ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 20 luglio 2020

Bologna, a San Colombano tra le note del passato con gli strumenti della collezione Vázquez

Li chiamava «monumenti sonori viventi» e li collezionava con passione intenzionato a trasmettere un pezzo di storia della musica antica al futuro. Aveva acquisito il suo primo pezzo, una spinetta del Cinquecento, nel 1969. Poi, poco dopo, era riuscito ad accaparrarsi un esemplare di grande valore e rara bellezza: un grande cembalo a tre registri costruito nel 1679 dal lucchese Giovanni Battista Giusti. Era l’inizio di una febbre collezionistica che, in quasi cinquant’anni, ha portato l’organista, clavicembalista e compositore bolognese Luigi Ferdinando Tagliavini (1929-2017), per trent’anni direttore dell’Istituto di musicologia di Friburgo, nonché curatore di prestigiose edizioni critiche dei lavori di Girolamo Frescobaldi e Domenico Zipoli, a raccogliere una settantina di strumenti a tastiera. Si tratta di virginali, clavicordi, arpicordi, clavicembali, pianoforti e organi, tutti restaurati e funzionanti, ai quali va ad affiancarsi una raccolta di strumenti a fiato e popolari risalenti ai secoli tra il XVI e il XIX.
Questo patrimonio prezioso -tra cui si trova anche un raro strumento combinatore, metà clavicembalo e metà pianoforte, costruito nel 1746 da Giovanni Ferrini, unico allievo certo di Bartolomeo Cristofori (l’inventore del fortepiano)- è stato donato nel 2006 alla Fondazione Carisbo e al suo circuito Genus Bononiae – Musei nella città.
Quattro anni dopo, nel 2010, la collezione trovava casa in uno dei gioielli architettonici di Bologna: il millenario complesso monastico di San Colombano, sorprendente stratificazione di ambienti.
La cripta è di epoca medioevale e presenta lacerti di pitture murali, tra cui un «Cristo in croce» attribuito a Giunta Pisano, uno dei massimi innovatori dell’arte del tempo prima di Cimabue.
La Cappella della Madonna dell’Orazione fu fatta costruire sul finire del Cinquecento dall’omonima confraternita e venne abbellita da affreschi carracceschi a cornice della venerata «Vergine» del bolognese Lippo di Dalmasio (1399), che si trovava allora all’aperto, sul muro di una casa, soggetta alle intemperie.
Infine, l’Oratorio della Passione, vero e proprio gioiello della scuola pittorica bolognese, fu edificato per il Giubileo del 1600 e fu teatro di quella che lo storico dell’arte Carlo Cesare Malvasia, «il Giorgio Vasari dell’Emilia», definì la «gloriosa gara» tra i massimi talenti dell’Accademia dei Carracci: Francesco Albani, Domenichino, Guido Reni, Lucio Massari, Francesco Brizio, Lorenzo Garbieri e Galanino.
In questo contesto di grande bellezza si può, dunque, percorrere un viaggio tra strumenti che legarono la propria storia a quella di importanti protagonisti di tutti i tempi. È possibile vedere, per esempio, il piccolo pianoforte in «tavolo da cucito» di Francesca Ciani Camperio, ardente patriota risorgimentale, sul quale le impartì lezioni di canto Gioacchino Rossini. Si può ammirare una spinetta a pianta rettangolare che fu probabilmente della sfortunata nobildonna romana Beatrice Cenci, decapitata per aver ucciso il padre-orco e assurta, poi, al ruolo di eroina popolare tanto da essere raffigurata da Guido Reni e da Elisabetta Siranni e da essere raccontata, tra gli altri, da Stendhal e Alberto Moravia.
Ci si può, poi, far incantare dal clavicembalo di Nicolò Albana, suonato a Sorrento da Cornelia Tasso Spasiano, sorella di Torquato Tasso, e da uno dei quattro esemplari esistenti di cembalo pieghevole settecentesco, di cui si servirono Federico il Grande di Prussia e il celebre castrato Farinelli durante i loro viaggi.
Non mancano, infine, lungo il percorso strumenti dal raffinato decoro, impreziositi da pitture di paesaggio o da scene mitologiche, come la spinetta all’ottava di Silvestro Albana adornata dal Domenichino e il clavicembalo di Mattia di Gand con un dipinto del fiammingo Jan Frans van Bloemen.
In occasione dei dieci anni dall’inaugurazione del museo a San Colombano, Genus Bononiae ha voluto arricchire il percorso di un’altra perla: la mostra di strumenti antichi ad arco della collezione Vázquez, la più grande al mondo di questo genere, che dal 1993 viene gestita dalla Orpheon Foundation di Vienna.
«Still Alive» -questo il titolo della rassegna- raccoglie, nello specifico, oltre duecento tra strumenti ad arco ed archetti: viole da gamba e d’amore, violini, violoncelli, violoni e baryton ritrovati nelle residenze aristocratiche dell’antico passato, databili dal 1550 al 1780, tutti restaurati e riportati alle loro condizioni originali, così da essere ancora «vivi» nella loro funzionalità e fruizione, ovvero regolarmente utilizzati in occasione di concerti, registrazioni, masterclass e concorsi.
Anche in questo caso ogni strumento racconta una storia. Ci sono, tra gli esemplari in mostra, una viola da gamba di William Bowelesse (Londra, c. 1590), probabilmente appartenuta alla regina Elisabetta I d’Inghilterra, e un violoncello costruito da Simone Cimapane (1692), che si dice essere stato suonato nell’orchestra di Arcangelo Corelli a Roma. Si possono, poi, vedere anche due archi gemelli appartenuti al grande compositore e virtuoso di violino Giuseppe Tartini, e due archi veneziani, anch’essi gemelli, dell’epoca di Antonio Vivaldi, oltre a strumenti di scuola bolognese come un violino realizzato da Gian Antonio Marchi (c. 1770) e una viola da gamba di Giovanni Fiorino Guidantus (XVIII secolo).
Completano il percorso espositivo strumenti di Gasparo da Salò (Brescia, c. 1570), Jakob Stainer (1671), Joachim Tielke (1683, 1697) e Pietro Guarneri (Mantova, c. 1700), ma anche esemplari realizzati dal liutaio milanese Giovanni Grancino (c. 1700) o dalle dinastie asburgiche dei Thir, Leidolff, Stadlmann e Posch.
Non mancano, infine, pezzi di provenienza inglese, risalenti all’epoca di William Shakespeare ed Henry Purcell. Tutti strumenti, questi, dei quali si può dire -per usare le parole del musicista e musicologo José Vázquez, classe 1951- che sono «still alive», ancora vivi, pronti a riempire di note San Colombano per regalare emozioni senza tempo.

Informazioni utili 
«Still Alive». Museo di San Colombano – Collezione Tagliavini, via Parigi 5 – Bologna. Orari: da martedì a domenica, ore 11.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00. Informazioni: tel. 051.19936366 o sancolombano@genusbononiae.it. Sito internet: https://genusbononiae.it/palazzi/san-colombano/. Fino al 10 gennaio 2021.

venerdì 17 luglio 2020

Fabio Viale e i suoi marmi tra la Versilia e Firenze

Ha appena sedici anni quando scopre la passione per il marmo e decide di trascorrere le sue estati in laboratorio con gli artigiani che lavorano questa materia per imparare tutti i segreti del mestiere. Fabio Viale (Cuneo, 1975), scultore italiano di base a Torino, inizia così la sua attività artistica ispirata a un concetto di bellezza eterna e inequivocabile, che guarda alla tradizione greca e alla lezione di Michelangelo.
La critica ha più volte definito l’artista «un illusionista della materia», elogiandone la capacità di trasformare il marmo di Carrara in maniera impensata e inusuale, rendendolo ora leggero come un palloncino e morbido come la pelle, ora flessibile come la gomma e fibroso come la carta.
Negli anni sono nate così opere incredibili, pronte a ingannare lo sguardo, come «Ahgalla» (2002), una barca di marmo in grado di galleggiare ma anche di trasportare persone con l'ausilio di un motore fuoribordo, «Earth» (2017), riproduzione di due pneumatici incastrati, o ancora «Arrivederci e grazie» (2014), con due elementi in replica 1:1 di altrettanti sacchetti in carta forati.
Fabio Viale è anche conosciuto al grande pubblico per le sue riproduzioni perfette di opere della nostra storia scultorea, ma rivisitate in chiave contemporanea: è il caso di una «Nike» fatta di polistirolo, della «Venere» di Antonio Canova coperta da tatuaggi di ispirazione orientale, o ancora della «Pietà» di Michelangelo, di cui viene modificata l’iconografia sottraendo la figura di Gesù e sostituendola con quella di un migrante.
Dopo la personale al Glyptothek Museum di Monaco di Baviera, la partecipazione all’ultima Biennale di Venezia e l’esposizione al Pushkin Museum di Mosca, l’artista porta le sue opere in Versilia, a Pietrasanta, con il progetto espositivo «Truly», per la curatela di Enrico Mattei.
L’esposizione è l’occasione per presentare, negli spazi della chiesa di Sant’Agostino, la nuova scultura in marmo bianco «Le tre grazie», dettagliatissima nei particolari del panneggio, che vuole far riflettere sul concetto di libertà negata. L’opera ha, infatti, come soggetto tre donne originarie dalla città di Ghardaia in Algeria, luogo in cui la religione musulmana è interpretata in modo particolarmente integralista, visto che le donne sono costrette, fin dalla nascita, a indossare un burka fino ai piedi, che lascia scoperto un solo occhio.
Nella chiesa di sant’Agostino è visibile anche la scultura «Star Gate», realizzata in marmo arabescato del monte Altissimo, e consistente in due cassette per la frutta monumentali, di oltre due metri, «unite -raccontano gli organizzatori dell’esposizione- una con l’altra a divenire un varco per lo spazio, un passaggio, e al tempo stesso, un limite da oltrepassare cui si associano predisposizioni di nuova spiritualità e emancipazione».
La mostra, che allinea in tutto una ventina di opere, continua nel chiostro di Sant’Agostino e nelle sale adiacenti al pianoterra, dove è allestita una serie di lavori che hanno scandito la notorietà di Fabio Viale: dall’«Infinito» in marmo nero, con delle ruote di Suv intrecciate, a una versione de «La Suprema», che raffigura due cassette per la frutta dall’impeccabile effetto legno. In piazza del Duomo spicca, invece, un magistrale e inedito volto, cavo all’interno, come una maschera, che riproduce in scala monumentale il «David» di Michelangelo, sul quale Fabio Viale ha sperimentato un nuovo tipo di tatuaggio, combinazione del tutto personale delle più attuali tendenze: dallo stile criminale a quello giapponese, già sperimentati, fino ai nuovi orientamenti provenienti dal mondo dei trapper e dalle influenze sudamericane. Sempre in piazza del Duomo, accanto ad altri lavori, trova posto, una grande opera ispirata al «Torso Belvedere» che si trova a Roma, all’interno dei Musei vaticani.
La rassegna in Versilia è organizzata grazie alla preziosa collaborazione della Galleria Poggiali che, questa estate, ospita l’artista anche nei suoi spazi fiorentini con due diverse installazioni: una per la sede di via della Scala 35/Ar, l’altra per lo spazio in via Benedetta 3r. «Acqua alta High tide» è il titolo scelto per la rassegna, che presenta l'opera realizzata da Fabio Viale per il Padiglione Venezia (ai Giardini) in occasione della cinquantottesima edizione della Biennale d’arte: «una riflessione -raccontano gli organizzatori- sull’emergenza che stiamo attraversando, quella dell’innalzamento del livello del mare, dei cambiamenti climatici e del progresso incontrollato che ha stravolto equilibri naturali e il paesaggio in ogni parti del mondo».
L’installazione in via della Scala è formata da una dozzina di monoliti in pietra che replicano, a misura reale, quei pali in legno di rovere o di castagno alti tre metri e oltre che affiorano nella laguna di Venezia. Questi oggetti sono denominati «bricole», e servono da segnali per la navigazione. Quelle realizzate da Viale imitano il legno in maniera così stupefacente da far credere che queste sculture siano in realtà dei calchi.
La galleria è invasa da uno strato di sabbia umida, come se l’acqua si fosse appena ritirata dall’ambiente che ospita le «bricole». In più, Fabio Viale ha macchiato le pareti della galleria con un colore sporco, limaccioso, che riproduce la linea dell’acqua, come se lo spazio fosse realmente allagato. L’allestimento, così risolto, assume un aspetto drammatico e serve a collegare l’acqua alta che ha colpito Venezia nei mesi scorsi a quanto vissuto a Firenze nell’autunno del 1966, quando l’Arno superò gli argini, e con tutta la sua furia devastatrice il fiume invase il centro cittadino, raggiungendo l’altezza di molti metri in certi quartieri, come quello di Santa Croce. Ancora oggi, una lapide ricorda la linea dell’acqua in via della Scala e in Piazza Santa Maria Novella, dove furono superati i due metri, deturpando alla base affreschi preziosi e marmi pregiati.
Il tono così drammatico dell’allestimento in via della Scala si accentua nello spazio di via Benedetta, dove l’artista ha rovesciato quintali di pietrisco, detriti di marmo direttamente prelevati dai cosiddetti ravaneti, che sono in realtà gli strapiombi dove vengono gettati gli scarti della estrazione in cava: pietrame e schegge inutilizzabili, materiale prodotto dalla frantumazione della pietra che, precipitando e scivolando a valle, si sbriciola e crea delle vere e proprie cascate di marmo, che viste dalla marina sembrano antichi ghiacciai sopravvissuti al riscaldamento delle temperature.
Tra la massa informe dei detriti, che sembra muoversi come un fiume e trascinare con sé tutto, di tanto in tanto però emergono statue mozze, pezzi frantumati di vasi in marmo, arti e teste di pietra lavorati dal tempo e dalla caduta. Le «Tre Grazie» sono state ridotte a brandelli. Un personaggio pittoresco, un moro con turbante, appare riportato allo stadio grezzo di macigno. Un aggraziato «Apollo» è senza braccia, gambe e testa. Un molosso è restituito alla natura come sasso di fiume. Il paesaggio vuole ricordarci, l’inevitabile tragedia del divenire che tutto riduce in polvere.
Classico e popolare nello stesso tempo, Fabio Viale sembra giocare con il marmo per raccontarci verità sopite, rimosse o diverse, occultate dall’abitudine, dagli stereotipi, dai pregiudizi.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Fabio Viale, Le Tre Grazie, 2020, marmo bianco, (da sx a dx) 125x89x61 cm, 124x86x88 cm, 137x77x75 cm; [fig. 2] Fabio Viale, Souvenir David, 2020, marmo bianco e pigmenti, 196x114x115 cm; [fig. 3] Fabio Viale, Laocoonte, 2020, marmo bianco e pigmenti, 198,5x134x87 cm; [figg. 4 e 5] Fabio Viale, Acqua alta High tide, 2020. Installation view at Galleria Poggiali, Florence. Courtesy Galleria Poggiali; [fig. 6] Fabio Viale, Arrivederci e grazie, 2017, marmo bianco e pigmenti, 110x105x180 cm cad.

Informazioni utili
Fabio Viale. Truly. Piazza Duomo, Chiesa e chiostro di Sant’Agostino - Pietrasanta (Lucca). Orari: 28.06 | 06.09: tutti i giorni ore 19-24; 07.09 | 04.10: martedì-giovedì ore 17-20; venerdì 17-23; sabato: 10-13 | 17-23; domenica: 10-13 | 17-20; lunedì chiuso.Ingresso libero. Informazioni: tel. 055.287748 | info@galleriapoggiali.com. Sito web: www.galleriapoggiali.com. Fino al 4 ottobre 2020

Fabio Viale. Acqua alta High tide. Galleria Poggiali Firenze, via della Scala, 35/Ar | via Benedetta, 3r – Firenze. Orari: tutti i giorni, ore 10.00-13.00 / 15.00-19.00, domenica su appuntamento. Ingresso libero. Informazioni: tel. 055.287748 | info@galleriapoggiali.com. Sito web: www.galleriapoggiali.com. Fino all’11ottobre 2020

giovedì 16 luglio 2020

«Evoluzioni», sul Delta del Po l'arte racconta la natura e le sue fragilità

Stormi di fenicotteri rosa, aironi, fagiani, lepri, falchi di palude e daini allo stato brado. Due milioni di alberi di centocinquanta specie arboree diverse, tra cui il pioppo bianco. E una strada panoramica immersa tra il verde e l’azzurro dalla laguna veneta. È un gioiello naturalistico da vedere assolutamente l’isola di Alborella, oltre cinquecentoventi ettari di macchia mediterranea nel cuore del parco regionale del Delta del Po, riconosciuto dall’Unesco come riserva di biosfera.
In questo paradiso del turismo lento, amato dalle famiglie e dagli sportivi, è visitabile per tutta estate la mostra open air «Evoluzioni», un racconto sulla fragilità della natura intessuto da Vera Bonaventura e Roberto Mainardi.
La monografica dei due artisti di Officinadïdue, allestita fino al prossimo 18 ottobre, è un percorso in sette installazioni che testimonia le conseguenze del cambiamento climatico sul territorio e sulla biodiversità, ma allo stesso celebra la resilienza e la forza rigeneratrice della natura.
Autori dell’opera «Urlo di Vaia», evocazione sonora della tempesta che nel 2018 ha devastato le Alpi orientali e l’Altopiano di Asiago, Bonaventura e Mainardi considerano l’arte il medium ideale per il dialogo tra uomo e natura perché «esprime -spiegano loro stessi- concetti che le sole parole non riescono, toccando leve emotive, sensorialità e percezioni profonde. Per questo l’arte deve superare l’estetica per diventare etica».
Le sculture di «Evoluzioni» sono immerse negli spazi verdi dell’Isola di Albarella, a sua volta colpita nell’agosto 2017 dalla furia del maltempo che ha divelto oltre ottomila alberi su una superfice di quasi seicento ettari. A questo evento sono dedicate le prime installazioni del percorso, «Quiescenza» e «Attesa». Se da un lato le due opere narrano la nuda cronaca di quanto vissuto in questo angolo della Laguna veneta – immortalata dai trucioli delle piante abbattute e da una grande quercia sradicata che diventano parte integrante delle installazioni –, dall’altro mettono in luce l’intelligenza biologica della natura, in grado di rinnovarsi in presenza delle condizioni più adatte. Ciò non significa tuttavia che non sia necessario proteggerla e aiutarla a sopravvivere, come ribadiscono gli artisti con la scultura «La Foglia», dove una foglia di ferro sorregge un albero piegato dal vento e destinato a cadere.
L’altro volto del cambiamento climatico è quello della desertificazione. Posta idealmente al termine del percorso per sottolinearne l’opposizione agli episodi di maltempo, spesso legati a forti piogge, «Zolla» riporta alla memoria l’estate del 2018, caratterizzata da un lungo periodo di basse precipitazioni ed elevate temperature. Salinizzazione, impoverimento del suolo e perdita di fertilità sono i principali fenomeni legati alla desertificazione che arriva a porre in serio pericolo la stessa sopravvivenza delle persone e degli animali ed è tra i fattori che danneggiano, spesso irreversibilmente, la biodiversità.
Il tema della biodiversità è affrontato anche dalle altre tre restanti opere di «Evoluzioni».
«Ovuli» è una composizione in cui sementi di fiori, graminacee e piante sono custoditi in sfere di vetro soffiato di Murano poste su canne di bambù: una rappresentazione delle oltre mille banche dei semi che esistono a livello internazionale e hanno lo scopo di preservare la varietà biologica della flora.
«Lettino per Farfalle» punta i riflettori sul drastico calo della popolazione di insetti nel mondo, dalle farfalle alle api, a causa della perdita degli habitat, inquinamento e cambiamenti climatici. Un danno non solo ambientale: dagli insetti dipende un terzo della produzione alimentare e due terzi della frutta e verdura consumata quotidianamente.
«Il Grande Orecchio», presentato in anteprima in occasione della Giornata mondiale degli oceani, è, invece, un vortice che sgorga dal laghetto Palancana di Albarella, accompagnato dal rumore della natura del mare: un invito a mettersi in ascolto del fragile ecosistema marino. «L’orecchio ha una grande antica simbologia ed è associato alla saggezza dell’ascolto -raccontano Bonaventura e Mainardi-. Il movimento archetipo dell’acqua è la spirale che permette a due mondi di comunicare fra loro».
Le installazioni di «Evoluzioni» s’inseriscono perfettamente nella cornice dell’Isola di Albarella che, dopo la tempesta del 2017, ha promosso «Immersi nella natura», un ampio progetto paesaggistico di riqualificazione del patrimonio ambientale e naturale realizzato in collaborazione con l’atelier Coloco di Parigi. Tra le iniziative sviluppate c’è il parco giochi ecosostenibile AlbarellaLand, dotato di strutture ludiche realizzate in materiali naturali come legno e corde nel rispetto dell’ambiente.
L’anima sempre più green di Albarella si riflette nell’attenzione che si dimostra in ogni azione e comportamento promosso verso l’ambiente, dall’uso di biciclette all’abolizione della plastica sul suo territorio. Inoltre, la destinazione punta a diventare la prima isola al mondo a garantire un impatto nullo sulle emissioni di CO2 con il progetto «Albarella Futuro - Zero Carbon Emission», elaborato Mauro Rosatti ed Enrico Longo, in collaborazione con Augusto Zanella e Cristian Bolzonella dell'Università di Padova.
Nel parco regionale del Po una mostra d’arte diventa così anche l'occasione per conoscere un luogo di villeggiatura ancora poco frequentato dal turismo di massa.  Con i suoi alberghi e villette, con le sue spiagge attrezzate e con i suoi angoli pittoreschi Albarella è, infatti, una bella occasione per una vacanza diversa dal solito.

Informazioni utili
www.albarella.it

mercoledì 15 luglio 2020

Da Soffici a Lodola, da Zannier a Benvenuto: la ricca estate del Mart di Rovereto

Ballerini, animali, creature fantastiche alte fino a tre metri accolgono il visitatore al Mart di Rovereto in questa estate 2020. La scenografica installazione è opera di Marco Lodola (Dorno, 4 aprile 1955), che ha voluto creare per la piazza del museo un carosello di luci e colori ispirato alla visionarietà dell’arte circense e un tributo all’immaginazione che sembra scaturita dalla potenza narrativa delle fiabe.
Sempre all’esterno del museo, nel giardino delle sculture, in questi giorni è possibile vedere il «Monumento alla resistenza», un branco di cani prodotti da Vasco Vitali (Bellano, 1960) con materiali per lo più provenienti dalla cantieristica edile, come ferro, catrami, piombo, reti metalliche, cemento.
Spunto per la creazione di questa serie è l’osservazione dell’abusivismo edilizio e dei progetti incompiuti che costellano l’Italia. Minaccioso, curioso, silenzioso, il branco di Vitali, proposto al Mart in collaborazione con ArteSella, introietta, dunque, e trasla, su un piano umanissimo, il dibattito sulla fragilità del paesaggio e sulla sua tutela.
All’interno del museo è ancora aperta, fino al 23 agosto, la rassegna su Italo Zannier (Spilimbergo, 9 giugno 1932), intellettuale, docente, primo titolare di una cattedra di Storia della fotografia in Italia e, come ama dire lui, «fotografo innocente».
Attraverso un centinaio di immagini, realizzate a partire dagli anni Cinquanta, e preziosi albi illustrati provenienti dall’archivio personale dello studioso si delinea l’evoluzione dell’immagine riprodotta: dalla pre-fotografia, con volumi del XVI secolo, all'archeologia fotografica, tra incisioni e dagherrotipi, fino alle sperimentazioni contemporanee.
È ancora visitabile fino al 23 agosto anche l’altra mostra del Mart che aveva chiuso i battenti a causa del lockdown, quella dedicata a Yervant Gianikian (Merano, 1942) e Angela Ricci Lucchi (Lugo, 1942 ‒ Milano, 2018), vincitori nel 2015 del Leone d'oro alla Biennale d'arte di Venezia.
Il museo trentino presenta, per l’occasione, l’ultima produzione del duo entrata a far parte delle sue collezioni: «I diari di Angela. Noi due cineasti. Capitolo secondo» (2019), racconto dell’esperienza cinematografica, complessa e personale, con cui i due artisti hanno custodito e ricucito le storie più tragiche del Novecento: diaspore, guerre, genocidi.
L’opera dialoga in mostra con il «Trittico del XX secolo» (2002-2008): una video installazione co-prodotta dal Mart, presentata al pubblico nel 2008 e riallestita per l’occasione negli ampi spazi del secondo piano.
La rassegna di punta di questa estate è, invece, «Carlo Benvenuto. L’originale», curata da Gianfranco Maraniello con Daniela Ferrari e Chiara Ianeselli.
L’esposizione, visitabile fino al prossimo 18 ottobre, allinea una sessantina di lavori tra fotografie, sculture e dipinti, realizzati dagli anni Novanta a oggi, che vanno a comporre una raffinata e spaesante metafisica del quotidiano e che, spesso, riflettono sul tema del doppio, attraverso un gioco di abbinamenti e ripetizioni.
Riprodotti in dimensioni reali, collocati fuori da un tempo e da uno spazio riconoscibili, gli oggetti raffigurati dall’artista piemontese perdono, infatti, la propria funzionalità trasformandosi in immagini di misteriosa poesia.
Massimiliano Gioni, nel testo in catalogo, ritrova, in questo percorso creativo, «l’atmosfera sospesa del Realismo magico, il rigore e la sobrietà di Luigi Ghirri o l’ossessione per i dettagli di Domenico Gnoli, i teatrini metafisici di de Chirico, Savinio e de Pisis e l’attenta orchestrazione dell’immagine delle nature morte di Giorgio Morandi».
Attraverso assonanze e riflessi, la mostra -come dichiara lo stesso Benvenuto- «orbita, idealmente, attorno a un centro nel quale trovano sede quattro forme di autoritratto». Per questo motivo è stato pensato anche un cameo sulle collezioni del museo con l’esposizione degli autoritratti di tre grandi maestri del primo Novecento: Giorgio de Chirico, Giorgio Morandi e Renato Guttuso.
Il Mart propone, inoltre, per questi mesi estivi tre focus sulle sue collezioni, che attraversano oltre centocinquanta anni di storia dell’arte, dal XIX secolo a oggi.
Il primo è dedicato alla pittura di Ardengo Soffici (1879-1964), ma vuole ricordare anche il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, avvenuta nel 1321.
Il progetto espositivo, a cura di Beatrice Avanzi, si sviluppa attorno al dipinto «Incontro di Dante e Beatrice» (1906), parte di un ciclo decorativo realizzato tra il 1905 e il 1906, destinato al salone delle feste dell’allora Grand Hôtel des Bains di Roncegno Terme Bains e andato perduto quasi completamente durante la Prima guerra mondiale.
L’opera testimonia una delle prove più rilevanti che precede l’adesione dell’artista all’avanguardia cubista e futurista.
Accanto a questo lavoro sono esposte alcune opere successive di Ardengo Soffici presenti nelle collezioni del Mart, dal «Paesaggio» di gusto cézanniano del 1912 al quadretto che raffigura Poggio Caiano del 1962, eco di immagini popolari della campagna toscana.
Il museo trentino rende, poi, omaggio a Claudia Gian Ferrari, tra le maggiori galleriste italiane, indiscussa figura di riferimento per la valorizzazione dell’arte del XX secolo, di cui ricorrono i dieci anni dalla scomparsa.
Il focus presenta un nucleo di straordinarie ceramiche di Fausto Melotti realizzate a partire dagli anni Trenta. Queste opere, donate dalla gallerista al museo trentino, vengono presentate in un inedito dialogo con una selezione di lavori realizzati da alcuni protagonisti dell’arte italiana che Claudia Gian Ferrari ha amato e sostenuto con particolare dedizione: Boccioni, Casorati, Sironi, Marussig, Funi, de Pisis, Cagnaccio di San Pietro, Dudreville, Pirandello.
Chiude il ciclo di focus proposti per questa estate «After Monet. Il pittorialismo nelle collezioni del Mart», a cura di Denis Isaia, che allinea una selezione di opere fotografiche, tese a illustrare un tema centrale della storia dell’arte contemporanea: il dialogo e lo scontro tra fotografia e pittura.
Nelle esperienze creative più recenti gli artisti e i fotografi hanno, infatti, contaminato sempre più i confini delle singole discipline, sviluppando una fluidità di linguaggi e media che ha dato esiti innovativi.
La mostra parte dai fotogrammi realizzati da Luigi Veronesi negli anni Quaranta, prosegue con l’opera di Wolfgang Tillmans, che lavora direttamente in camera oscura, e trova la sua conclusione nel lavoro di Vik Muniz, in cui Monet rimane faro fondamentale.
Un programma, dunque, intenso quello del Mart di Rovereto che permette di spaziare dalla fotografia alla pittura, dall’esperienza cinematografica alla ceramica e alla contaminazione di generi, per scoprire i tanti volti dell’arte contemporanea.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Ardengo Soffici (Rignano sull'Arno, FI, 1879 - Vittoria Apuana, LU, 1964), Incontro di Dante e Beatrice, 1906. Palace Hotel, Roncegno Terme; [fig. 2] Ardengo Soffici (Rignano sull'Arno, FI, 1879 - Vittoria Apuana, LU, 1964), Spiaggia tirrena, 1928. Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto / Collezione privata; [fig. 3] Fausto Melotti (Rovereto, TN, 1901 - Milano, 1986), Vaso, 1950. Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Lascito Claudia Gian Ferrari; [fig. 4] Carlo Benvenuto (Stresa, VB, 1966), Senza titolo, 2015. 31 x 22 cm; [fig. 5] Carlo Benvenuto (Stresa, VB, 1966), Senza titolo, 2018. 63 x 47 cm. Galleria Mazzoli, Modena

Informazioni utli
MartRovereto, corso Bettini, 43 - Rovereto (Trento). Orari: martedì-domenica, ore 10.00-18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Tariffe: intero 11 Euro, ridotto 7 Euro, gratuito fino ai 14 anni e persone con disabilità. Informazioni: 800397760 o tel. 0464.438887. Sito internet: www.mart.trento.it

martedì 14 luglio 2020

Gilbert & George, cinquant'anni di provocazioni in mostra a Locarno

Irriverente, caustico, spiazzante, provocatorio, colorato e divertente: sono tanti gli aggettivi usati per classificare il lavoro di Gilbert & George, all'anagrafe Gilbert Prousch (San Martino in Badia, 1943) e George Passmore (Plymouth, 1942), una delle coppie più famose e osannate dell’arte contemporanea, che fin dall’esordio, nel 1967, ha fatto proprio il motto «Art for All», ovvero «Arte per tutti», producendo opere democratiche, comprensibili da chiunque, e dal forte impatto comunicativo, che analizzano in profondità la condizione umana, il nostro mondo sempre più moderno e veloce.
Amore, sesso, razza, soldi, politica, religione, identità, paura, speranza sono, da sempre, i temi cardine della ricerca dei due artisti che ha come palcoscenico la casa-studio nell’East End londinese, un quartiere dove convivono diverse fasce sociali ed etnie, e che permette al duo di essere costantemente in contatto con i molteplici aspetti della vita quotidiana di una grande metropoli.
È nato qui anche il progetto di «Gilbert and George. The Locarno Exibition 2020», la mostra che porta sulle sponde del Verbano elvetico, negli spazi di Casa Rusca, una sessantina di opere, anche di grandi dimensioni, afferenti a cinque gruppi tematici realizzati tra il 2008 e il 2016.
I due artisti, da sempre allergici alla figura del curatore, hanno, infatti, chiesto a Rudy Chiappini, direttore del museo svizzero, una planimetria precisa delle sale, con indicazione di ogni dettaglio, con anche la disposizione delle prese di corrente, e hanno restituito un modellino completo di tutto con l'esposizione allestita.
Il risultato è un percorso caleidoscopico, che trasforma ogni sala in un affresco dalle cromie violente, dove il linguaggio della pop art si unisce a quello fotografico, ma anche a titoli di giornale, pubblicità erotiche, iconografia religiosa, bandiere e slogan per dare vita a un ricco repertorio di immagini allo stesso tempo elettrizzanti e spaventose, teatrali e austere.
L'esposizione di Casa Rusca si apre con la serie «Utopian pictures» (2014), caratterizzata da un proliferare di proclami e insinuazioni: «Vietato urinare», «Vietato giocare con la palla», «Niente alcool», «Niente razzisti», «Niente nazisti», «Cercasi escort maschi e femmine».
Gilbert & George fissano lo spettatore mascherati o con delle corone. I loro corpi sono parzialmente oscurati dalla calligrafia che riproduce le iniziali di re Giorgio VI. In sovraimpressione appaiono degli avvisi che trasmettono un’atmosfera cupa di minaccia e di sfida, tra le voci dell’ordine civico e l’esortazione a ribellarsi, tra l’accettazione e la sicurezza delle regole e il volatile libero arbitrio dell’individuo.
Le «Utopian Pictures» forse intendono suggerire che la cosiddetta «società perfetta» sia in realtà frutto della tolleranza, dal permettere e dal coesistere di dissonanza e dissenso.
Il percorso espositivo continua con le «Jack Freak Pictures» (2008), dove la bandiera britannica è ridotta a pattern decorativo all’interno di un mondo denso di figure specchiate e di simboli enigmatici.
Ogni opera è costituita da più livelli in cui si giustappongono i corpi degli artisti in molteplici pose: distorti, smembrati, strizzati o abnormi. Il cerchio e la croce ricorrono in maniera quasi ossessiva, avviluppate con degli elementi materici (medaglie e amuleti).
La serie «Jack Freak» è invadente, mostruosa e claustrofobica e suscita l’impressione che Gilbert & George celebrino tutto ciò che è intrinsecamente strano (tradotto dall’inglese, freak indica appunto qualcuno o qualcosa di inusuale, singolare).
Nelle «Scapegoating Pictures» (ossia capro espiatorio), serie del 2013, i due artisti compaiono, invece, insistentemente in una successione di forme mascherate o come se fossero stati fatti esplodere in mille pezzi.
Protagoniste delle composizioni sono le bombolette di gas esilarante all’ossido d’azoto, conosciute come hippy crack.
Queste «bombe», sinistramente onnipresenti, sembrano asserire le conseguenze del dare la colpa ad altri: la produzione costante di odio e risentimento, la determinazione ad aggredire, a schierarsi, a radicalizzarsi.
Le «Scapegoating Pictures» raccontano così la complessa coesistenza di fedi, politiche e stili di vita, in tutte le loro sfumature, dal fondamentalismo religioso al laicismo capitalista.
Si prosegue con il risultato di una collezione pluriennale di strilli giornalistici: le «London Pictures» (2011), che riportano annunci di violenza, passione, squallore e avidità. Ogni pannello allinea titolazioni accomunate da un termine forte accompagnate da una raffigurazione della regina Elisabetta II, tratta da una moneta.
Sempre più ultraterreni nell’abitare i loro quadri, nella serie conclusiva «Beard Pictures» (2016) Gilbert & George sono raffigurati con il volto e il corpo di un rosso vivo, gli occhi ombreggiati e imperscrutabili, circondati da recinzioni di filo spinato, spesso dinnanzi ad uno sfondo nero che evoca il vuoto. Indossano barbe follemente esagerate, vividamente colorate di un color malva-verde-viola, congiunte in strane forme architettoniche. Oppure assumono le sembianze di personaggi fumettistici dai corpi piccoli e dalle teste enormi. Dietro di loro uno stravagante fogliame ornamentale, numeri di telefono di escort, allarmi di vigilanza consumati dalle intemperie, profili numismatici di papi, monarchi o eroi.
Le allucinanti «Beard Pictures» sono un’intensificazione di temi e sentimenti che gli artisti testano, esplorano e ritraggono da più di cinquant’anni, fedeli a pochi comuni denominatori: l’ironia pungente, il rifiuto delle etichette e la voglia di mettere tutto in discussione, senza necessariamente fornire risposte alle domande suscitate.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Gilbert & George, UNION DANCE, 2008. Tecnica mista, 226 x 190 cm © 2020 Gilbert & George - courtesy Arndt Collection; [fig. 2]  Gilbert & George, GOD SAVE THE BEARD, 2016. Tecnica mista, 254 x 377 cm © 2020 Gilbert & George - courtesy Galerie Thaddaeus  Ropac, London, Paris, Salzburg; [fig. 3] Gilbert & George RIDLEY ROAD, 2013 Tecnica mista, 254 x 337 cm © 2020 Gilbert & George - courtesy Galerie Thaddaeus Ropac,  London, Paris, Salzbur; [fig. 4] Gilbert & George, BEARDBABY BEARDBABY, 2016. Tecnica mista, 151 x 127 cm © 2020 Gilbert & George - courtesy Galerie Thaddaeus Ropac, London,  Paris, Salzburg; [fig. 5] Gilbert & George, E II R, 2014 Tecnica mista, 254 x 226 cm © 2020 Gilbert & George - courtesy The Artist and White Cube

Informazioni utili
«Gilbert and George. The Locarno Exibition 2020». Museo Casa Rusca, piazza Sant’Antonio - Locarno. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-12.00 e ore 14.00-17.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero CHF 12.-; ridotto CHF 10.-; studenti dai 16 anni CHF 6.-. Prenotazioni: +41(0)917563185. Informazioni: tel. 41(0)917563170 ⏐servizi.culturali@locarno.ch. Sito web: www.museocasarusca.ch | www.locarno.ch. Fino al 18 ottobre 2020. La mostra è stata prorogata fino al 6 gennaio 2021. 

lunedì 13 luglio 2020

Torna il festival «Tones on the Stones». Paolo Fresu suona nella cava di Oira

Come ridare valore ai termini «sociale» e «socialità» nell’epoca del distanziamento? Come costruire una nuova relazione tra noi e l’ambiente naturale? Quale strada seguire per un diverso concetto di benessere personale e collettivo? Sono queste le domande che tessono la trama e l'ordito del programma di «Tones on the Stones/Nextones 2020».
«Before and After», ovvero «Prima e dopo», è il titolo scelto per il cartellone di questa edizione del festival, la numero quattordici, che si svolgerà dal 19 al 26 luglio a Baveno, sul Lago Maggiore, nella cava dismessa Roncino di Oira di Crevoladossola e a Ghesc di Montecrestese, borgo in pietra della Val D’Ossola.
Musica, danza, performance, arte visiva, circo contemporaneo, architettura, filosofia, incontri, workshop ed escursioni sono i differenti linguaggi che la soprano Maddalena Calderoni, direttrice artistica della manifestazione, ha scelto per raccontare questo nostro tempo complicato e difficile, che ci ha messo davanti alla fragilità delle nostre esistenze e del nostro sistema di vivere, con l’intento di trasformare il momento di crisi che stiamo attraversando in «un’occasione di riflessione, ricerca e progettazione per il futuro dell’uomo, dell’ambiente e delle performing arts».
Accanto agli spettacoli dal vivo, che si terranno nel pieno rispetto delle regole sanitarie, del distanziamento sociale e del contingentamento del pubblico, ci sarà così anche una residenza-laboratorio lunga una settimana, un’«opera-studio» (per usare la definizione di Maddalena Calderoni), che vedrà la partecipazione di artisti, creativi, studiosi e professionisti del settore.
Ad accompagnare questo percorso di ricerca è stato ideato un diario di bordo multimediale, curato dalla scrittrice Veronica Raimo, che, giorno per giorno, racconterà questa quattordicesima edizione attraverso dirette web, streaming di video autoriali, contributi testuali degli studiosi e gallery fotografiche.
Ma «Before and After» non sarà solo un cantiere di idee, ma anche un cantiere vero e proprio: il festival, molto coraggiosamente, ha deciso di riqualificare la cava dismessa di Oira per trasformare questo ex spazio industriale in un teatro immerso nella natura, in uno spazio permanente dedicato all’espressione creativa dove artisti e pubblico possano incontrarsi per «ritrovare la bellezza».
A tenere a battesimo il programma sarà, nella serata di domenica 19 luglio, lo spettacolo multimediale «Fellini 100», ideato in occasione del centenario dalla nascita del grande regista romagnolo che ha reso l’Italia famosa nel mondo come il paese della «Dolce vita». Nel piazzale antistante la splendida chiesa romanica di Baveno, il compositore e pianista jazz Roberto Olzer –in quartetto con Fulvio Sigurtà, strumentista in rapidissima ascesa (tromba e flicorno), Yuri Goloubev (contrabasso) e Mauro Beggio (batteria)– incontrerà le visioni della videoartista Anna Frigo e le acrobazie della compagnia milanese di circo contemporaneo Quattrox4.
Mentre lunedì 20 luglio, alle ore, 18 il villaggio di Ghesc ospiterà «La costruzione del Movimento. Esercizi di estensione meccanica del corpo umano», un talk con Riccardo Blumer, allievo di Mario Botta e fondatore del gruppo «Blumer&Friends» dedito allo studio delle relazioni fra design e natura. A seguire Joseph Tagliabue, figura di spicco della scena alternativa italiana, proporrà un viaggio musicale e temporale fra folk ed elettronica contemporanea, spaziando dall’avanguardia ai ritmi etnici.
Martedì 21 luglio il programma inizierà già al mattino: alle ore 8, nei prati limitrofi alla cava, si terrà una puntata speciale di Radio Safari, programma sui suoni della natura andato in onda su radio e portali di Milano nel periodo della quarantena, che ha trasportato gli ascoltatori nei meandri della vita e dell’evoluzione, alla scoperta degli angoli più remoti del pianeta. Nel pomeriggio, alle ore 18.30, ci si sposterà negli straordinari scenari degli Orridi di Uriezzo, anche conosciuti come il Grand Canyon del Piemonte, per una performance musicale del percussionista Enrico Malatesta, «Occam Ocean – Occam XXVI», che con due piatti e un tamburo a cornice svilupperà un continuo divenire di risonanze, suoni fantasma e sovrapposizione di armonici e texture sonore.
Mercoledì 22 luglio si inizierà, alle 18, con un incontro con Elisa Cristiana Cattaneo, al quale seguirà, alle ore 19, uno tra gli appuntamenti più attesi del festival: Annamaria Ajmone, coreografa e danzatrice fra le più apprezzate esponenti della danza contemporanea europea, presenterà, negli spazi della Cava, «Il segreto», visionaria azione coreografica site specific con tre macchine sonore rotanti: «in un ecosistema geograficamente prossimo, aperto, terreno, indeterminato, multi-tempo, si alternano -raccontano gli organizzatori- sussurri, creature capovolte e rose del deserto».
Giovedì 23 luglio il palcoscenico di «Tones on the Stones» vedrà, invece, in scena il trombettista Paolo Fresu –senza dubbio il jazzista italiano più famoso al mondo– con Ramberto Ciammarughi, uno tra i pianisti più eclettici e schivi della scena contemporanea, e l’illustratore Gianluca Folì. La cava Roncino di Oira si riempirà, dunque, di suoni e colori, regalando al pubblico una serata indimenticabile, realizzata in co-produzione con il festival «Musica in Quota» e in collaborazione con il progetto «Di-se. Disegnare il territorio».
Un momento cardine rispetto alla tematica affrontata da «Before and After» sarà il talk del filosofo Emanuele Coccia, in programma nel pomeriggio del 24 luglio all'Alpe Devero, incantevole conca di pascoli sulle Alpi Lepontine a oltre 1.600 metri di altitudine. Il rivoluzionario del pensiero green, amato dai millenials, affronterà con la sua consueta modalità pop  la centralità del mondo vegetale a partire da un suo testo divenuto ormai un best seller, «La vita delle piante. Metafisica della mescolanza». Mentre in serata, alla Cava di Roncino, sarà in scena il trio milanese acid techno folk Acid Castello, che si esibirà nella sonorizzazione dal vivo con drum machine e sintetizzatori di un'opera cult: «Slow Action» di Ben Rivers, film di fantascienza post apocalittico che presenta lo scenario di una natura ostile dove il livello del mare è cresciuto mostruosamente e la società umana si è evoluta in piccole comunità rette da utopie iperboliche.
La performance di Acid Castello preparerà il terreno per l’ultima serata del festival, quella di sabato 25 luglio, tutta dedicata alle più ardite e radicali sperimentazioni elettroniche, in cui la Cava di Roncino si trasformerà in una vera astronave sonora pronta a trasportare il pubblico verso nuovi pianeti. Il producer Mana, il profeta della nuova elettronica Nicolàs Jaar, gli esploratori degli angoli oscuri del suono digitale Willikens & Ivkovic saranno i protagonisti della serata.
Domenica 26 luglio il festival si chiuderà con il consueto brunch a Ghesc, alla scoperta delle tipicità eno-gastronomiche del territorio della Val d’Ossola e con il long set del collettivo Gang of Ducks.
Un cartellone, dunque, vario quello del festival «Tones on the Stones», che lancia il proprio sguardo verso un futuro visionario da costruire attraverso le arti.

Informazioni utili
www.tonesonthestones.com 

venerdì 10 luglio 2020

«Pietre della memoria», D’Annunzio e «il parente» Michelangelo secondo Andrea Chisesi

Monica Guerritore, Stefano Massini, Arisa, Michela Murgia, Arturo Brachetti, Corrado Tedeschi, Gaia De Laurentis, Chiara Francini, Claudio Bisio e tanti altri: è ricco di grandi nomi il cartellone della quarantunesima edizione del festival «La Versiliana», in scena dal 12 luglio nel teatro all’aperto di Marina di Pietrasanta.
Ventiquattro eventi teatrali, otto spettacoli accompagnati da cene a tema e una rassegna cinematografica all’aperto di dodici film, per un totale di quarantaquattro serate, è quanto offre quest’anno il programma del festival, che vede alla direzione artistica «Lo studio Martini».
«Versiliana 2020, per continuare a volare» è il titolo scelto per l’attuale edizione, che proporrà anche attività per bambini, incontri al caffè letterario e un evento espositivo: «Pietre della memoria. Omaggio al parente», personale di Andrea Chisesi. per la curatela di Marcella Damigella. L’esposizione temporanea, in programma dal 12 luglio al 23 agosto, è dedicata a Michelangelo, e in particolare al profondo legame che Gabriele d’Annunzio nutriva per il genio di Caprese a tal punto da considerarlo «il parente».
In tal senso la Versiliana appare come il luogo perfetto per questo dialogo artistico visto che la vicina cava delle Cervaiole, sul Monte Altissimo, offrì al Buonarroti la materia prima «di grana unita, omogenea, cristallina» per alcuni dei suoi più celebri capolavori, mentre proprio sotto gli alti pini della storica villa versiliese, nell’estate del 1902, Gabriele d’Annunzio compose la celebre lirica «La pioggia nel pineto», inserita nell’«Alcyone».
L’esposizione, che segna l’esordio di Chisesi in Toscana, allinea quarantuno dipinti inediti su tela e settanta opere su carta, oltre a sei filmati dedicati all’opera dell’artista romano di nascita e milanese d’adozione, che ormai risiede stabilmente a Siracusa.
Il percorso espositivo parte dall’esterno: su un muro della villa viene proiettato il lavoro Il Vate, esclusiva anteprima di «Tempora Vatis», la nuova mostra che prossimamente l’artista dedicherà a Gabriele d’Annunzio e che si terrà al Vittoriale di Gardone Riviera, sul Lago di Garda, su invito del presidente Giordano Bruno Guerri.
I monocromi dell’artista, spinti dalla chiara rievocazione dannunziana, risultano ispirati alla natura e ai suoi elementi, primi tra questi l’acqua e la luce. Nelle tredici sale della villa si disloca così un percorso temporale che -come scriveva d’Annunzio- rappresenta l’iconografia della «misteriosa facoltà di penetrare in ogni oggetto e di trasmutarsi in esso», quindi la «fusione» vitalistica, in un percorso conoscitivo tra la Versilia e la Grecia antica e il tempo mitico che permane nel tempo.
Il legame di Andrea Chisesi con la natura -che trasforma senza annientare ciò che di bello l’uomo ha realizzato- è il deterioramento, la bellezza della morte che non è una fine, ma una rinascita, un nuovo stadio delle cose.
Riferendosi all’arte, d’Annunzio scriveva che «la grandezza di un’opera non si misura al numero dei suffragi che l’accolgono ma sì bene all’impulso ch’ella determina in rari spiriti chiusi, all’ansia subitanea ch’ella solleva in un uomo d’azione o d’accidia o di mercatura, alla perplessità straziante ch’ella agita in una sorte già resoluta».
Dimostrando di aver interiorizzato la lezione del Vate, per Andrea Chisesi la bellezza non è un decumano di canoni dal quale l’arte stessa, prodotto di una personalissima rivisitazione, può̀ palesarsi, bensì la voluttà̀ del rigore che con il passare del tempo si piega alla modernità.
La collezione delle «fusioni», termine con cui l’artista chiama la sua tecnica, dettata dall’innesto di pittura e fotografia, vanta tra i soggetti la più alta espressione della scultura dall’arte classica a Michelangelo: il «Fauno Barberini», il «Laocoonte», il «Torso del Belvedere», il «Mosè», il «David» e la «Nike di Samotracia».
Questi sono solo alcuni dei soggetti trasposti nel XXI secolo, portatori di valori estetici, quelli che ognuno di noi conserva come certezza di un contenitore di storia e cultura, uno scrigno indissolubile nel tempo.
Le «colature» sulla tela di Chisesi rivelano l’identità dell’immagine, poiché la sua tecnica sperimentata venticinque anni fa permette al colore bianco di accogliere l’immagine, creando un sodalizio tra luce ed ombra, in un frammentato ricordo della sua volumetria; l’immagine appare quasi impalpabile, una rievocazione di tempi perduti, di nuovi miti sacri, cosicché «le pietre della memoria» rimangono sospese come desideri mai sopiti.
L’acqua danza con la gravità, asseconda il colore bianco in un verticismo infinito, le linee scorrono sulla tela creando una fitta ritmica sul fondo scuro, Chisesi analizza la capacità dell’acqua di trasformare la pietra, di ritornare a lei come elisir di vita che mai si sottrae al suo dovere.
Nella lavorazione del marmo l’acqua è un elemento imprescindibile, come nella pittura dell’artista, tanto che d’Annunzio definisce l’acqua «sovrana», cioè vita stessa, che sfugge per sempre. L’acqua di fonte, l’acqua che bagna le tamerici, diventa, quindi, un tutt’uno con la natura stessa: le gocce lasciano il rigore e si trasformano in foglie, fiori o arabeschi che lui chiama matrem. Le preparazioni di Chisesi rivestono di dogmi le immagini donandogli una nuova visione.I monoliti sono dipinti con organismi di luce, concorrono all’affermazione che nella natura si racchiude la vera bellezza. Bellezza che è stata la cifra di Michelangelo e che D’Annunzio ha voluto come sua compagnia di vita.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Andrea Chisesi, il Vate, 2020 | dim.: 100x120 | tecnica: fusione; [fig. 2] Andrea Chisesi, Preghiera in fiore, 2019 | dim.: 100 x130 | tecnica: fusione; [fig.l 3] Andrea Chisesi, David, 2020 | dim.: 150 x150 | tecnica: fusione; [fig. 4] Andrea Chisesi, Laocoonte, 2020 | dim.: 120 x120 | tecnica: fusione

Informazioni utili 
Pietre della Memoria. Omaggio al Parente.. Villa la Versiliana, viale Enrico Morin, 16 - Marina di Pietrasanta (Lucca). Orari: tutti i giorni dalle 17.00 alle 23.00. Ingresso libero. Sito internet: www.versilianafestival.it | www.andreachisesi.com. Dal 12 luglio al al 23 agosto 2020

giovedì 9 luglio 2020

Venezia, a Palazzo Grassi una grande mostra su Henri Cartier-Bresson

Lo hanno definito l’«occhio del secolo» per la sua capacità di cogliere, attraverso la fotografia, l’essenza del Novecento e della società a lui contemporanea. È stato il maestro del «momento decisivo», quell’attimo irripetibile in cui scattare per cogliere l’essenza di una situazione. Con la sua Leica e l’eleganza del bianco e nero ha saputo raccontare la storia, quella con la S maiuscola, dal Surrealismo alla Guerra fredda, dal secondo conflitto bellico alle rivolte in Spagna. Ci ha lasciato immagini iconiche come «Paris. Place de l’Europe. Gare Saint Lazare» (1932) o «The Var department – Hyères» (1932), «Dimanche sur les bords de Seine» (1938) o «Simiane La Rotonde» (1969).
Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 22 agosto 1908 – L'Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004) è il protagonista della mostra con cui la Fondazione Pinault riapre, da sabato 11 luglio, gli spazi di Palazzo Grassi a Venezia, dopo l’emergenza sanitaria per il Coronavirus.
«Le Grand Jeu» è il titolo del progetto espositivo, ideato e coordinato da Matthieu Humery, che prende spunto dalla Master Collection, trecentoottantacinque immagini selezionate, agli inizi degli anni Settanta del Novecento, dallo stesso fotografo su richiesta dei suoi amici di lunga data e collezionisti John e Dominique de Menil.
Momenti storici epocali, ritratti di vita popolare e grandi personaggi dell’epoca come Henri Matisse e Alberto Giacometti compongono la selezione che, intorno al 1973, viene stampata nel laboratorio parigino di fiducia, in formato 30x40 e in cinque esemplari ciascuna, oggi conservati presso il Victoria and Albert Museum di Londra, la University of Fine Arts di Osaka, la Bibliothèque nationale de France, la Menil Foundation di Houston, la Fondation Henri Cartier-Bresson e la Pinault Collection.
A partire da questa collezione la mostra mette a confronto lo sguardo di cinque curatori particolari: il regista Wim Wenders, la fotografa Annie Leibovitz, lo scrittore Javier Cercas, la curatrice Sylvie Aubenas (direttrice del dipartimento di stampe e fotografia della Bibliothèque nationale de France) e, naturalmente, il padrone di casa, il collezionista Francois Pinault.
A tutti loro è stato chiesto di scegliere una cinquantina di immagini tra quelle che compongono la Master Collection.
La regola del gioco -perché di gioco si tratta, come recita anche il titolo della mostra «Le Grand Jeu», appunto- è una sola: selezionare in piena autonomia e solitudine un gruppo di scatti e offrirli in un allestimento che rispecchia il proprio gusto personale.
Ciascuno dei «giocatori» non ha avuto accesso alle decisioni altrui, sperimentando, dunque, sentimenti propri del lavoro curatoriale come il dubbio e l’infinito interrogarsi sul buon esito delle direzioni intraprese.
La rassegna veneziana offrirà così in un unico percorso cinque mostre differenti, proponendo angolazioni inedite per conoscere il lavoro di Henri Cartier-Bresson.
In contemporanea, La Fondazione Pinault di Venezia, che ha da poco alla guida Bruno Racine, propone, sempre a Palazzo Grassi, la mostra «Once Upon a Dream», curata da Matthieu Humery e Jean-Jacques Aillagon, che ha per oggetto il lavoro fotografico di Youssef Nabil (Il Cairo, 1972).
La ricerca dei reperti identitari, le preoccupazioni ideologiche, sociali e politiche del XXI secolo, la malinconia di un passato lontano sono i soggetti che l’artista predilige nei suoi lavori. L’allestimento invita a ripercorrere la carriera del fotografo dagli inizi fino all’ultima stagione creativa, seguendo un ritmo narrativo trasognato.
Realizzate con la tecnica tradizionale egiziana largamente utilizzata per i ritratti fotografici di famiglia e per i manifesti dei film che popolavano le strade del Cairo sino agli anni Settanta e Ottanta del Novecento, le fotografie successivamente dipinte a mano da Youssef Nabil restituiscono, infatti, la suggestione di un Egitto leggendario tra simbolismo e astrazione.
A Punta Dogana apre, invece, la mostra «Untitled, 2020. Tre sguardi sull'arte di oggi», concepita e curata da Caroline Bourgeois, Muna El Fituri e dall’artista Thomas Houseago. Spaziando tra diversi media, dalla scultura al video, dalla pittura alla fotografia, l'esposizione presenta il lavoro di una sessantina di artisti, provenienti dalla Pinault Collection e da musei internazionali e collezioni private, che offrono uno spaccato sulle tematiche fondamentali dell'arte contemporanea, dall’inizio del Novecento a oggi.
Con la riapertura di Palazzo Grassi e di Punta Dogana, Venezia offre, dunque, due nuovi musei da visitare in questa estate del post-emergenza Covid, caratterizzata da aperture con orari ridotti e da code per l’ingresso contingentato negli spazi espositivi.

Didascalie delle immagini 
[Fig.1] Henri Cartier-Bresson, Dimanche sur les bords de Seine, France, 1938, épreuve gélatino-argentique de 1973  © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos; [fig. 2] Henri Cartier-Bresson, Simiane-la-Rotonde, France, 1969, épreuve gélatino-argentique de 1973  © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos; [fig. 3]Youssef Nabil - You Never Left # III, 2010. Hand colored gelatin silver print. Courtesy of the Artist and Nathalie Obadia Gallery, Paris/Brussels; [fig. 4] Llyn Foulkes, Day Dreams, 1991 © Llyn Foulkes. Pinault Collection 

Informazioni utili
www.palazzograssi.it 

mercoledì 8 luglio 2020

«Occit’amo»: concerti, spettacoli, camminate ai piedi del Monviso

Europa e Sudamerica, musica e poesia, racconto e canto: è un «incontro senza confini» l’omaggio a Luis Sepúlveda, lo scrittore cileno recentemente scomparso che ci ha lasciato il dolcissimo racconto «Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare», quello in programma giovedì 9 luglio nella piazza di Saluzzo, in apertura della sesta edizione del festival «Occit’amo – Guardare, sentire, gustare». La cantante Ginevra Di Marco e il musicista Francesco Magnelli, con Andrea Salvadori e Massimo Zamboni, metteranno in scena l’unica data piemontese di «Lucho e noi», spettacolo che si avvale della produzione di Music Pool.
Si apre, dunque, con un’esclusiva il cartellone di «Occit’amo», festival che ha per scenario le valli alpine ai piedi del «re di pietra», il Monviso, riunite in un unico progetto di promozione territoriale che va sotto il nome di Terres Monviso: le valli Stura, Maira, Varaita, Po Bronda, Grana e Infernotto, oltre a tutta la pianura che si estende intorno a Saluzzo, capitale dell’antico marchesato.
Quest’area è la porta orientale di «un paese che non c’è», l’Occitania, che dal Piemonte si estende fino alla Spagna riunendo in un unico abbraccio culturale persone che si riconoscono per caratteri, origini e passioni comuni.
Proprio questo patrimonio di tradizioni e suoni, riletto in chiave contemporanea, è al centro di «Occit’amo», festival che, sotto la direzione di Sergio Berardo, anima dei Lou Dalfin, proporrà un percorso fatto di concerti, spettacoli, camminate e viste guidate, anche in orari inconsueti, che avranno per scenario antiche chiese, rifugi, castelli e borghi alpini.
«Occit’amo» propone da sempre eventi unici, rispettosi dei luoghi e della loro identità, e quindi non destinati a grandi folle; le normative anti-Covid non porteranno, pertanto, a un significativo cambio di rotta: distanziamento sociale e sicurezza saranno sempre garantiti.
Grande protagonista del festival sarà la musica, proposta in vari momenti della giornata, dall’alba al tramonto.
A fianco dei Lou Dalfin, nel percorso della manifestazione ci saranno band con ispirazioni artistiche molto differenti. L’11 luglio saranno, per esempio, in scena a Demonte i Lhi Balòs con la loro musica esplosiva nella quale si incontrano ska, reggae e balcan-folk. Il giorno successivo, il 12 luglio, i riflettori saranno, invece, puntati su Pietraporzio e sui Lhi Destartavelà , gruppo che propone la musica tradizionale occitana con strumenti moderni come il basso elettrico e il cajon. Mentre il 18 luglio il pubblico potrà farsi incantare, nello scenario di San Damiano Macra, dalla musica dei Teres Aoutes String Band, gruppo che rilegge i canti e le danze della tradizione esaltando le potenzialità espressive degli strumenti a corde.
A seguire, il 19 luglio, saranno in scena a Canosio i Lou Pitakass, giovanissimi interpreti tutti under 19, dai ritmi grintosi e ricchi di energia; mentre il 24 luglio Verzuolo vedrà protagonisti i Polifonici del Marchesato, coro con una lunga storia, capace di spaziare in cinque secoli di letteratura musicale, sacra e profana con toccate nella musica pop, colonne sonore e spiritual. La rassegna proseguirà, all’alba 2 agosto, al rifugio Melezet di Bellino, con le Duea, coppia di violini di musica popolare, il 7 agosto, sul lungo Po di Paesana, con i Sonadors, musicisti legati alla tradizione della val Vermenagna, l’8 agosto, nell’ex officina ferroviaria di Barge, con i Lou Seriol, una delle band più longeve e conosciute del panorama della nuova musica tradizionale occitana. Mentre il 9 agosto, all’alba. saranno in scena, al Rifugio pian della Regina di Crissolo, gli Autre Chant, nuova espressione dello spirito folk rock occitano.
A chiudere il cartellone musicale saranno, invece, i Bataclan, fanfara di cornamuse e laboratorio permanente di cornamuse d'oc, che si esibiranno il 14 agosto, sotto la direzione di Dino Tron, al Rifugio Fauniera di Castelmagno.
I Lou Dalfin, anima di «Occit’amo – Guardare, sentire, gustare», saranno, invece, in scena il 23 luglio, ai Castelli Tapparelli D’Azeglio di Lagnasco, con «Charamalhatomica», spettacolo nato dall’incontro con i Bandakadra, una vera orchestra da passeggio che unisce l'energia delle formazioni street al sound delle big band anni Trenta tra rocksteady, balkan e swing. I due gruppi si troveranno sullo stesso palco per reinterpretare alcuni brani del repertorio del gruppo occitano, fondendo le anime e le tradizioni di queste due formazioni.
I Lou Dalfin saranno di nuovo protagonista del concerto di chiusura, previsto per il 15 agosto ad Abrì: la band canterà come gli antichi trovatori in lingua d’oc e sarà accompagnata dalla grande orchestra occitana.
Il festival presenta, poi, nelle sue cinque settimane di svolgimento anche eventi di teatro e narrazione. Il 12 luglio, a Valloriate, Gisella Bein proporrà la lettura drammatizzata del libro «L’uomo che piantava gli alberi» dello scrittore italo-francese Jean Jono, una parabola sul rapporto uomo-natura raccontata attraverso la storia di Elzéard Bouffier, un pastore che con molta fatica e senza tornaconto personale si dedica a piantare querce in una landa desolata.
Mentre il 27 luglio, a Saluzzo, Andrea Scanzi presenterà «E pensare che c’era Gaber», un racconto del Giorgio Gaber teatrale, quello che ha il coraggio di lasciare la popolarità televisiva, e che, con Sandro Luporini, entra nella storia per i suoi monologhi profetici e per «la presenza scenica, la mimica, la lucidità profetica, il gusto anarcoide per la provocazione, il coraggio (a volte brutale) di 'buttare lì qualcosa'».
Sono, poi, in programma laboratori dedicati alle erbe, workshop sulle danze occitane con Daniela Mandrile, un appuntamento con il cantautore genovese Paolo Gerbella (26 luglio) e due eventi del cine-camper di Nuovi Mondi, con la proiezione dei film «Funne» (25 luglio) e «La grand-messe» (30 luglio). Completano l’offerta di «Occit’amo – Guardare, sentire, gustare» due eventi realizzati in collaborazione con il Festival Borgate dal vivo, che prevedono le presentazioni del libro «Una coperta di neve» del giornalista e uomo di montagne Enrico Camanni (19 luglio) e del volume «Sdraiato sulla cima del mondo» di Cala Cimenti (8 agosto), scalatore e sciatore di alta quota che, con lo stesso coraggio e spirito di sopravvivenza che richiede la conquista di una vetta di ottomila metri, ha combattuto e vinto il Coronavirus.
In vista del festival, dal 29 giugno, nei mercati ci sono i Passa Charriera, i passa strada, che introdurranno alle tematiche di «Occit’amo – Guardare, sentire, gustare» ispirandosi allo stile degli antichi trovatori che nel basso medioevo mescolavano melodie delle valli e poesie in lingua d’oc per raccontare l’amore per le dame insieme a storie, leggende e fatti dei luoghi che attraversavano. Mentre, sul profilo Facebook del festival, Daniela Mandrile propone ogni settimana un ballo della tradizione occitana presentato 'passo a passo'. La matellotte bearnese, il rigodon del delfinato, la borreia (burrée) a 2 e a 3 tempi, la santiera -tutti balli che non prevedono il contatto fisico- sono alcune delle proposte selezionate, che potranno essere poi ballate nei giorni del festival. è, dunque, un cartellone ricco di eventi quello di «Occit’amo», manifestazione che celebre «un paese che non c’è», l’Occitana, alle pendici del Monviso, il «re di pietra».

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www.occitiamo.it