«To be or not to be, that is the question»: è certamente una delle frasi più celebri della drammaturgia mondiale di tutti i tempi. Scritta da William Shakespeare nell'«Amleto», all'inizio del soliloquio del principe danese posto in apertura della prima scena del terzo atto, la battuta è diventata nell'immaginario collettivo metafora di un interrogativo esistenziale.
A quattrocentocinquanta anni dalla nascita dello scrittore inglese, poeta tra i più romantici e scrittore che ha saputo mettere nero su bianco le dinamiche sociali e politiche del suo tempo, il «dubbio amletico» diventa argomento per una mostra grazie a Giulio Paolini (Genova, 1940), esponente di spicco dell'avanguardia concettuale italiana che si è affermato all'attenzione del pubblico internazionale insieme ad altri artisti della sua generazione legati al movimento poverista quali Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.
L'autore di opere come «Giovane che guarda Lorenzo Lotto»(1967), «Cariatidi» (1980) e «Contemplator enim» (1991) propone, infatti, a Londra per tutta estate, negli spazi della prestigiosa Whitechapel Gallery, una rassegna dal titolo «To be or not to be», nella quale sono allineati ventuno lavori, realizzati tra gli anni Sessanta e oggi, che indagano le relazioni tra l'opera, lo spazio espositivo, l'autore e lo spettatore.
L'esposizione -curata da Bartolomeo Pietromarchi e Daniel F. Herrmann, Eisler curator e head of curatorial studies della galleria britannica- è già stata presentata in versione ridotta al Macro di Roma lo scorso inverno e si configura come la prima antologica dedicata oltre Manica all'artista genovese, ormai da tempo residente a Torino, dove nel 2004 ha anche fondato, insieme con la moglie Anna, una fondazione dedicata alla promozione e allo studio della sua opera.
Per Giulio Paolini, autore che vanta diverse partecipazioni a Documenta di Kassel (1972, 1977, 1982 e 1992) e alla Biennale d’Arte di Venezia (1979, 1976,1984,1993, 1997 e 2013), l'opera non esiste soltanto nell'hic et nunc, non termina cioè nel momento in cui la si realizza, ma al contrario porta con sé l'eco di tradizioni precedenti. Da questa considerazione è nato, sul finire degli anni Sessanta, l'interesse dell'artista per le esperienze pittoriche e scultoree dei grandi del passato, per la storia del dipingere e dello scolpire, per i metodi e i materiali di chi ha trovato posto nei più importanti musei del mondo. Un interesse, questo, che si è espresso attraverso la citazione, ovvero l'uso di calchi in gesso di sculture classiche e di riproduzioni di maestri antichi quali Chardin, Lorenzo Lotto e Diego Velázquez. Così Giulio Paolini ha reso vivo il suo pensiero secondo il quale «un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore».
Comune denominatore tra i lavori esposti nella mostra londinese -di cui rimarrà documentazione in un catalogo edito da Macro/Quodlibet Edizioni,con saggi dei due curatori e di critici quali Gabriele Guercio e Barry Schwabsky- sono tracce e indizi dell'autore, che si estendono dall'autoritratto a motivi metonimici quali l'occhio e la mano, fino alla dimensione progettuale dello studio d'artista.
Nella Gallery 1, è allineata un’ampia raccolta di opere storiche, intorno a «Essere o non essere» (1994-95): una scacchiera di tele al suolo che rimanda all'ininterrotto processo di creazione e decostruzione dell'opera. Tra i lavori di maggior rilievo esposti si trovano «Giovane che guarda Lorenzo Lotto» (1967), riproduzione in dimensioni reali di un ritratto del 1505 di Lorenzo Lotto, e «Académie 3» (1965), un olio su tela caratterizzato da un gesto pittorico a mano libera che cade alle spalle dell'artista fotografato mentre è intento a dipingere. Nella stessa sala è anche visibile «Delfo» (1965), un autoritratto fotografico di Giulio Paolini, a braccia conserte e con lo sguardo nascosto da un paio di occhiali scuri, che guarda lo spettatore da dietro il telaio di una grande tela.
Nelle gallerie 8 e 9 sono, invece, in mostra una serie di lavori a carattere teatrale, che focalizzano l'attenzione sul processo creativo che si svolge al tavolo di lavoro dell'artista. «Big Bang» (1997-98) propone, per esempio, uno studiolo in miniatura, con tele preparate e fogli accartocciati sparsi tutt'intorno come corpi celesti orbitanti intorno al nucleo centrale. Mentre «Contemplator enim» (1992) è una complessa struttura in plexiglas, con l'immagine di valletti settecenteschi che offrono allo spettatore il profilo di ipotetici quadri.
La mostra si conclude con «L’autore che credeva di esistere (sipario: buio in sala)» (2013), opera che evoca uno studio d’artista, con un piano di lavoro costellato di disegni, fotografie e progetti, e una proiezione di immagini a parete.
Un percorso, dunque, interessante quello selezionato per il pubblico di Londra, dove Giulio Paolini ritorna dopo oltre trent'anni dalla sua ultima personale in Gran Bretagna, portando il visitatore alla scoperta del suo universo immaginifico, un mondo colto e onirico, in bilico tra passato e presente, che invita a riflettere sul senso dell'arte di ieri e di oggi. (sam)
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giulio Paolini, «Essere o non essere» [«To Be or Not to Be»], 1994-95. Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino. © Giulio Paolini; [Fig. 2] Giulio Paolini, «Contemplator enim» (dettaglio), 1992.Collezione dell'artista.© Giulio Paolini; [fig. 3] Giulio Paolini, «Photofinish», 1993-1994. Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino. © Giulio Paolini.
Informazioni utili
«Giulio Paolini: To be or not to be». Whitechapel Gallery, 77-82 Whitechapel High Street, London E1 7QX.Orari: martedì - domenica, ore 11.00 - 18.00, giovedì, ore 11.00 - 21.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. + 44.(0)20.75227888, info@whitechapelgallery.org. Sito internet: whitechapelgallery.org. Fino al 14 settembre 2014.
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