle mostre è consentito con lo stesso titolo d'accesso. In occasione di esposizioni temporanee il prezzo del biglietto è suscettibile di variazioni. Per maggiori informazioni: https://www.gallerieaccademia.it/informazioni


venerdì 25 ottobre 2024

Roma: riapre al pubblico la Loggia dei Vini, un gioiello restaurato nel parco di Villa Borghese

Il Barocco incontra l’arte contemporanea. Succede a Roma, negli spazi di Villa Borghese. L’occasione è offerta dalla presentazione al pubblico della prima parte dell’intervento di restauro conservativo che sta interessando la Loggia dei Vini, originale ed elegante architettura a pianta ovale impreziosita da decorazioni e affreschi, edificata tra il 1609 e il 1618, sotto la direzione prima di Flaminio Ponzio e poi di Giovanni Vasanzio, per volontà del cardinale e collezionista d’arte Borghese Scipione (1575-1633), nipote di papa Paolo V (1605-1621), e utilizzata, durante il periodo estivo, per riunioni e feste conviviali, nelle quali si servivano, al fresco della penombra, vini pregiati e prelibati sorbetti.

In questo luogo, definito dalle fonti coeve il «tinello de’ li gentil’ homini», è stato allestito, per essere visibile per tutto l’autunno e per buona parte dell’inverno, il progetto d’arte contemporanea «Lavinia», a cura di Salvatore Lacagnina, con opere site specific degli artisti Ross Birrell & David Harding, Monika Sosnowska, Enzo Cucchi, Gianni Politi, Piero Golia e Virginia Overton. Il titolo della rassegna – che prevede anche performance, letture, laboratori e attività didattiche, orchestrate secondo una narrazione unitaria – è un omaggio alla pittrice manierista Lavinia Fontana, tra le prime artiste riconosciute nella storia dell’arte, presente nella collezione Borghese dai primi del Seicento.

Proposto con l’intento di valorizzare i restauri appena terminati che hanno interessato la volta interna, con le cornici in stucco e l’affresco centrale del pittore urbinate Archita Ricci, nonché i pilastri danneggiati da infiltrazioni d’acqua e la scala semicircolare di accesso al padiglione, il progetto espositivo «aspira – nelle intenzioni del curatore, esplicitate in una nota stampa - a entrare silenziosamente nella vita quotidiana. Si rivolge a chi passeggia nel parco, evitando qualsiasi forma di auctoritas. Mette in discussione le nozioni di arte pubblica e di tradizione, il rapporto fra arte e architettura, apre al potenziale dello storytelling».

A scendere in campo per il restauro, nello spirito dei mecenati di un tempo, è stata, in occasione dei centotrenta anni dalla sua fondazione, l’azienda Ghella, colosso multinazionale nel campo delle costruzioni con oltre seimila dipendenti in quindici Paesi e in quattro continenti quali Oceania, Europa, America ed Estremo Oriente, che intende farsi promotrice di nuovo modello di sviluppo, più sostenibile e orientato al benessere collettivo.
La cura scientifica e l’effettiva realizzazione dell’intervento conservativo, che nei prossimi anni interesserà anche il ripristino dell’emiciclo e della sua pavimentazione in cotto, portano, invece, la firma, rispettivamente, della Sovrintendenza capitolina ai Beni culturali e di R.O.M.A. Consorzio.

Da tempo chiusa al pubblico, e già interessata da un intervento di restauro negli anni Sessanta del Novecento, la Loggia dei Vini fa parte di un complesso architettonico che comprende anche la sottostante Grotta, destinata alla conservazione della «copiosissima dispensa di nettari e d’ambrosie», per usare le parole dello scrittore seicentesco Jacomo Manilli, ed è collegata alle cucine del Casino Nobile di Villa Borghese attraverso un passaggio sotterraneo.

L’edificio costituiva lo scenografico fondale di uno dei viali laterali del parco e risultava ben visibile a tutti gli ospiti che si recavano in visita dal cardinale Scipione Borghese.
Attraverso un percorso ombroso si accedeva tramite una scala a doppia rampa all’invaso del padiglione, delimitato – scriveva sempre Jacomo Manilli, nel 1650 - da alti muri ricoperti d’edera, «tappezzeria proporzionata all’habitazione del Dio Bacco».

L’originaria sontuosità del complesso è testimoniata dalle fonti letterarie del tempo - tra le quali il libro «Villa Borghese fuori di Porta Pinciana», scritto nel 1700 da Domenico Montelatici - che ricordano la presenza di due sfingi egizie poste ai lati della rampa di accesso all’invaso, oggi alla Ny Carlsberg Gliptotek di Copenaghen, di una fontana rustica incassata nel sottoscala con una statua di divinità fluviale, di cui restano oggi alcuni «tartari» dell’originaria scogliera, e di otto grandi uccelli in peperino, collocati a coronamento della copertura, opera dei fratelli scalpellini Agostino e Belardino Radi, insieme a Lorenzo Malvisti. Lungo il perimetro dell’invaso erano poste due tavole marmoree destinate a «credenza e bottiglieria», mentre al centro della loggia era collocato un grande tavolo di marmo bianco, anch’esso realizzato dai fratelli Radi e da Lorenzo Malvisti, su cui erano stati praticati degli incavi, in cui scorreva acqua per mantenere fresche le bevande nei bicchieri. Per stupire ulteriormente i commensali era stato, infine, montato un congegno meccanico sul soffitto, che consentiva di riversare una pioggia di petali profumati sugli ospiti al termine del convito.

L’interno, al quale il restauro ha tolto la patina grigia del tempo, era riccamente ornato grazie a vari interventi e a differenti artisti. A tal proposito, tra il 1612 e il 1613 è attestata la presenza in cantiere dello scalpellino Vincenzo Soncino. Al 1617 risale, invece, la realizzazione della decorazione a stucco dei pennacchi e della cornice ovale dell’affresco sulla volta, riferibile ai fratelli Marcantonio e Pietro Fontana, in associazione con Santi Fiamberti; i due mastri muratori e stuccatori era attivi nei medesimi anni in diversi altri cantieri legati alla committenza della famiglia Borghese, tra cui la cappella Paolina al Quirinale, la chiesa di San Crisogono e l’Uccelliera.

Nello stesso anno arrivò alla Loggia dei Vini anche il pittore urbinate Archita Ricci, attivo in quel periodo nella chiesa di San Sebastiano fuori le Mura e in diversi altri cantieri di committenza della famiglia Borghese. Porta la sua firma il «Convito degli dei», affresco realizzato tra il 1617 e il 1618, che ripropone l’iconografia tradizionale con le divinità dell’Olimpo sedute intorno a una tavola in marmo imbandita. «A capotavola, sulla sinistra della scena, - racconta Sandro Santolini nella scheda di restauro - siedono Giove e Giunone, figure purtroppo quasi del tutto scomparse, con il coppiere Ganimede, che porge loro il vino. Seguono Plutone, Apollo, Diana, Mercurio, figura oggi completamente perduta, Marte e Venere con Cupido. Completano la scena i tre amorini in volo che versano vino e gettano fiori sulla tavola».

Secondo la descrizione di Domenico Montelatici, fondamentale per la ricostruzione iconografica degli affreschi, il pittore aveva realizzato non solo «il convito degli dei, entro un ovato abbellito intorno da festoni di stucco di gentil lavoro», ma anche, sulle pareti tra gli archi, «nove Muse di natural grandezza con Istromenti musici nelle mani». Questi ultimi affreschi, così come quelli nelle vele con gli emblemi araldici della famiglia Borghese, l’aquila e il drago, sono quasi totalmente andati persi. In fase di restauro, racconta ancora Sandro Santolini, le superfici sono state così «tinteggiate a calce e successivamente patinate ad acquerello per armonizzarle con il conteso originale».

Dopo il Giardino delle Erme, viene, quindi, aperto a Roma un altro prestigioso spazio di Villa Borghese: la Loggia dei Vini. «Questo - ha raccontato l’assessore alla Cultura Miguel Gotor - è un importante tassello della riqualificazione del nostro patrimonio storico e artistico, in cui l’arte contemporanea si affianca al restauro di uno spazio pubblico. Con questa riapertura portiamo avanti due delle principali missioni culturali che Roma Capitale ha perseguito con questa amministrazione: la valorizzazione dei luoghi e la promozione culturale».

L’occasione è, dunque, da festeggiare, magari nello spirito del cardinale Scipione Borghese, con un sorbetto di frutta e ghiaccio tritato, come quello all’«arancia e erba cedrina» realizzato per l’occasione dalla gelateria Pellegrino di Roma, un piccolo piacere da assaporare in un luogo di delizia e convivialità del Barocco romano, dove il gusto incontrava, e ancora oggi incontra, l’arte.

Vedi anche 

Didascalie delle immagini 
[fig.1 ] Loggia dei vini, Villa Borghese, crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella; [fig. 2] Restauro, Loggia dei Vini - Particolare, Villa Borghese, Roma. Crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella; [fig. 3] Restauro, Loggia dei Vini - Particolare, Villa Borghese, Roma. Crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella; [figg. 4 e 5] Loggia dei vini. Foto Monkeys Video Lab; [fig. 6] Enzo Cucchi, No title, 2024. Opera per il progetto Lavinia alla Loggia dei Vini di Villa Borghese a Roma. Crediti fotografici: il posto del calzino; [fig. 7]  Piero Golia, Fontana, LAVINIA (Blue), 2024. Opera per il progetto Lavinia alla Loggia dei Vini di Villa Borghese a Roma.Crediti fotografici: il posto del calzino; [fig. 8] Gianni Politi, sentimento latino, 2024. Opera per il progetto Lavinia alla Loggia dei Vini di Villa Borghese a Roma.Crediti fotografici: il posto del calzino

Informazioni utili 
Lavinia - Loggia dei Vini a Villa Borghese (Roma). Orari: dal giovedì alla domenica dalle 9:00 alle 19:00 fino alla chiusura della mostra; dalle 9:00 alle 17:00 dal 27 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025. Ingresso gratuito. Informazioni: https://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/ville_e_parchi_storici/ville_dei_nobili/villa_borghese. Fino al 26 gennaio 2025

giovedì 24 ottobre 2024

Matera ritrova Palazzo Lanfranchi, il suo Museo nazionale d’arte medioevale e moderna

È conosciuta come «la città dei sassi» per via del suo nucleo urbano originario, dichiarato nel 1993 Patrimonio mondiale dell’Umanità da Unesco, che si sviluppa a partire dalle grotte naturali scavate nella roccia e successivamente modellate in strutture sempre più complesse all’interno di due grandi anfiteatri naturali quali il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano. Ma Matera, piccolo gioiello della Lucania dalla «dolente bellezza», definita da Carlo Levi «espressiva e toccante», ha ancora molte carte da giocare per attirare i turisti, malgrado gli evidenti problemi di collegamento ferroviario e aeroportuale. Lo ha dimostrato tutte le volte che le sue abitazioni rupestri sono state scelte come location per film importanti, da «Il Vangelo secondo Matteo» (1964) di Pier Paolo Pasolini a «Cristo si è fermato ad Eboli» (1979) di Francesco Rosi, da «L'uomo delle stelle» (1995) di Giuseppe Tornatore a «La Passione di Cristo» (2004) di Mel Gibson, da «Il sole anche di notte» (1990) di Paolo e Vittorio Taviani a «007 No time to die» (2019) di Cary Fukunaga, con Daniel Craig nei panni dell’agente segreto più famoso del cinema. E lo ha dimostrato anche nel 2019, l’anno in cui è stata Capitale europea della Cultura, affascinando il pubblico internazionale con la sua antica anima di tufo, un vero e proprio presepe, che le ha fatto dare l’appellativo di «Betlemme d’Italia», costruito attorno alla Cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant’Eustachio, nel quale le case si sovrappongono l’una all’altra aprendosi e dischiudendosi su cortili, scalinate, vicoli e piazze, e dove molti edifici sono stati riqualificati per ospitare raffinati boutique hotel, ristoranti tipici, botteghe artigiane.

Matera, con il suo «velo di poesia e di malinconia», per dirla con le parole di Giovanni Pascoli, è, dunque, di per sé un museo a cielo aperto e offre molti itinerari agli amanti della cultura, dal circuito delle chiese rupestri (a partire dalla splendida Cripta del peccato originale, denominata «la Cappella Sistina della pittura parietale su roccia») al Palombaro Lungo (un’enorme cisterna fatta costruire nell’Ottocento) e al Castello di Tramontano, senza dimenticare i tanti musei, che consentono di far un viaggio che spazia dal Paleolitico all’età medioevale, dall’arte moderna alle nuove frontiere del multimediale. È il caso del Museo nazionale «Domenico Ridola», di Casa Ortega, del Musma – Museo della scultura contemporanea a Palazzo Pomarici o, ancora, di Casa Noha, bene protetto dal Fai – Fondo per l’ambiente italiano, che narra una storia millenaria scritta su una roccia friabile e porosa come il tufo attraverso un inedito e avvincente viaggio multimediale che narra il territorio da diverse prospettive - dall’architettura alla storia dell’arte, dall’archeologia al linguaggio cinematografico – con il documentario «I Sassi invisibili - Viaggio straordinario nella storia di Matera» di Giovanni Carrada.

A questo percorso tra i musei si è aggiunto, da qualche giorno, Palazzo Lanfranchi, elegante edificio progettato tra il 1668 e il 1672 dal frate Francesco da Copertino su commissione del vescovo Vincenzo Lanfranchi, che dal 2003 ospita il Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata. Dopo un significativo intervento di restauro e valorizzazione degli spazi espositivi, questo prezioso scrigno del Barocco materano ha riaperto i battenti con un rinnovato percorso espositivo.

I lavori di riqualificazione hanno coinvolto, in questi ultimi anni, sia le superfici architettoniche esterne, su cui ora risaltano i dettagli originali, incluse le rime epigrafiche sugli architravi delle finestre (anche grazie a un progetto di illuminotecnica valoriale a Led), sia gli interni dell'edificio, con una particolare attenzione all’accessibilità e alla valorizzazione delle opere, anche grazie all’utilizzo delle tecnologie multimediali.

Al piano terra di Palazzo Lanfranchi, sono state inaugurate due nuove sale dedicate alle opere di altrettanti maestri dell’arte del Novecento: una con i lavori di Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975) - compresa la monumentale tela «Lucania '61» -, che ha visto la curatela Daniela Fonti, e l'altra con centocinquanta tele di Luigi Guerricchio (Matera, 1932-1996), a cura di Maria Adelaide Cuozzo. Al primo piano, invece, sono fruibili la sezione «Arte del territorio», che riunisce un gruppo di opere locali di arte sacra dal Medioevo al Settecento, e la prestigiosa collezione di pittura napoletana seicentesca raccolta nell'Ottocento da Camillo d’Errico, la cui esposizione si avvale della curatela di Stefano Causa.
 
Una delle grandi innovazioni di questa riapertura è l’introduzione di tre nuove sale multimediali. La prima è una camera immersiva che, grazie a una sapiente combinazione di arte, creatività e intelligenza artificiale (AI), permette un’interazione unica con i dipinti di Carlo Levi. La visita alle sale che ospitano le opere di Luigi Guerricchio è, invece, introdotta da una video-narrazione a cura dell’artista, attraverso un racconto biografico pensato per catturare l’attenzione del visitatore.

Infine, la sala dedicata alla pinacoteca di Camillo d'Errico offre un’esperienza multisensoriale che arricchisce la fruizione delle opere della celebre collezione con una grande proiezione a tutta parete. 
Due tavoli multimediali touch screen dedicati alla gamification e un’imponente riproduzione del telero «Lucania ’61» di Carlo Levi, dipinto in occasione della mostra «Italia 1961», organizzata a Torino per celebrare il Centenario dell’Unità d’Italia, e ora ricostruito con l’impiego di oltre 220.000 mattoncini LEGO®, aspettano, invece, i piccoli visitatori nella nuova sala didattica, progettata integrando strumenti tecnologici al rinnovato allestimento degli arredi. Si tratta di un esempio unico di come la combinazione di tecnologia, design e creatività possa dare vita a spazi didattici innovativi e multifunzionali, adatti a un pubblico eterogeneo, nel pieno rispetto delle finalità culturali del museo lucano, che intende essere sempre più inclusivo e partecipativo.

Palazzo Lanfranchi si configura così come un punto di riferimento imprescindibile per l’arte e la cultura di Matera e della Basilicata, una tappa obbligatoria per chi voglia vedere come l’intelligenza artificiale può essere utilizzata per raccontare il nostro patrimonio.

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