Tata di mestiere, fotografa per vocazione: quando si parla di Vivian Maier (1926-2009) è questa la prima espressione che viene in mente. L’artista americana -conosciuta al grande pubblico solo nel 2007 quando John Maloof acquistò all’asta il suo corposo archivio, composto da più di 150.000 negativi, super 8 e 16mm film, diverse registrazioni audio, alcune fotografie e centinaia di rullini non sviluppati- si occupava, infatti, dell’educazione dei figli degli altri e nel frattempo, con la sua inseparabile Rolleiflex, ritraeva in bianco e nero, con uno sguardo curioso, attratto da piccoli dettagli, scene di strada, ritratti di sconosciuti e il mondo dei bambini.
Vivian Maier era, dunque, un’ottima street photographer, capace di raccontare la bellezza dell’ordinario, scovando le fratture impercettibili e le inflessioni sfuggenti della realtà nella quotidianità che la circondava. Scattare ritratti era per lei una necessità. Era il modo attraverso il quale definiva la propria posizione nel mondo, e quello con cui provava a restituire l'ordine delle cose. Quando i protagonisti dei ritratti erano poveri, lasciava loro una legittima distanza. Quando, invece, appartenevano all'alta società metteva in atto azioni di disturbo facendo in modo che nello scatto risultassero infastiditi. La Maier aveva due facce: quella che accettava la propria condizione di bambinaia, e quella che, invece, la combatteva cercando di essere qualcun altro. Questo dualismo, generato dallo scontro tra le due anime, ha dato vita a una vicenda senza paragoni nella storia della fotografia.
Di Vivian Maier ci sono giunti anche molti autoritratti e sono proprio questi i protagonisti della mostra «The Self-Portrait and its Double», in programma dal 20 luglio al 16 ottobre al Magazzino delle Idee di Trieste, per la curatela di Anne Morin. L’esposizione -realizzata con la collaborazione della madrilena diChroma photography, della John Maloof Collection e della Howard Greenberg Gallery di New York- allinea settanta lavori, di cui cinquantanove in bianco e nero e undici a colori, questi ultimi mai esposti prima d’ora sul territorio italiano.
L'interesse di Vivian Maier per l'autoritratto era più che altro una disperata ricerca della sua identità. Ridotta all'invisibilità, a una sorta di inesistenza a causa dello status sociale, l’artista americana si mise a produrre prove inconfutabili della sua presenza in un mondo che sembrava non avere un posto per lei. Lasciò la sua memoria in tutti i luoghi dove ebbe occasione di lavorare come bambinaia per oltre quarant’anni, a partire dai primi anni Cinquanta e per quattro decenni, da New York a Chicago.
Il suo riflesso in uno specchio, la sua ombra che si estende a terra, o il contorno della sua figura: come in un lungo gioco a nascondino, tra ombre e riflessi, in mostra ogni autoritratto di Vivian Maier è un'affermazione della sua presenza in quel particolare luogo, in quel particolare momento.
Caratteristica ricorrente è l'ombra, diventata una firma inconfondibile nei suoi autoritratti. La sua silhouette, la cui caratteristica principale è il suo attaccamento al corpo, quel duplicato del corpo in negativo «scolpito dalla realtà», ha la capacità di rendere presente ciò che è assente.
Inedito nel percorso espositivo è il nucleo di immagini a colori. Per Vivian Maier, il passaggio al colore è stato accompagnato da un cambiamento dovuto all’utilizzo di una Leica all'inizio degli anni Settanta. La fotocamera è leggera, facile da portare: le foto sono riprese direttamente a livello dell'occhio, a differenza della Rolleiflex che usava prima. Vivian Maier è così in grado di raccogliere il contatto visivo con gli altri e fotografare il mondo nella sua realtà colorata. Il suo lavoro a colori rimane singolare, libero e anche giocoso. Esplora le caratteristiche specifiche del linguaggio cromatico con una certa casualità, elabora il proprio vocabolario, ma soprattutto si diverte con il reale: sottolineando stridenti dettagli di colore, mostrando le discrepanze multicolore della moda o giocando con brillanti contrappunti.
Accompagna gli scatti fotografici in mostra una serie di filmati in super 8mm realizzati dalla stessa Vivian Maier, che ci permettono di seguire il movimento dell'occhio dell’artista. Nel 1960 l’artista inizia, infatti, a filmare scene di strada, eventi e luoghi. Il suo approccio cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio da fotografa: è una questione di esperienza visiva, di un’osservazione discreta e silenziosa del mondo che la circonda. Non c'è narrazione, nessun movimento della macchina (l'unico movimento cinematografico è quello della carrozza o della metropolitana in cui si trova). Vivian Maier filma quello che la porta all'immagine fotografica: osserva, si ferma intuitivamente su un soggetto e lo segue. Ingrandisce con la lente per avvicinarsi senza avvicinarsi e concentrarsi su un atteggiamento o un dettaglio (come le gambe e le mani di individui in mezzo alla folla). Il film è sia una documentazione (un uomo mentre viene arrestato dalla polizia, oppure i danni causati da un tornado) sia un oggetto di contemplazione (la strana processione di pecore ai mattatoi di Chicago).
Dall’esposizione triestina emerge, dunque, il ritratto di una fotografa, diventata icona solo in anni recenti, capace non solo di appropriarsi del linguaggio visivo della sua epoca, ma di farlo con uno sguardo sottile e un punto di vista acuto.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Vivian Maier, Untitled, Chicago, IL, 1974_Paper size: 11x14 inches. ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY; [fig. 2] Vivian Maier, Self-portrait on a beach in New York's Staten Island, 1954_ Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm)©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY; [fig. 3] Vian Maier, n.d.Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm); [fig. 4] Vivian Maier, 1955_Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm)_Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm) ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, N
Informazioni utili
Vivian Maier, The Self-Portrait and its Double. Magazzino delle Idee, Corso Camillo Benso conte di Cavour, 2 – Trieste. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00-20.00; lunedì chiuso | aperture straordinarie: 15 agosto. Informazioni: info@magazzinodelleidee.it | tel. 040.3774783 | tel. 0481.91697. Sito internet: www.magazzinodelleidee.it | www.vivianmaier.com. Inaugurazione: 19 luglio 2019, ore 18. Dal 20 luglio al 22 settembre 2019. La mostra è prorogata fino al 16 ottobre 2019.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
venerdì 14 giugno 2019
mercoledì 12 giugno 2019
«#AnneFrank. Vite Parallele»: Helen Mirren porta al cinema il «Diario»
«…E cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… non ci fossero altri uomini al mondo». Si chiude così il «Diario» di Anna Frank. È il 1° agosto del 1944. La giovane scrive per l’ultima volta a Kitty, la sua amica immaginaria. Le racconta le sue frustrazioni di ragazzina, quel sentirsi «un fastello di contraddizioni», che la rendono sorella di tanti coetanei adolescenti di tutti i tempi. Tre giorni dopo, il 4 agosto 1944, la Gestapo entra nell’appartamento segreto di Amsterdam, in cui Anna Frank si nasconde con la famiglia per sfuggire alla persecuzione nazista. La sua unica colpa è di essere ebrea in un mondo che crede nella superiorità della razza ariana e che considera nemico ciò che è diverso. La giovane viene deportata nel campo di concentramento nazista di Bergen Belsen, dove muore di stenti tra il febbraio e il marzo del 1945, insieme alla sorella Margot, a causa di un’epidemia di tifo. Di lei ci rimangono poche foto e un diario, pubblicato per la prima volta nel 1947 in tremila copie, per volontà del padre Otto, con il titolo «Het Achterhuis» («Il retrocasa»). Sono quelle pagine, la cui fama circola presto in tutta Europa (la prima edizione italiana è del 1954 e vede la prefazione di Natalia Ginzburg per Einaudi), a restituirci il volto di una ragazzina che sogna di diventare scrittrice e che conquista i lettori con il suo strenuo ottimismo e la sua toccante fede nell'umanità a dispetto dei tempi oscuri. «...È un gran miracolo - si legge, infatti, nel «Diario» - che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell'intima bontà dell'uomo che può sempre emergere...».
Se non fosse morta a Bergen Belsen, Anna Frank, nata il 12 giugno 1929 a Francoforte, quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. Eventi, trasmissioni tv, libri commemoreranno, nei prossimi mesi, il suo anniversario di nascita. Fabbri Editori, per esempio, le dedica un profilo biografico, a cura di Maria Isabel Sánchez Vegara, nella collana «Piccole donne, Grandi sogni»; mentre Rai Tre manderà in onda, nella serata di giovedì 13 giugno, uno speciale a cura di Corrado Augias.
Tra gli appuntamenti più attesi c’è il documentario «#AnneFrank. Vite parallele», scritto e diretto da Sabina Fedeli e Anna Migotto, con la colonna sonora di Lele Marchitelli, la cui produzione è firmata da 3D Produzioni e Nexo Digital in collaborazione con l’Anne Frank Fonds di Basilea, Sky Arte, il Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa.
Il film, in proiezione nei cinema italiani l’11, 12 e 13 novembre, avrà come guida d’eccezione Helen Mirren, premio Oscar® come migliore attrice per «The Queen».
Come sarebbe stata la vita di Anne Frank se avesse potuto vivere dopo Auschwitz e Bergen Belsen? Cosa ne sarebbe stato dei suoi desideri, delle speranze di cui scriveva nei suoi diari? Cosa ci avrebbe raccontato della persecuzione, dei campi di concentramento? Come avrebbe interpretato la realtà attuale, il rinascente antisemitismo, i nuovi razzismi? Sono tante le domande che ci vengono in mente ripensando ad Anna Frank, la cui storia verrà raccontata da Helen Mirren attraverso le pagine del suo «Diario», un testo straordinario che ha fatto conoscere a milioni di lettori in tutto il mondo la tragedia del nazismo, pur non raccontandolo in maniera diretta.
Il set del film è la camera del rifugio segreto di Amsterdam in cui la ragazzina resta nascosta per oltre due anni. È stata ricostruita nei minimi dettagli dagli scenografi del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, fondato da Giorgio Strehler, permettendoci così di ritornare in quel 1942, in cui inizia la storia di Anna Frank nel rifugio olandese. Nella stanza ci sono gli oggetti della sua vita, le fotografie con cui aveva tappezzato le pareti, i quaderni su cui scriveva.
La sua vicenda si intreccia con quella di cinque sopravvissute all’Olocausto, bambine e adolescenti come lei, con la stessa voglia di vivere e lo stesso coraggio: Arianna Szörenyi, Sarah Lichtsztejn-Montard, Helga Weiss e le sorelle Andra e Tatiana Bucci.
L’attrice Martina Gatti, simbolo delle tante teenager che si sentono ancora vicine ad Anna, ci conduce nei luoghi che hanno fatto da scenario alle storie di queste giovani. Viaggia per l'Europa, dal campo di concentramento di Bergen-Belsen in Germania al Memoriale della Shoah di Parigi. Scatta selfie. Scrive post. Compila una sorta di diario digitale, capace di parlare ai suoi coetanei: un modo immediato per mettere in relazione le tragedie passate con il presente, per capire quale sia oggi l’antidoto contro ogni forma di razzismo, discriminazione e antisemitismo. È la sua curiosità, la sua voglia di non restare indifferente, a farci riscoprire l’assoluta contemporaneità delle parole di Anna Frank, ma anche la potenza delle voci di chi ancora può ricordare: Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana. Come la giovane tredicenne di Francoforte, queste donne hanno subito, da giovanissime, la persecuzione e la deportazione. A loro è stata negata l’infanzia. Hanno perduto nei lager madri, padri, fratelli, amici, amori. I loro racconti danno così voce al silenzio del «Diario», che si interrompe improvvisamente con l’arresto del 4 agosto 1944.
Non mancano nel documentario testimonianze, come quelle del rabbino Michael Berenbaum, dello storico della Shoah Marcello Pezzetti, dell’etnopsicologa francese Nathalie Zajde, della violinista di fama internazionale Francesca Dego, del giornalista Yves Kugelmann, di Ronald Leopold dell’Anne Frank House e di Alain Granat, direttore del magazine online «Jewpopo».
In occasione dell’uscita del docu-film, nasce anche il profilo Instagram @CaraAnneFrank: come Kitty contemporanee, tutti noi possiamo parlare ad Anne e alle altre testimoni raccontando loro i nostri pensieri e le nostre emozioni sul tema della memoria. È questo l’invito rivolto a studenti e lettori con l’intento di mettere nuovamente in luce l’assoluta contemporaneità del messaggio e delle testimonianze di Anna, Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana, strumento per decifrare il mondo attuale e come antidoto contro ogni forma di razzismo.
Per saperne di più
www.annefrankviteparallele.com
Se non fosse morta a Bergen Belsen, Anna Frank, nata il 12 giugno 1929 a Francoforte, quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. Eventi, trasmissioni tv, libri commemoreranno, nei prossimi mesi, il suo anniversario di nascita. Fabbri Editori, per esempio, le dedica un profilo biografico, a cura di Maria Isabel Sánchez Vegara, nella collana «Piccole donne, Grandi sogni»; mentre Rai Tre manderà in onda, nella serata di giovedì 13 giugno, uno speciale a cura di Corrado Augias.
Tra gli appuntamenti più attesi c’è il documentario «#AnneFrank. Vite parallele», scritto e diretto da Sabina Fedeli e Anna Migotto, con la colonna sonora di Lele Marchitelli, la cui produzione è firmata da 3D Produzioni e Nexo Digital in collaborazione con l’Anne Frank Fonds di Basilea, Sky Arte, il Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa.
Il film, in proiezione nei cinema italiani l’11, 12 e 13 novembre, avrà come guida d’eccezione Helen Mirren, premio Oscar® come migliore attrice per «The Queen».
Come sarebbe stata la vita di Anne Frank se avesse potuto vivere dopo Auschwitz e Bergen Belsen? Cosa ne sarebbe stato dei suoi desideri, delle speranze di cui scriveva nei suoi diari? Cosa ci avrebbe raccontato della persecuzione, dei campi di concentramento? Come avrebbe interpretato la realtà attuale, il rinascente antisemitismo, i nuovi razzismi? Sono tante le domande che ci vengono in mente ripensando ad Anna Frank, la cui storia verrà raccontata da Helen Mirren attraverso le pagine del suo «Diario», un testo straordinario che ha fatto conoscere a milioni di lettori in tutto il mondo la tragedia del nazismo, pur non raccontandolo in maniera diretta.
Il set del film è la camera del rifugio segreto di Amsterdam in cui la ragazzina resta nascosta per oltre due anni. È stata ricostruita nei minimi dettagli dagli scenografi del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, fondato da Giorgio Strehler, permettendoci così di ritornare in quel 1942, in cui inizia la storia di Anna Frank nel rifugio olandese. Nella stanza ci sono gli oggetti della sua vita, le fotografie con cui aveva tappezzato le pareti, i quaderni su cui scriveva.
La sua vicenda si intreccia con quella di cinque sopravvissute all’Olocausto, bambine e adolescenti come lei, con la stessa voglia di vivere e lo stesso coraggio: Arianna Szörenyi, Sarah Lichtsztejn-Montard, Helga Weiss e le sorelle Andra e Tatiana Bucci.
L’attrice Martina Gatti, simbolo delle tante teenager che si sentono ancora vicine ad Anna, ci conduce nei luoghi che hanno fatto da scenario alle storie di queste giovani. Viaggia per l'Europa, dal campo di concentramento di Bergen-Belsen in Germania al Memoriale della Shoah di Parigi. Scatta selfie. Scrive post. Compila una sorta di diario digitale, capace di parlare ai suoi coetanei: un modo immediato per mettere in relazione le tragedie passate con il presente, per capire quale sia oggi l’antidoto contro ogni forma di razzismo, discriminazione e antisemitismo. È la sua curiosità, la sua voglia di non restare indifferente, a farci riscoprire l’assoluta contemporaneità delle parole di Anna Frank, ma anche la potenza delle voci di chi ancora può ricordare: Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana. Come la giovane tredicenne di Francoforte, queste donne hanno subito, da giovanissime, la persecuzione e la deportazione. A loro è stata negata l’infanzia. Hanno perduto nei lager madri, padri, fratelli, amici, amori. I loro racconti danno così voce al silenzio del «Diario», che si interrompe improvvisamente con l’arresto del 4 agosto 1944.
Non mancano nel documentario testimonianze, come quelle del rabbino Michael Berenbaum, dello storico della Shoah Marcello Pezzetti, dell’etnopsicologa francese Nathalie Zajde, della violinista di fama internazionale Francesca Dego, del giornalista Yves Kugelmann, di Ronald Leopold dell’Anne Frank House e di Alain Granat, direttore del magazine online «Jewpopo».
In occasione dell’uscita del docu-film, nasce anche il profilo Instagram @CaraAnneFrank: come Kitty contemporanee, tutti noi possiamo parlare ad Anne e alle altre testimoni raccontando loro i nostri pensieri e le nostre emozioni sul tema della memoria. È questo l’invito rivolto a studenti e lettori con l’intento di mettere nuovamente in luce l’assoluta contemporaneità del messaggio e delle testimonianze di Anna, Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana, strumento per decifrare il mondo attuale e come antidoto contro ogni forma di razzismo.
Per saperne di più
www.annefrankviteparallele.com
Depero, un artista tra futurismo e pubblicità
«Si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti delle strade, dappertutto. Si tentò perfino di proiettarla sulle nubi. È insomma un’arte viva che penetra e si diffonde ovunque, moltiplicata all’infinito e che non rimane sepolta nei musei. Arte libera da ogni freno accademico. Arte gioconda, spavalda ed esilarante». Così nel 1933, sulla rivista «Futurismo» di Roma, Fortunato Depero (Fondo, 30 marzo 1892 – Rovereto, 29 novembre 1960) esprimeva il proprio amore per la pubblicità, un linguaggio che lo aveva fortemente affascinato agli inizi degli anni Venti e che avrebbe ininterrottamente praticato fino alla fine degli anni Cinquanta, anche perché fonte di remunerazione irrinunciabile.
A questo aspetto della carriera dell’artista trentino, rappresentante di spicco del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, guarda la mostra allestita al Lu.C.C.A.-Lucca Center of Contemporary Art, in occasione del decennale dalla fondazione dello spazio espositivo.
La rassegna, aperta fino al 25 agosto, si avvale della curatela Maurizio Scudiero, storico dell’arte di riferimento per quanto riguarda la stagione futurista, e di Maurizio Vanni, museologo e direttore del centro lucchese, a cui si deve anche il salto nel mondo della tecnologia e dell’interattività di questa esperienza di visita, resa possibile dalla collaborazione delle aziende Thinkinside e Dimension, che hanno studiato un sistema di geolocalizzazione e uno chabot per ricevere informazioni, in italiano e in inglese, sulle opere che si stanno visionando in mostra.
A raccontare il mondo ironico, eclettico e visionario di Depero, un artista che seppe precorrere i tempi con la sua capacità di comprendere la svolta mercantilistica che stava allora prendendo il mondo dell’arte, sono ottanta lavori tra disegni, bozzetti e dipinti, realizzati a partire dal 1915 e fino al 1930, con una piccola incursione negli ultimi capolavori, come testimoniano le due belle maquette in legno verniciato «Pupazzo che beve il Campari soda» (1960) e «Pupazzo con cannuccia» (1960), provenienti dalla Galleria Campari di Sesto San Giovanni, nel Milanese.
«L’esposizione -commenta Maurizio Scudiero- ha un impianto che si potrebbe definire didattico in quanto accosta le opere pubblicitarie con i disegni esecutivi finali, o di progetto. Viene così svelato il procedimento della nascita dei prodotti artistici di Depero, ovvero dall’ideazione all’esecuzione finale, ma anche come le idee dell’artista si muovessero trasversalmente nel tempo: nessun progetto bocciato veniva buttato via, ma conservato in attesa di tempi migliori e quindi riproposto».
Il percorso espositivo si apre con un focus sugli inizi futuristi di Depero, in chiave interventista e astrattista, ma anche con un occhio attento agli studi sul movimento di Umberto Boccioni, come documentano il collage «Guerra! Italia» del 1915 e le tele «Corsa ippica tra le nubi» del 1924 e «Gondoliere» del 1927, tutte e tre di proprietà dell’Archivio Depero di Rovereto, che ha collaborato attivamente alla mostra toscana.
Tra le opere storiche dell’artista sono esposti a Lucca anche due disegni a carbone, «Ballerina Capri» (1917) e «Ballerina» (1917), che ne ricordano l’amore per il teatro, al quale Depero diede il suo contributo con la collaborazione, nel 1916, con Sergeij Diaghilev, impresario dei balletti russi, per la realizzazione delle scenografie e dei costumi per «Le chant du rossignol» di Igor Strawinskij, e, tra il 1917 e il 1918, con il poeta svizzero Gilbert Clavel per lo spettacolo «Balli plastici», dove gli attori vennero sostituiti da automi colorati.
Dagli inizi futuristi la mostra traghetta, quindi, il visitatore alla stagione in cui l’artista trentino aderì al Fascismo, come documentano le numerose copertine per la «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» esposte.
Grande spazio, poi, è dato alla pubblicità con disegni, collage e grafiche per le campagne dell’Acqua San Pellegrino, del liquore Strega, del mandorlato Vido, dei mattoni Verzocchi, del tamarindo Erba, del cioccolato Unica, ma soprattutto per l’azienda Campari, a cui è dedicata un’intera sala, nella quale è esposta anche la tela «Squisito al selz», con cui l’artista partecipò nel 1926 alla Biennale di Venezia. Si dispiega così la storia dell’industria italiana, a cui Fortunato Depero diede il suo personale contributo rivoluzionando i criteri del manifesto pubblicitario e rivedendone anche l’impostazione puntando soprattutto sul carattere tipografico, considerato elemento caratterizzante e simbolo del prodotto.
L’esposizione, infine, racconta anche un lato poco conosciuto di Depero: la sua fase americana, risalente al biennio 1928-1930. A New York l’artista realizzò gli ambienti del ristorante «Zucca» e della sala da pranzo «Enrico and Paglieri» (ambedue distrutti neanche un anno dopo per far posto al Rockfeller Center), studiò soluzioni sceniche per il Roxy Teathre e per il balletto «American Sketches», lavorò come illustratore per libri d’infanzia (in mostra ci sono le opere per l’edizione americana di «Cappuccetto Rosso» del 1929) e riviste quali «The New Yorker», «Vogue», «Vanity Fair» e «Sparks».
New York fu per Fortunato Depero una sorta di nuova Babele più che «una città che sale». All'inizio la metropoli lo conquistò con le sue luci, gli incontri, la cultura e il progresso. Poi- complice anche la grande depressione del '29, che rese difficoltosa la vendita dei suoi quadri- la città americana mostrò all'artista tutte le sue crepe.
«Una baraonda di folle in cui tutte le razze ballano un brutale ballo della vita. Tram – automobili a milioni – treni sottoterra e aerei. Si balla, ci si spintona, ci si calpesta le scarpe e ci si sputa il fumo in faccia. Occorrono nervi d’acciaio»: così scriveva in una lettera a un amico parlando della Grande mela. Non restava che ritornare a casa, portando con sé il ricordo di due anni di «molte soddisfazioni e durezze all’infinito». Forse, dopo tutto, era meglio il suo Paese e per dirlo Fortunato Depero trovò un modo molto pubblicitario, uno slogan da cartellone: «America dollari. Italia sole. W il sole!».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Fortunato Depero, Squisito al selz, 1926. Olio, 70x100 cm. Collezione privata; [fig. 2] Fortunato Depero, Bitter Campari (Automa al tavolino che beve), 1928. Manifesto, 100x70 cm. Archivio Depero, Rovereto; [fig. 3] Fortunato Depero, Strega (Liquore), 1928. Collage, 46x34,5 cm. Collezione privata; [fig. 4] Fortunato Depero, Copertina per la rivista “Vanity Fair”, 1930. Cromolitografia, 33x25 cm. Archivio Depero, Rovereto; [fig. 5] Fortunato Depero. La Rivista (progetto per copertina), 1931/32. Collage, 46x32 cm. Studio 53 Arte, Rovereto
Informazioni utili
Fortunato Depero - Dal sogno futurista al sogno pubblicitario. Lu.C.C.A.-Lucca Center of Contemporary Art, via della Fratta, 36 – Lucca. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10 alle ore 19.Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: info@luccamuseum.com, tel. 0583.492180. Sito internet: www.luccamuseum.com. Fino al 25 agosto 2019
A questo aspetto della carriera dell’artista trentino, rappresentante di spicco del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, guarda la mostra allestita al Lu.C.C.A.-Lucca Center of Contemporary Art, in occasione del decennale dalla fondazione dello spazio espositivo.
La rassegna, aperta fino al 25 agosto, si avvale della curatela Maurizio Scudiero, storico dell’arte di riferimento per quanto riguarda la stagione futurista, e di Maurizio Vanni, museologo e direttore del centro lucchese, a cui si deve anche il salto nel mondo della tecnologia e dell’interattività di questa esperienza di visita, resa possibile dalla collaborazione delle aziende Thinkinside e Dimension, che hanno studiato un sistema di geolocalizzazione e uno chabot per ricevere informazioni, in italiano e in inglese, sulle opere che si stanno visionando in mostra.
A raccontare il mondo ironico, eclettico e visionario di Depero, un artista che seppe precorrere i tempi con la sua capacità di comprendere la svolta mercantilistica che stava allora prendendo il mondo dell’arte, sono ottanta lavori tra disegni, bozzetti e dipinti, realizzati a partire dal 1915 e fino al 1930, con una piccola incursione negli ultimi capolavori, come testimoniano le due belle maquette in legno verniciato «Pupazzo che beve il Campari soda» (1960) e «Pupazzo con cannuccia» (1960), provenienti dalla Galleria Campari di Sesto San Giovanni, nel Milanese.
«L’esposizione -commenta Maurizio Scudiero- ha un impianto che si potrebbe definire didattico in quanto accosta le opere pubblicitarie con i disegni esecutivi finali, o di progetto. Viene così svelato il procedimento della nascita dei prodotti artistici di Depero, ovvero dall’ideazione all’esecuzione finale, ma anche come le idee dell’artista si muovessero trasversalmente nel tempo: nessun progetto bocciato veniva buttato via, ma conservato in attesa di tempi migliori e quindi riproposto».
Il percorso espositivo si apre con un focus sugli inizi futuristi di Depero, in chiave interventista e astrattista, ma anche con un occhio attento agli studi sul movimento di Umberto Boccioni, come documentano il collage «Guerra! Italia» del 1915 e le tele «Corsa ippica tra le nubi» del 1924 e «Gondoliere» del 1927, tutte e tre di proprietà dell’Archivio Depero di Rovereto, che ha collaborato attivamente alla mostra toscana.
Tra le opere storiche dell’artista sono esposti a Lucca anche due disegni a carbone, «Ballerina Capri» (1917) e «Ballerina» (1917), che ne ricordano l’amore per il teatro, al quale Depero diede il suo contributo con la collaborazione, nel 1916, con Sergeij Diaghilev, impresario dei balletti russi, per la realizzazione delle scenografie e dei costumi per «Le chant du rossignol» di Igor Strawinskij, e, tra il 1917 e il 1918, con il poeta svizzero Gilbert Clavel per lo spettacolo «Balli plastici», dove gli attori vennero sostituiti da automi colorati.
Dagli inizi futuristi la mostra traghetta, quindi, il visitatore alla stagione in cui l’artista trentino aderì al Fascismo, come documentano le numerose copertine per la «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» esposte.
Grande spazio, poi, è dato alla pubblicità con disegni, collage e grafiche per le campagne dell’Acqua San Pellegrino, del liquore Strega, del mandorlato Vido, dei mattoni Verzocchi, del tamarindo Erba, del cioccolato Unica, ma soprattutto per l’azienda Campari, a cui è dedicata un’intera sala, nella quale è esposta anche la tela «Squisito al selz», con cui l’artista partecipò nel 1926 alla Biennale di Venezia. Si dispiega così la storia dell’industria italiana, a cui Fortunato Depero diede il suo personale contributo rivoluzionando i criteri del manifesto pubblicitario e rivedendone anche l’impostazione puntando soprattutto sul carattere tipografico, considerato elemento caratterizzante e simbolo del prodotto.
L’esposizione, infine, racconta anche un lato poco conosciuto di Depero: la sua fase americana, risalente al biennio 1928-1930. A New York l’artista realizzò gli ambienti del ristorante «Zucca» e della sala da pranzo «Enrico and Paglieri» (ambedue distrutti neanche un anno dopo per far posto al Rockfeller Center), studiò soluzioni sceniche per il Roxy Teathre e per il balletto «American Sketches», lavorò come illustratore per libri d’infanzia (in mostra ci sono le opere per l’edizione americana di «Cappuccetto Rosso» del 1929) e riviste quali «The New Yorker», «Vogue», «Vanity Fair» e «Sparks».
New York fu per Fortunato Depero una sorta di nuova Babele più che «una città che sale». All'inizio la metropoli lo conquistò con le sue luci, gli incontri, la cultura e il progresso. Poi- complice anche la grande depressione del '29, che rese difficoltosa la vendita dei suoi quadri- la città americana mostrò all'artista tutte le sue crepe.
«Una baraonda di folle in cui tutte le razze ballano un brutale ballo della vita. Tram – automobili a milioni – treni sottoterra e aerei. Si balla, ci si spintona, ci si calpesta le scarpe e ci si sputa il fumo in faccia. Occorrono nervi d’acciaio»: così scriveva in una lettera a un amico parlando della Grande mela. Non restava che ritornare a casa, portando con sé il ricordo di due anni di «molte soddisfazioni e durezze all’infinito». Forse, dopo tutto, era meglio il suo Paese e per dirlo Fortunato Depero trovò un modo molto pubblicitario, uno slogan da cartellone: «America dollari. Italia sole. W il sole!».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Fortunato Depero, Squisito al selz, 1926. Olio, 70x100 cm. Collezione privata; [fig. 2] Fortunato Depero, Bitter Campari (Automa al tavolino che beve), 1928. Manifesto, 100x70 cm. Archivio Depero, Rovereto; [fig. 3] Fortunato Depero, Strega (Liquore), 1928. Collage, 46x34,5 cm. Collezione privata; [fig. 4] Fortunato Depero, Copertina per la rivista “Vanity Fair”, 1930. Cromolitografia, 33x25 cm. Archivio Depero, Rovereto; [fig. 5] Fortunato Depero. La Rivista (progetto per copertina), 1931/32. Collage, 46x32 cm. Studio 53 Arte, Rovereto
Informazioni utili
Fortunato Depero - Dal sogno futurista al sogno pubblicitario. Lu.C.C.A.-Lucca Center of Contemporary Art, via della Fratta, 36 – Lucca. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10 alle ore 19.Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: info@luccamuseum.com, tel. 0583.492180. Sito internet: www.luccamuseum.com. Fino al 25 agosto 2019
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