ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 6 novembre 2024

«Arte, fantasia, colore»: al teatro Biondo di Palermo una mostra su Santuzza Calì

Ha disegnato i costumi e le scene di più di duecentocinquanta spettacoli di prosa, opera lirica e teatro per bambini, collaborando con registi come Tonino Conte, Gianfranco De Bosio, Franco Enriquez, Vittorio Gassman, Ermanno Olmi, Aldo Trionfo, Paolo Poli e Maurizio Scaparro. Ha lavorato come illustratrice di libri per Emme Edizioni e Rai Eri regalando il suo inconfondibile segno a testi come «Le filastrocche del cavallo rampante» di Gianni Rodari, «L’amore delle tre melarance» di Torino Conte, «Storie senza tempo» di Alberto Manzi, «L’albergo della fantasia» di Antonella Tarquini e «Il mondo alla rovescia» di Donatella Ziliotto. Ha portato il suo estro di costumista e scenografa anche sul grande schermo in un film come «La parola segreta» di Stelio Fiorenza (1988). Ha vinto premi prestigiosi quali il Gassman - I teatranti dell’anno, l’Eti, l’Ubu della critica e Le maschere del teatro. Ha inventato anche una tecnica artistica, quella del meta-collage, che fonde insieme legno e metallo. Santuzza Calì (Pulfero - Udine, 28 marzo 1934), madre friulana e padre siciliano, ha avuto una vita intensa alla quale hanno fatto da filo rosso tre parole, le stesse scelte come titolo per il catalogo ragionato del suo archivio alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, appena pubblicato da Silvana editoriale: «arte, fantasia, colore».

Nipote della pittrice Pina Calì, notevole esponente della pittura siciliana degli anni ’30, e di Silvestre Cuffaro, scultore dalla potente impronta etica, l’artista è partita giovanissima da un paesino friulano di poche centinaia di anime sulle sponde del Natisone, Pulfero, alla conquista del mondo. In un periodo in cui era raro vedere una ragazza della provincia italiana viaggiare in Europa, agli inizi degli anni Sessanta, lei si diploma all’Accademia di Belle arti di Palermo e, poi, parte per Salisburgo, dove frequenta la «Scuola del Vedere» di Oskar Kokoschka, il padre dell’Espressionismo nordico, la cui pittura racconta l’asperità del vivere. Ne diventa assistente; impara da lui a «vedere, osservare, guardare» la realtà, portandosi a casa una profezia che sarebbe diventata realtà: «Tu farai teatro».
Poi, dopo un seminario estivo a Venezia con Le Courbusier, la giovane parte, con una borsa di studio, per l’America, mossa dalla curiosità, dalla brama di studiare, di conoscere altra gente e altre realtà.

Bisogna aspettare il 1969 per il secondo incontro importante di Santuzza Calì, quello con l’amico e collega Lele Luzzati, un rapporto «così speciale e unico che – racconta la scenografa e costumista friulana - fa parte dei miracoli e dei segreti della mia vita». La loro collaborazione è considerata tra le più feconde e proficue della scena teatrale italiana; i due artisti, ugualmente raffinati e fantasiosi, si capiscono al volo: «sembrava che lavorassimo gomito a gomito controllando ogni sfumatura di colore, - racconta ancora Santuzza Calì - ma non è mai stato così. Dopo brevi accordi ci impegnavamo su uno stesso progetto, lontani, in mari diversi, lui in quello ligure, io in quello mediterraneo – in Sicilia o su un’isola greca».

Le porte del teatro sono aperte e l’arte della scenografa e costumista di Pulfero, che unisce una vasta cultura figurativa con una straordinaria abilità artigianale e una spiccata intelligenza nella collaborazione con le maestranze del palcoscenico, incrocia anche la storia dell’opera lirica, un genere musical-teatrale che lei aveva imparato da piccola grazie al nonno paterno: «mi faceva sentire le arie di Mozart, Rossini, Verdi… e mi raccontava le storie – racconta Santuzza Calì -. Così per capirle meglio facevo piccoli teatrini con dentro piccoli personaggi colorati di rosso, verde e blu. Erano di carta e li muovevo con i fili. Non mi ricordo se immaginavo o no di continuare da grande a fare questo gioco».
Le sue creazioni fatte di fantasia, artigianalità e manualità, ma anche di un attento studio dei testi e del carattere dei personaggi, salgono così su palcoscenici importanti come La Fenice di Venezia, il Massimo di Palermo, il Carlo Felice di Genova, il San Carlo di Napoli, il Regio di Torino, il Rossini Opera Festival di Pesaro, il Maggio musicale Fiorentino, il Ciclo verdiano di Parma, i teatri dell’Opera di Vienna, Strasburgo, Parigi, Ginevra, Losanna, Stoccolma, Oslo, Atene e Zurigo.

Santuzza Calì, che oggi ha novant’anni e che tre anni fa si è trasferita a Sperlinga (in provincia di Enna), dopo una vita passata a Roma, è stata instancabile e tuttora studia, disegna, inventa. Lo dimostra il catalogo ragionato della sua attività, appena pubblicato da Silvana Editoriale. E lo documenta anche l’antologica che le dedica fino alla fine dell’anno il teatro Biondo di Palermo. Curata da Giovanna A. Bufalini, Paola Tosti, Laura Zanca e Giulia Barbera, con la collaborazione della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, l’esposizione allinea acquerelli, bozzetti, figurini, costumi, oggetti di scena che raccontano in sintesi i momenti più significativi di una storia creativa durata più di cinquant’anni, dal 1969 a oggi.

«In tutta l’opera di Santuzza Calì – sottolinea una delle curatrici, Giovanna A. Bufalini – prevale il gusto del colore, che dà vita alla sua visione del mondo. Un costume non è mai solo un costume, è un’opera pittorica; un tessuto non è mai solo un tessuto, ma si stinge o si arricchisce di una velatura di azzurro, o di un effetto stencil. Ogni costume è un’opera a sé. Una piccola gobba in più, qualche centimetro in meno di un pantalone, sono rivelatori di una sottile ironia nei confronti del personaggio, mentre un costume che si trasforma in una scenografia diventa a volte un inatteso intervento registico».

«Il talento di Santuzza Calì sta tutto nell’estro e nella potenza creativa – le fa eco Maria Ida Biggi, direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia - che riesce a esprimere con il genio della combinazione dei colori, della scelta dei tessuti e delle tecniche di montaggio che servono per immaginare le caratteristiche del personaggio. Tutta la sua creatività appare attraverso una lente deformante, in cui i riferimenti filologici, spesso, si possono scoprire sotto la fantasia, piuttosto che nella ricerca di ricostruire un’epoca storica. La sua invenzione si rafforza attraverso il costante confronto con il regista e con lo scenografo, con i quali, di frequente, basta uno sguardo, una parola, una lunghezza d’onda, come lei stessa riferisce».

Completa il percorso espositivo una selezione di manufatti realizzati da Santuzza Calì con Gabriella Saladino nello Studio di via Maqueda a Palermo. Le due artiste hanno prodotto per anni un artigianato di altissima qualità: i «giocattoli» di cartapesta, le teline con «il mondo alla rovescia», le maschere, i metal-collage sembrano pensati per bambini di altri tempi, appartengono a una dimensione in cui il mondo è buono e la cattiveria diventa quasi comica. Un mondo in cui la fantasia è al potere.

Vedi anche

Didascalie delle immagini
1. Figurino per O Cesare o nessuno di Vittorio Gassmann, 1974. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 2. Figurino per I tre moschettieri di Alexandre Dumas, 1970. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 3. Bozzetto per Una tranquilla dimora di campagna di Stanislaw Witkiewicz, 1975. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 4. Figurino per La zia di Carlo di Brandon Thomas, 1994. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini; 5. Figurino per Le mille e una note di Gigi Palla da Antoine Galland, 2007. Archivio Santuzza Calì, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini

Informazioni utili
Santuzza Calì – Acquerelli, bozzetti, figurini, costumi. Teatro Biondo - Palermo. Apertura al pubblico: da martedì a sabato dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00, domenica dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 15:00 alle 19:00; lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 091.7434331 o 091.7434345. Sito web: https://www.teatrobiondo.it. Fino al 29 dicembre 2024.

martedì 5 novembre 2024

«Short & Sweet», a Bologna la fotografia documentarista di Martin Parr

«Si può imparare di più sul Paese in cui si vive da un comico che dalla conferenza di un sociologo». È racchiuso in queste parole il senso del lavoro di Martin Parr, uno dei fotografi documentaristi britannici più affermati e riconosciuti del nostro tempo, che con le sue immagini, dallo stile ironico e disincantato, ci offre una prospettiva sempre unica e spesso provocatoria della società contemporanea. Il suo sguardo sulle cose, reso attraverso l’utilizzo di colori vivaci e un’attenzione quasi maniacale al dettaglio perfetto, consegna, infatti, ai nostri occhi il ricordo di momenti - spesso eccentrici, talvolta banali - della vita quotidiana, mostrando un interesse peculiare per il turismo di massa e lo stile di vita dei super-ricchi.

Tra spiagge e danze, tra sandali e unghie posticce, tra feste e turisti con la macchina fotografica sempre in pugno, oltre sessanta fotografie e l’installazione con la fortunata serie «Common Sense», quella della notorietà, realizzata tra il 1995 e il 1999, ripercorrono, nelle sale del Museo archeologico di Bologna, la carriera del «fotografo-antropologo» di Epsom, classe 1952, che dal 1994 fa parte della prestigiosa agenzia Magnum Photos, fondata nel 1947 a New York da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David ‘Chim’ Seymour e William Vandivert.

«Short & Sweet» è il titolo della mostra, curata dallo stesso fotografo inglese e già presentata al Mudec di Milano, che offre al visitatore anche un'intervista realizzata dalla storica e critica della fotografia Roberta Valtorta.

Attraverso una cronaca fotografica senza filtri e fuori dalla retorica, il percorso espositivo si apre «in bianco e nero» con la prima serie realizzata da Martin Parr, allora appena ventitreenne, insieme alla compagna (e futura moglie) Susie Mitchell. Si tratta di «The Non-Conformists», con immagini scattate tra il 1975 e il 1980 nelle cappelle metodiste e battiste dell’ex zona industriale del West Yorkshire, le cosiddette «chiese popolari» che si rivolgevano alle persone in difficoltà appartenenti ai ceti proletari per cercare di contrastare il degrado sociale di quei territori di periferia.

Seguendo l’ordine cronologico si incontra, poi, un altro progetto in bianco e nero sviluppato dal fotografo inglese tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta del Novecento: «Bad Weather», che mette il dito nella piaga dell’ossessione britannica per il tempo atmosferico e che ironizza sullo stereotipo secondo il quale bisogna «fotografare solo quando la luce è buona e c’è il sole». Con scanzonata serietà, l’artista si dota di una fotocamera subacquea e riprende acquazzoni, pioggerelline, tempeste di neve tra l’Inghilterra e l’Irlanda, focalizzando l’attenzione più sulle persone che sull’iconico e ben noto paesaggio britannico.

Si arriva così al 1982. Quell’anno nella fotografia di Martin Parr irrompe il colore, ma l’attenzione rimane concentrata sulla cosiddetta working class inglese. Lo prova il primo progetto di successo: «The Last Resort» (1982-1985), un reportage, ironico e crudele, sulle spiagge di Brighton, piccola località balneare in declino vicino a Liverpool, dove andavano in vacanza solo famiglie a basso reddito. Con quei colori vivaci e ipersaturi che sarebbero diventati la sua cifra stilistica, l’artista racconta la fine di un mondo (quello operaio) e dei suoi valori, nonché l'avvento di una nuova concezione consumistica della vita, animata da quella che chiamiamo la «cultura dello spreco».


Lo stesso argomento è al centro dell’installazione «Common Sense», un accumulo di duecentocinquanta fotografie stampate a basso costo su carta in formato A3 con una macchina Xerox, selezionate tra le trecentocinquanta esposte nella mostra omonima del 1999, allestita contemporaneamente in quarantuno sedi di diciassette Paesi, conquistando così il Guinness World Record. Martin Parr propone immagini a colori che, con cinismo e sarcasmo, ritraggono soggetti spesso legati al cattivo gusto e alla volgarità contemporanea. Dalla signora che rosola al sole con dei copri-occhi blu alle ciabattine con le margheritone, dal barboncino tosato con un ciuffetto alla moda alle unghie posticce con i brillantini, senza dimenticare il «cibo spazzatura» da asporto: quello che sfila davanti agli occhi del visitatore è un tripudio giocoso, colorato e molto dettagliato del kitsch.

Seguendo sempre il filo cronologico, si arriva alla serie «Small World» (1989-2008), una riflessione sul turismo di massa, quello che porta tutti a visitare gli stessi posti sparsi per il mondo, anche grazie allo sviluppo degli aerei di grandi dimensioni e delle compagnie aeree a basso costo, per comprare souvenir di dubbio gusto e scattare fotografie all’impazzata da far vedere, una volta tornati a casa, a parenti e amici.
 
Insieme al turismo c’è, poi, il tema del ballo con la serie «Everybody Dance Now» (1986-2018). Da San Paolo in Brasile alle isole scozzesi, Martin Parr ha fotografato per oltre trent’anni, tra il 1986 e il 2018, svariati tipi di ballo, lezioni di aerobica, danze del tè, feste movimentate a ritmo di musica. Il lavoro è uno studio puntuale sui corpi, sulle loro proporzioni e sulla pelle, sui movimenti, i diversi abiti, le calzature, i make-up, le espressioni dei volti di chi danza.

Lungo il percorso espositivo, ci sono, poi, le serie più recenti: «Establishment» (2010-2016), sulle élite che governano l’Inghilterra e sulle sedi del potere, e «Life’s a Beach» (2013), con scatti provenienti dalle spiagge di tutto il mondo, in un caleidoscopio di immaginari del corpo svestito e del suo mostrarsi in pubblico.

Non manca, infine, un focus sul mondo della moda con la sezione «Fashion», che raccoglie immagini prodotte tra il 1999 e il 2019 per riviste di settore e in occasione di sfilate. Anche qui lo sguardo offerto, che attenziona abiti, accessori e movenze di chi li indossa, è esagerato, frizzante e comico.

Attraverso un percorso dentro i progetti più noti, essenziale («short») e insieme allettante («sweet»), - si legge nella nota stampa - «lo stile documentario che da oltre cinquant’anni caratterizza il linguaggio del fotografo inglese Martin Parr diventa così cartina tornasole per osservare la società contemporanea e le sue pieghe più contraddittorie, quelle che appartengono al mondo occidentale, in particolare europeo, restituito da una cronaca fotografica tagliente, a volte raccontata con pungente sarcasmo, più spesso presentata con ironia e umorismo. Le immagini di Parr catturano momenti comici o inaspettati, offrendo uno sguardo critico ma anche divertente sulla vita quotidiana di tutti noi».

La sua è, dunque, una fotografia documentaria diversa rispetto a quella a cui siamo abituati, perché è crudelmente sarcastica e insieme allegra, e il motivo di questa scelta inusuale è lo stesso artista a spiegarcelo: «Ho la sensazione che a raccontare storie tristi e deprimenti nessuno ti darebbe retta. Ecco perché le mie fotografie sono allegre e colorate e, spero, accessibili, perché voglio fare partecipare lo spettatore, non voglio annoiarlo, voglio farlo entrare in ciò che faccio e così potrà avere una lettura più ampia. Però non mi aspetto che la mia fotografia cambi un bel niente, sarebbe talmente ingenuo da parte mia, una volta la gente lo diceva, adesso non più».

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 3] Martin Parr. Short & Sweet. Veduta di allestimento. Bologna, Museo Civico Archeologico. Foto Roberto Serra. Courtesy 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE; [fig. 4] Martin Parr. Foto di Carlotta Coppo. Didascalia parlante: Da più di vent'anni, ogni volta che torna da uno dei suoi numerosi viaggi, Martin Parr porta con sé un ricordo molto particolare, ovvero un ritratto che non ha realizzato lui stesso. Si tratta di ritratti provenienti da tutto il mondo, realizzati da fotografi professionisti, fotografi amatoriali o da Photobooth. Sono immagini popolari delle vacanze. Dagli scatti in studio su sfondi esotici, ritratti colorati o ritratti sotto mentite spoglie a fotografie digitali eccessivamente manipolate, questa serie di ritratti dimostra ciò che la fotografia sa fare meglio: mostrare il flusso del tempo.

Informazioni utili
Martin Parr. Short & Sweet. Musei Civici Bologna | Museo Civico Archeologico, Via dell'Archiginnasio, 2 - Bologna. Orari: - lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì: 10.00-18.00; - sabato, domenica e festivi: 10.00-19.00; - martedì chiuso; la biglietteria chiude 40 minuti prima (ultimo ingresso ore 18.10); aperture straordinarie; 1 novembre: 10.00-19.00; 25 dicembre: chiuso; 26 dicembre: 10.00-19.00; 1 gennaio: 11.00-19.00; 6 gennaio: 9.00-19.00. Biglietti: • Ingresso singolo intero € 14,00; • Ingresso singolo ridotto € 12,00 (visitatori dai 13 ai 25 anni, persone con disabilità (Legge 104), insegnanti, militari, forze dell’ordine non in servizio, possessori biglietto museo); • Ingresso singolo ridotto speciale € 10,00 Giornalisti muniti di tesserino ODG con bollino dell’anno in corso non accreditati (non si accredita sabato, domenica e festivi); • Ingresso mercoledì universitari € 5,00; tutti i mercoledì gli studenti universitari muniti di tesserino senza limiti di età dalle ore 14.30 alle 18.30 (esclusi giorni festivi); • Bambini 6-13 anni € 6,00; • Omaggio minori di 6 anni, guide turistiche italiane munite di tesserino di abilitazione (no salta coda), giornalisti con tesserino ODG previo accredito presso l’Ufficio Stampa (scrivere con almeno 24 ore di anticipo a elettra.occhini@ilsole24ore.com specificando la testata e il giorno della visita. Non si accredita sabato, domenica e festivi), 1 accompagnatore per persone con disabilità che presentino necessità e regolare documentazione; • Speciale famiglia (da 2 a 5 persone) Adulto (1 o 2 adulti) € 12,00; Primo e secondo figlio (da 6 a 13 anni) € 6,00; Omaggio terzo figlio (da 6 a 13 anni); • Biglietto open (valido fino al 31/12/2024) € 16,00 Intero (prevendita obbligatoria esclusa), € 14,00 Ridotto (prevendita obbligatoria esclusa); biglietto a data aperta, valido dal giorno successivo a quello di acquisto, consente l’accesso diretto alla cassa prenotati; • Gruppi adulti (min 15 - max 25 persone) € 12,00; ratuità 1 accompagnatore per ogni gruppo; • Scuole € 5,00 gruppi scuole di ogni ordine e grado, dal lunedì al venerdì (esclusi martedì, sabato e domenica), min 15 max 25 persone (tolleranza fino a 29); gratuità 2 accompagnatori per ogni gruppo scolastico. Prevendita: € 2,00 visitatori individuali e gruppi, € 1,00 scuole. Informazioni: +39 051 082 8398 / www.ticket24ore.it / www.museibologna.it/archeologico. Catalogo: 24 Ore Cultura. Fino al 6 gennaio 2024


lunedì 4 novembre 2024

Da Arturo Martini ad Andy Warhol, il Novecento nelle collezioni Crédit Agricole Italia

È un viaggio tra i più grandi artisti del Novecento, inframmezzato da firme ancora poco conosciute al grande pubblico, quello che propone la banca Crédit Agricole Italia a Milano, negli spazi di Palazzo delle Stelline, ampio complesso architettonico eretto nel Seicento sull'antico monastero benedettino di Santa Maria della Stella, proprio davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, scrigno che conserva al proprio interno una delle opere più celebri di Leonardo da Vinci: il Cenacolo.

Nel 1987 in questo edificio, che fu prima un orfanotrofio femminile e poi, dal 1951, la sede della Scuola d’arte drammatica di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, si tenne un evento indimenticabile: Andy Warhol, l’artista icona della Pop Art, fu invitato da Alexandre Iolas, mercante e gallerista greco, a misurarsi con il tema dell’Ultima cena. Nacque così, nel Refettorio delle Stelline, sala di borromaica memoria che vanta cinquecento metri quadrati di superficie espositiva, la celebre mostra «The Last Supper», che avrebbe segnato l’esordio della gloriosa attività espositiva della Galleria del Credito Valtellinese, istituto poi fuso con il Crédit Agricole Italia.

Queste antiche mura, dall’aspetto minimale e nel contempo armonioso, fanno ora da scenario a una sessantina di opere di pittura, scultura e design firmate da alcuni degli autori più innovativi e rappresentativi del XX secolo a livello nazionale, europeo e mondiale, ma non solo, in un percorso che spazia da Arturo Martini a Andy Warhol, dando così vita a una sorta di Grand Tour attraverso le molteplici esperienze artistiche del «secolo breve».

A fare da filo rosso tra tutti i lavori esposti nel lungo e caratteristico cannocchiale ottico del Refettorio delle Stelline è la loro provenienza: la prestigiosa collezione di Crédit Agricole Italia, istituto di credito la cui valorizzazione del proprio patrimonio artistico (oltre 4.400 opere tra quadri, sculture, stampe e disegni, provenienti da nove banche regionali acquisite nel corso degli anni) si è già concretizzata, in passato, con mostre tematiche, l’apertura di una Galleria digitale e l’esposizione permanente open air di sculture nel parco del Green Life, sede direzionale del gruppo a Parma.

In quella che nel testo curatoriale viene definita una «promenade artistique», ovvero una passeggiata artistica «distesa» e «svincolata da un approccio meramente storiografico e orientata verso una narrazione emozionale», suggerita da rinvii e rimandi tra opera e opera, con una speciale attenzione all’assonanza fra forme e cromatismi, gli estremi sono simbolicamente rappresentati da due Ultime cene, quella di Andy Warhol e quella, intimista ed enigmatica, dipinta da Alessandro Pomi nel 1931.
Di Arturo Martini, l’altro dei due artisti citati nel titolo dell’esposizione milanese, sono, invece, esposte varie sculture, a partire da «La Pisana» (1928-30), un’elegante figura femminile dormiente, in bronzo patinato, che nell’allestimento milanese appare «adagiata – si legge nel testo curatoriale - su un ‘disco volante’ atterrato al centro della Galleria, capace di valorizzarne, in un virtuoso intreccio di rifrazioni luminose, le forme nascoste o abitualmente meno leggibili». Mentre sono poste su un piedistallo rotondo le eleganti sculture «Rita» e «Airone» di Francesco Messina, «fuse nella patina neroassoluta del bronzo, che – si legge sempre nel testo curatoriale - si stagliano con gestualità ampie oppure trattenute attraverso trasparenze e riflessi vitrei a proiettare ombre e inediti giochi di luce sulle superfici circostanti».

Altre opere plastiche esposte che meritano una segnalazione sono, poi, «La colonna del viaggiatore» (1959) di Arnaldo Pomodoro, il «Papa assiso sulla sedia gestatoria» (1962) di Floriano Bodini, «La moneta e la sua traccia positiva e negativa nella storia dell’uomo» (1981) di Francesco Somaini, l’elegante scultura tardo-surrealista in marmo nero del Belgio «Donna tartaruga con scarabeo» (1985-‘86) di Novello Finotti, per terminare con l’astrazione di Mario Negri e del suo congegno spaziale «Colonna del piccolo coro» (1977).

Non manca in rassegna un omaggio al mondo del design con i vetri colorati e ludici, disegnati da Ettore Sottsass Junior per Memphis nelle fornaci di Murano («Niobe», «Agelada», «Astimelusa», 1986), e con i piatti di Wifredo Lam, tributo ceramico all’Arte Nucleare, che prese vita nel forno Mazzotti di Albisola.

Predominante è, infine, in mostra la selezione di dipinti e opere su carta, che consente un viaggio per exempla tra le principali correnti novecentesche, dal Surrealismo all’Azionismo viennese, dall’Astrattismo alla Pop-art, senza dimenticare gli anni del Realismo magico e del cosiddetto «ritorno all’ordine». 
Si spazia così dalla grande tela di soggetto sacro «Le nozze di Cana» (1943) di un semi-sconosciuto Augusto Colombo, che trova il proprio contraltare simbolico nella sindone di sangue e dolore umano a firma di Hermann Nitsch («Senza titolo», 1985), all’«Autoritratto in divisa» (1929) di Giuseppe Terragni, un lavoro dominato da tonalità terrose illuminate da una macchia di ceruleo, che dimostra l’abilità nella composizione e nel disegno del noto esponente dell’architettura razionalista lariana, autore dalla celebre Casa del Fascio di Como (1936). 

Si va dai panorami alpestri di Edward Harrison Compton («Veduta del Gran Zebrù presso Solda», 1905) e Emilio Longoni («Cime innevate», ante 1905) alle vedute cittadine e architettoniche di Gianfilippo Usellini («Fine del Carnevale», 1969), Emilio Tadini («Città italiana 2», s.d.) e Arduino Cantafora («È delirante sogno», 1987), per giungere a un indefinito paesaggio di Ennio Morlotti («Rocce», 1981), fatto di grumi di vernice e passaggi di spatola su tela, e alle geometriche visioni di «New York» (1951) di Roberto Crippa.

Lungo le pareti del Refettorio delle Stelline sfilano, poi, dipinti di Victor Brauner, Graham Sutherland, Piero Dorazio, Renato Guttuso, Carlo Mattioli, Bruno Cassinari, Giulio Turcato, Alessandro Pomi, Gianfranco Ferroni, Gianni Dova, ma non solo, oltre a «una grande tela temporalesca» di Velasco Vitali («21 luglio», 1990).Ci sono in mostra anche delle belle carte di Lorenzo Viani, Emilio Vedova, Marino Marini e Sebastian Matta. Non manca, poi, un omaggio al padre del Surrealismo, Max Ernst, di cui sono esposte la serigrafia «Le Portrait Mère» (1968), «mater matuta il cui capo polilobato – si legge nel testo curatoriale -richiama all’occhio moderno la forma germinale di una cellula», e «Soleil» (1966), un sole dalle tonalità violacee, a dominare su un mare blu e un cielo azzurro, reso con la tecnica del frottage e pastelli.

C’è, infine, in mostra «La Céne» (1988) di Daniel Spoerri, una rilettura schiettamente popolare dell’Ultima cena, lascito di una memorabile personale presentata, anni fa, al Refettorio delle Stelline quando questo spazio era la Galleria del Credito Valtellinese. Perché, è bene ricordare, che questo percorso elegante, curioso e rapsodico, che mette insieme firme inusuali, espressione di determinati territori, con autori noti internazionalmente è figlio di acquisizioni, donazioni, depositi e lasciti di più banche locali, le cui raccolte sono confluite nella grande collezione del Crédit Agricole Italia, un forziere di tesori tutto da scoprire.

Didascalie delle immagini 
[Figg. 1, 2, 3, 4, 5, 6] Veduta della mostra «Da Arturo Martini ad Andy Warhol. Il Novecento nelle Collezioni Crédit Agricole» allestita fino al 14 dicembre 2024 alla Galleria Crédit Agricole - Refettorio delle Stelline a Milano; [fig. 7] Andy Warhol, The Last Supper, 1987. Acrilico su serigrafia riportata su tela, cm 100x100 

Informazioni utili
«Da Arturo Martini ad Andy Warhol. Il Novecento nelle Collezioni Crédit Agricole». Galleria Crédit Agricole\ Refettorio delle Stelline, Corso Magenta, 59 – Milano. Apertura al pubblico: venerdì e sabato, dalle ore 12.00 alle ore 20.00; ogni sabato alle ore 15.30 visita guidata, per prenotazioni https://www.adartem.it/. Ingresso libero. Informazioni: https://www.credit-agricole.it/eventi. Fino al 14 dicembre 2024