È Stefano Arienti (Asola, 1961) il nuovo protagonista dell’«Antinori Art Project», piattaforma di ricerca, dedicata alle arti visive e agli artisti del nostro tempo, promossa dalla famiglia Antinori.
All’artista mantovano, uno dei più apprezzati italiani sulla scena internazionale, è stato commissionato un nuovo progetto nato per essere in dialogo con un capolavoro della storia dell’arte rinascimentale: la lunetta raffigurante «La resurrezione di Cristo», realizzata agli inizi del XVI secolo da Giovanni Della Robbia (Firenze, 1469 – 1529/30), su commissione di Nicolò di Tommaso Antinori.
L’opera, oggi proprietà del Museo di Brooklyn, è al centro di una mostra aperta fino al prossimo 8 aprile al Museo nazionale del Bargello di Firenze e ritorna a essere presentata al pubblico a seguito di un importante restauro sostenuto negli Stati Uniti dalla famiglia Antinori.
Il progetto di Stefano Arienti si articola in due opere distinte ma complementari che trasformeranno e si riappropriano in maniera diversa della famosa lunetta.
Al Bargello, in una sala attigua a quella della lunetta, sarà installata l’opera dal titolo «Scena Fissa», creando quindi un dialogo diretto tra arte rinascimentale e contemporanea, nella mostra «Da Brooklyn al Bargello: Giovanni della Robbia, la lunetta Antinori e Stefano Arienti».
In contemporanea, presso l’avveniristica cantina Antinori nel Chianti Classico sarà esposta una nuova installazione site-specific, «Altorilievo», che entrerà a far parte della collezione di famiglia, attualizzando e rendendo visibile il forte legame con la storia e la tradizione mecenatistica.
Stefano Arienti nella sua lunga carriera, si è spesso ispirato a immagini che fanno parte dell'iconografia della storia dell'arte per appropriarsene in un processo di riduzione e semplificazione.
Il suo lavoro prende le mosse da materiali, oggetti e immagini preesistenti - dai grandi artisti del passato fino alla cultura popolare - compiendo alterazioni di forma e traduzioni che ne modificano il significato in un processo creativo che guarda al passato senza giudizio, ma rivisitandolo e riappropriandosene in maniera personale quasi intima. Rielaborando materiali poveri come la carta, i libri e le immagini tratte da cartoline, poster o fotocopie, oppure materiali della cultura di massa come il polistirolo, la plastica, la plastilina, le stoffe, Arienti realizza opere che stupiscono lo spettatore, lo invitano a riflettere sul tema della meraviglia.
Questo atteggiamento riguarda il concetto di immagine nel suo complesso; come afferma l’artista: «viviamo in una specie di dittatura degli oggetti e di conseguenza delle immagini, e potrebbe sembrare che esse debbano solo essere consumate; invece possiamo tranquillamente entrare all’interno di esse, produrne di nuove e farle vivere diversamente, rendendole indipendenti dal passato ma anche da noi stessi».
Nel doppio intervento di Stefano Arienti, al Museo del Bargello e alla Cantina Antinori nel Chianti Classico, gli elementi compositivi di questa lunetta verranno isolati e distribuiti nello spazio, per acquisire un’indipendenza formale e una nuova narrativa.
In questo caso, infatti, l’artista è partito dallo studio del risultato del restauro dell’opera, dove le varie parti che formano la composizione non sono state saldate o incollate insieme come erano originariamente ma lasciate volutamente separate: i quarantasei elementi sono in vista e mantengono una loro forte identità nella rappresentazione finale con giochi di scala e prospettive inaspettate.
Il lavoro al Museo del Bargello sarà realizzato su supporto bidimensionale, una pittura ad inchiostro metallico, oro o rame, su telo antipolvere bianco da cantiere, raffigurerà i personaggi che compaiono nella lunetta ma aumentati leggermente in dimensione sino ad arrivare ad una scala quasi reale, 1:1.
L’allestimento che occuperà le tre pareti della stanza dedicata a Stefano Arienti, avrà caratteristiche simili a quelle della sala in cui sarà esposta la Lunetta, comunicante con essa, in modo da non modificare la percezione dello spettatore che passando da una stanza all’altra potrà facilmente leggere i tratti di continuità delle due opere e di traduzione di una nell’altra.
Queste sinopie strappate mostrano la modernità compositiva e formale del capolavoro tardo rinascimentale, la bicromia così come la bidimensionalità delle figure portano la linea del disegno ad emergere.
«Altorilievo», nato per la Vinsataia della cantina Antinori nel Chianti Classico, si articola come la scomposizione di un alto-rilievo scultoreo, in cui le figure della lunetta, sempre monocrome, vengono riproposte nelle quarantasei campiture strutturali del capolavoro di della Robbia, in una rinnovata distribuzione spaziale delle figure, capace di trasformare l’impianto narrativo della lunetta e ponendo l’osservatore all’interno della scena e assegnandogli un ruolo attivo nella fruizione dell’opera.
L’opera, disegnata sempre su teli antipolvere, assumerà una tridimensionalità quasi marmorea, che permetterà all’artista di ricreare uno spessore simile a quella dell’opera originale realizzata in terracotta invetriata, liberando i personaggi dalla posizione impostagli dalla storia e tessendo così una nuova trama.
L’allestimento spinge il pubblico ad una lettura più dinamica e personale del capolavoro restaurato, offrendo la possibilità di un percorso di ricerca in cui le immagini sono sottoposte a infinite variazioni, e dove lo spettatore è coinvolto in un processo mentale indipendente, critico e consapevole.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] La Resurrezione di Cristo. Giovanni della Robbia. XVI Secolo. Terracotta Invetriata. PHCourtesy of Brooklyn Museum; [fig.2 ] Stefano Arienti © Edoardo Sardano; [fig. 3] La Resurrezione di Cristo. Giovanni della Robbia. XVI Secolo. Terracotta Invetriata. PHCourtesy of Brooklyn Museum; [fig. 4] Il Cristo - Inchiostro metallico su telo antipolvere Stefano Arienti, 2017 © Edoardo Sardano
Informazioni utili
www.bargellomusei.beniculturali.it
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
lunedì 18 dicembre 2017
domenica 17 dicembre 2017
«Da un capo all’altro», a Pistoia una mostra interattiva sul viaggio
Una mostra interattiva sul tema del viaggio che crea un ponte tra due città, Pistoia e Matera, chiamate a interrogarsi sulla propria identità culturale. Si presenta così «Da un capo all’altro, ovvero nuovo atlante mobile di abitografia umana», mostra presentata dal Funaro e dal Comune di Pistoia per «Pistoia Capitale italiana della cultura 2017», in coproduzione con la Fondazione Matera Basilicata 2019, ente incaricato di curare «Matera Capitale europea della cultura 2019», e in collaborazione con il Polo museale regionale della Basilicata.
L’esposizione, a cura dell’associazione «La luna al guinzaglio» di Potenza, si terrà in luogo speciale di Pistoia, normalmente non accessibile perché oggi proprietà privata. Lungo Via Curtatone e Montanara, tra Vicolo degli Armonici e Piazzetta Mergugliese, sorge la sede dell’Accademia degli Armonici, circolo ricreativo per nobili e intellettuali, fondato nel 1785. Il primo nucleo, l’ex chiesa di Sant’Anna, conosciuta come S. Niccolao (già S. Maria in Torre), venne acquistato nel 1789 poi ampliato tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo con alcuni vani del Palazzo delle Potesterie, prospiciente Piazza dello Spirito Santo e appartenuto alla soppressa Opera di S. Jacopo. Il nome con cui viene spesso citata, «Le Stanze», deriva dalla sua organizzazione interna: una serie di vani tra loro comunicanti, ove veniva organizzato il gioco da tavolo o il biliardo e la lettura, sviluppati attorno ad un unico salone centrale, sede delle serate danzanti o dei saggi della Scuola di musica Mabellini, che qui ebbe la sede per alcuni anni dopo il 1850. L’aspetto attuale dell’edificio è frutto di un restauro completo voluto dagli Accademici, secondo stilemi di gusto neoclassico.
Il pubblico di questa mostra è chiamato ad attraversare arcipelaghi fatti di comodini, cassettiere ed armadi che custodiscono più di trecento abiti blu donati dalle persone. Quattro sono gli arcipelaghi/mobili da attraversare e ognuno è dedicato a una fase del viaggio: «Da lontano», «Corpo a corpo con i luoghi», «La risacca del ricordo» e «La comprensione».
Per poter passare da un arcipelago all’altro bisogna aprire ante e cassetti e, leggendo le etichette che li accompagnano, interagire con gli abiti in essi custoditi, per vivere stupori, piccole meraviglie e accedere a micro mondi poetici che raccontano la bellezza dell’Altro e dell’Altrove.
Alla fine del percorso i viaggiatori potranno timbrare la propria carta di viaggio (fornita all’ingresso).
Chi partecipa è invitato ad attraversare con i suoi sensi la «geografia» del vestito, osservandolo, infilando la mano in una tasca oppure aprendo una zip, sbottonando un bottone, guardando in un cappuccio.
Attraverso azioni così familiari e quotidiane i capi «si attivano»: luci, suoni, venti, illusioni ottiche che raccontano il fascino, la paura, la voglia, lo stupore del viaggio, le emozioni e le sensazioni che tutti i corpi in transito hanno provato almeno una volta nella vita.
Ogni abito si manifesta come un raccoglitore di esperienze, una tessitura tra luoghi, uomini e culture.
«Da un capo all’altro» invita a mettersi in relazione con i vestiti utilizzando paradossalmente l’intimità dell’arredo domestico e dell’abbigliamento, per parlare dell’esperienza del viaggio, quella che più di tutte mette l’uomo in dialogo con l'Altro.
In questo capovolgimento, gli abiti danno vita a dei mondi interattivi poetici, intimi e delicati, divertenti e dinamici, vestendo nuove ed inedite trame di senso. Allo stesso modo, i mobili sono realmente mobili: perdono la loro fissità e si circumnavigano a tutto tondo come isole nello spazio espositivo, avendo la particolarità di poter essere aperti ed esplorabili da più lati.
La mostra offre, inoltre, spunti per l’approfondimento scientifico, dando la possibilità di indagare il corpo umano in maniera interattiva. Questo è possibile grazie a una app, che dà accesso ai contenuti speciali denominati «Scampoli di scienza e geografia».
Puntando il proprio smartphone su alcuni abiti ed inquadrando le costellazioni ricamate su di essi, è possibile fare un viaggio nel mondo attraverso le parti del corpo e sotto un cielo di costellazioni immaginarie dedicate ad oggetti quotidiani: l’abito con la «costellazione della collana» racconta, ad esempio, come è fatto e a cosa serve il collo e ci porta poi in Thailandia tra le donne Kaian, la «costellazione del pallone» racconta curiosità sui muscoli delle gambe facendoci viaggiare nell’antica Grecia e i suoi Giochi Olimpici.
La mostra «Da un capo all'altro» è l'esito di un percorso che, partendo dai grandi temi del dossier di candidatura di Matera 2019, ha voluto esplorare argomenti universali come il viaggio, ma anche difficili come quelli dell’emigrazione.
Informazioni utili
«Da un capo all’altro, ovvero nuovo atlante mobile di abitografia umana». Le Stanze, via Curtatone e Montanara, 14 – Pistoia. Orari: da martedì a venerdì, ore 16.30 - 19.30; sabato e festivi, ore 10.00 - 13.00 e ore 16.30 - 19.30; chiuso il lunedì e nelle giornate del 23, del 27 dicembre e del 1° gennaio. Ingresso libero. Informazioni: cell. 347.9315416. Sito internet: www.dauncapoallaltro.eu. Fino al 7 gennaio 2018.
L’esposizione, a cura dell’associazione «La luna al guinzaglio» di Potenza, si terrà in luogo speciale di Pistoia, normalmente non accessibile perché oggi proprietà privata. Lungo Via Curtatone e Montanara, tra Vicolo degli Armonici e Piazzetta Mergugliese, sorge la sede dell’Accademia degli Armonici, circolo ricreativo per nobili e intellettuali, fondato nel 1785. Il primo nucleo, l’ex chiesa di Sant’Anna, conosciuta come S. Niccolao (già S. Maria in Torre), venne acquistato nel 1789 poi ampliato tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo con alcuni vani del Palazzo delle Potesterie, prospiciente Piazza dello Spirito Santo e appartenuto alla soppressa Opera di S. Jacopo. Il nome con cui viene spesso citata, «Le Stanze», deriva dalla sua organizzazione interna: una serie di vani tra loro comunicanti, ove veniva organizzato il gioco da tavolo o il biliardo e la lettura, sviluppati attorno ad un unico salone centrale, sede delle serate danzanti o dei saggi della Scuola di musica Mabellini, che qui ebbe la sede per alcuni anni dopo il 1850. L’aspetto attuale dell’edificio è frutto di un restauro completo voluto dagli Accademici, secondo stilemi di gusto neoclassico.
Il pubblico di questa mostra è chiamato ad attraversare arcipelaghi fatti di comodini, cassettiere ed armadi che custodiscono più di trecento abiti blu donati dalle persone. Quattro sono gli arcipelaghi/mobili da attraversare e ognuno è dedicato a una fase del viaggio: «Da lontano», «Corpo a corpo con i luoghi», «La risacca del ricordo» e «La comprensione».
Per poter passare da un arcipelago all’altro bisogna aprire ante e cassetti e, leggendo le etichette che li accompagnano, interagire con gli abiti in essi custoditi, per vivere stupori, piccole meraviglie e accedere a micro mondi poetici che raccontano la bellezza dell’Altro e dell’Altrove.
Alla fine del percorso i viaggiatori potranno timbrare la propria carta di viaggio (fornita all’ingresso).
Chi partecipa è invitato ad attraversare con i suoi sensi la «geografia» del vestito, osservandolo, infilando la mano in una tasca oppure aprendo una zip, sbottonando un bottone, guardando in un cappuccio.
Attraverso azioni così familiari e quotidiane i capi «si attivano»: luci, suoni, venti, illusioni ottiche che raccontano il fascino, la paura, la voglia, lo stupore del viaggio, le emozioni e le sensazioni che tutti i corpi in transito hanno provato almeno una volta nella vita.
Ogni abito si manifesta come un raccoglitore di esperienze, una tessitura tra luoghi, uomini e culture.
«Da un capo all’altro» invita a mettersi in relazione con i vestiti utilizzando paradossalmente l’intimità dell’arredo domestico e dell’abbigliamento, per parlare dell’esperienza del viaggio, quella che più di tutte mette l’uomo in dialogo con l'Altro.
In questo capovolgimento, gli abiti danno vita a dei mondi interattivi poetici, intimi e delicati, divertenti e dinamici, vestendo nuove ed inedite trame di senso. Allo stesso modo, i mobili sono realmente mobili: perdono la loro fissità e si circumnavigano a tutto tondo come isole nello spazio espositivo, avendo la particolarità di poter essere aperti ed esplorabili da più lati.
La mostra offre, inoltre, spunti per l’approfondimento scientifico, dando la possibilità di indagare il corpo umano in maniera interattiva. Questo è possibile grazie a una app, che dà accesso ai contenuti speciali denominati «Scampoli di scienza e geografia».
Puntando il proprio smartphone su alcuni abiti ed inquadrando le costellazioni ricamate su di essi, è possibile fare un viaggio nel mondo attraverso le parti del corpo e sotto un cielo di costellazioni immaginarie dedicate ad oggetti quotidiani: l’abito con la «costellazione della collana» racconta, ad esempio, come è fatto e a cosa serve il collo e ci porta poi in Thailandia tra le donne Kaian, la «costellazione del pallone» racconta curiosità sui muscoli delle gambe facendoci viaggiare nell’antica Grecia e i suoi Giochi Olimpici.
La mostra «Da un capo all'altro» è l'esito di un percorso che, partendo dai grandi temi del dossier di candidatura di Matera 2019, ha voluto esplorare argomenti universali come il viaggio, ma anche difficili come quelli dell’emigrazione.
Informazioni utili
«Da un capo all’altro, ovvero nuovo atlante mobile di abitografia umana». Le Stanze, via Curtatone e Montanara, 14 – Pistoia. Orari: da martedì a venerdì, ore 16.30 - 19.30; sabato e festivi, ore 10.00 - 13.00 e ore 16.30 - 19.30; chiuso il lunedì e nelle giornate del 23, del 27 dicembre e del 1° gennaio. Ingresso libero. Informazioni: cell. 347.9315416. Sito internet: www.dauncapoallaltro.eu. Fino al 7 gennaio 2018.
venerdì 15 dicembre 2017
Le «Memorie triestine» di Leonor Fini in mostra a Bruxelles
È Bruxelles la prima tappa di un ciclo espositivo dedicato a Leonor Fini (Buenos Aires 1907 - Parigi 1996), artista argentina di nascita e triestina d’adozione, conosciuta come una delle più importanti, significative e raffinate rappresentanti del Surrealismo, autrice di un linguaggio molto personale e pervaso d’inquietudine, assai apprezzato da critica e pubblico in un’epoca in cui non era facile per le donne operare nel campo dell’arte, a causa di molti pregiudizi.
Parigi, Laveno Mombello (Varese) e Trieste, città dove Leonor Fini crebbe e si formò, saranno le prossime tappe di questa rassegna, ideata da Marianna Acerboni per festeggiare i centodieci anni dalla nascita dell’artista.
L’esposizione -che si avvale di un allestimento introspettivo, nel quale le opere avvolte nella penombra della sala sono illuminate da fasci di luce- allinea in tutto un’ottantina di lavori, tra cui undici quasi totalmente inediti, che provengono dalla collezione della cugina triestina Mary Frausin.
La mostra presenta, inoltre, una collezione di trentadue opere su carta, in buona parte fuori commercio o prove d’autore inedite, donate all’amico triestino Giorgio Cociani, con il quale Leonor Fini intrattenne per quasi vent’anni una corrispondenza fatta di telefonate quotidiane, lettere e cartoline inedite e al quale l’artista era unita dalla comune passione per i gatti, motivo ispiratore di sue svariate opere.
Questi lavori sono in mostra accanto a rari libri d’arte e a sei affiches di importanti mostre personali realizzati dalla pittrice in Europa, oltre ad alcuni suoi vestiti appartenuti, tra cui una preziosa cappa da sera in pelliccia molto evocativa della sua personalità.
Sono, inoltre, presenti lungo il percorso espositivo lettere di Arturo Nathan e di Gillo Dorfles a testimoniare simbolicamente le affinità elettive tra questi tre artisti, la pittura introspettiva e visionaria che li accomunava e la loro grande amicizia, oltre a offrire un quadro dell’intellighenzia e dell’arte triestina che ruotavano intorno alla Fini in quegli anni di formazione, rimasti fondamentali nell’elaborazione del suo fare artistico.
A completare il percorso è un video realizzato dalla curatrice, che raccoglie una sintesi delle testimonianze e interviste inedite ad amici e conoscenti triestini dell’artista, tra i quali Gillo Dorfles, Daisy Nathan, Giorgio Cociani, Eligio Dercar (gallerista di riferimento della Fini a Trieste).
Immaginifica, enigmatica, sensuale e trasgressiva, ribelle, anticonformista e per certi versi ambigua, la Fini era dotata di un poliedrico ingegno creativo.
Oltre che pittrice, fu, infatti, dagli anni Quaranta, illustratrice di più di cento testi, tra cui quelli di Edgar A. Poe e del marchese de Sade, considerato un nume tutelare dei surrealisti. Ma fu anche disegnatrice, incisore, scrittrice e, tra gli anni Quaranta e Sessanta, scenografa e costumista per il cinema e per il teatro a Milano, Roma, Parigi e Londra.
Protagonista del panorama culturale del Novecento e considerata per certi versi uno dei capiscuola del Surrealismo, l’artista ebbe una carriera lunga e straordinariamente fortunata, costellata di eventi e relazioni importanti, che hanno fatto di lei una sorta di icona.
Cantata da Eluard e ritratta, tra gli altri, da Man Ray, Cartier Bresson, Cecil Beaton e Richard Overstreet, ha ispirato numerose biografie, tra le quali l’ottimo saggio «Leonor Fini ou les metamorphoses d’une oeuvre» (1996) di Jocelyne Godard.
Visse per oltre cinquant’anni a Parigi, ma deve molto alla città di Trieste, dove fu portata nel 1908 dalla madre, Malvina Braun, appartenente a una colta famiglia della borghesia intellettuale triestina, in fuga da Buenos Aires, e dal marito argentino di origini beneventane, dalla dubbia personalità. Qui la Fini si formò artisticamente nei primi vent’anni della sua vita nel fervido e vivace milieu culturale della Trieste dell’epoca, sospeso tra pensiero mitteleuropeo e suggestioni italiane, a contatto con personalità di livello internazionale.
Arturo Nathan, Gillo Dorfles, Leo Castelli, Umberto Saba, Italo Svevo e Bobi Bazlen, il grande traghettatore in Italia della letteratura dell’Est europeo in lingua originale, sono solo alcuni degli artisti, letterati e intellettuali, che lei frequentò nei primi vent'anni della sua vita e che influirono molto sulla sua formazione concettuale ed estetica, oltre che sulla sua forma mentis internazionale.
Approdata in Francia negli anni Trenta, l’«l’italienne de Paris» (questo era l’appellativo con cui era conosciuta Oltralpe) ebbe l’occasione di esporre assieme a celebri artisti come Salvador Dalì, Max Ernst e Meret Oppenheim alla mostra inaugurale della Galerie Drouin che il gallerista Leo Castelli (triestino, di origine ungherese) aveva appena aperto nella capitale francese con l’architetto Renè Drouin.
Sempre a Parigi l’artista conobbe e frequentò personaggi storici quali il fotografo Henri Cartier-Bresson, lo scrittore e poeta Jules Supervielle e Max Jacob, pittore e critico amico di Picasso, Braque, Cocteau e Modigliani.
La sua pittura, sofisticata e a volte sottilmente torbida, è nota per essere pervasa di elementi magici e simbolici. L’ibrido, il doppio, il duplice, palesati attraverso apparizioni e sfingi sono alcuni dei temi che compaiono nei suoi quadri, ascrivibili agli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta. In questo periodo fanno la loro comparsa anche sofisticate citazioni dei grandi del Quattrocento e del Cinquecento italiano come Tiziano, Arcimboldo e il suo maestro ideale Piero della Francesca.
Dopo la parentesi romana, in cui era divenuta la ritrattista per eccellenza del bel mondo, la Fini approcciò le figure minerali, in una tensione verso il rinnovamento e la modernità che sfociò negli anni Sessanta in una produzione molteplice, spesso connotata da suggestioni preraffaellite e di gusto floreale. Alla fine degli anni settanta subentrò in lei una maturità creativa inquieta, ispirata a tematiche nordiche: raffinatezza, mistero, eros galleggiavano in atmosfere oppressive e oscure.
Fil rouge della sua creatività, il complicato rapporto uomo-donna, spesso interpretato da una figura femminile, sovente con l’aspetto di una sfinge e con il volto dell’artista, che domina un maschio debole e androgino.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Leonor Fini a Parigi, Anni `60. Collezione privata, Trieste; [fig. 2] Leonor Fini, Figura con gatto, Anni `70. Litografia, 74x52 cm. Coll. Giorgio Cociani, Trieste; [Fig. 3] Leonor Fini, Luna, 1982. Olio su tela, 73x60 cm. Collezione privata, Trieste; [fig. 4] Elegante cappa da sera di breitschwanz con bordo in faina appartenuta a Leonor Fini, 2017. Pezzo fotografato sullo sfondo di Trieste. Coll. Giulietta Frausin, Trieste; [fig. 5] Leonor Fini, Ballerina al banco, Anni `60. Aquerello, 40x60 cm. Coll. Giulietta Frausin, Trieste
Informazioni utili
Leonor Fini. Memorie triestine. Istituto Italiano di Cultura (IIC), Rue de Livourne, 38 - 1000 Bruxelles. Orari: lunedì – venerdì, ore 9.30-13.00 e ore 14.30-17.00. Ingresso libero. Informazioni: tel + 32 (0)25332720. Sito internet: www.iicbruxelles.esteri.it. Fino al 5 gennaio 2018
Parigi, Laveno Mombello (Varese) e Trieste, città dove Leonor Fini crebbe e si formò, saranno le prossime tappe di questa rassegna, ideata da Marianna Acerboni per festeggiare i centodieci anni dalla nascita dell’artista.
L’esposizione -che si avvale di un allestimento introspettivo, nel quale le opere avvolte nella penombra della sala sono illuminate da fasci di luce- allinea in tutto un’ottantina di lavori, tra cui undici quasi totalmente inediti, che provengono dalla collezione della cugina triestina Mary Frausin.
La mostra presenta, inoltre, una collezione di trentadue opere su carta, in buona parte fuori commercio o prove d’autore inedite, donate all’amico triestino Giorgio Cociani, con il quale Leonor Fini intrattenne per quasi vent’anni una corrispondenza fatta di telefonate quotidiane, lettere e cartoline inedite e al quale l’artista era unita dalla comune passione per i gatti, motivo ispiratore di sue svariate opere.
Questi lavori sono in mostra accanto a rari libri d’arte e a sei affiches di importanti mostre personali realizzati dalla pittrice in Europa, oltre ad alcuni suoi vestiti appartenuti, tra cui una preziosa cappa da sera in pelliccia molto evocativa della sua personalità.
Sono, inoltre, presenti lungo il percorso espositivo lettere di Arturo Nathan e di Gillo Dorfles a testimoniare simbolicamente le affinità elettive tra questi tre artisti, la pittura introspettiva e visionaria che li accomunava e la loro grande amicizia, oltre a offrire un quadro dell’intellighenzia e dell’arte triestina che ruotavano intorno alla Fini in quegli anni di formazione, rimasti fondamentali nell’elaborazione del suo fare artistico.
A completare il percorso è un video realizzato dalla curatrice, che raccoglie una sintesi delle testimonianze e interviste inedite ad amici e conoscenti triestini dell’artista, tra i quali Gillo Dorfles, Daisy Nathan, Giorgio Cociani, Eligio Dercar (gallerista di riferimento della Fini a Trieste).
Immaginifica, enigmatica, sensuale e trasgressiva, ribelle, anticonformista e per certi versi ambigua, la Fini era dotata di un poliedrico ingegno creativo.
Oltre che pittrice, fu, infatti, dagli anni Quaranta, illustratrice di più di cento testi, tra cui quelli di Edgar A. Poe e del marchese de Sade, considerato un nume tutelare dei surrealisti. Ma fu anche disegnatrice, incisore, scrittrice e, tra gli anni Quaranta e Sessanta, scenografa e costumista per il cinema e per il teatro a Milano, Roma, Parigi e Londra.
Protagonista del panorama culturale del Novecento e considerata per certi versi uno dei capiscuola del Surrealismo, l’artista ebbe una carriera lunga e straordinariamente fortunata, costellata di eventi e relazioni importanti, che hanno fatto di lei una sorta di icona.
Cantata da Eluard e ritratta, tra gli altri, da Man Ray, Cartier Bresson, Cecil Beaton e Richard Overstreet, ha ispirato numerose biografie, tra le quali l’ottimo saggio «Leonor Fini ou les metamorphoses d’une oeuvre» (1996) di Jocelyne Godard.
Visse per oltre cinquant’anni a Parigi, ma deve molto alla città di Trieste, dove fu portata nel 1908 dalla madre, Malvina Braun, appartenente a una colta famiglia della borghesia intellettuale triestina, in fuga da Buenos Aires, e dal marito argentino di origini beneventane, dalla dubbia personalità. Qui la Fini si formò artisticamente nei primi vent’anni della sua vita nel fervido e vivace milieu culturale della Trieste dell’epoca, sospeso tra pensiero mitteleuropeo e suggestioni italiane, a contatto con personalità di livello internazionale.
Arturo Nathan, Gillo Dorfles, Leo Castelli, Umberto Saba, Italo Svevo e Bobi Bazlen, il grande traghettatore in Italia della letteratura dell’Est europeo in lingua originale, sono solo alcuni degli artisti, letterati e intellettuali, che lei frequentò nei primi vent'anni della sua vita e che influirono molto sulla sua formazione concettuale ed estetica, oltre che sulla sua forma mentis internazionale.
Approdata in Francia negli anni Trenta, l’«l’italienne de Paris» (questo era l’appellativo con cui era conosciuta Oltralpe) ebbe l’occasione di esporre assieme a celebri artisti come Salvador Dalì, Max Ernst e Meret Oppenheim alla mostra inaugurale della Galerie Drouin che il gallerista Leo Castelli (triestino, di origine ungherese) aveva appena aperto nella capitale francese con l’architetto Renè Drouin.
Sempre a Parigi l’artista conobbe e frequentò personaggi storici quali il fotografo Henri Cartier-Bresson, lo scrittore e poeta Jules Supervielle e Max Jacob, pittore e critico amico di Picasso, Braque, Cocteau e Modigliani.
La sua pittura, sofisticata e a volte sottilmente torbida, è nota per essere pervasa di elementi magici e simbolici. L’ibrido, il doppio, il duplice, palesati attraverso apparizioni e sfingi sono alcuni dei temi che compaiono nei suoi quadri, ascrivibili agli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta. In questo periodo fanno la loro comparsa anche sofisticate citazioni dei grandi del Quattrocento e del Cinquecento italiano come Tiziano, Arcimboldo e il suo maestro ideale Piero della Francesca.
Dopo la parentesi romana, in cui era divenuta la ritrattista per eccellenza del bel mondo, la Fini approcciò le figure minerali, in una tensione verso il rinnovamento e la modernità che sfociò negli anni Sessanta in una produzione molteplice, spesso connotata da suggestioni preraffaellite e di gusto floreale. Alla fine degli anni settanta subentrò in lei una maturità creativa inquieta, ispirata a tematiche nordiche: raffinatezza, mistero, eros galleggiavano in atmosfere oppressive e oscure.
Fil rouge della sua creatività, il complicato rapporto uomo-donna, spesso interpretato da una figura femminile, sovente con l’aspetto di una sfinge e con il volto dell’artista, che domina un maschio debole e androgino.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Leonor Fini a Parigi, Anni `60. Collezione privata, Trieste; [fig. 2] Leonor Fini, Figura con gatto, Anni `70. Litografia, 74x52 cm. Coll. Giorgio Cociani, Trieste; [Fig. 3] Leonor Fini, Luna, 1982. Olio su tela, 73x60 cm. Collezione privata, Trieste; [fig. 4] Elegante cappa da sera di breitschwanz con bordo in faina appartenuta a Leonor Fini, 2017. Pezzo fotografato sullo sfondo di Trieste. Coll. Giulietta Frausin, Trieste; [fig. 5] Leonor Fini, Ballerina al banco, Anni `60. Aquerello, 40x60 cm. Coll. Giulietta Frausin, Trieste
Informazioni utili
Leonor Fini. Memorie triestine. Istituto Italiano di Cultura (IIC), Rue de Livourne, 38 - 1000 Bruxelles. Orari: lunedì – venerdì, ore 9.30-13.00 e ore 14.30-17.00. Ingresso libero. Informazioni: tel + 32 (0)25332720. Sito internet: www.iicbruxelles.esteri.it. Fino al 5 gennaio 2018
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