Un’eccellente medicina contro le preoccupazioni e le difficoltà della vita di tutti i giorni: così si presenta Il barbiere di Siviglia, opera buffa in due atti che il compositore pesarese Gioacchino Rossini, allora già conosciuto al grande pubblico per il successo dei lavori lirici L’italiana in Algeri (1813) e Il turco in Italia (1814), scrisse all’inizio del 1816, in poco meno di tre settimane, per le celebrazioni carnevalesche del teatro Argentina di Roma.
A far rivivere sul palco del teatro Sociale di Busto Arsizio la magia del capolavoro rossiniano, definito dalla critica come «il più grande poema musicale comico, satirico e umoristico dell’umanità», sarà il Teatro dell’Opera di Milano, già protagonista in questa stagione di un apprezzato allestimento del melodramma La traviata di Giuseppe Verdi.
L’appuntamento è fissato per la serata di venerdì 12 febbraio (ore 21.00), nell’ambito di BA Teatro, stagione cittadina che, sotto l’egida e con il contributo economico dell’amministrazione comunale di Busto Arsizio, riunisce i cartelloni di PalkettoStage international theatre productions e dei teatri Manzoni, San Giovanni Bosco e Sociale.
Insieme con i giovani cantanti-attori del teatro dell’Opera di Milano, guidati dal regista Mario Riccardo Migliara, saranno in scena l’Orchestra filarmonica di Milano e la Corale lirica ambrosiana, dirette rispettivamente da Vito Lo Re e Roberto Ardigò.
Il componimento, su libretto di Cesare Sterbini, trae la propria trama della commedia Le barbier de Séville ou La précaution inutile di Pierre-Augustin-Caron de Beaumarchais, già oggetto di varie versioni musicali, tra le quali quella, molto applaudita, di Giovanni Paisiello, i cui sostenitori (secondo i pettegolezzi del tempo) fischiarono lungamente il debutto della versione rossiniana.
Nonostante l’insuccesso della prima rappresentazione, andata in scena il 20 febbraio 1816 con il titolo Almaviva ossia l’inutile precauzione (l’attuale nome sarà utilizzato solo a partire dalla ripresa bolognese dello stesso anno), il capolavoro del musicista marchigiano, con il suo meccanismo teatrale perfetto e le sue frizzanti e giocose invenzioni musicali, era destinato a diventare uno dei più grandi successi del teatro musicale italiano, incantando, tra gli altri, personaggi del calibro di Ludwig van Beethoven, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Stendhal e Giuseppe Verdi, che ebbe a dire: «Non posso che credere “Il barbiere di Siviglia”, per abbondanza d'idee, per verve comica e per verità di declamazione, la più bella opera buffa che esista».
La vicenda è ambientata nel tardo Settecento ed ha come scenario la calda e solare Spagna. Qui il maturo don Bartolo tiene segregata in casa la pupilla Rosina, che egli desidererebbe sposare. Il barbiere Figaro, fantasioso e pieno di risorse, aiuta l’innamorato conte di Almaviva a conquistare la giovane, che ricambia i suoi sentimenti. Dopo arditi travestimenti, scambi di biglietti, colpi di scena e la corruzione di don Basilio, maestro di musica della fanciulla, Figaro e Almaviva riescono a compiere il loro progetto: i due giovani innamorati si sposano, don Bartolo riceve in dono la dote della ragazza e l’opera si chiude nell’allegria generale.
Tra i brani entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo, per quella che il critico Giuseppe Radiciotti ha definito la «giocondità serena e benefica» delle loro note, si ricordano l’ ouverture iniziale, la cavatina Largo al factotum e l’ aria La calunnia è un venticello.
L’allestimento del Teatro dell’Opera di Milano, grazie alla regia e all’ideazione scenica di Mario Riccardo Migliara, evidenzia l’estremo umorismo, la pazzia giocosa e i coup de théâtre presenti nel libretto e nella musica rossiniana.
La scenografia ricalca un antico palco della Commedia dell’arte, che, a seconda delle scene, si trasforma in balcone, in disimpegno o in interno casa. Giganteschi ventagli danno vita alla piazza di Siviglia; cavalli a dondolo, pezzi di domino, fionde e varie frivolezze trovano dimora tra le mura della casa di don Bartolo, settecentesco Peter Pan, animato dall'idea di possedere tutto e tutti. Sul palco ci saranno anche pupet mecanique, bambole meccaniche a grandezza naturale, tipiche del Settecento, e un gigantesco orologio che funziona al contrario. Una girandola di artifici anima, dunque, questa versione del capolavoro rossiniano, dando ancora più vigore a quell’insieme di burla, gags, estrema energia dettata dall’amore e spirito vitale giovanile che sprigiona da tutto Il barbiere di Siviglia.
Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Una scena dell'opera buffa Il barbiere di Siviglia, con il teatro dell'Opera di Milano. Foto di repertorio
Informazioni utili
Il barbiere di Siviglia, con il teatro dell'Opera di Milano. Data: venerdì 12 febbraio 2010, ore 21.00. Biglietti: € 32,00 per la platea, € 25,00 per la galleria, € 20,00 per il ridotto, riservato a giovani fino ai 21 anni, ultra 65enni, militari, soci TCI (previa presentazione della tessera nominale), Cral, biblioteche, dopolavoro e associazioni con minimo dieci persone. Informazioni: tel. 0331.679000. Sito internet: www.teatrosociale.it.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 10 febbraio 2010
venerdì 8 gennaio 2010
Sul lago di Garda il «Divino Infante» è da collezione
«L’Epifania tutte le feste si porta via», recita un vecchio adagio popolare. Non è così sulle sponde occidentali del lago di Garda, nella cittadina di Gardone Riviera, dove fino a domenica 17 gennaio, nei giorni concomitanti con la Pasqua e per tutta il periodo estivo sarà possibile visitare il museo del Divino Infante.
Dopo essere stata esposta a Brescia, Perugia, Milano, Parma, Cremona, ma anche a Monaco di Baviera e a Vienna, la preziosa collezione di Hiky Mayr Hinterkircher, la più significativa raccolta di bambini Gesù esistente in Europa, ha, infatti, trovato stabilmente casa negli spazi dell’ex hotel Villa Ella, a pochi passi dal Vittoriale degli Italiani, la celebre dimora di Gabriele D’Annunzio.
Dal 19 novembre 2005, in una struttura ottocentesca di oltre mille metri quadrati, situata in via dei Colli e articolata su due piani, è, dunque, possibile vedere oltre duecentocinquanta manufatti in legno intagliato e policromato, cera, terracotta e cartapesta dipinta, tutti di produzione italiana, che raccontano tecniche, usi, iconografie legati al tema della scultura avente per soggetto il Divino Infante e, in alcuni casi, la Maria Bambina, figura per la cui iconografia, nata nel ‘700 e legata soprattutto all’area lombarda, si fa riferimento alla francescana Chiara Isabella Fornari da Todi. Semplici oggetti artigianali destinati a un pubblico popolare e all'uso commerciale si alternano così ad opere di alto livello artistico, costruite da maestranze provenienti quasi esclusivamente dal sud Italia, e in particolare da Napoli e dalla Sicilia.
I lavori esposti, molti dei quali realizzati tra il XVII e il XVIII secolo, sono principalmente opere devozionali che non avevano uno specifico impiego presepiale, ma che erano connesse a un diffusissimo culto, come documentano le loro stesse dimensioni (60-90 centimetri per gli infanti in piedi, 50-60 per quelli assisi). Esposte sugli altari, portate in processione o destinate all'utilizzo domestico, queste «bambole sacre», dipinte a mano e spesso abbellite con preziosi accessori e vesti di seta, spesso intessute di perle, rubini ed altre gemme, furono, infatti, a partire dal Medioevo, un veicolo per l'attuazione di un rapporto più concreto e familiare con la sfera ultraterrena.
Numerose sono le tipologie di Gesù Bambino raccolte in oltre trentacinque anni di ricerche dalla tedesca Hiky Mayr Hinterkircher, residente sul lago di Garda da più quarant’anni. Si spazia dal Divino Infante ignudo o in fasce, seduto e in piedi, al Piccolo Re benedicente, passando per i bambini vestiti con abiti scelti in relazione allo svolgersi dell'anno liturgico, molti dei quali presentano simboli della Passione come la croce, i chiodi o un teschio. Camminando tra le sale, non si può non rimanere affascinati dalla straordinaria qualità della scultura, nonché dalla precisione della resa anatomica e dall’accuratezza del dettaglio, accresciuta dalla policromia (i gomiti del Bambino sono rossi, le labbra rosa-turgido, i dentini bianchi) e dalla polimatericità (gli occhi sono in pasta di vetro).
Non mancano, poi, in questa curiosa esposizione, la cui maggior parte delle opere sono state indicizzate nel 2003 in una prestigiosa pubblicazione da parte della casa editrice milanese Franco Maria Ricci, teche sontuose e piccolissime scatole che venivano utilizzate per il trasporto e l’esibizione del Divino Infante durante le processioni e successivamente collocate nella stanza di preghiera che si trovava nelle case delle famiglie nobili.
Chiude il percorso tra questi piccoli incanti della nostra tradizione religiosa, molti dei quali sono stati restaurati dalla loro stessa proprietaria, un presepe napoletano del Settecento, che si estende per oltre venticinque metri quadrati e che conta, sparsi in un’ambientazione suggestiva, circa duecento personaggi (per la maggior parte intagliati nel legno, con teste, mani e piedi in terracotta) e una sessantina di animali.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Gesù Bambino. Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo; [fig. 2] Gesù Bambino dormiente nel giardino dell’Eden. Italia del Sud, seconda metà del XIX secolo; [fig. 3] Maria Bambina in culla, sotto una campana di vetro. Italia, inizi del XX secolo. Cera, occhi in pasta di vetro. Dimensioni cm. 38 x 30 x 18; [fig. 4] Gesù Bambino seduto. Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo. Legno intagliato e dipinto, occhi in pasta di vetro. Veste in seta color crema con ricami in oro e argento e perline applicate; monogramma IHS ricamato. Altezza cm 42; [fig. 5] Particolare della Natività del presepe del Museo del Divino Infante.
Per saperne di più
Il Museo del Divino Infante
Informazioni utili
Museo del Divino Infante, via dei colli, 34 - Gardone Riviera (Brescia). Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 5,00, gruppi, ragazzi, anziani, disabili € 4,00, gratuito per i bambini fino ai 6 anni. Informazioni: tel. 0365.293105, fax 0365.293106, cell. 335.360520 o 347.8880691. Fino al 17 gennaio 2010.
Dopo essere stata esposta a Brescia, Perugia, Milano, Parma, Cremona, ma anche a Monaco di Baviera e a Vienna, la preziosa collezione di Hiky Mayr Hinterkircher, la più significativa raccolta di bambini Gesù esistente in Europa, ha, infatti, trovato stabilmente casa negli spazi dell’ex hotel Villa Ella, a pochi passi dal Vittoriale degli Italiani, la celebre dimora di Gabriele D’Annunzio.
Dal 19 novembre 2005, in una struttura ottocentesca di oltre mille metri quadrati, situata in via dei Colli e articolata su due piani, è, dunque, possibile vedere oltre duecentocinquanta manufatti in legno intagliato e policromato, cera, terracotta e cartapesta dipinta, tutti di produzione italiana, che raccontano tecniche, usi, iconografie legati al tema della scultura avente per soggetto il Divino Infante e, in alcuni casi, la Maria Bambina, figura per la cui iconografia, nata nel ‘700 e legata soprattutto all’area lombarda, si fa riferimento alla francescana Chiara Isabella Fornari da Todi. Semplici oggetti artigianali destinati a un pubblico popolare e all'uso commerciale si alternano così ad opere di alto livello artistico, costruite da maestranze provenienti quasi esclusivamente dal sud Italia, e in particolare da Napoli e dalla Sicilia.
I lavori esposti, molti dei quali realizzati tra il XVII e il XVIII secolo, sono principalmente opere devozionali che non avevano uno specifico impiego presepiale, ma che erano connesse a un diffusissimo culto, come documentano le loro stesse dimensioni (60-90 centimetri per gli infanti in piedi, 50-60 per quelli assisi). Esposte sugli altari, portate in processione o destinate all'utilizzo domestico, queste «bambole sacre», dipinte a mano e spesso abbellite con preziosi accessori e vesti di seta, spesso intessute di perle, rubini ed altre gemme, furono, infatti, a partire dal Medioevo, un veicolo per l'attuazione di un rapporto più concreto e familiare con la sfera ultraterrena.
Numerose sono le tipologie di Gesù Bambino raccolte in oltre trentacinque anni di ricerche dalla tedesca Hiky Mayr Hinterkircher, residente sul lago di Garda da più quarant’anni. Si spazia dal Divino Infante ignudo o in fasce, seduto e in piedi, al Piccolo Re benedicente, passando per i bambini vestiti con abiti scelti in relazione allo svolgersi dell'anno liturgico, molti dei quali presentano simboli della Passione come la croce, i chiodi o un teschio. Camminando tra le sale, non si può non rimanere affascinati dalla straordinaria qualità della scultura, nonché dalla precisione della resa anatomica e dall’accuratezza del dettaglio, accresciuta dalla policromia (i gomiti del Bambino sono rossi, le labbra rosa-turgido, i dentini bianchi) e dalla polimatericità (gli occhi sono in pasta di vetro).
Non mancano, poi, in questa curiosa esposizione, la cui maggior parte delle opere sono state indicizzate nel 2003 in una prestigiosa pubblicazione da parte della casa editrice milanese Franco Maria Ricci, teche sontuose e piccolissime scatole che venivano utilizzate per il trasporto e l’esibizione del Divino Infante durante le processioni e successivamente collocate nella stanza di preghiera che si trovava nelle case delle famiglie nobili.
Chiude il percorso tra questi piccoli incanti della nostra tradizione religiosa, molti dei quali sono stati restaurati dalla loro stessa proprietaria, un presepe napoletano del Settecento, che si estende per oltre venticinque metri quadrati e che conta, sparsi in un’ambientazione suggestiva, circa duecento personaggi (per la maggior parte intagliati nel legno, con teste, mani e piedi in terracotta) e una sessantina di animali.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Gesù Bambino. Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo; [fig. 2] Gesù Bambino dormiente nel giardino dell’Eden. Italia del Sud, seconda metà del XIX secolo; [fig. 3] Maria Bambina in culla, sotto una campana di vetro. Italia, inizi del XX secolo. Cera, occhi in pasta di vetro. Dimensioni cm. 38 x 30 x 18; [fig. 4] Gesù Bambino seduto. Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo. Legno intagliato e dipinto, occhi in pasta di vetro. Veste in seta color crema con ricami in oro e argento e perline applicate; monogramma IHS ricamato. Altezza cm 42; [fig. 5] Particolare della Natività del presepe del Museo del Divino Infante.
Per saperne di più
Il Museo del Divino Infante
Informazioni utili
Museo del Divino Infante, via dei colli, 34 - Gardone Riviera (Brescia). Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 5,00, gruppi, ragazzi, anziani, disabili € 4,00, gratuito per i bambini fino ai 6 anni. Informazioni: tel. 0365.293105, fax 0365.293106, cell. 335.360520 o 347.8880691. Fino al 17 gennaio 2010.
giovedì 7 gennaio 2010
Fornelli futuristi, in cucina con Marinetti & C.
«Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerarietà […] il coraggio, l'audacia, la ribellione […] il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della vittoria di Samotracia». Con questa dichiarazione di intenti, pubblicata il 20 febbraio del 1909 sul giornale francese Le Figaro e ristampata poco dopo sulla rivista milanese Poesia, lo scrittore Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d'Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) dava inizio all'avventura di uno dei più noti movimenti d'avanguardia del XX secolo: il Futurismo.
Presupposto teorico di questo gruppo, votato al mito del progresso e a quello della macchina, le cui alterne vicende segnarono profondamente la storia culturale del nostro Paese all'inizio del XX secolo, fu la volontà di modificare radicalmente non solo i vari settori delle cosiddette arti maggiori e di quelle applicate (pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, musica, teatro e letteratura), ma anche i diversi aspetti dell'esistenza pratica, ossia l'intero sistema sociale. Tra i campi d'intervento della «rivoluzione» futurista non poteva, dunque, mancare il mondo dei fornelli, le cui tradizioni vennero stravolte a favore di inusuali accostamenti di gusti e di strane combinazioni di alimenti, spesso dagli sfrenati cromatismi.
Un iniziale tentativo di sovvertire usi e abitudini relativi ai piaceri del palato venne sperimentato dagli artisti avanguardisti con la Cena a rovescio, che si tenne al Politeama Rossetti di Trieste il 12 gennaio 1910, in occasione della prima delle tante serate propagandistiche che il movimento marinettiano organizzò nei trent'anni della sua storia, e dove vennero servite - cominciando dal caffè per terminare con l'antipasto - portate dai nomi polemici e astrusi che, in realtà, di nuovo avevano ben poco come i Grumi di sangue in brodo, l'Arrosto di mummia con fegatini di professore e la Marmellata di gloriosi defunti.
Nei primi anni Dieci l'uso di vivande futuriste ricorse anche in altre occasioni, tra cui la più nota è la cena organizzata il 9 marzo del 1913 alle Venete, trattoria romana di via Campo Marzio amata da Pellegrino Artusi per i suoi saltimbocca, dove vennero portate in tavola pietanze come i Trafiletti con poemi d'Auro d'Alba, il Contro-Carrà di vitello con salsa Russola, i Panini Soffici e il Tim-Tim-Balla alla vaniglia, il tutto accompagnato da Boccioni di vino, in onore degli artisti che quella stessa sera si erano cimentati al teatro Costanzi in uno spettacolo inneggiante allo schiaffo e al pugno, ossia alla lotta politica e alla guerra.
Qualche mese dopo il banchetto capitolino, il 1° settembre del 1913, uscì sulla rivista francese Fantasio lo scritto La cuisine futuriste dello chef Jules Maincave, prima esplicita dichiarazione di rottura con la tradizione culinaria, dove si legge l'invito ad attaccare le «due formidabili Bastiglie della cucina moderna: le misture e gli aromi», e dove viene presentata la proposta, allora innovativa, di miscelare gli alimenti con liquidi abitualmente inutilizzati nella preparazione delle vivande come le essenze di rosa, violetta, mughetto, lillà e verbena, in modo da procurare sensazioni gustative nuove e sorprendenti.
A questo documento programmatico fece seguito il 9 maggio del 1920 il manifesto Culinaria futurista, pubblicato sulla rivista Roma futurista da una non meglio identificata Irba futurista, per la quale il rinnovamento gastronomico equivaleva a rompere con il «noiosissimo e passatista ordinamento» nella
successione delle vivande, con il servizio di «porcellana bianca con la riga bleu e d'oro, tanto caro ai borghesi» e con le «vivande che sembrano annoiarsi sull'uniformità dei piatti pedantescamente uguali», facendo ridere di gioia la tavola con «la diversità dei rosso-verdi-giallo-azzurro dei piatti grandi-piccoli-ovali-quadri-tondi».
Una vera e propria campagna per l'affermazione di una tavola avanguardista, con teorie e proposte concrete, prese, però, avvio soltanto il 28 dicembre del 1930, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblicò sulla Gazzetta del Popolo di Torino il Manifesto della cucina futurista, scritto che venne rilanciato nel gennaio successivo sulla Cucina italiana di Umberto Notari.
La pubblicazione del documento programmatico fu anticipata, il 15 novembre del 1930, da una serata al ristorante Penna d'oca di Milano, ritrovo dei più noti e affermati giornalisti lombardi del tempo, in cui lo scrittore di Alessandria d'Egitto rese nota la propria vibrante sfida contro la pastasciutta, definita con espressioni enfatiche e dispregiative quali «assurda religione gastronomica», «alimento amidaceo (…) che si ingozza e non si mastica», «palla e rudere che gli italiani portano nello stomaco come ergastolani e archeologi», «vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti e pessimisti», in nome di una «cucina chimica» che dimentichi il «quotidiano mediocrista dei piaceri del palato» attraverso l'utilizzo di «nuove miscele apparentemente assurde».
Oltre all'eliminazione delle tagliatelle e dei maccheroni, cibi «antivirili» e «antiguerrieri», Filippo Tommaso Marinetti predicò l'abolizione della forchetta e del coltello a favore della riscoperta del «piacere tattile prelabiale»; auspicò la creazione di «bocconi simultanei e cangianti»; incoraggiò l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi; e invitò al consumo di riso, carne e verdure.
Ciò che, però, suscitò maggior interesse del suo manifesto fu la crociata contro gli spaghetti, a cui venne dato ampio spazio sulla stampa, dove si fronteggiarono pareri contrari e favorevoli: La cucina italiana aprì un'inchiesta accogliendo interventi di esponenti della cultura e di illustri medici del tempo; altri giudizi trovarono una tribuna su Il Giornale della Domenica di Roma, la Gazzetta del Popolo di Torino, il Secolo XIX di Genova e, persino, sul New York Times e sul Chicago Tribune; mentre alcuni giornali umoristici come il Guerin Meschino e il Marc'Aurelio si sbizzarrirono con vignette e battute.
Le polemiche infiammarono anche gli stessi sodali del gruppo: non tutti erano d'accordo nel mettere al bando «un piatto per cui l'Italia poteva menar vanto nel mondo». Il poeta Farfa definì, per esempio, i ravioli «lettere d'amore in busta color rosa»; mentre i futuristi liguri scrissero sulla rivista Oggi e Domani, nel primo numero del 1931, una lettera-supplica a Filippo Tommaso Marinetti affinché risparmiasse nella sua crociata contro la pasta almeno le trenette al pesto.
In questo clima di rivolta, la sera dell'8 marzo del 1931 aprì a Torino la Taverna del Santopalato, un locale di proprietà del ristoratore Angelo Gioachino che aveva «lo scopo preciso di passare dalla teoria alla pratica nella polemica futurista» attraverso un programma tecnico e di rinnovamento del gusto e delle abitudini alimentari degli italiani, realizzato con l'invenzione di nuove vivande. Il banchetto inaugurale vide l'aeropittore Fillia e il critico d'arte futurista Paolo Alcide Saladin in gara con i cuochi Piccinelli e Borghese nella preparazione del complesso menù della serata, in cui vennero serviti piatti dai nomi curiosi come l'Antipasto intuitivo, il Brodo solare, il Carneplastico, il Mare d'Italia e il Pollofiat.
Tra il febbraio del 1931 e il marzo del 1932, il movimento futurista portò avanti la propria crociata contro la pastasciutta, con una serie di conferenze in parecchie città italiane e straniere come Savona, Cuneo, Trieste, Brescia, Budapest, Sofia e Tunisi e con una serie di banchetti dimostrativi che toccarono le città di Parigi, Novara, Chiavari e Bologna, intorno ai quali fiorirono numerosi aneddoti. Stando a quanto racconta lo stesso Filippo Tommaso Marinetti, nel libro La cucina futurista, le donne aquilane uscirono dalla loro usuale apatia per firmare una solenne lettera-supplica a favore della pasta, a Napoli si fecero cortei popolari in difesa dei vermicelli, il piatto amato da Pulcinella, e su molti giornalisti scandalistici comparirono dei fotomontaggi in cui era immortalato il padre del Futurismo impegnato a ingozzarsi di spaghetti.
La storia di questi due anni di cucina avanguardista, all'insegna della sorpresa e della teatralità, venne pubblicata nel 1932 dalla Casa Treves, l'attuale Sonzogno, con un ricco corredo di lettere, di articoli, notizie sui grandi pranzi futuristi completi di menù e di ricette, nonché di un formulario futurista per ristoranti e bar, ribattezzati da Filippo Tommaso Marinetti e da Fillìa - autori del volume - «quisibeve», oltre che da un piccolo dizionario, in cui i termini relativi alla ristorazione erano stati riscritti in modo da abolire ogni parola straniera: il dessert era diventato il «peralzarsi», il cocktail la «polibibita», il picnic il «prestoalsole», il menù la «listavivande» e il sandwich il «traidue».
Con la pubblicazione di questo libro venne definitivamente codificato il regno di una gastronomia che, abbandonati i tempi medio-lunghi di cottura a fuoco lento e tutti i cibi complessi da cucinare, puntava sulla carne poco cotta, sugli accostamenti arditi e sconvolgenti, sul disordine nella presentazione delle
portate, su «miscugli non conformisti» come il dolce-salato e il cotto-crudo, su bocconi «simultanei», in cui si concentravano molteplici sapori da gustare in pochi attimi, sull'invenzione di nuove vivande ispirate all'originalità plastica e coloristica più che alla gradevolezza e alla commestibilità.
L'esperienza futurista non segnò, comunque, la svolta gastronomica desiderata dai suoi ideatori: la Taverna del Santopalato ebbe vita breve, gli aerobanchetti si esaurirono nell'indifferenza generale e le ricette «antipassatiste» non fecero presa sulle massaie, essendo più espressione artistica e appagamento cerebrale che non soddisfazione del gusto. Figlia del proprio tempo nell'esaltazione del nazionalismo e della guerra (lo documentano gli echi bellici o patriottici di pietanze come il Pollo d'acciaio e il Golfo di Trieste), ma figlia anche di un passato culinario glorioso che ha le proprie radici nella Roma Imperiale e nel Rinascimento dove si usava condire i piatti con petali di rosa, mosto o miele, la cucina di Marinetti e sodali è stata riscoperta solo in anni recenti, con l'avvento della nouvelle cuisine, come dimostrano il continuo ricorso ad alimenti esotici (carne di cammello, formaggio d'Olanda, noccioline, datteri, ananas, tamarindo, frutta candita, miele e zabaione), l'uso di accostare sapori tra loro distanti (datteri e acciughe o carne e banana) e, soprattutto, l'attenzione per l'aspetto pittorico e scultoreo delle portate, cosicché – diceva Martinetti – tutte le persone «abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d'arte».
Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Modello di listavivande (menù) della Taverna del Santopalato di Torino; [fig. 4] Disegno di Marialuisa de Romans per la copertina del volume La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (edizioni Marinotti, 1998); [fig. 5] Interno della Taverna del Santopalato di Torino, primo ristorante futurista italiano; [fig. 6 ] Filippo Tommaso Marinetti in cucina; [ fig. 7] Marinetti al ristorante Biffi di Milano mentre mangia un piatto di pastasciutta, 1930 ca. [ presunto fotomontaggio]
Bibliografia essenziale
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, s.d. [ma: 1932]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi, [1986]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Viennepierre, Milano 2007 (ristampa: 2009)
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista: un pranzo che evitò un suicidio, Milano, C. Marinotti, 1998
Claudia Salaris, Cibo futurista: dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, Stampa Alternativa /Nuovi equilibri, Roma 2000
Maria Salemi, La cucina futurista. La cucina Liberty, Firenze, Libriliberi, 2003
Presupposto teorico di questo gruppo, votato al mito del progresso e a quello della macchina, le cui alterne vicende segnarono profondamente la storia culturale del nostro Paese all'inizio del XX secolo, fu la volontà di modificare radicalmente non solo i vari settori delle cosiddette arti maggiori e di quelle applicate (pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, musica, teatro e letteratura), ma anche i diversi aspetti dell'esistenza pratica, ossia l'intero sistema sociale. Tra i campi d'intervento della «rivoluzione» futurista non poteva, dunque, mancare il mondo dei fornelli, le cui tradizioni vennero stravolte a favore di inusuali accostamenti di gusti e di strane combinazioni di alimenti, spesso dagli sfrenati cromatismi.
Un iniziale tentativo di sovvertire usi e abitudini relativi ai piaceri del palato venne sperimentato dagli artisti avanguardisti con la Cena a rovescio, che si tenne al Politeama Rossetti di Trieste il 12 gennaio 1910, in occasione della prima delle tante serate propagandistiche che il movimento marinettiano organizzò nei trent'anni della sua storia, e dove vennero servite - cominciando dal caffè per terminare con l'antipasto - portate dai nomi polemici e astrusi che, in realtà, di nuovo avevano ben poco come i Grumi di sangue in brodo, l'Arrosto di mummia con fegatini di professore e la Marmellata di gloriosi defunti.
Nei primi anni Dieci l'uso di vivande futuriste ricorse anche in altre occasioni, tra cui la più nota è la cena organizzata il 9 marzo del 1913 alle Venete, trattoria romana di via Campo Marzio amata da Pellegrino Artusi per i suoi saltimbocca, dove vennero portate in tavola pietanze come i Trafiletti con poemi d'Auro d'Alba, il Contro-Carrà di vitello con salsa Russola, i Panini Soffici e il Tim-Tim-Balla alla vaniglia, il tutto accompagnato da Boccioni di vino, in onore degli artisti che quella stessa sera si erano cimentati al teatro Costanzi in uno spettacolo inneggiante allo schiaffo e al pugno, ossia alla lotta politica e alla guerra.
Qualche mese dopo il banchetto capitolino, il 1° settembre del 1913, uscì sulla rivista francese Fantasio lo scritto La cuisine futuriste dello chef Jules Maincave, prima esplicita dichiarazione di rottura con la tradizione culinaria, dove si legge l'invito ad attaccare le «due formidabili Bastiglie della cucina moderna: le misture e gli aromi», e dove viene presentata la proposta, allora innovativa, di miscelare gli alimenti con liquidi abitualmente inutilizzati nella preparazione delle vivande come le essenze di rosa, violetta, mughetto, lillà e verbena, in modo da procurare sensazioni gustative nuove e sorprendenti.
A questo documento programmatico fece seguito il 9 maggio del 1920 il manifesto Culinaria futurista, pubblicato sulla rivista Roma futurista da una non meglio identificata Irba futurista, per la quale il rinnovamento gastronomico equivaleva a rompere con il «noiosissimo e passatista ordinamento» nella
successione delle vivande, con il servizio di «porcellana bianca con la riga bleu e d'oro, tanto caro ai borghesi» e con le «vivande che sembrano annoiarsi sull'uniformità dei piatti pedantescamente uguali», facendo ridere di gioia la tavola con «la diversità dei rosso-verdi-giallo-azzurro dei piatti grandi-piccoli-ovali-quadri-tondi».
Una vera e propria campagna per l'affermazione di una tavola avanguardista, con teorie e proposte concrete, prese, però, avvio soltanto il 28 dicembre del 1930, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblicò sulla Gazzetta del Popolo di Torino il Manifesto della cucina futurista, scritto che venne rilanciato nel gennaio successivo sulla Cucina italiana di Umberto Notari.
La pubblicazione del documento programmatico fu anticipata, il 15 novembre del 1930, da una serata al ristorante Penna d'oca di Milano, ritrovo dei più noti e affermati giornalisti lombardi del tempo, in cui lo scrittore di Alessandria d'Egitto rese nota la propria vibrante sfida contro la pastasciutta, definita con espressioni enfatiche e dispregiative quali «assurda religione gastronomica», «alimento amidaceo (…) che si ingozza e non si mastica», «palla e rudere che gli italiani portano nello stomaco come ergastolani e archeologi», «vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti e pessimisti», in nome di una «cucina chimica» che dimentichi il «quotidiano mediocrista dei piaceri del palato» attraverso l'utilizzo di «nuove miscele apparentemente assurde».
Oltre all'eliminazione delle tagliatelle e dei maccheroni, cibi «antivirili» e «antiguerrieri», Filippo Tommaso Marinetti predicò l'abolizione della forchetta e del coltello a favore della riscoperta del «piacere tattile prelabiale»; auspicò la creazione di «bocconi simultanei e cangianti»; incoraggiò l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi; e invitò al consumo di riso, carne e verdure.
Ciò che, però, suscitò maggior interesse del suo manifesto fu la crociata contro gli spaghetti, a cui venne dato ampio spazio sulla stampa, dove si fronteggiarono pareri contrari e favorevoli: La cucina italiana aprì un'inchiesta accogliendo interventi di esponenti della cultura e di illustri medici del tempo; altri giudizi trovarono una tribuna su Il Giornale della Domenica di Roma, la Gazzetta del Popolo di Torino, il Secolo XIX di Genova e, persino, sul New York Times e sul Chicago Tribune; mentre alcuni giornali umoristici come il Guerin Meschino e il Marc'Aurelio si sbizzarrirono con vignette e battute.
Le polemiche infiammarono anche gli stessi sodali del gruppo: non tutti erano d'accordo nel mettere al bando «un piatto per cui l'Italia poteva menar vanto nel mondo». Il poeta Farfa definì, per esempio, i ravioli «lettere d'amore in busta color rosa»; mentre i futuristi liguri scrissero sulla rivista Oggi e Domani, nel primo numero del 1931, una lettera-supplica a Filippo Tommaso Marinetti affinché risparmiasse nella sua crociata contro la pasta almeno le trenette al pesto.
In questo clima di rivolta, la sera dell'8 marzo del 1931 aprì a Torino la Taverna del Santopalato, un locale di proprietà del ristoratore Angelo Gioachino che aveva «lo scopo preciso di passare dalla teoria alla pratica nella polemica futurista» attraverso un programma tecnico e di rinnovamento del gusto e delle abitudini alimentari degli italiani, realizzato con l'invenzione di nuove vivande. Il banchetto inaugurale vide l'aeropittore Fillia e il critico d'arte futurista Paolo Alcide Saladin in gara con i cuochi Piccinelli e Borghese nella preparazione del complesso menù della serata, in cui vennero serviti piatti dai nomi curiosi come l'Antipasto intuitivo, il Brodo solare, il Carneplastico, il Mare d'Italia e il Pollofiat.
Tra il febbraio del 1931 e il marzo del 1932, il movimento futurista portò avanti la propria crociata contro la pastasciutta, con una serie di conferenze in parecchie città italiane e straniere come Savona, Cuneo, Trieste, Brescia, Budapest, Sofia e Tunisi e con una serie di banchetti dimostrativi che toccarono le città di Parigi, Novara, Chiavari e Bologna, intorno ai quali fiorirono numerosi aneddoti. Stando a quanto racconta lo stesso Filippo Tommaso Marinetti, nel libro La cucina futurista, le donne aquilane uscirono dalla loro usuale apatia per firmare una solenne lettera-supplica a favore della pasta, a Napoli si fecero cortei popolari in difesa dei vermicelli, il piatto amato da Pulcinella, e su molti giornalisti scandalistici comparirono dei fotomontaggi in cui era immortalato il padre del Futurismo impegnato a ingozzarsi di spaghetti.
La storia di questi due anni di cucina avanguardista, all'insegna della sorpresa e della teatralità, venne pubblicata nel 1932 dalla Casa Treves, l'attuale Sonzogno, con un ricco corredo di lettere, di articoli, notizie sui grandi pranzi futuristi completi di menù e di ricette, nonché di un formulario futurista per ristoranti e bar, ribattezzati da Filippo Tommaso Marinetti e da Fillìa - autori del volume - «quisibeve», oltre che da un piccolo dizionario, in cui i termini relativi alla ristorazione erano stati riscritti in modo da abolire ogni parola straniera: il dessert era diventato il «peralzarsi», il cocktail la «polibibita», il picnic il «prestoalsole», il menù la «listavivande» e il sandwich il «traidue».
Con la pubblicazione di questo libro venne definitivamente codificato il regno di una gastronomia che, abbandonati i tempi medio-lunghi di cottura a fuoco lento e tutti i cibi complessi da cucinare, puntava sulla carne poco cotta, sugli accostamenti arditi e sconvolgenti, sul disordine nella presentazione delle
portate, su «miscugli non conformisti» come il dolce-salato e il cotto-crudo, su bocconi «simultanei», in cui si concentravano molteplici sapori da gustare in pochi attimi, sull'invenzione di nuove vivande ispirate all'originalità plastica e coloristica più che alla gradevolezza e alla commestibilità.
L'esperienza futurista non segnò, comunque, la svolta gastronomica desiderata dai suoi ideatori: la Taverna del Santopalato ebbe vita breve, gli aerobanchetti si esaurirono nell'indifferenza generale e le ricette «antipassatiste» non fecero presa sulle massaie, essendo più espressione artistica e appagamento cerebrale che non soddisfazione del gusto. Figlia del proprio tempo nell'esaltazione del nazionalismo e della guerra (lo documentano gli echi bellici o patriottici di pietanze come il Pollo d'acciaio e il Golfo di Trieste), ma figlia anche di un passato culinario glorioso che ha le proprie radici nella Roma Imperiale e nel Rinascimento dove si usava condire i piatti con petali di rosa, mosto o miele, la cucina di Marinetti e sodali è stata riscoperta solo in anni recenti, con l'avvento della nouvelle cuisine, come dimostrano il continuo ricorso ad alimenti esotici (carne di cammello, formaggio d'Olanda, noccioline, datteri, ananas, tamarindo, frutta candita, miele e zabaione), l'uso di accostare sapori tra loro distanti (datteri e acciughe o carne e banana) e, soprattutto, l'attenzione per l'aspetto pittorico e scultoreo delle portate, cosicché – diceva Martinetti – tutte le persone «abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d'arte».
Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Modello di listavivande (menù) della Taverna del Santopalato di Torino; [fig. 4] Disegno di Marialuisa de Romans per la copertina del volume La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (edizioni Marinotti, 1998); [fig. 5] Interno della Taverna del Santopalato di Torino, primo ristorante futurista italiano; [fig. 6 ] Filippo Tommaso Marinetti in cucina; [ fig. 7] Marinetti al ristorante Biffi di Milano mentre mangia un piatto di pastasciutta, 1930 ca. [ presunto fotomontaggio]
Bibliografia essenziale
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, s.d. [ma: 1932]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi, [1986]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Viennepierre, Milano 2007 (ristampa: 2009)
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista: un pranzo che evitò un suicidio, Milano, C. Marinotti, 1998
Claudia Salaris, Cibo futurista: dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, Stampa Alternativa /Nuovi equilibri, Roma 2000
Maria Salemi, La cucina futurista. La cucina Liberty, Firenze, Libriliberi, 2003
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