E’ una Torre di Babele formata da più ottomila volumi, forniti dalla casa editrice Rubettino, ad aprire il percorso espositivo della mostra «Bookhouse. La forma del libro», organizzata dalla Provincia di Catanzaro, con il contributo economico della Regione Calabria, per i mesi primaverili ed estivi.
Da Claes Oldenburg a Jannis Kounellis, senza dimenticare Anselm Kiefer, William Kentridge, Candida Höfer, Dennis Oppenheim e Michelangelo Pistoletto: sono più di una cinquantina gli artisti della scena nazionale e internazionale invitati da Alberto Fiz, negli spazi del Marca – Museo d’arte di Catanzaro, a confrontarsi con la forma libro, attraverso differenti linguaggi artistici quali la scultura, la fotografia, la video-arte e la pittura. Non mancano una serie di installazioni site-specific realizzate per l’occasione, a partire dalla già citata «Idiom» dell’artista slovacco Matej Krén, una torre alta quattro metri e formata da ottomila libri, nella quale un gioco di specchi crea una spirale infinita di volumi in un labirinto di colori e forme profondamente intimista.
La spagnola Alicia Martín ha, invece, creato per Catanzaro una delle sue note cascate di tomi della serie «Biografias», opere sulle quali il pubblico può lasciare un segno della propria presenza attraverso la scrittura o portandosi a casa un tomo o una sua pagina. Mentre il coreano Kibong Rhee, ispirandosi al filosofo Ludwig Wittgenstein e al suo «Tractatus Logico-Philosphicus», ha ideato un libro danzante in una soluzione di 800 litri d’acqua, la cui forma cambia in un continuo ondeggiare tra materia e spirito, tra logica e reale accadimento.
Altamente scenografiche sono anche l’opera dello svizzero Peter Wüthrich, una camera da letto interamente formata da copertine e segnalibri, e l’installazione «Firma Terra Firma» dell’americano Richard Wentworth, che lascia penzolare i libri dal soffitto, come fossero strani uccelli costringendo lo spettatore ad osservarli con la testa all’insù.
Un senso di inquietudine anima anche la scultura «From The Entropic Library» di Claes Oldenburg e Coosje Van Bruggen, proveniente dal museo di Saint-Etienne, nella quale il maestro della pop art fa esplodere una libreria interrogandosi sul caos linguistico e culturale. Dennis Oppenhiem gioca, invece, con la forma libro attraverso «Upper cut» (2000), una grande struttura a forma di dentiera dove al posto dei denti è sistemata una serie di volumi. Un sorriso lo strappa anche Mark Dion con la sua ironica «Library for the birds», che colloca i libri all’interno di una gabbia per uccelli in cui albergano volatili vivi e vegetazione.
Lungo il percorso espositivo, articolato su tre piani e in costante dialogo con la collezione d’arte antica del museo, il visitatore troverà, poi, «What Dust Will Rise», installazione realizzata da Michael Rakowitz per Documenta 13, che riproduce con pietra proveniente dalle cave della regione di Bamiyan in Afghanistan, quella dove si trovavano i famosi Buddha distrutti dai talebani, una serie di manoscritti antichi collocati nella biblioteca del museo Fridericianum quando, nel 1943, la città di Kassel fu bombardata dagli alleati. Un’installazione della memoria è anche quella proposta da Anselm Kiefer, nella quale libri in piombo entrano in relazione con l’enigmatico poliedro che compare nell’opera di Albrecht Dürer. E sul passato riflette pure Paolo Canevari con un video nel quale cuoce, a fuoco lento, una copia del libro «Mein Kampf» di Aldolf Hitler; mentre Mimmo Paladino presenta un cavallo-libreria al cui interno sono conservati i volumi dell’«Ulysses» di James Joyce da lui illustrati.
In una rassegna sul libro d’arte non poteva, poi, mancare Emilio Isgrò con le sue «cancellature, che –ricorda Alberto Fiz nel catalogo pubblicato da Silvana editoriale- non sono una negazione di carattere nichilista, ma, semmai, un luogo rigenerativo della parola sopita, una messa in discussione dei dogmi». Il «Cristo cancellatore», un’installazione formata da trentotto libri, è fondamentalmente un Cristo che ha il compito di redimere e di preservare il linguaggio, allargando gli orizzonti in una fratellanza tra la mano che scrive e quella che cancella. Claudio Parmiggiani mette, invece, in mostra una libreria di fumo, sulla quale rimane solo l’eco della presenza dei volumi sugli scaffali.
Il libro è un territorio da esplorare anche per Stefano Arienti, che con il suo «Autoritratto Van Gogh» presenta una serie di tomi raffiguranti la medesima immagine del maestro olandese, o Maria Lai, l’artista novantatreenne recentemente scomparsa, alla quale Alberto Fiz rende omaggio con «Le parole imprigionate», un volume di stoffa del 1964 con i fili che pendono come capelli scarmigliati.
Candida Höfer porta, invece, il visitatore tra le stanze della Biblioteca nazionale di Napoli con una delle sue inconfondibili e silenti foto. E il silenzio è anche la cifra stilistica delle «Nature morte» di Pierpaolo Calzolari, con libri in rame e in piombo accostati a bottiglie.
La visita tra le pareti del Marca riserva, poi, tante altre piccole sorprese: dal volume bruciato di Robert Rauschenberg ai disegni cancellati di William Kentridge, dalla poltrona-libro di Art & Language ai quadri elettronici di Davide Coltro, modi differenti di raccontare la forma libro, quella «piega – scrisse Stéphane Mallarmé- di oscuro merletto che trattiene l’infinito».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alicia Martin, «Singularidad», 2011-2012. Installazione site-specific, Santiago de Compostela, Ciudad de la Cultura; [fig. 2] Dennis Oppenheim, «Upper Cut», 1992. Legno, compensato, schiuma indurita, libri d’arte, 150x180x180 cm; [fig. 3] Claudio Parmiggiani, «Parla anche tu», 2005, libro e cuore di ferro
Informazioni utili
Bookhouse. La forma del libro. Marca, via Alessandro Turco, 63 – Catanzaro. Orari: martedì-domenica, ore 9.30-13.00 e ore 16.00-20.30; chiuso il lunedì. Ingresso: € 3,00. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Milano). Informazioni: tel. 0961.746797 o info@museomarca.com. Sito web: www.museomarca.info. Fino a domenica 6 ottobre 2013. [prorogata fino al 24 novembre 2013]
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
venerdì 3 maggio 2013
giovedì 2 maggio 2013
«Lights», Dan Flavin e le sue stanze di luce
La luce è quella di un qualsiasi tubo al neon prodotto su scala industriale e, dunque, reperibile in ogni luogo della nostra quotidianità, dalle strade alla cucina di casa. Ma le combinazioni che ne derivano, giocate su una ristretta gamma di colori (blu, verde, rosa, rosso, giallo e quattro sfumature di bianco), hanno lo scatto della poesia. Dan Flavin (New York, 1933-1996), uno degli artisti più importanti della compagine americana definita con il nome di Minimalismo, ha saputo diventare l'indiscusso maestro della luce artificiale, ridisegnando stanze spoglie con la più immateriale delle materie in natura e creando così ambienti dai mille bagliori capaci di parlare alla mente e al cuore di chi sappia abbandonare i propri pensieri per lasciarsi cullare dalle emozioni.
Dopo un periodo di iniziale snobbismo che fece dire a molti «se voglio un Flavin vado dall'elettricista, mi compro una lampada e me la metto in casa», le opere dell'artista americano, frutto di una perfetta fusione di semplici lampadine o di scarne «stecche di colore», hanno raggiunto oggi ragguardevoli quotazioni di mercato (si parla di cifre che si aggirano tra i 400.000 e gli 800.000 dollari ad installazione) e raccolgono sempre più di frequente la stima non solo della critica, ma anche del grande pubblico.
A Dan Flavin, compagno di avventura di Donald Judd e Carl Andre, dedica un’ampia retrospettiva, a cura di Roland Wäspe, il Kunstmuseum di San Gallo, nella Svizzera orientale. «Lights», questo il titolo della mostra, allinea una trentina di opere, già presentate lo scorso inverno al Mumok di Vienna, che sarebbero senz’altro piaciute al conte Giuseppe Panza di Biumo, il collezionista che per primo, sul finire degli anni Sessanta, diede credito all’artista newyorkese, commissionandogli, nel corso degli anni, numerose opere, tra le quali la nota e suggestiva installazione permanente «Varese Corridor» (1976), una sequenza di luci rosa, gialle e verdi per villa Panza, oggi residenza del Fai (Fondo per l’ambiente italiano).
Partendo dalla serie «Icons» (1961-1964), considerata l’iniziatrice del movimento minimalista con le sue sculture in legno, formica e masonite arricchite da economiche lampadine fluorescenti, l’esposizione permette di immergersi tra le emozioni cromatiche e luminose di lavori noti, anche di grandi dimensioni, come «Pink out of a corner (to Jasper Johns)» (1963), «A primary picture» (1964), «Untitled (To Henri Matisse)» (1964), «Untitled (To Jan and Ron Greenberg)» (1972-1973) e «The diagonal of May 25, 1963 (To Costantin Brancusi)», il primo tubo color giallo oro appoggiato dall’artista in diagonale a una parete.
Non mancano nella rassegna, la prima che la Svizzera dedica all'autore minimalista, alcuni moduli dell’omaggio al collega Donald Judd e una selezione di lavori del ciclo «Monuments for V. Tatlin» (1964-1990), dedicato al leader del movimento costruttivista russo.
L'impatto con l'arte asciutta e immediata di Dan Flavin, che si nutre dell'essenzialità del messaggio della luce e del colore e che si avvale di forme semplici e di materiali economici per creare mondi di pura poesia, ha portato molti critici a scrivere pagine e pagine interrogandosi sul rapporto dell'artista con il sacro. A questo tema ha guardato anche Angela Vettese, che nel catalogo della retrospettiva varesina organizzata nel 1994 per volere del conte Panza di Biumo, si è soffermata sulla religiosità dell’artista, «intesa non come una reverenza a una religione rivelata ma come tensione ideale». Forse la definizione non sarebbe piaciuta allo stesso autore minimalista, che a chi vedeva un significato mistico nelle sue installazioni rispondeva, severo e sempre arrabbiato, mai dimentico dei conflitti con il padre che gli aveva imposto gli studi in seminario: «I miei tubi non si sono mai infiammati nella ricerca di Dio».
Ma è innegabile che l’arte di Dan Flavin abbia alla base una, seppur inconfessata, ricerca di spiritualità. Lo stesso mezzo utilizzato per le opere, lampade al neon condannate ad esaurirsi dopo un certo numero di ore e ad essere sostituite con nuovi modelli, ci racconta il dramma dell'esaurimento della materia, l'impossibilità per l'uomo di eternare non solo la sua vita, ma anche la sua attività. La durata limitata delle installazioni luminose dell'artista americano, costrette a fare i conti con il tempo e con l'innovazione tecnologia, sembrano, dunque, alludere al timore del panta rei, al dramma della caducità umana.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dan Flavin, «The diagonal of May 25, 1963 (to Constantin Brancusi)», 1963. The Estate Collection David Zwirner. Foto: Billy Jim, New York. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich; [Fig. 2] Dan Flavin, «Pink out of a corner (to Jasper Johns)», 1963. The Estate Collection David Zwirner. Foto: Billy Jim, New York. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich; [fig. 3]Dan Flavin, «Untitled (to Donald Judd, colorist)», 1,7,8,9,10 e 4, 1987. The Estate Collection David Zwirner. Installazione, Kunstmuseum St.Gallen. Foto: Stefan Rohner, St.Gallen. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich
Informazioni utili
Dan Flavin - Lights. Kunstmuseum St.Gallen, Museumstrasse 32 – San Gallo (Svizzera). Orari: martedì-domenica, ore 10.00-17.00; mercoledì, ore 10.00-20.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero ChF 10,00, ridotto ChF 8,00, bambini e adolescenti fino ai 16 anni € 4,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel +41.712420671 o info@kunstmuseumsg.ch. Sito web: www. kunstmuseumsg.ch. Fino a domenica 18 agosto 2013.
Dopo un periodo di iniziale snobbismo che fece dire a molti «se voglio un Flavin vado dall'elettricista, mi compro una lampada e me la metto in casa», le opere dell'artista americano, frutto di una perfetta fusione di semplici lampadine o di scarne «stecche di colore», hanno raggiunto oggi ragguardevoli quotazioni di mercato (si parla di cifre che si aggirano tra i 400.000 e gli 800.000 dollari ad installazione) e raccolgono sempre più di frequente la stima non solo della critica, ma anche del grande pubblico.
A Dan Flavin, compagno di avventura di Donald Judd e Carl Andre, dedica un’ampia retrospettiva, a cura di Roland Wäspe, il Kunstmuseum di San Gallo, nella Svizzera orientale. «Lights», questo il titolo della mostra, allinea una trentina di opere, già presentate lo scorso inverno al Mumok di Vienna, che sarebbero senz’altro piaciute al conte Giuseppe Panza di Biumo, il collezionista che per primo, sul finire degli anni Sessanta, diede credito all’artista newyorkese, commissionandogli, nel corso degli anni, numerose opere, tra le quali la nota e suggestiva installazione permanente «Varese Corridor» (1976), una sequenza di luci rosa, gialle e verdi per villa Panza, oggi residenza del Fai (Fondo per l’ambiente italiano).
Partendo dalla serie «Icons» (1961-1964), considerata l’iniziatrice del movimento minimalista con le sue sculture in legno, formica e masonite arricchite da economiche lampadine fluorescenti, l’esposizione permette di immergersi tra le emozioni cromatiche e luminose di lavori noti, anche di grandi dimensioni, come «Pink out of a corner (to Jasper Johns)» (1963), «A primary picture» (1964), «Untitled (To Henri Matisse)» (1964), «Untitled (To Jan and Ron Greenberg)» (1972-1973) e «The diagonal of May 25, 1963 (To Costantin Brancusi)», il primo tubo color giallo oro appoggiato dall’artista in diagonale a una parete.
Non mancano nella rassegna, la prima che la Svizzera dedica all'autore minimalista, alcuni moduli dell’omaggio al collega Donald Judd e una selezione di lavori del ciclo «Monuments for V. Tatlin» (1964-1990), dedicato al leader del movimento costruttivista russo.
L'impatto con l'arte asciutta e immediata di Dan Flavin, che si nutre dell'essenzialità del messaggio della luce e del colore e che si avvale di forme semplici e di materiali economici per creare mondi di pura poesia, ha portato molti critici a scrivere pagine e pagine interrogandosi sul rapporto dell'artista con il sacro. A questo tema ha guardato anche Angela Vettese, che nel catalogo della retrospettiva varesina organizzata nel 1994 per volere del conte Panza di Biumo, si è soffermata sulla religiosità dell’artista, «intesa non come una reverenza a una religione rivelata ma come tensione ideale». Forse la definizione non sarebbe piaciuta allo stesso autore minimalista, che a chi vedeva un significato mistico nelle sue installazioni rispondeva, severo e sempre arrabbiato, mai dimentico dei conflitti con il padre che gli aveva imposto gli studi in seminario: «I miei tubi non si sono mai infiammati nella ricerca di Dio».
Ma è innegabile che l’arte di Dan Flavin abbia alla base una, seppur inconfessata, ricerca di spiritualità. Lo stesso mezzo utilizzato per le opere, lampade al neon condannate ad esaurirsi dopo un certo numero di ore e ad essere sostituite con nuovi modelli, ci racconta il dramma dell'esaurimento della materia, l'impossibilità per l'uomo di eternare non solo la sua vita, ma anche la sua attività. La durata limitata delle installazioni luminose dell'artista americano, costrette a fare i conti con il tempo e con l'innovazione tecnologia, sembrano, dunque, alludere al timore del panta rei, al dramma della caducità umana.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dan Flavin, «The diagonal of May 25, 1963 (to Constantin Brancusi)», 1963. The Estate Collection David Zwirner. Foto: Billy Jim, New York. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich; [Fig. 2] Dan Flavin, «Pink out of a corner (to Jasper Johns)», 1963. The Estate Collection David Zwirner. Foto: Billy Jim, New York. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich; [fig. 3]Dan Flavin, «Untitled (to Donald Judd, colorist)», 1,7,8,9,10 e 4, 1987. The Estate Collection David Zwirner. Installazione, Kunstmuseum St.Gallen. Foto: Stefan Rohner, St.Gallen. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich
Informazioni utili
Dan Flavin - Lights. Kunstmuseum St.Gallen, Museumstrasse 32 – San Gallo (Svizzera). Orari: martedì-domenica, ore 10.00-17.00; mercoledì, ore 10.00-20.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero ChF 10,00, ridotto ChF 8,00, bambini e adolescenti fino ai 16 anni € 4,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel +41.712420671 o info@kunstmuseumsg.ch. Sito web: www. kunstmuseumsg.ch. Fino a domenica 18 agosto 2013.
martedì 30 aprile 2013
Ghitta Carell, quando il potere incontra il bianco e nero
«Fotografava solo 'il meglio': aristocratiche con figli e cani aristocratici, poeti, scrittrici, dive intellettuali, generali, gerarchi, membri di case regnanti. Fotografava solo gente bellissima […]: le sue donne sembravano sempre regine inavvicinabili eppure dolcissime, i suoi uomini forti intelligenti, dominatori». Così Natalia Aspesi descrive Ghitta Carell (1899-1972), celebre ritrattista e fotografa di moda ungherese di nascita e italiana d’adozione, alla quale la Fondazione Pastificio Cerere di Roma dedica un’ampia retrospettiva, a cura di Diego Mormorio, che si avvale della consulenza di un comitato scientifico composto da Ottavio Celestino, Flavio Misciattelli, Stefano Palumbo e Marcello Smarrelli.
Un gruppo di quindici fotografie originali e di centoquaranta immagini, quasi tutte stampate per l’occasione, restituiscono la storia di un’epoca, quella a cavallo tra gli anni Trenta e Cinquanta, attraverso i volti e gli sguardi di alcuni dei suoi protagonisti: da papa Eugenio Pacelli al disegnatore americano Walt Disney, passando per Benito Mussolini, Cesare Pavese, la principessa Margareth d’Inghilterra, Maria Josè di Savoia, Camilla Cederna, Giulio Andreotti e tanti altri nobili, ecclesiastici, uomini politici, imprenditori ed intellettuali del tempo.
Dopo un periodo di formazione a Budapest presso lo studio di Szekelu Aladair, Ghitta Carell approda, appena venticinquenne, nel nostro Paese, soggiornando prima a Firenze e poi a Milano. Due anni dopo, nel 1926, inizia la sua ascesa verso la notorietà: a lanciarla è la foto di un bambino vestito da Balilla, scelta per un manifesto di propaganda destinato a tappezzare i muri di tutta la nazione.
La fama, sancita anche da giudizi autorevoli come quello di Ugo Ojetti, dischiude ben presto alla giovane fotografa le porte di una committenza sempre più ampia ed esclusiva. Nasce così la decisione di trasferirsi, nel 1928, a Roma, vicino a piazza del Popolo. Il «bel mondo» capitolino si fa conquistare dal suo inconfondibile stile: Edda e Galeazzo Ciano, Benito Mussolini, Alberto Savino, Giovanni Papini, Alba De Céspedes, Pio XII, i Gonzaga, i Diaz, i Borghese, i Cicogna, i Visconti, i Colonna sono tra i suoi clienti. Nemmeno la promulgazione del leggi razziali nel 1938 contrasta il percorso di Ghitta Carrell, ebrea per parte di padre; le viene solo chiesto di non mettersi troppo in mostra.
Con la fine della guerra, tutto il gotha democristiano, da Alcide De Gasperi a Giovanni Gronchi, posa sotto le sue lampade. Lo stesso fanno scrittori come Cesare Pavese, attrici come Valentina Cortese, giornalisti come Camilla Cederna e personaggi come Walt Disney. Negli anni Sessanta, dopo aver ricevuto la cittadinanza italiana, l'artista decide di trasferirsi a vita privata in Israele (dove muore nel 1972), ma prima cede il proprio archivio alla Fondazione 3M di Segrate (Milano), ente che collabora alla mostra romana al Pastificio Cerere, voluta e sostenuta da Elsa Peretti e corredata da un catalogo trilingue (italiano, inglese e spagnolo) di Celestino editore.
«Ghitta Carell e il potere del ritratto», questo il titolo della rassegna, vuole contribuire a riconsiderare la figura di questa fotografa, spesso definita come l’interprete del mondo del potere, facendone conoscere il suo bianco e nero poetico e la sua perizia nell’arte del ritocco, una tecnica moderna che consisteva nel lavorare con delicatezza le lastre per togliere ombre, durezze, vuoti, restituendo così un’aria meno torva ai fascisti e una più seducente alle dame dell’alta società. Per quanto riguarda l'attrezzatura, l'artista italo-ungherese non si fece, invece, mai conquistare dall’avanzamento tecnologico che proveniva dall’America. Continuò a usare un banco ottico a lastre nel formato 18x24 e, più raramente, una Rolleiflex 6x6, strumenti che le consentivano un’attenzione meticolosa per la scenografia e una raffinata interpretazione psicologica dei soggetti ritratti. Lei stessa amava dire: «ogni persona ha due facce, l’uomo è frutto di luce e ombra, io cerco la luce», l’anima.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Ghitta Carrell, Walt Disney, 1935. Copyright Archivio storico Fondazione 3M; [fig. 2] Ghitta Carrell, La principessa Maria Josè, anni ’30. copyright Fondazione 3M; [fig. 3] Ghitta Carrell, Papap Pacelli, anni '40. copyright Fondazione 3M
Informazioni utili
Ghitta Carell e il potere del ritratto. Fondazione Pastificio Cerere, via degli Ausoni, 7 – Roma. Orari: > Fondazione Pastificio Cerere, Spazio Cerere, Studio d’arte contemporanea Pino Casagrande > lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00; Ristorante San Lorenzo > tutti i giorni, ore 19.00-02.00. Ingresso libero. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 06.45422960 o info@pastificiocerere.it. Sito internet: www.pastificiocerere.it o www.fondazione3m.it. Fino a venerdì 17 maggio 2013.
Un gruppo di quindici fotografie originali e di centoquaranta immagini, quasi tutte stampate per l’occasione, restituiscono la storia di un’epoca, quella a cavallo tra gli anni Trenta e Cinquanta, attraverso i volti e gli sguardi di alcuni dei suoi protagonisti: da papa Eugenio Pacelli al disegnatore americano Walt Disney, passando per Benito Mussolini, Cesare Pavese, la principessa Margareth d’Inghilterra, Maria Josè di Savoia, Camilla Cederna, Giulio Andreotti e tanti altri nobili, ecclesiastici, uomini politici, imprenditori ed intellettuali del tempo.
Dopo un periodo di formazione a Budapest presso lo studio di Szekelu Aladair, Ghitta Carell approda, appena venticinquenne, nel nostro Paese, soggiornando prima a Firenze e poi a Milano. Due anni dopo, nel 1926, inizia la sua ascesa verso la notorietà: a lanciarla è la foto di un bambino vestito da Balilla, scelta per un manifesto di propaganda destinato a tappezzare i muri di tutta la nazione.

Con la fine della guerra, tutto il gotha democristiano, da Alcide De Gasperi a Giovanni Gronchi, posa sotto le sue lampade. Lo stesso fanno scrittori come Cesare Pavese, attrici come Valentina Cortese, giornalisti come Camilla Cederna e personaggi come Walt Disney. Negli anni Sessanta, dopo aver ricevuto la cittadinanza italiana, l'artista decide di trasferirsi a vita privata in Israele (dove muore nel 1972), ma prima cede il proprio archivio alla Fondazione 3M di Segrate (Milano), ente che collabora alla mostra romana al Pastificio Cerere, voluta e sostenuta da Elsa Peretti e corredata da un catalogo trilingue (italiano, inglese e spagnolo) di Celestino editore.
«Ghitta Carell e il potere del ritratto», questo il titolo della rassegna, vuole contribuire a riconsiderare la figura di questa fotografa, spesso definita come l’interprete del mondo del potere, facendone conoscere il suo bianco e nero poetico e la sua perizia nell’arte del ritocco, una tecnica moderna che consisteva nel lavorare con delicatezza le lastre per togliere ombre, durezze, vuoti, restituendo così un’aria meno torva ai fascisti e una più seducente alle dame dell’alta società. Per quanto riguarda l'attrezzatura, l'artista italo-ungherese non si fece, invece, mai conquistare dall’avanzamento tecnologico che proveniva dall’America. Continuò a usare un banco ottico a lastre nel formato 18x24 e, più raramente, una Rolleiflex 6x6, strumenti che le consentivano un’attenzione meticolosa per la scenografia e una raffinata interpretazione psicologica dei soggetti ritratti. Lei stessa amava dire: «ogni persona ha due facce, l’uomo è frutto di luce e ombra, io cerco la luce», l’anima.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Ghitta Carrell, Walt Disney, 1935. Copyright Archivio storico Fondazione 3M; [fig. 2] Ghitta Carrell, La principessa Maria Josè, anni ’30. copyright Fondazione 3M; [fig. 3] Ghitta Carrell, Papap Pacelli, anni '40. copyright Fondazione 3M
Informazioni utili
Ghitta Carell e il potere del ritratto. Fondazione Pastificio Cerere, via degli Ausoni, 7 – Roma. Orari: > Fondazione Pastificio Cerere, Spazio Cerere, Studio d’arte contemporanea Pino Casagrande > lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00; Ristorante San Lorenzo > tutti i giorni, ore 19.00-02.00. Ingresso libero. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 06.45422960 o info@pastificiocerere.it. Sito internet: www.pastificiocerere.it o www.fondazione3m.it. Fino a venerdì 17 maggio 2013.
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