ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 29 ottobre 2024

Da Raffaello a Barocci, Pesaro è anche «Capitale del disegno»

Dall’acquerello al collage, dal pastello alla china: qualsiasi tecnica si scelga il disegno è un momento fondamentale di ogni sperimentazione artistica. È così, nella quotidianità della propria bottega o del proprio studio, che il pittore e lo scultore visualizzano per la prima volta le proprie idee; danno un abbozzo di forma a ciò che intendono realizzare.
Nella storia dell’arte, il disegno è anche un mezzo per fissare sulla carta, con uno stile rapido e asciutto, la memoria di ciò che si è visto durante un viaggio. È cioè una sorta di strumento di studio per comprendere proporzioni, volumi e rapporti delle opere dei grandi maestri del passato.
A questo «potente segno di comunicazione e di trasmissione del sapere» è dedicata la mostra «Capitale del disegno. Raffaello, Barocci, Cantarini, Lazzarini dalla Biblioteca Oliveriana per Pesaro 2024», a cura di Anna Cerboni Baiardi con Anna Maria Ambrosini Massari.

Nelle sale dei Musei civici di Palazzo Mosca, una quarantina di opere grafiche tracciano un percorso ideale alla scoperta di quegli artisti che, tra il XVI e il XVIII secolo, si sono avvicendati in quella porzione di territorio marchigiano più vicina alla Romagna: l’urbinate Federico Barocci (1533-1612), attivo per il duca Francesco Maria II della Rovere, insieme ai suoi valenti seguaci; i pesaresi Simone Cantarini (1612-1648), genio inquieto e innovativo, e Giovanni Andrea Lazzarini (1710-1801), protagonista del Settecento nella sua città natale e nelle Marche.
Tutti questi tre artisti si sono trovati a riflettere, in tempi e modi diversi, sull’opera del grande Raffaello Sanzio (1483-1520), che, nato a Urbino e chiamato da papa Giulio II a Roma, ha dato vita a opere ritenute così perfette da diventare modelli inesauribili per le generazioni future.

I lavori esposti provengono dalla collezione Viti Antaldi, conservata nella Biblioteca Oliveriana, nota nei secoli passati per il gran numero di autografi di Raffaello custoditi, che rappresentavano una parte significativa, seppure parziale, di quella che fu la raccolta personale di Timoteo Viti, allievo e collaboratore del pittore urbinate, e che oggi sono un vanto delle più prestigiose raccolte grafiche al mondo.

L’intero fondo, collezionato nell’Ottocento dal marchese Antaldo Antaldi e ceduto alla biblioteca pesarese nel 1922 dal nipote Ciro Antaldi Santinelli, consta di 803 fogli di provenienza prevalentemente marchigiana, emiliana e toscana e datati dalla fine del Quattrocento a tutto il Settecento.
Tra questi c’è l’unico autografo raffaellesco rimasto nella raccolta pervenuta alla Città di Pesaro, che raffigura una figura acefala sul recto e una figura maschile nuda sul verso. È un disegno piccolo, ma molto prezioso, perché è tra i pochi rimasti della produzione giovanile dell’artista. Si tratta di uno studio per la «Resurrezione» conservata al Museo d’arte di San Paolo del Brasile, realizzata dal pittore urbinate tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, dove sono evidenti gli influssi di Perugino e di Pinturicchio.
Il foglio, cuore pulsante della mostra pesarese, – spiega la curatrice Anna Cerboni Baiardi - «attesta l’idea che Raffaello sia stato un campione del disegno ancor prima che della pittura, considerato magister non ancora ventenne, attratto dallo studio dal vero e dalla ponderazione armoniosa come dimostra il nudo rappresentato su un lato del foglio. Dall’altra parte, lo studio del panneggio documenta tutta l’importanza che le pratiche disegnative hanno sempre avuto nell’attività di Raffaello, fin dagli esordi, in una corte, quella urbinate, tra le più ricche di esiti artistici nel panorama italiano».
Grazie ai sistemi multimediali, la mostra pesarese permette, inoltre, di scoprire parte del prezioso nucleo raffaellesco della Collezione Viti Antaldi, riportando virtualmente a casa anche i meravigliosi disegni oggi conservati all’Ashmolean Museum di Oxford. Attraverso questi esercizi grafici, dove si nota la linea sintetica di alcuni o la morbidezza chiaroscurale di altri, è possibile seguire le diverse fasi di progettazione delle opere, dai primi abbozzi al cartone preparatorio, ma anche comprendere lo svolgersi del pensiero di Raffaello, riconoscendo riferimenti e cambiamenti e perfino capendo il ruolo che il disegno poteva assumere nel dialogo con la bottega.

Attorno all’autografo raffaellesco si snoda un percorso espositivo fatto di opere grafiche di estrema delicatezza, che permette al visitatore – spiega ancora la curatrice - «di entrare nella dimensione più creativa dell’elaborazione artistica, di ammirare il valore sintetico di una linea o la morbidezza di un segno sfumato, di godere di un’immagine funzionale a un progetto o semplicemente di un esercizio di stile fine a se stesso».

In questo avvincente percorso espositivo, un’altra chicca da non perdere porta la firma di Federico Barocci ed è un foglio giovanile relativo alla decorazione del soffitto della prima stanza del Casino di Pio IV a Roma, dove l’artista lavorò tra il 1561 e il 1563 accanto a Federico Zuccari e a Santi di Tito.
«Questi disegni – spiega Anna Cerboni Baiardi - sono realizzati sul recto e sul verso di una carta cerulea e con almeno due tecniche: la pietra nera e l’inchiostro bruno utilizzato con la penna. Non tutte le immagini che compaiono nel recto sono presenti nel Casino, al quale si connettono solo le figure tracciate a penna. La mezza gamba destra in scorcio nel verso del foglio, con la pianta del piede in vista, trova riscontro in diverse prove giovanili dell’artista, che non ha mai affrontato un’opera pittorica senza valutare ogni minimo dettaglio attraverso la pratica disegnativa».
Di Federico Barocci sono esposti anche altri fogli che documentano come il pittore, sebbene abbia scelto di rimanere nella sua città natale, sia stato al centro della scena artistica italiana ed europea per quasi un secolo e si sia imposto tra i più richiesti autori di opere sacre della seconda metà del Cinquecento.

I lavori in mostra esemplificano la sorprendente ricchezza del segno barroccesco, passando da esiti più geometrizzanti, come quelli per la parte superiore della «Deposizione» di Senigallia, dove si registra la prima idea dei movimenti delle figure, a quelli ben più pittorici degli studi per l’«Ultima cena» di Urbino o per la «Circoncisione» del Louvre, un tempo sull’altare maggiore della chiesa pesarese del Nome di Dio.
Insieme ai disegni sono esposti anche alcuni ritratti che vogliono evocare l’indagine introspettiva che i suoi allievi e i suoi seguaci si impegnarono a proseguire. Tra questi ci sono Antonio Cimatori detto «Visacci» (1550 ca.-1623), Antonio Viviani detto il Sordo (1560-1620) e il fedelissimo Ventura Mazza (1560-1638) da Cantiano che, morto il maestro, concluse alcune sue tele e proseguì l’attività di copista delle sue opere più celebri.

Il percorso espositivo prevede, poi, un focus su Simone Cantarini detto il Pesarese (1612-1648). Il ricco corpus di disegni documenta la grande facilità inventiva dell’artista, testimoniata in mostra da una serie di fogli diversi per tipologie: alcuni sono semplici schizzi a penna; altri, più rifiniti a pietra rossa, possono essere preparatori per opere pittoriche come la «Trasfigurazione di Cristo» della Pinacoteca Vaticana (1637). Insieme ai dipinti normalmente esposti nel museo marchigiano, vengono presentati per l’occasione la «Sacra Famiglia con santa Marta» delle raccolte di Intesa Sanpaolo, riferibile alla prima attività del Pesarese e ispirata a modelli barocceschi, e un’inedita «Adorazione dei Magi» di collezione privata.

Chiude il percorso espositivo una sezione dedicata al canonico Giovanni Andrea Lazzarini (1710-1801), principale artista pesarese del suo tempo, responsabile della creazione nella città marchigiana di una frequentata scuola d’arte. Cresciuto nel culto dell’antico e dei grandi maestri del classicismo seicentesco, ma soprattutto nel mito di Raffaello, il pittore usò più volte il disegno come strumento di lavoro, ora per studiare i modelli dell’antichità, ora per progettare e mettere a punto l’opera pittorica, ora per dialogare con i suoi collaboratori attraverso il linguaggio delle immagini. I fogli presentati in mostra raccontano tipologie grafiche diverse. Ci sono i primi pensieri per una delle opere della chiesa pesarese della Maddalena o per la pala di Gualdo (Forlì). E ci sono modelli definitivi ben più pittorici per la «Santa Illuminata» di Massa Martana (Perugia) e fogli di studio più disordinati per elaborare un «Riposo nella fuga in Egitto», tema che il pittore amò particolarmente. Lo «Studio per san Giuseppe da Copertino» documenta, infine, il progetto per un’opera un tempo nella chiesa di San Francesco a Pesaro, al momento dispersa.
È, dunque, un bell’omaggio alla forza espressiva e all’essenzialità del disegno, la dimensione più intima di un lavoro creativo, quello che mette in scena Pesaro nel suo anno da Capitale italiana della Cultura, raccontando l’eredità dell’urbinate Raffaello Sanzio tra gli artisti della sua terra natale, colpiti dall’arte, raffinata ed elegante, del «divin pittore», che rappresentò una vera e propria rivoluzione estetica e intellettuale per gli artisti dei secoli a venire.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Raffaello, Studio per il Cristo risorto (recto). Pietra nera e sfumino su carta, 216x90 mm. Pesaro, Biblioteca Oliveriana; [fig. 2] Raffaello, Studio per il Cristo risorto (verso). Pietra nera su carta, 216x90 mm. Pesaro, Biblioteca Oliveriana; [fig. 3] Federico Barocci, Studio di braccio per il Noli me tangere. Carboncino e tracce di pietra rossa, sfumino e gessetto su carta preparata, 300x438 mm.Pesaro, Biblioteca Oliveriana; [fog. 4] Federico Barocci 
Studio con due teste di profilo e un braccio per l'Ultima cena. Carboncino e sfumino, tracce di pietra rossa e gessetto su carta preparata bruna, 212x281 mm. Pesaro, Biblioteca Oliveriana; [fig. 6] Federico Barocci, Studi di braccio e gamba per l'Ultima cena. Carboncino e sfumino, tracce di pietra rossa e gessetto su carta bruna, 280x192 mm. Pesaro, Biblioteca Oliveriana; [fig. 7] Simone Cantarini, Studio per una Pietà. Pietra rossa su carta, 285x256 mm. Pesaro, Biblioteca Oliveriana 

Informazioni utili 
Capitale del disegno. Raffaello, Barocci, Cantarini, Lazzarini dalla Biblioteca Oliveriana per Pesaro 2024. Palazzo Mosca – Musei Civici, piazzetta Mosca, 29 – Pesaro. Orari di apertura: martedì-domenica e festivi, ore 10-13 / 15.30-18.30. Biglietto: Ingresso con Card Pesaro Capitale: intero 14€; ridotto 8€ (gruppi min. 15 persone, studenti universitari, possessori di Card Pesaro Cult, gruppi accompagnati da guida turistica con patentino, convenzionati); omaggio minori di 18 anni, soci ICOM, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e persona che li accompagna, studenti del Conservatorio Statale di Musica G. Rossini, possessori di Carta Famiglia del Comune di Pesaro. Per informazioni: tel. 0721 387541- info@pesaromusei.it - www.pesaromusei.it. Fino al 17 novembre 2024

lunedì 28 ottobre 2024

«Convito di vetro», alle Gallerie dell'Accademia di Venezia gli artisti muranesi «colloquiano» con il Veronese

È uno dei quadri più iconici delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ed è anche la scena di banchetto più emblematica del Rinascimento veneziano e dell’intera storia dell’arte. Stiamo parlando del grande telero «Convito in casa di Levi», capolavoro di Paolo Caliari detto il Veronese (Verona, 1528 - Venezia, 1588) realizzato nel 1573 su commissione dei religiosi domenicani per il refettorio del convento veneziano dei Santi Giovanni e Paolo in sostituzione di una tela di analogo soggetto dipinta da Tiziano e bruciata in un incendio due anni prima.
Ispirato all'episodio biblico dell'«Ultima cena», l’olio su tela di grandi dimensioni (settanta metri quadrati di superficie dipinta su una tela di 560 x 1309 centimetri) affronta il tema con uno stile mondano e festoso, già sperimentato dall’artista veneto a partire dalle «Nozze di Cana» del 1563, tela oggi conservata al Louvre di Parigi.

Proprio la frizzante convivialità della scena raffigurata con colori chiari e luminosi, e con il chiaroscuro ridotto al minimo, all’interno di una cornice architettonica monumentale di ispirazione classicheggiante, che vedeva la presenza di figure inconsuete come il servo che perde sangue dal naso, il buffone nano con il pappagallo, gente ebbra e persino alcuni alabardieri «armati alla tedesca», costrinse il Veronese a fronteggiare le accuse di eresia da parte del tribunale della Santa Inquisizione.
In sua difesa l’artista dichiarò, con ostentata ingenuità: «nui pitori si pigliamo la licentia che si piglino i poeti et i matti. Se nel quadro vi avanza spacio io l’adorno di figure, secondo le inventioni». Il Veronese difese cioè il proprio diritto a usare la fantasia e a inserire personaggi di «ornamento» alla scena centrale, stando tuttavia attento a porre tutte le figure più fantasiose all’esterno dello spazio occupato da Cristo.
Obbligato comunque a emendare in tre mesi gli «errori» contenuti nel dipinto, di fatto già ultimato, il pittore ovviò al problema trasformando quella che doveva essere un'«Ultima Cena» in un «Convito a casa di Levi», esplicitando in primo piano il riferimento a un altro passo biblico, tratto dal quinto capitolo del vangelo di Luca (7, 36-50), con l’iscrizione «Fecit D. Covi. Magnu. Levi – Lucae Cap. V.».
«C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”»: sono, queste, le parole evangeliche a cui il pittore veneto dà colori e forma con la sua arte. Un’arte da cui sprigiona «un senso di letizia, di giovinezza, di calma appagante», «il pieno abbandono all’incanto del colore puro, fresco, primaverile, […] vibrante alla luce d’un cielo sereno», scriveva Adolfo Venturi all’inizio del Novecento nel suo manuale di storia dell’arte.

Chi, in questi giorni, visita le Gallerie dell’Accademia di Venezia vede il capolavoro del Veronese, saccheggiato dai francesi alla fine del XVIII secolo per essere esposto al Musée Napoleon di Parigi (a partire dal 1797) e restituito all’Italia nel 1815, in una veste inedita, ovvero utilizzato come scenografica quinta teatrale di un’opera site-specific dal forte impatto visivo: «Convito di vetro». Si tratta di un opulento tavolo delle meraviglie lungo otto metri per due su cui sono esposti, in uno stringente gioco di rimandi con il «Convito a casa di Levi», oltre duecento manufatti tra brocche, bottiglie, calici, bicchieri, caraffe, decanter, alzate, vasi, candelieri, ciotole e bomboniere, ma anche fiori, ortaggi e frutta, disegnati da ventisette designer e realizzati a Murano nell’arco di circa un secolo, dagli anni Venti del Novecento ai giorni nostri. Le lastre di vetro su cui sono allestiti i trentadue servizi, provenienti da collezioni pubbliche e private, esaltano il riflesso e i colori scintillanti del vetro; mentre la tovaglia bianca è un richiamo visivo al vicino dipinto del Veronese.

Dopo «Cristiano Bianchin, Figure» (2018), «Ritsue Mishima – Glass Works» (2022) e «Laura De Santillana. Oltre la materia» (2023), il museo veneziano ha così aperto ancora una volta le porte alla «Venice Glass Week» - evento settembrino che anima ogni angolo della città celebrando la sapiente cultura artistica, artigiana e industriale muranese - e, questa volta, lo ha fatto avvalendosi della collaborazione della Pentagram Stiftung e della curatela di Sung Moon Cho, storica dell’arte specializzata in servizi da tavola del Novecento.
 
Vale la pena sottolineare che, fin dall’inizio dell’attività, Murano ebbe un ruolo fondamentale nell’arte del vetro da tavola, in particolare nei secoli XV-XVI, quando le fornaci presenti sull’isola tradussero in vetro il linguaggio classico del tempo, ampliando al contempo la gamma degli oggetti di uso domestico realizzati. Nei dipinti veneziani rinascimentali, di cui alcuni notevoli esempi sono conservati alle Gallerie dell’Accademia, si possono osservare diverse tipologie di questi oggetti: bicchieri, calici, brocche, caraffe, piatti, coppe e compostiere, che ispirarono, all’inizio del XX secolo, una vera e propria rinascita estetica del vetro da tavola di Murano. È anche questa la storia che viene raccontata dall’installazione a cura di Sung Moon Cho, che ha scelto come criterio espositivo l’ordine cronologico, invitando i visitatori all’osservazione in senso orario.

La prima sezione è dedicata alla V.S.M. Cappellin Venini & C., fondata nel 1921 e protagonista del primo movimento di modernizzazione. Sensibili al nuovo interesse per il linguaggio classico e consapevoli del cambiamento di gusto verso la sobrietà che stava dominando le nuove residenze borghesi, Paolo Venini e Giacomo Cappellin – con il loro direttore artistico, il pittore Vittorio Zecchin - diedero vita a un nuovo repertorio di servizi da tavola in vetro, dalle forme sobrie ed essenziali, di grande raffinatezza anche per l’uso di colori delicati e discreti (come il fumé, l’ambra, il pagliesco, l’ametista, l’azzurro e il verdognolo), in un evidente richiamo alla tradizione vetraria del Cinquecento. Emblematico di questo nuovo stile è il cosiddetto vaso «Veronese», disposto al centro della tavola in quattro varianti, che i maestri vetrai muranesi realizzarono prendendo come modello il vaso con piede e collo allungato dipinto nell’«Annunciazione» (1580) del maestro veneto, conservato alle Gallerie dell’Accademia.

La sezione successiva è, invece, dedicata agli anni Trenta, periodo in cui il gusto stava evidentemente evolvendo verso forme più geometriche nonché colori vivaci e audaci, grazie all’apporto di due grandi artisti quali Carlo Scarpa e Napoleone Martinuzzi. Entrambi diedero un notevole contributo alla rinascita del vetro da tavola, sperimentando e reinventando varie tecniche antiche di Murano, come è evidente nei portacandele «Fungo» in vetro sommerso o corroso, nel servizio in mezza filigrana o nella coppa interamente realizzata in pasta vitrea rossa.

Proseguendo il nostro viaggio nel tempo, nei decenni successivi alla Seconda Guerra mondiale e fino agli anni Ottanta, la creatività di designer italiani e stranieri rivitalizzò la produzione di oggetti da tavola in vetro a Murano, come dimostra la terza sezione, con un focus sulla fornace di Paolo Venini, che svolse un ruolo pionieristico nell'instaurare un legame tra design e artigianato, collaborando con importanti designer milanesi come Gio Ponti e Massimo Vignelli, ma anche con l’americano Charles Lyn Tissot. Della famiglia Venini sono esposti anche i lavori di Ludovico Diaz de Santillana e di Laura de Santillana, della quale si può ammirare un suo raro e unico servizio da tavola (denominato «Sei sensi»), che non è mai stato mostrato finora in Europa.

Mentre per il periodo che va dagli anni Novanta a oggi, la mostra presenta artisti dai profili più diversi, alcuni dei quali introducono una rinnovata consapevolezza del tema attuale della sostenibilità e del riciclo dei materiali o della salvaguardia della tradizione dell’arte vetraria muranese, in pericolo di estinzione. Per gli anni Duemila, si evidenzia il contributo di artisti visivi che impiegano il vetro come mezzo privilegiato quali Maria Grazia Rosin e Tristano di Robilant. Mentre l’oggi è rappresentato da designer quali Stories of Italy, T Sakhi – Tara & Tessa Sakhi e YALI Glass, i cui oggetti, adattati alle esigenze contemporanee, consentono di apprezzare la qualità e la storia dell'artigianato muranese nella vita quotidiana. Infine, Lilla Tabasso (1973) e Bruno Amadi (1946) decorano il centro della tavola con fiori e verdure dalle forme meravigliosamente realistiche, frutto della lavorazione a lume. I loro sono manufatti emblematici di una storia che si rinnova giorno dopo giorno, rimanendo sempre attenta al bello e all’artigianalità.

Vedi anche 
Venezia, restaurato il polittico di Santa Chiara di Paolo Veneziano
 
Didascalie delle foto
Vista della mostra «Convito di vetro» nella sala X delle Gallerie dell'Accademia a Venezia. Fotografie di Matteo De Fina

Informazioni utili 
Gallerie dell’Accademia, Campo della Carità 1050 – Venezia. Orari di apertura: lunedì, dalle ore 8:15 alle ore 14:00 (la vendita dei biglietti termina alle ore 13:00); da martedì a domenica, dalle ore 8:15 alle ore 19:15 (la vendita dei biglietti termina alle ore 18:15). Biglietti; intero € 15.00, ridotto € 2.00 (giovani 18 -25 anni cittadini dell'UE e acquisto con 18app), gratuito per i minori di 18 anni; Prima mattina € 10,00 (biglietto individuale acquistabile tra le 8:15 e le 9:00 con ultimo ingresso entro e non oltre le 9:15); Due giorni € 22,00 (biglietto individuale valido 2 giorni nell’anno solare); Arteritivo € 10,00 (biglietto individuale dedicato ai giovani tra i 26 e i 35 anni non compiuti, valido tutti i venerdì tra le 17:15-19:00; ultimo ingresso entro e non oltre le 18:15); Insieme € 12,00 (biglietto individuale dedicato ai gruppi tra i 10 e i 25 adulti sopra i 26 anni). L'accesso alle mostre è consentito con lo stesso titolo d'accesso. In occasione di esposizioni temporanee il prezzo del biglietto è suscettibile di variazioni. Per maggiori informazioni: https://www.gallerieaccademia.it/informazioni


venerdì 25 ottobre 2024

Roma: riapre al pubblico la Loggia dei Vini, un gioiello restaurato nel parco di Villa Borghese

Il Barocco incontra l’arte contemporanea. Succede a Roma, negli spazi di Villa Borghese. L’occasione è offerta dalla presentazione al pubblico della prima parte dell’intervento di restauro conservativo che sta interessando la Loggia dei Vini, originale ed elegante architettura a pianta ovale impreziosita da decorazioni e affreschi, edificata tra il 1609 e il 1618, sotto la direzione prima di Flaminio Ponzio e poi di Giovanni Vasanzio, per volontà del cardinale e collezionista d’arte Borghese Scipione (1575-1633), nipote di papa Paolo V (1605-1621), e utilizzata, durante il periodo estivo, per riunioni e feste conviviali, nelle quali si servivano, al fresco della penombra, vini pregiati e prelibati sorbetti.

In questo luogo, definito dalle fonti coeve il «tinello de’ li gentil’ homini», è stato allestito, per essere visibile per tutto l’autunno e per buona parte dell’inverno, il progetto d’arte contemporanea «Lavinia», a cura di Salvatore Lacagnina, con opere site specific degli artisti Ross Birrell & David Harding, Monika Sosnowska, Enzo Cucchi, Gianni Politi, Piero Golia e Virginia Overton. Il titolo della rassegna – che prevede anche performance, letture, laboratori e attività didattiche, orchestrate secondo una narrazione unitaria – è un omaggio alla pittrice manierista Lavinia Fontana, tra le prime artiste riconosciute nella storia dell’arte, presente nella collezione Borghese dai primi del Seicento.

Proposto con l’intento di valorizzare i restauri appena terminati che hanno interessato la volta interna, con le cornici in stucco e l’affresco centrale del pittore urbinate Archita Ricci, nonché i pilastri danneggiati da infiltrazioni d’acqua e la scala semicircolare di accesso al padiglione, il progetto espositivo «aspira – nelle intenzioni del curatore, esplicitate in una nota stampa - a entrare silenziosamente nella vita quotidiana. Si rivolge a chi passeggia nel parco, evitando qualsiasi forma di auctoritas. Mette in discussione le nozioni di arte pubblica e di tradizione, il rapporto fra arte e architettura, apre al potenziale dello storytelling».

A scendere in campo per il restauro, nello spirito dei mecenati di un tempo, è stata, in occasione dei centotrenta anni dalla sua fondazione, l’azienda Ghella, colosso multinazionale nel campo delle costruzioni con oltre seimila dipendenti in quindici Paesi e in quattro continenti quali Oceania, Europa, America ed Estremo Oriente, che intende farsi promotrice di nuovo modello di sviluppo, più sostenibile e orientato al benessere collettivo.
La cura scientifica e l’effettiva realizzazione dell’intervento conservativo, che nei prossimi anni interesserà anche il ripristino dell’emiciclo e della sua pavimentazione in cotto, portano, invece, la firma, rispettivamente, della Sovrintendenza capitolina ai Beni culturali e di R.O.M.A. Consorzio.

Da tempo chiusa al pubblico, e già interessata da un intervento di restauro negli anni Sessanta del Novecento, la Loggia dei Vini fa parte di un complesso architettonico che comprende anche la sottostante Grotta, destinata alla conservazione della «copiosissima dispensa di nettari e d’ambrosie», per usare le parole dello scrittore seicentesco Jacomo Manilli, ed è collegata alle cucine del Casino Nobile di Villa Borghese attraverso un passaggio sotterraneo.

L’edificio costituiva lo scenografico fondale di uno dei viali laterali del parco e risultava ben visibile a tutti gli ospiti che si recavano in visita dal cardinale Scipione Borghese.
Attraverso un percorso ombroso si accedeva tramite una scala a doppia rampa all’invaso del padiglione, delimitato – scriveva sempre Jacomo Manilli, nel 1650 - da alti muri ricoperti d’edera, «tappezzeria proporzionata all’habitazione del Dio Bacco».

L’originaria sontuosità del complesso è testimoniata dalle fonti letterarie del tempo - tra le quali il libro «Villa Borghese fuori di Porta Pinciana», scritto nel 1700 da Domenico Montelatici - che ricordano la presenza di due sfingi egizie poste ai lati della rampa di accesso all’invaso, oggi alla Ny Carlsberg Gliptotek di Copenaghen, di una fontana rustica incassata nel sottoscala con una statua di divinità fluviale, di cui restano oggi alcuni «tartari» dell’originaria scogliera, e di otto grandi uccelli in peperino, collocati a coronamento della copertura, opera dei fratelli scalpellini Agostino e Belardino Radi, insieme a Lorenzo Malvisti. Lungo il perimetro dell’invaso erano poste due tavole marmoree destinate a «credenza e bottiglieria», mentre al centro della loggia era collocato un grande tavolo di marmo bianco, anch’esso realizzato dai fratelli Radi e da Lorenzo Malvisti, su cui erano stati praticati degli incavi, in cui scorreva acqua per mantenere fresche le bevande nei bicchieri. Per stupire ulteriormente i commensali era stato, infine, montato un congegno meccanico sul soffitto, che consentiva di riversare una pioggia di petali profumati sugli ospiti al termine del convito.

L’interno, al quale il restauro ha tolto la patina grigia del tempo, era riccamente ornato grazie a vari interventi e a differenti artisti. A tal proposito, tra il 1612 e il 1613 è attestata la presenza in cantiere dello scalpellino Vincenzo Soncino. Al 1617 risale, invece, la realizzazione della decorazione a stucco dei pennacchi e della cornice ovale dell’affresco sulla volta, riferibile ai fratelli Marcantonio e Pietro Fontana, in associazione con Santi Fiamberti; i due mastri muratori e stuccatori era attivi nei medesimi anni in diversi altri cantieri legati alla committenza della famiglia Borghese, tra cui la cappella Paolina al Quirinale, la chiesa di San Crisogono e l’Uccelliera.

Nello stesso anno arrivò alla Loggia dei Vini anche il pittore urbinate Archita Ricci, attivo in quel periodo nella chiesa di San Sebastiano fuori le Mura e in diversi altri cantieri di committenza della famiglia Borghese. Porta la sua firma il «Convito degli dei», affresco realizzato tra il 1617 e il 1618, che ripropone l’iconografia tradizionale con le divinità dell’Olimpo sedute intorno a una tavola in marmo imbandita. «A capotavola, sulla sinistra della scena, - racconta Sandro Santolini nella scheda di restauro - siedono Giove e Giunone, figure purtroppo quasi del tutto scomparse, con il coppiere Ganimede, che porge loro il vino. Seguono Plutone, Apollo, Diana, Mercurio, figura oggi completamente perduta, Marte e Venere con Cupido. Completano la scena i tre amorini in volo che versano vino e gettano fiori sulla tavola».

Secondo la descrizione di Domenico Montelatici, fondamentale per la ricostruzione iconografica degli affreschi, il pittore aveva realizzato non solo «il convito degli dei, entro un ovato abbellito intorno da festoni di stucco di gentil lavoro», ma anche, sulle pareti tra gli archi, «nove Muse di natural grandezza con Istromenti musici nelle mani». Questi ultimi affreschi, così come quelli nelle vele con gli emblemi araldici della famiglia Borghese, l’aquila e il drago, sono quasi totalmente andati persi. In fase di restauro, racconta ancora Sandro Santolini, le superfici sono state così «tinteggiate a calce e successivamente patinate ad acquerello per armonizzarle con il conteso originale».

Dopo il Giardino delle Erme, viene, quindi, aperto a Roma un altro prestigioso spazio di Villa Borghese: la Loggia dei Vini. «Questo - ha raccontato l’assessore alla Cultura Miguel Gotor - è un importante tassello della riqualificazione del nostro patrimonio storico e artistico, in cui l’arte contemporanea si affianca al restauro di uno spazio pubblico. Con questa riapertura portiamo avanti due delle principali missioni culturali che Roma Capitale ha perseguito con questa amministrazione: la valorizzazione dei luoghi e la promozione culturale».

L’occasione è, dunque, da festeggiare, magari nello spirito del cardinale Scipione Borghese, con un sorbetto di frutta e ghiaccio tritato, come quello all’«arancia e erba cedrina» realizzato per l’occasione dalla gelateria Pellegrino di Roma, un piccolo piacere da assaporare in un luogo di delizia e convivialità del Barocco romano, dove il gusto incontrava, e ancora oggi incontra, l’arte.

Vedi anche 

Didascalie delle immagini 
[fig.1 ] Loggia dei vini, Villa Borghese, crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella; [fig. 2] Restauro, Loggia dei Vini - Particolare, Villa Borghese, Roma. Crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella; [fig. 3] Restauro, Loggia dei Vini - Particolare, Villa Borghese, Roma. Crediti fotografici Daniele Molajoli, courtesy Ghella; [figg. 4 e 5] Loggia dei vini. Foto Monkeys Video Lab; [fig. 6] Enzo Cucchi, No title, 2024. Opera per il progetto Lavinia alla Loggia dei Vini di Villa Borghese a Roma. Crediti fotografici: il posto del calzino; [fig. 7]  Piero Golia, Fontana, LAVINIA (Blue), 2024. Opera per il progetto Lavinia alla Loggia dei Vini di Villa Borghese a Roma.Crediti fotografici: il posto del calzino; [fig. 8] Gianni Politi, sentimento latino, 2024. Opera per il progetto Lavinia alla Loggia dei Vini di Villa Borghese a Roma.Crediti fotografici: il posto del calzino

Informazioni utili 
Lavinia - Loggia dei Vini a Villa Borghese (Roma). Orari: dal giovedì alla domenica dalle 9:00 alle 19:00 fino alla chiusura della mostra; dalle 9:00 alle 17:00 dal 27 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025. Ingresso gratuito. Informazioni: https://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/ville_e_parchi_storici/ville_dei_nobili/villa_borghese. Fino al 26 gennaio 2025