L’altura solitaria del Monte Tabor, il borgo di Recanati alle sue pendici, sullo sfondo i monti Sibillini e il mar Adriatico, in primo piano una siepe e le piante di un parco con le foglie mosse dal vento. È questa la geografia del cuore, intessuta di «profondissima quiete» e di «infinito silenzio», che ci restituisce Giacomo Leopardi con una delle opere poetiche più alte della letteratura di tutti i tempi: «L’Infinito».
È il 1819. Lo scrittore recanatese ha appena ventun anni, ma sente già viva in lui l’urgenza di riflettere sull’«eterno» e sulle «morte stagioni», ovvero sul tempo che scorre, sulla storia -nostra e di chi ci ha preceduto-, sul destino che ci attende.
Sei anni dopo quei quindici versi indimenticabili, di cui si celebrano quest’anno i duecento anni dalla composizione, trovano la loro prima veste tipografica: alla fine del 1825 vengono pubblicati sulla rivista «Il Nuovo Ricoglitore», edita dal tipografo ed editore veneziano Antonio Fortunato Stella, che nel 1810 ha trasferito la propria attività a Milano.
La storia della poesia «L’Infinito» si intreccia, dunque, con quella del capoluogo lombardo, dove lo scrittore trascorre un breve periodo di tempo, proprio nel 1825, tra il 27 luglio e il 26 settembre, in seguito all’incarico di redigere l’edizione completa delle opere di Cicerone.
Non potevano, dunque, non arrivare anche all’ombra della Madonnina i festeggiamenti per i duecento anni dalla composizione del noto idillio leopardiano, che hanno avuto quest’anno il loro cuore pulsante nel borgo di Recanati, dove è attualmente in programma la rassegna fotografica «Paesaggio italiano. L’infinito tra incanto e sfregio», tesa a raccontare il rapporto dell’uomo con la natura.
Sede scelta per l’omaggio milanese è la Biblioteca Sormani, dove fino al prossimo 8 febbraio, vanno in scena una mostra e un ciclo di incontri, per la curatela di William Spaggiari, professore ordinario di Letteratura italiana dell’Università degli studi di Milano.
Grazie a questo evento sarà possibile ripercorrere, nello specifico, l’importanza del capoluogo lombardo nel percorso leopardiano e le considerazioni del poeta recanatese sulla società, sulla fisionomia e i caratteri del cittadino civilmente consapevole e sul vivere nella grande città, argomento, questo, al centro di carteggi con i familiari e gli amici e di pagine segrete del suo «Zibaldone».
Come è noto Giacomo Leopardi verso i vent’anni sente il bisogno di lasciare Recanati, il natio borgo «selvaggio», ormai vissuto come prigione, per poter frequentare gli ambienti culturali più prestigiosi del suo tempo.
Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Roma e Napoli accolgono il poeta e diventano scenario di importanti incontri nonché fonte di ispirazione della sua produzione letterario-filosofica.
L’impatto con la vita di città, tuttavia, si rivela per lo scrittore difficoltoso sia per i noti problemi di salute sia per il suo scarso spirito di adattamento, ma anche e soprattutto per il suo carattere schivo, incline alla solitudine e allo studio, insofferente nei confronti della vita di società.
Non semplice è anche il rapporto con la città lombarda. «Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, -scrive, infatti, il poeta in una lettera del 20 agosto 1825 a Carlo Antici- perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario».
Dell’allora capitale del Regno Lombardo-veneto Giacomo Leopardi non ama «l'aria, i cibi e le bevande», definiti -in una lettera del 24 agosto 1825 al padre Monaldo- «forse i peggiori del mondo». Ne disprezza la troppa venerazione, nei circoli culturali, per l’austero Vincenzo Monti, una delle figure egemoni del tempo. Ne avverte, soprattutto, la diffidenza nei suoi confronti, respira cioè -si legge in una lettera allo Stella del marzo 1826- «la disgrazia di essere profondamente disprezzato nella dotta e grassa Lombardia». Ma è ben consapevole che Milano è il posto ideale per realizzare il sogno di gloria letteraria tramite la stampa e la diffusione dei suoi scritti nei circuiti di alto livello culturale. E sarà, infatti, nella città lombarda che vedranno la luce molte delle sue opere: articoli, traduzioni, le «Operette morali», la doppia «Crestomazia», le «Rime» di Petrarca con ampio commento.
La rassegna nella Sala del Grechetto, di cui rimarrà documentazione in un bel catalogo di Silvana editoriale, permette di ammirare un importante corpus di documenti, alcuni rari e mai esposti prima, facenti parte del «Fondo leopardiano», all’interno del quale si trovano trascrizioni manoscritte, edizioni originali a stampa di opere del poeta recanatese e la saggistica più autorevole uscita nell’arco di due secoli.
Oltre a questi pezzi, Walter Spaggiari ha selezionato un ricco apparato documentale e iconografico: lettere autografe di Giacomo Leopardi all’editore Antonio Fortunato Stella, provenienti dalla Biblioteca nazionale Braidense, una lettera di Pietro Brighenti, corrispondente bolognese del poeta e confidente segreto della Polizia austriaca con il nome in codice di Luigi Morandini, di proprietà dall’Archivio di Stato di Milano, nonché dipinti e stampe che ritraggono luoghi, personaggi e momenti della Milano ottocentesca, di solito conservati alla Civica raccolta delle stampe «Achille Bertarelli» del Castello sforzesco, a Palazzo Morando, al Museo del Risorgimento e alla Casa del Manzoni.
Curiosa è, poi, la sezione espositiva curata dall’Associazione culturale Biblioteca Famiglia meneghina Società del Giardino, che propone una serie di traduzioni in milanese del celebre idillio al centro dell’omaggio.
«Giacomo Leopardi. Infinito incanto», questo il titolo del progetto, prevede, inoltre, un ciclo di sette incontri che analizzeranno vari aspetti della poetica dello scrittore recanatese. Patrizia Landi parlerà dello «Zibaldone» (22 novembre), Walter Spaggiari della luna (25 novembre), Angelo Colombo dei rapporti dello scrittore con Milano (2 dicembre). Sarà, poi, la volta di Anna Maria Salvadè con l’incontro «Solitudini leopardiane» (13 dicembre), di Christian Genetelli con «Leopardi e i giornali milanesi» (16 dicembre) e di Gianmarco Gaspari con «Leopardi e il carattere degli italiani» (23 gennaio). A chiudere il cartellone sarà, infine, un appuntamento sulle relazioni tra lo scrittore recanatese e Alessandro Manzoni, a cura di Angelo Stella (30 gennaio).
Un bell’omaggio, dunque, quello di Milano a Giacomo Leopardi, uno dei suoi ospiti illustri insieme con Stendhal, Byron, Shelley, Balzac, Listz e molti altri, che «ha illuminato del suo pensiero -raccontano gli organizzatori- l’ambiente vivace della “capitale morale” di primo Ottocento, pronta ad accogliere e a far propri i fermenti portati dal vento innovatore che spirava in Europa».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Anonimo, Giacomo Leopardi, 1898. Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli. Milano, Castello Sforzesco; [fig. 2] Johann Jakob Falkeisen, Piazza Duomo, 1835-1840. Acquatinta acquarellata a mano. Civiche raccolte storiche. Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento; [fig. 3] Salvatore Corvaya, Piazza della Scala avanti il 1857, 1920. Olio su tela. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 4] Anonimo, Velocifero, 1835 - 1840. Acquaforte e acquatinta colorata a mano. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 5] Giovanni Migliara, Ponte e trofeo di Porta Ticinese, metà XIX secolo. Acquerello su carta. Civiche Raccolte Storiche - Palazzo Morando
Informazioni utili
Giacomo Leopardi. Infinito Incanto. Biblioteca Sormani - Scalone d'onore, via Francesco Sforza, 7 - Milano. Orari: lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00, sabato, ore 9.00-12.30, chiuso domenica e festivi. Ingresso libero. Informazioni: Ufficio Conservazione e Valorizzazione Raccolte Storiche, tel. 0288463372, c.salagrechetto@comune.milano.it. Fino all'8 febbraio 2020
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
lunedì 18 novembre 2019
venerdì 15 novembre 2019
Man Ray e le sue donne: duecento scatti in mostra a Torino
È il 1924. Man Ray (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), artista di spicco prima della stagione dadaista e poi di quella surrealista, rimane sedotto da «La Grande Baigneuse di di Valpinçon», opera realizzata nel 1808 da Jean-Auguste-Dominique Ingres, oggi conservata al Louvre. Con quella tela in testa, mette in posa la sua modella Kiki de Montparnasse, nome d’arte della cantante e cabarettista Alice Prin, una delle figure più affascinanti della ruggente Parigi degli anni Venti. La veste con un grande turbante e trasforma, idealmente, la sua schiena nuda in uno strumento musicale, disegnandole sopra le due F che simboleggiano la viola e il violoncello. Poi scatta e quella fotografia, dall’elegante bianco e nero, finisce per diventare una delle immagini più iconiche del Novecento.
L’opera, intitolata «Le violon d'Ingres», è una delle duecento immagini che compongono il percorso espositivo della mostra «wo/MAN RAY», allestita fino al prossimo 19 gennaio a Torino, negli spazi di Camera – Centro italiano per la fotografia.
La rassegna, per la curatela di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, ripercorre il rapporto dell’artista con l’universo femminile, fonte di ispirazione primaria dell’intera sua poetica, proprio nella sua declinazione fotografica.
Tra le immagini selezionate, realizzate a partire dagli anni Venti fino alla morte dell’artista (avvenuta nel 1976), ci sono altre icone del Novecento come «Lacrime di vetro» del 1932, con il primo piano degli occhi di un’anonima ballerina di can-can bagnati da gocce rotondamente perfette, «Noire et Blanche» del 1926, con il volto di una donna dai capelli neri appoggiato sul tavolo, mentre con una mano sorregge una scultura africana dalle forme stilizzate, e la «Prière» (1930), con in primo piano le mani e il fondoschiena di Kiki de Montparnasse.
Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo chicche come il portfolio capolavoro «Electricitè» (1931) e il rarissimo «Les mannequins. Résurrection des mannequins» (1938), testimonianza unica di uno degli eventi cruciali della storia del Surrealismo e delle pratiche espositive del XX secolo, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi del 1938.
Appare evidente dalla mostra, resa possibile grazie alla collaborazione di istituzioni quali lo Csac di Parma e il Mast di Bologna (solo per fare due esempi), come Man Ray sia stato capace di reinventare non solo il linguaggio fotografico, ma anche la rappresentazione del corpo e del volto, i generi stessi del nudo e del ritratto.
Attraverso i suoi rayographs, le solarizzazioni, le doppie esposizioni, il corpo femminile è, infatti, stato sottoposto a una continua metamorfosi di forme e significati, divenendo di volta in volta forma astratta, oggetto di seduzione, memoria classica, ritratto realista, in una straordinaria -giocosa e raffinatissima– riflessione sul tempo e sui modi della rappresentazione, fotografica e non solo.
Assistenti, muse ispiratrici, compagne di vita e di avventure intellettuali, le donne protagoniste della mostra allestita a Torino sono figure centrali nella storia di quegli anni come Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse e Nusch Eluard, e artiste di straordinario talento come Lee Miller, Berenice Abbott e Dora Maar. Accanto a loro c’è anche Juliet Browner, l’inseparabile compagna di una vita, a cui Man Ray dedica lo strepitoso portfolio «The Fifty Faces of Juliet» (1943-1944), cinquanta immagini in bianco e nero, spesso ritoccate a mano con pastelli colorati o stampate con innovative tecniche fotografiche, in cui si assiste alla straordinaria trasformazione della donna in tante figure diverse, in un gioco di affetti e seduzioni, citazioni e provocazioni.
In mostra a Camera sfilano anche le istantanee di alcune di queste donne che sono state prima modelle e poi allieve dell’artista. È così possibile ammirare un corpus di opere, riferite in particolare agli anni Trenta e Quaranta, vale a dire quelli della loro più diretta frequentazione con l’ambiente dell’avanguardia dada e surrealista parigina. Ecco così gli splendidi ritratti dei protagonisti di quella stagione storica, tra cui Eugene Atget o James Joyce, scattati da Berenice Abbott tra il 1926 e il 1938 a Parigi e a New York, capitali dell’arte di avanguardia della prima metà del XX secolo. Dora Maar è, invece, presente in mostra con opere riconducibili a un linguaggio di street photography e di paesaggio come ben documenta l’opera «Gamin aux Chaussures Dépareillés» (1933). Mentre l’indagine sul corpo femminile è il fulcro del lavoro di Lee Miller, della quale sono esposti numerosi autoritratti e nudi di modelle e modelli che lavoravano con lei sia in ambito di ricerca che di fotografia di moda.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella proposta a Torino perché permette sia di vedere alcune immagini simbolo del Novecento sia di ricostruire una storia ancora poco conosciuta, quella dell’interesse dell’artista americano per i ritratti femminili. Un interesse che André Breton commentò con queste parole: «Solo da Man Ray potevamo attenderci la Ballata delle donne del tempo presente».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Man Ray, Violon d’Ingres (Kiki), 1924 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 2] Man Ray, Noire et blanche, 1926 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [Fig. 3] Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941/1943. Cm 39,5 x 34 x 2,7. Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 4] Man Ray, Electricité, 1931. Portfolio di 10 rayografie. Cm
Informazioni utili
«wo/MAN RAY». CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine, 18 – Torino. Orari: lunedì ore 11.00 – 19.00, martedì chiuso , mercoledì ore 11.00 – 19.00, giovedì ore 11.00 – 21.00, venerdì ore 11.00 – 19.00, sabato ore 11.00 – 19.00, domenica ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Ingresso: intero € 10,00, ridotto (fino a 26 anni, oltre 70 anni Soci Touring Club Italiano e associazioni aventi diritto) € 6,00, ingresso gratuito per bambini fino agli 11 anni. Informazioni utili: camera@camera.to. Sito internet: www.camera.to. Fino al 19 gennaio 2020.
L’opera, intitolata «Le violon d'Ingres», è una delle duecento immagini che compongono il percorso espositivo della mostra «wo/MAN RAY», allestita fino al prossimo 19 gennaio a Torino, negli spazi di Camera – Centro italiano per la fotografia.
La rassegna, per la curatela di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, ripercorre il rapporto dell’artista con l’universo femminile, fonte di ispirazione primaria dell’intera sua poetica, proprio nella sua declinazione fotografica.
Tra le immagini selezionate, realizzate a partire dagli anni Venti fino alla morte dell’artista (avvenuta nel 1976), ci sono altre icone del Novecento come «Lacrime di vetro» del 1932, con il primo piano degli occhi di un’anonima ballerina di can-can bagnati da gocce rotondamente perfette, «Noire et Blanche» del 1926, con il volto di una donna dai capelli neri appoggiato sul tavolo, mentre con una mano sorregge una scultura africana dalle forme stilizzate, e la «Prière» (1930), con in primo piano le mani e il fondoschiena di Kiki de Montparnasse.
Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo chicche come il portfolio capolavoro «Electricitè» (1931) e il rarissimo «Les mannequins. Résurrection des mannequins» (1938), testimonianza unica di uno degli eventi cruciali della storia del Surrealismo e delle pratiche espositive del XX secolo, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi del 1938.
Appare evidente dalla mostra, resa possibile grazie alla collaborazione di istituzioni quali lo Csac di Parma e il Mast di Bologna (solo per fare due esempi), come Man Ray sia stato capace di reinventare non solo il linguaggio fotografico, ma anche la rappresentazione del corpo e del volto, i generi stessi del nudo e del ritratto.
Attraverso i suoi rayographs, le solarizzazioni, le doppie esposizioni, il corpo femminile è, infatti, stato sottoposto a una continua metamorfosi di forme e significati, divenendo di volta in volta forma astratta, oggetto di seduzione, memoria classica, ritratto realista, in una straordinaria -giocosa e raffinatissima– riflessione sul tempo e sui modi della rappresentazione, fotografica e non solo.
Assistenti, muse ispiratrici, compagne di vita e di avventure intellettuali, le donne protagoniste della mostra allestita a Torino sono figure centrali nella storia di quegli anni come Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse e Nusch Eluard, e artiste di straordinario talento come Lee Miller, Berenice Abbott e Dora Maar. Accanto a loro c’è anche Juliet Browner, l’inseparabile compagna di una vita, a cui Man Ray dedica lo strepitoso portfolio «The Fifty Faces of Juliet» (1943-1944), cinquanta immagini in bianco e nero, spesso ritoccate a mano con pastelli colorati o stampate con innovative tecniche fotografiche, in cui si assiste alla straordinaria trasformazione della donna in tante figure diverse, in un gioco di affetti e seduzioni, citazioni e provocazioni.
In mostra a Camera sfilano anche le istantanee di alcune di queste donne che sono state prima modelle e poi allieve dell’artista. È così possibile ammirare un corpus di opere, riferite in particolare agli anni Trenta e Quaranta, vale a dire quelli della loro più diretta frequentazione con l’ambiente dell’avanguardia dada e surrealista parigina. Ecco così gli splendidi ritratti dei protagonisti di quella stagione storica, tra cui Eugene Atget o James Joyce, scattati da Berenice Abbott tra il 1926 e il 1938 a Parigi e a New York, capitali dell’arte di avanguardia della prima metà del XX secolo. Dora Maar è, invece, presente in mostra con opere riconducibili a un linguaggio di street photography e di paesaggio come ben documenta l’opera «Gamin aux Chaussures Dépareillés» (1933). Mentre l’indagine sul corpo femminile è il fulcro del lavoro di Lee Miller, della quale sono esposti numerosi autoritratti e nudi di modelle e modelli che lavoravano con lei sia in ambito di ricerca che di fotografia di moda.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella proposta a Torino perché permette sia di vedere alcune immagini simbolo del Novecento sia di ricostruire una storia ancora poco conosciuta, quella dell’interesse dell’artista americano per i ritratti femminili. Un interesse che André Breton commentò con queste parole: «Solo da Man Ray potevamo attenderci la Ballata delle donne del tempo presente».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Man Ray, Violon d’Ingres (Kiki), 1924 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 2] Man Ray, Noire et blanche, 1926 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [Fig. 3] Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941/1943. Cm 39,5 x 34 x 2,7. Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 4] Man Ray, Electricité, 1931. Portfolio di 10 rayografie. Cm
Informazioni utili
«wo/MAN RAY». CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine, 18 – Torino. Orari: lunedì ore 11.00 – 19.00, martedì chiuso , mercoledì ore 11.00 – 19.00, giovedì ore 11.00 – 21.00, venerdì ore 11.00 – 19.00, sabato ore 11.00 – 19.00, domenica ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Ingresso: intero € 10,00, ridotto (fino a 26 anni, oltre 70 anni Soci Touring Club Italiano e associazioni aventi diritto) € 6,00, ingresso gratuito per bambini fino agli 11 anni. Informazioni utili: camera@camera.to. Sito internet: www.camera.to. Fino al 19 gennaio 2020.
martedì 12 novembre 2019
«Pedigree», Rodrigo Hernández rilegge la storia del marchio Campari
Si respira il clima festoso e colorato del Messico alla Galleria Campari di Sesto San Giovanni. Lo spazio museale alle porte di Milano, centro di ricerca e produzione culturale nato nel 2010 in occasione dei centocinquant’anni dalla fondazione della nota azienda di beverage, ha da poco aperto le porte a una personale di Rodrigo Hernández (Città del Messico, 1983).
«Pedigree» -questo il titolo dell’esposizione, per la curatela di Ilaria Bonacossa- allinea otto sculture che l’artista sudamericano ha voluto mettere in dialogo con una speciale carta da parati optical realizzata in omaggio alla vicenda della famiglia Campari e alla sua storia imprenditoriale e creativa.
Si rinnova così il sodalizio tra il celebre marchio milanese e «Artissima», la fiera internazionale d’arte contemporanea di Torino, che dal 2017 ha dato vita al Campari Art Prize, riconoscimento riservato ad artisti under 35, selezionati in base alla «ricerca sul potere evocativo del racconto, sulla dimensione comunicativa e sulla capacità narrativa» della loro opera.
Rodrigo Hernández, presentato nell’ambito dell'edizione 2018 del prestigioso evento mercantile piemontese dalla galleria Madragoa di Lisbona, si è aggiudicato il riconoscimento dopo Sári Ember, vincitrice nel 2017, e prima di Julian Irlinger, premiata soto pochi giorni all'Oval del Lingotto.
A selezionare il lavoro dell'artista sudamericano è stata una giuria composta da Lorenzo Fusi, direttore di Piac - Fondation Prince Pierre di Monaco, da Abaseh Mirvali, direttrice e capo curatrice del Contemporary Art Museum Santa Barbara, e da Claire Tancons, co-curatrice della Sharjah Biennal 14.
Rodrigo Hernández -secondo la motivazione data per l'assegnazione del riconoscimento- «rivisita una storia e un'estetica che trae spunto dall'iconografia Meso-americana così come dal modernismo europeo e dalle avanguardie italiane, e li reinterpreta nuovamente puntando sugli elementi e le componenti più essenziali di questi linguaggi e tradizioni. In tal modo, crea un vocabolario nuovo e unico, ma allo stesso tempo ricorda le molte storie e i riferimenti da cui ha attinto».
Attraverso un vocabolario formale del tutto personale e unico, sospeso tra ironia e classicità, e per mezzo di installazioni, sculture e disegni, l’artista sudamericano ricorre per le sue opere a elementi tratti dall’iconografia antica, dalla storia dell’arte e dalla quotidianità.
Ispirato dall’ambiguità delle immagini, Rodrigo Hernández sviluppa i propri lavori lasciandosi guidare dall’immaginazione e dalle associazioni personali, legate spesso a suggestioni letterarie, come ad esempio i testi di Rovert Walser, Juan Rulfo e Patrick Modiano. Da quest’ultimo, in particolare da un suo scritto omonimo, prende le mosse il titolo «Pedigree» dato alla mostra: l’autore in questo volume parla di sé come «un cane che finge di avere un pedigree», stimolo accolto dall’artista per ragionare sull’importanza di un certificatore di qualità.
Rodrigo Hernández ha scelto di intrecciare il tono e la struttura di questa narrazione autobiografica con la sua lettura della storia di Campari. «Ispirato e affascinato dalla vita del fondatore Gaspare -ha raccontato l'artista, mi sono trovato a riflettere sul significato e le implicazioni che la creazione dell’identità di una marca potesse avere nell’Ottocento».
Fonte di ispirazione sono state le originali testimonianze d’arte e design custodite nel museo aziendale di Sesto San Giovanni.
L’artista ha, più precisamente, focalizzato la sua attenzione sull’ideazione e sulla registrazione di un pioneristico «logo» ottocentesco: uno stemma Campari, rappresentante uno scudo con la figura di due cani accoccolati e sormontato da un elmo con foglie ornamentali.
Da questo spunto sono nate le nuove sculture dell’artista, che uniscono elementi astratti e figurativi, come ad esempio cani, edifici, uomini e macchine, dando vita a figure totemiche apotropaiche dai colori vivaci che richiamano alla memoria lo stile di un altro grande artista che ha lavorato per Campari: Fortunato Depero.
La mostra, allestita al secondo piano del museo, offre anche l’occasione per scoprire o riscoprire la Galleria Campari, spazio dinamico, interattivo e multimediale, interamente dedicato al rapporto tra il noto marchio del bevarage e la sua comunicazione attraverso l’arte e il design, i cui spazi sono stati disegnati da Mario Botta tra i 2007 e il 2009.
Il museo di Sesto San Giovanni deve la propria forza all’unicità e alla ricchezza dell’Archivio storico, vero e proprio giacimento culturale trasversale, che raccoglie oltre tremila opere su carta, soprattutto affiche originali della Belle époque, ma anche manifesti e grafiche pubblicitarie dagli anni ‘30 agli anni ‘90, firmate da importanti artisti come Marcello Dudovich, Leonetto Cappiello, Fortunato Depero, Franz Marangolo, Guido Crepax e Ugo Nespolo. Negli spazi di viale Gramsci sono visibili anche caroselli e spot di noti registi come Federico Fellini e Singh Tarsem, ma anche oggetti firmati da affermati designer come Matteo Thun, Dodo Arslan, Markus Benesch e Matteo Ragni.
Le opere sono esposte sia in originale sia in versione multimediale, rielaborate da giovani Interaction Designer (Cogitanz) utilizzando modalità digitali quali un video-wall con quindici schermi dedicati ai caroselli dagli anni ‘50 agli anni ‘70, 8 proiettori in alta definizione che proiettano su una parete di trentadue metri manifesti d’epoca animati, video dedicati ad artisti, immagini tratte dai calendari Campari e spot pubblicitari dagli anni ‘80 a oggi. Infine, un tavolo interattivo con dodici schermi touch screen consente di fruire gran parte del vasto patrimonio artistico dell’azienda.
Quella di Campari si configura così come una storia fatta di brillanti intuizioni, di campagne pubblicitarie raffinate, di una strategia comunicativa all’avanguardia che ha vestito il prodotto di arte e design e ha saputo associarlo alla cultura e alla creatività italiane, traghettando il marchio verso il futuro. Un futuro di cui il Campari Art Prize è un piccolo, ma importante tassello.
Didascalie delle immagini
Installation views, Rodrigo Hernández, Pedigree, Galleria Campari, Ph Marco Curatolo
Informazioni utili
Rodrigo Hernández - Pedigree. HQs Gruppo Campari, Viale Gramsci, 161 - Sesto San Giovanni (Milano). Orari e biglietto: visite guidate gratuite su prenotazione dal martedì al venerdì, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00; ogni secondo sabato del mese, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00 |Aperture serali, alle ore 20.00, nelle giornate del 12 novembre e del 3 dicembre 2019. Opzione 1) Visita gratuita, su prenotazione. Opzione 2) Art&Mixology (per un pubblico maggiorenne): visita guidata condotta da uno storico dell'arte e da un bartender + cocktail experience. Su prenotazione fino a esaurimento posti, € 25,00 a persona. Informazioni e prenotazioni: galleria@campari.com, tel. 02.62251. Fino al 14 febbraio 2020.
«Pedigree» -questo il titolo dell’esposizione, per la curatela di Ilaria Bonacossa- allinea otto sculture che l’artista sudamericano ha voluto mettere in dialogo con una speciale carta da parati optical realizzata in omaggio alla vicenda della famiglia Campari e alla sua storia imprenditoriale e creativa.
Si rinnova così il sodalizio tra il celebre marchio milanese e «Artissima», la fiera internazionale d’arte contemporanea di Torino, che dal 2017 ha dato vita al Campari Art Prize, riconoscimento riservato ad artisti under 35, selezionati in base alla «ricerca sul potere evocativo del racconto, sulla dimensione comunicativa e sulla capacità narrativa» della loro opera.
Rodrigo Hernández, presentato nell’ambito dell'edizione 2018 del prestigioso evento mercantile piemontese dalla galleria Madragoa di Lisbona, si è aggiudicato il riconoscimento dopo Sári Ember, vincitrice nel 2017, e prima di Julian Irlinger, premiata soto pochi giorni all'Oval del Lingotto.
A selezionare il lavoro dell'artista sudamericano è stata una giuria composta da Lorenzo Fusi, direttore di Piac - Fondation Prince Pierre di Monaco, da Abaseh Mirvali, direttrice e capo curatrice del Contemporary Art Museum Santa Barbara, e da Claire Tancons, co-curatrice della Sharjah Biennal 14.
Rodrigo Hernández -secondo la motivazione data per l'assegnazione del riconoscimento- «rivisita una storia e un'estetica che trae spunto dall'iconografia Meso-americana così come dal modernismo europeo e dalle avanguardie italiane, e li reinterpreta nuovamente puntando sugli elementi e le componenti più essenziali di questi linguaggi e tradizioni. In tal modo, crea un vocabolario nuovo e unico, ma allo stesso tempo ricorda le molte storie e i riferimenti da cui ha attinto».
Attraverso un vocabolario formale del tutto personale e unico, sospeso tra ironia e classicità, e per mezzo di installazioni, sculture e disegni, l’artista sudamericano ricorre per le sue opere a elementi tratti dall’iconografia antica, dalla storia dell’arte e dalla quotidianità.
Ispirato dall’ambiguità delle immagini, Rodrigo Hernández sviluppa i propri lavori lasciandosi guidare dall’immaginazione e dalle associazioni personali, legate spesso a suggestioni letterarie, come ad esempio i testi di Rovert Walser, Juan Rulfo e Patrick Modiano. Da quest’ultimo, in particolare da un suo scritto omonimo, prende le mosse il titolo «Pedigree» dato alla mostra: l’autore in questo volume parla di sé come «un cane che finge di avere un pedigree», stimolo accolto dall’artista per ragionare sull’importanza di un certificatore di qualità.
Rodrigo Hernández ha scelto di intrecciare il tono e la struttura di questa narrazione autobiografica con la sua lettura della storia di Campari. «Ispirato e affascinato dalla vita del fondatore Gaspare -ha raccontato l'artista, mi sono trovato a riflettere sul significato e le implicazioni che la creazione dell’identità di una marca potesse avere nell’Ottocento».
Fonte di ispirazione sono state le originali testimonianze d’arte e design custodite nel museo aziendale di Sesto San Giovanni.
L’artista ha, più precisamente, focalizzato la sua attenzione sull’ideazione e sulla registrazione di un pioneristico «logo» ottocentesco: uno stemma Campari, rappresentante uno scudo con la figura di due cani accoccolati e sormontato da un elmo con foglie ornamentali.
Da questo spunto sono nate le nuove sculture dell’artista, che uniscono elementi astratti e figurativi, come ad esempio cani, edifici, uomini e macchine, dando vita a figure totemiche apotropaiche dai colori vivaci che richiamano alla memoria lo stile di un altro grande artista che ha lavorato per Campari: Fortunato Depero.
La mostra, allestita al secondo piano del museo, offre anche l’occasione per scoprire o riscoprire la Galleria Campari, spazio dinamico, interattivo e multimediale, interamente dedicato al rapporto tra il noto marchio del bevarage e la sua comunicazione attraverso l’arte e il design, i cui spazi sono stati disegnati da Mario Botta tra i 2007 e il 2009.
Il museo di Sesto San Giovanni deve la propria forza all’unicità e alla ricchezza dell’Archivio storico, vero e proprio giacimento culturale trasversale, che raccoglie oltre tremila opere su carta, soprattutto affiche originali della Belle époque, ma anche manifesti e grafiche pubblicitarie dagli anni ‘30 agli anni ‘90, firmate da importanti artisti come Marcello Dudovich, Leonetto Cappiello, Fortunato Depero, Franz Marangolo, Guido Crepax e Ugo Nespolo. Negli spazi di viale Gramsci sono visibili anche caroselli e spot di noti registi come Federico Fellini e Singh Tarsem, ma anche oggetti firmati da affermati designer come Matteo Thun, Dodo Arslan, Markus Benesch e Matteo Ragni.
Le opere sono esposte sia in originale sia in versione multimediale, rielaborate da giovani Interaction Designer (Cogitanz) utilizzando modalità digitali quali un video-wall con quindici schermi dedicati ai caroselli dagli anni ‘50 agli anni ‘70, 8 proiettori in alta definizione che proiettano su una parete di trentadue metri manifesti d’epoca animati, video dedicati ad artisti, immagini tratte dai calendari Campari e spot pubblicitari dagli anni ‘80 a oggi. Infine, un tavolo interattivo con dodici schermi touch screen consente di fruire gran parte del vasto patrimonio artistico dell’azienda.
Quella di Campari si configura così come una storia fatta di brillanti intuizioni, di campagne pubblicitarie raffinate, di una strategia comunicativa all’avanguardia che ha vestito il prodotto di arte e design e ha saputo associarlo alla cultura e alla creatività italiane, traghettando il marchio verso il futuro. Un futuro di cui il Campari Art Prize è un piccolo, ma importante tassello.
Didascalie delle immagini
Installation views, Rodrigo Hernández, Pedigree, Galleria Campari, Ph Marco Curatolo
Informazioni utili
Rodrigo Hernández - Pedigree. HQs Gruppo Campari, Viale Gramsci, 161 - Sesto San Giovanni (Milano). Orari e biglietto: visite guidate gratuite su prenotazione dal martedì al venerdì, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00; ogni secondo sabato del mese, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00 |Aperture serali, alle ore 20.00, nelle giornate del 12 novembre e del 3 dicembre 2019. Opzione 1) Visita gratuita, su prenotazione. Opzione 2) Art&Mixology (per un pubblico maggiorenne): visita guidata condotta da uno storico dell'arte e da un bartender + cocktail experience. Su prenotazione fino a esaurimento posti, € 25,00 a persona. Informazioni e prenotazioni: galleria@campari.com, tel. 02.62251. Fino al 14 febbraio 2020.
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