«Nessuna guarda a cosa c’è davanti ai suoi piedi. Tutti guardano le stelle», diceva il poeta e drammaturgo romano Quinto Ennio, il padre della letteratura latina.
Forse proprio quegli occhi rivolti al cielo, a seguire il moto degli astri, a studiare i fenomeni meteorologici o a guardare il librare degli uccelli, sono all'origine di uno dei sogni più ricorrenti nella storia dell’umanità: volare.
Tutti, almeno per sentito dire, conoscono il mito greco di Icaro, il figlio dell’inventore Dedalo, che riuscì a fuggire dal labirinto del re cretese Minosse e dal suo Minotauro, grazie a un paio di ali di cera, anche se quel volo gli fu fatale: inebriato dall'esperienza, il giovane si avvicinò troppo al sole e precipitò in mare.
Ma quello di Dedalo è solo uno dei tanti miti nati nell'antichità, prima di ogni invenzione rivoluzionaria, quando l’uomo poteva volare solo con la fantasia. Basti pensare, per esempio, ai tappeti volanti delle antiche favole orientali o alla divinità egizia di Iside, ritratta con le ali, o ancora a Weland il fabbro, mitologico personaggio di origine germanica capace di fabbricare spade indistruttibili, armature e ali per volare grazie alle tecniche apprese dai nani, abili forgiatori di metalli.
Anche Leonardo da Vinci non fu immune al fascino del volo. Mentre Filippo Brunelleschi sfidava le grandi altezze con la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, che avrebbe eclissato qualsiasi altra costruzione del primo Rinascimento con la solennità dei suoi centoquattordici metri di altezza. Leonardo cercava di oltrepassare i limiti umani con i suoi studi contenuti nel «Codice di volo degli uccelli», fascicoletto composto da diciotto fogli di ventuno per quindici centimetri, fitto di note, schizzi, osservazioni, disegni e intuizioni scientifiche sulle leggi fisiche che permettono a passeri, rondini e colombi di librarsi in volo.
Scritto nel 1505, il Codice, oggi conservato alla Biblioteca reale di Torino, rappresenta il primo passo di quell'ardito esperimento che, secondo la leggenda, Leonardo compì nel 1506 sul Monte Ceceri, nei pressi di Fiesole, con il suo prototipo di macchina da volo: «il grande nibbio».
Prende spunto da questa storia lo spettacolo «Il volo di Leonardo», in cartellone da sabato 9 a domenica 24 novembre a Milano, nella Scatola magica del Teatro Strehler.
In occasione dei cinquecento anni dalla morte del genio vinciano, Flavio Albanese racconta ai più piccoli «i sogni, il pensiero, la vita, le peripezie, i segreti» di quello che è universalmente riconosciuto come uno più grandi geni dell’umanità, un uomo dalla personalità particolarissima personalità e dall'indomita e inesauribile voglia di conoscere e insegnare.
A raccontare la figura di Leonardo è il suo amico e collaboratore prediletto: Tommaso Masini detto Zoroastro, che fu protagonista anche dell’esperimento con «il grande nibbio», una delle invenzioni leonardesche più visionarie e anticipatrici. L’esperimento non funzionò perfettamente, ma la fede di Leonardo nel volo umano restò sempre immutata, a testimonianza di una altrettanto profonda fede: quella nella capacità dell’uomo di superarsi e di imparare dall'esperienza, che, al di là dei risultati, è sempre maestra di vita.
Attraverso gli occhi del giovane Tommaso, interpretato da Albanese (che è anche autore e regista dello spettacolo), i bambini dai 9 anni in su faranno così un viaggio avventuroso tra esperimenti scientifici, azzardi culinari e la realizzazione dell’«Ultima Cena», per scoprire come i sogni, prima o poi, possano diventare realtà. L’importante è crederci e non focalizzare l’attenzione sull'errore.
Risultano così profetiche le parole dello stesso Leonardo: «Una volta che avrete imparato a volare, camminerete sulla terra guardando il cielo perché è là che siete stati ed è là che vorrete tornare».
Informazioni utili
Il volo di Leonardo. scritto, diretto e interpretato da Flavio Albanese. Per bambini dai 9 anni in su. Piccolo Teatro Strehler - Scatola Magica, Largo Greppi, 1 – Milano. Orari: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, ore 9.45 e 11.15; sabato, ore 15 e 16.30; domenica, ore 11. Durata: 55 minuti senza intervallo. Biglietto: posto unico 10 euro. Informazioni e prenotazioni: tel. 0242411889. Sito web: www.piccoloteatro.org. Dal 9 al 24 novembre 2019.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
venerdì 8 novembre 2019
giovedì 7 novembre 2019
«L’abisso», Davide Enia al Piccolo con il suo monologo su Lampedusa
«Noi siamo figli di una traversata in mare». Siamo figli di Europa, una fanciulla della città fenicia di Tiro che, un giorno, decise di fuggire dal suo paese in fiamme, sotto assedio. Quella giovane donna corse sulla sabbia del deserto e, quando la terra finì, attraversò il mare sul dorso di un toro bianco, sotto le cui sembianze si nascondeva il dio Zeus, per giungere sull’isola di Creta, di cui, poi, divenne regina. «Questa è la nostra origine. Ecco chi siamo [….] Scuru».
Si chiude con il racconto mitologico dedicato alla madre di Minosse -una leggenda, questa, narrata anche da Omero nell’«Iliade» e da Ovidio nelle «Metamorfosi»- «L’abisso», il monologo scritto, diretto e interpretato dallo scrittore e drammaturgo Davide Enia che, da martedì 12 a domenica 24 novembre, sarà in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano.
Le repliche saranno precedute mercoledì 13 novembre, alle ore 17, da un incontro con il pubblico al Chiostro di via Ravello, occasione utile per approfondire i temi al centro della pièce, co-produzione del Teatro di Roma, del Biondo di Palermo e dell’Accademia Perduta - Romagna Teatri, in collaborazione con il Festival internazionale di narrazione Arzo.
Tratto dal romanzo «Appunti per un naufragio», pubblicato da Sellerio editore nel 2017, lo spettacolo porta il pubblico in quella terra complessa e affascinante che è la Sicilia e in quella piccola isola del Mediterraneo, Lampedusa, che da anni si trova ad affrontare, prima tra tutti, l’emergenza dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, i tanti sbarchi di migranti che arrivano nel nostro Paese in cerca di un futuro migliore.
«L’abisso» di cui parla l’autore nel titolo è, dunque, quello del nostro «mare magnum», che talvolta culla i sogni di chi ha detto addio per sempre alla sua patria fino alla vista di un lembo di terra che diventa sempre più grande, talaltra ingoia, tra onde gigantesche e nelle sue acque fredde, essere umani, portandosi via per sempre le loro speranze.
Davide Enia è uomo di mare. È nato a Palermo. La Sicilia è casa sua. Lampedusa la conosce bene. «Quando ho visto il primo sbarco ero con mio padre -racconta-. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi. Nell’arco degli anni sono tornato sull’isola, costruendo un dialogo continuo con i testimoni diretti: pescatori, personale della Guardia Costiera, residenti, medici, volontari e sommozzatori».
Le loro parole e, soprattutto, i loro silenzi sono diventati un racconto, testimonianza storica, percorso esistenziale: «Durante i nostri incontri -spiega ancora lo scrittore- si parlava in dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia».
La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali: gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare restituisce corpi senza vita di uomini, donne, bambini.
Non serve molto a Davide Enia per raccontare questa storia: una sedia per lui e una per il suo compagno di scena, Giulio Barocchieri, autore della partitura musicale composta secondo la logica dell’accumulo, dove «note e rumori si sommano uno all’altro, in progressione, senza scampo, creando disequilibri continui, echi distorti flebili ma persistenti».
Gli sbarchi, l’accoglienza, la cura dei profughi senza strutture sanitarie, il peso che ciascun migrante si porta addosso sono tanti piccoli frammenti di una stessa storia, non semplice da raccontare. Davide Enia si rende conto che il rischio della spettacolarizzazione della tragedia è dietro l’angolo. «Il lavoro -spiega l’autore- è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione del movimento interno».
È la parola, dunque, la grande protagonista di questo spettacolo di narrazione e di teatro civile, che nella passata stagione si è aggiudicato i premi Hystrio Twister 2019 e Le Maschere del teatro italiano 2019, riconoscimenti più che meritati. Davide Enia parla alle nostre coscienze, le scuote e la domanda che a più riprese si pone diventa anche nostra: «che cosa posso fare?». Impossibile rimanere indifferenti.
Informazioni utili
L’abisso. Piccolo Teatro Grassi , via Rovello, 2 – Milano. Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16. Durata: 75 minuti senza intervallo. Prezzi: platea € 33,00, balconata € 26,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 02.42411889. Sito internet: www.piccoloteatro.org. Dal 12 al 24 novembre 2019.
Si chiude con il racconto mitologico dedicato alla madre di Minosse -una leggenda, questa, narrata anche da Omero nell’«Iliade» e da Ovidio nelle «Metamorfosi»- «L’abisso», il monologo scritto, diretto e interpretato dallo scrittore e drammaturgo Davide Enia che, da martedì 12 a domenica 24 novembre, sarà in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano.
Le repliche saranno precedute mercoledì 13 novembre, alle ore 17, da un incontro con il pubblico al Chiostro di via Ravello, occasione utile per approfondire i temi al centro della pièce, co-produzione del Teatro di Roma, del Biondo di Palermo e dell’Accademia Perduta - Romagna Teatri, in collaborazione con il Festival internazionale di narrazione Arzo.
Tratto dal romanzo «Appunti per un naufragio», pubblicato da Sellerio editore nel 2017, lo spettacolo porta il pubblico in quella terra complessa e affascinante che è la Sicilia e in quella piccola isola del Mediterraneo, Lampedusa, che da anni si trova ad affrontare, prima tra tutti, l’emergenza dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, i tanti sbarchi di migranti che arrivano nel nostro Paese in cerca di un futuro migliore.
«L’abisso» di cui parla l’autore nel titolo è, dunque, quello del nostro «mare magnum», che talvolta culla i sogni di chi ha detto addio per sempre alla sua patria fino alla vista di un lembo di terra che diventa sempre più grande, talaltra ingoia, tra onde gigantesche e nelle sue acque fredde, essere umani, portandosi via per sempre le loro speranze.
Davide Enia è uomo di mare. È nato a Palermo. La Sicilia è casa sua. Lampedusa la conosce bene. «Quando ho visto il primo sbarco ero con mio padre -racconta-. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi. Nell’arco degli anni sono tornato sull’isola, costruendo un dialogo continuo con i testimoni diretti: pescatori, personale della Guardia Costiera, residenti, medici, volontari e sommozzatori».
Le loro parole e, soprattutto, i loro silenzi sono diventati un racconto, testimonianza storica, percorso esistenziale: «Durante i nostri incontri -spiega ancora lo scrittore- si parlava in dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia».
La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali: gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare restituisce corpi senza vita di uomini, donne, bambini.
Non serve molto a Davide Enia per raccontare questa storia: una sedia per lui e una per il suo compagno di scena, Giulio Barocchieri, autore della partitura musicale composta secondo la logica dell’accumulo, dove «note e rumori si sommano uno all’altro, in progressione, senza scampo, creando disequilibri continui, echi distorti flebili ma persistenti».
Gli sbarchi, l’accoglienza, la cura dei profughi senza strutture sanitarie, il peso che ciascun migrante si porta addosso sono tanti piccoli frammenti di una stessa storia, non semplice da raccontare. Davide Enia si rende conto che il rischio della spettacolarizzazione della tragedia è dietro l’angolo. «Il lavoro -spiega l’autore- è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione del movimento interno».
È la parola, dunque, la grande protagonista di questo spettacolo di narrazione e di teatro civile, che nella passata stagione si è aggiudicato i premi Hystrio Twister 2019 e Le Maschere del teatro italiano 2019, riconoscimenti più che meritati. Davide Enia parla alle nostre coscienze, le scuote e la domanda che a più riprese si pone diventa anche nostra: «che cosa posso fare?». Impossibile rimanere indifferenti.
Informazioni utili
L’abisso. Piccolo Teatro Grassi , via Rovello, 2 – Milano. Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16. Durata: 75 minuti senza intervallo. Prezzi: platea € 33,00, balconata € 26,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 02.42411889. Sito internet: www.piccoloteatro.org. Dal 12 al 24 novembre 2019.
mercoledì 6 novembre 2019
«Jazz Icons of the ‘60s», quando la musica è una passione di famiglia
Per quasi quarant’anni ha svolto un ruolo fondamentale nella divulgazione e promozione della musica jazz in Italia. Sofisticato intenditore musicale, impeccabile organizzatore di concerti, saggista e giornalista di settore tra i più autorevoli al mondo, Arrigo Polillo (Pavullo nel Frignano, 12 luglio 1919 - Milano, 17 luglio 1984) è stato tra le persone che hanno portato il grande jazz in Italia. C'è, infatti, il suo nome dietro a tante trasferte sui palcoscenici italiani, già a partire dai primi anni Cinquanta, di importanti protagonisti della scena internazionale, da Louis Armstrong a John Coltrane, da Ornette Coleman a Duke Ellington, da Ella Fitzgerald a Miles Davis e Thelonious Monk.
Quella passione per le note suadenti del jazz Arrigo Polillo è riuscito a trasmetterla anche al figlio Roberto, fotografo e informatico milanese, classe 1946, autore di progetti come «Impressions of the World», un viaggio in immagini attraverso venticinque Paesi di tutto il mondo, e «Future and The City», studio di ipotesi visive sulle città del futuro.
«Sono cresciuto con mio padre tra giradischi a tutto volume -racconta, infatti, Roberto Polillo- e fu proprio lui a incoraggiare la mia passione: la sua rivista («Musica Jazz», di cui fu caporedattore dal 1945 al 1965 e direttore dal 1965 al 1984, ndr), aveva bisogno di immagini. Così a 16 anni mi regalò una buona macchina fotografica e mi mise al seguito dei musicisti americani in tournée. Mi ritrovai a fotografare praticamente ogni icona jazz del Novecento. Stavo sempre con loro, ma li inquadravo quando non se ne accorgevano, mimetizzandomi sul palco o nei camerini».
Parte di quelle immagini sono ora in mostra a Milano, negli spazi della Galleria Aprés-coup Arte, nata due anni fa nel cuore del quartiere Porta Romana per iniziativa di David Ponzecchi, grazie alla collaborazione della Noema Gallery, realtà diretta da Aldo Sardoni nel cuore di Brera, che rappresenta il fotografo milanese in Italia.
«Jazz Icons of the ‘60s», questo il titolo della rassegna, è inserita nell’ambito degli eventi collaterali per la quarta edizione della rassegna «JazzMi», in programma a Milano fino al prossimo 10 novembre, che festeggia così i cento anni dalla nascita di Arrigo Polillo e i tre quarti di secolo di «Musica Jazz», la più longeva pubblicazione europea del settore.
L’esposizione, visitabile fino al 10 gennaio, allinea una quarantina di immagini, molte di grande formato, scattate durante una serie di concerti tenutisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta a Milano, San Remo, Bologna, Lugano, Pescara, Juan-Les-Pins, Montreaux e in molte altre città.
A selezionare gli scatti, ristampati a partire dai negativi originali dell’epoca, è stato il musicologo Francesco Martinelli, che per l’occasione si è avvalso del contributo del critico e storico della fotografia Roberto Mutti.
Davanti agli occhi del visitatore scorrono i volti dei più grandi interpreti del jazz: Louis Armstrong, Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk, Ella Fitzgerald, Ray Charles, Gerry Mulligan e Charles Mingus.
Non mancano lungo il percorso espositivo le foto di due tra gli interpreti di questa edizione del festival milanese «JazzMi»: Herbie Hanckock e Archie Shepp, che Roberto Polillo ha ripreso rispettivamente nel 1972 e nel 1974 in due concerti a Bergamo.
Ci sono in mostra alla Galleria Aprés-coup Arte anche alcuni scatti iconici della storia della musica di quegli anni, tutti ormai entrati nell'immaginario collettivo. È il caso della fotografia che ritrae il primo concerto di John Coltrane e del suo quartetto in Italia, al Teatro dell’Arte di Milano. È il 2 dicembre 1962.
Per Roberto Polillo, che ha iniziato la sua attività al settimo festival del jazz di Sanremo, è il vero inizio di un’avventura nel mondo della fotografia di musica. «Ricordo ancora distintamente, a distanza di anni -scrive il fotografo nel libro «Swing Bop and Free. Il Jazz degli anni ‘60»-, l’impressione fortissima di quel concerto: la musica e l’uomo Coltrane che, a due metri dalla mia macchina fotografica, in smoking, urlava con il suo strumento grondando rivoli di sudore, totalmente assorto in una rappresentazione quasi mistica, quale mai si era vista prima nel jazz».
Porta la data del 1962 anche un altro scatto di John Coltrane firmato da Polillo, che ha fatto il giro del mondo: il celebre e intenso profilo del musicista, con il sigaro in bocca. «Tutti -svela il fotografo milanese-hanno pensato che in questa foto Coltrane avesse uno sguardo particolarmente profondo, mistico...invece stava aspettando le valigie a Linate ed era in preda al jet lag».
Da allora Roberto Polillo segue sempre il padre nelle sue trasferte e scatta immagini che servono alla rivista «Musica Jazz»: ritratti dei musicisti più importanti al loro arrivo negli aeroporti, in teatro durante le prove e i concerti, e qualche volta fuori dal palco, dietro le quinte. È il caso dei due scatti di Miles Davis e Dizzy Gillespie presenti in mostra, nei quali i due musicisti sono fermati dall'obiettivo poetico e discreto di Roberto Polillo durante due concerti a Milano, il primo tenutosi nel 1964 al Teatro dell’Arte, il secondo al teatro Lirico nel 1966.
Il fotografo milanese -le cui opere sono esposte stabilmente alla Fortezza medicea di Siena, sede dell’Accademia nazionale del jazz- è protagonista, in questo inizio di novembre, anche della mostra collettiva «Milano Anni 60 - Storia di un decennio irripetibile», per la curatela di Stefano Galli, allestita negli spazi di Palazzo Morando a Milano.
È qui che si trova uno dei suoi scatti più belli: l'immagine di Miles Davis "beccato" a suonare un sassofono, e non l’inseparabile tromba. «Questa è una foto speciale –ha rivelato Roberto Polillo- e la situazione in cui fu scattata è stata raccontata da mio padre nel suo libro «Stasera Jazz». Miles si era molto arrabbiato, perché un giornalista lo aveva disturbato in teatro, subito prima dell’inizio del concerto, per un’intervista. Il giornalista fu cacciato in malo modo, e Davis per ripicca annunciò a mio padre (che organizzava il concerto) che non avrebbe più suonato. Tutto però alla fine si risolse per il meglio, e la foto documenta il momento della pace: Davis, scherzando con mio padre (che si vede sullo sfondo), imbracciò un sassofono imitando i movimenti impacciati di un sassofonista drogato. Io, che assistevo alla scena, riuscii a scattare al volo questa foto, mossa e sfuocata. Probabilmente l’unica foto esistente in cui Davis suona (o finge di suonare) un sassofono».
Uno dei tanti aneddoti, questo, che Roberto Polillo può raccontare, svelando il volto sconosciuto del periodo d’oro del jazz e quello dei suoi protagonisti, virtuosi della tromba, del sax, del pianoforte, ma soprattutto geni dell’improvvisazione.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Roberto Polillo, John Coltrane, Milano 1962; [fig. 2] Roberto Polillo, Ella Fitzgerald, Milano 1968; [fig. 3] Roberto Polillo, Duke Ellington, Milano 1966; [fig. 4] Roberto Polillo, Miles Davis e Arrigo Polillo, Milano 1964; [fig. 5] Roberto Polillo, Herbie Hancock, Bergamo 1972; [fig. 6] Roberto Polillo, Thelonious Monk, Milano 1964; [fig. 7] Roberto Polillo, Archie Shepp, Bergamo 1974
Informazioni utili
Roberto Polillo. Jazz Icons of the ‘60s. Galleria Aprés coup Arte, via Privata della Braida, 5 - Milano. Orari:dal martedì al sabato, dalle ore 11.30 alle 23.00. Ingresso libero. Sito: http://www.apres-coup.it/. Fino al 10 gennaio 2020.
Quella passione per le note suadenti del jazz Arrigo Polillo è riuscito a trasmetterla anche al figlio Roberto, fotografo e informatico milanese, classe 1946, autore di progetti come «Impressions of the World», un viaggio in immagini attraverso venticinque Paesi di tutto il mondo, e «Future and The City», studio di ipotesi visive sulle città del futuro.
«Sono cresciuto con mio padre tra giradischi a tutto volume -racconta, infatti, Roberto Polillo- e fu proprio lui a incoraggiare la mia passione: la sua rivista («Musica Jazz», di cui fu caporedattore dal 1945 al 1965 e direttore dal 1965 al 1984, ndr), aveva bisogno di immagini. Così a 16 anni mi regalò una buona macchina fotografica e mi mise al seguito dei musicisti americani in tournée. Mi ritrovai a fotografare praticamente ogni icona jazz del Novecento. Stavo sempre con loro, ma li inquadravo quando non se ne accorgevano, mimetizzandomi sul palco o nei camerini».
Parte di quelle immagini sono ora in mostra a Milano, negli spazi della Galleria Aprés-coup Arte, nata due anni fa nel cuore del quartiere Porta Romana per iniziativa di David Ponzecchi, grazie alla collaborazione della Noema Gallery, realtà diretta da Aldo Sardoni nel cuore di Brera, che rappresenta il fotografo milanese in Italia.
«Jazz Icons of the ‘60s», questo il titolo della rassegna, è inserita nell’ambito degli eventi collaterali per la quarta edizione della rassegna «JazzMi», in programma a Milano fino al prossimo 10 novembre, che festeggia così i cento anni dalla nascita di Arrigo Polillo e i tre quarti di secolo di «Musica Jazz», la più longeva pubblicazione europea del settore.
L’esposizione, visitabile fino al 10 gennaio, allinea una quarantina di immagini, molte di grande formato, scattate durante una serie di concerti tenutisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta a Milano, San Remo, Bologna, Lugano, Pescara, Juan-Les-Pins, Montreaux e in molte altre città.
A selezionare gli scatti, ristampati a partire dai negativi originali dell’epoca, è stato il musicologo Francesco Martinelli, che per l’occasione si è avvalso del contributo del critico e storico della fotografia Roberto Mutti.
Davanti agli occhi del visitatore scorrono i volti dei più grandi interpreti del jazz: Louis Armstrong, Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk, Ella Fitzgerald, Ray Charles, Gerry Mulligan e Charles Mingus.
Non mancano lungo il percorso espositivo le foto di due tra gli interpreti di questa edizione del festival milanese «JazzMi»: Herbie Hanckock e Archie Shepp, che Roberto Polillo ha ripreso rispettivamente nel 1972 e nel 1974 in due concerti a Bergamo.
Ci sono in mostra alla Galleria Aprés-coup Arte anche alcuni scatti iconici della storia della musica di quegli anni, tutti ormai entrati nell'immaginario collettivo. È il caso della fotografia che ritrae il primo concerto di John Coltrane e del suo quartetto in Italia, al Teatro dell’Arte di Milano. È il 2 dicembre 1962.
Per Roberto Polillo, che ha iniziato la sua attività al settimo festival del jazz di Sanremo, è il vero inizio di un’avventura nel mondo della fotografia di musica. «Ricordo ancora distintamente, a distanza di anni -scrive il fotografo nel libro «Swing Bop and Free. Il Jazz degli anni ‘60»-, l’impressione fortissima di quel concerto: la musica e l’uomo Coltrane che, a due metri dalla mia macchina fotografica, in smoking, urlava con il suo strumento grondando rivoli di sudore, totalmente assorto in una rappresentazione quasi mistica, quale mai si era vista prima nel jazz».
Porta la data del 1962 anche un altro scatto di John Coltrane firmato da Polillo, che ha fatto il giro del mondo: il celebre e intenso profilo del musicista, con il sigaro in bocca. «Tutti -svela il fotografo milanese-hanno pensato che in questa foto Coltrane avesse uno sguardo particolarmente profondo, mistico...invece stava aspettando le valigie a Linate ed era in preda al jet lag».
Da allora Roberto Polillo segue sempre il padre nelle sue trasferte e scatta immagini che servono alla rivista «Musica Jazz»: ritratti dei musicisti più importanti al loro arrivo negli aeroporti, in teatro durante le prove e i concerti, e qualche volta fuori dal palco, dietro le quinte. È il caso dei due scatti di Miles Davis e Dizzy Gillespie presenti in mostra, nei quali i due musicisti sono fermati dall'obiettivo poetico e discreto di Roberto Polillo durante due concerti a Milano, il primo tenutosi nel 1964 al Teatro dell’Arte, il secondo al teatro Lirico nel 1966.
Il fotografo milanese -le cui opere sono esposte stabilmente alla Fortezza medicea di Siena, sede dell’Accademia nazionale del jazz- è protagonista, in questo inizio di novembre, anche della mostra collettiva «Milano Anni 60 - Storia di un decennio irripetibile», per la curatela di Stefano Galli, allestita negli spazi di Palazzo Morando a Milano.
È qui che si trova uno dei suoi scatti più belli: l'immagine di Miles Davis "beccato" a suonare un sassofono, e non l’inseparabile tromba. «Questa è una foto speciale –ha rivelato Roberto Polillo- e la situazione in cui fu scattata è stata raccontata da mio padre nel suo libro «Stasera Jazz». Miles si era molto arrabbiato, perché un giornalista lo aveva disturbato in teatro, subito prima dell’inizio del concerto, per un’intervista. Il giornalista fu cacciato in malo modo, e Davis per ripicca annunciò a mio padre (che organizzava il concerto) che non avrebbe più suonato. Tutto però alla fine si risolse per il meglio, e la foto documenta il momento della pace: Davis, scherzando con mio padre (che si vede sullo sfondo), imbracciò un sassofono imitando i movimenti impacciati di un sassofonista drogato. Io, che assistevo alla scena, riuscii a scattare al volo questa foto, mossa e sfuocata. Probabilmente l’unica foto esistente in cui Davis suona (o finge di suonare) un sassofono».
Uno dei tanti aneddoti, questo, che Roberto Polillo può raccontare, svelando il volto sconosciuto del periodo d’oro del jazz e quello dei suoi protagonisti, virtuosi della tromba, del sax, del pianoforte, ma soprattutto geni dell’improvvisazione.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Roberto Polillo, John Coltrane, Milano 1962; [fig. 2] Roberto Polillo, Ella Fitzgerald, Milano 1968; [fig. 3] Roberto Polillo, Duke Ellington, Milano 1966; [fig. 4] Roberto Polillo, Miles Davis e Arrigo Polillo, Milano 1964; [fig. 5] Roberto Polillo, Herbie Hancock, Bergamo 1972; [fig. 6] Roberto Polillo, Thelonious Monk, Milano 1964; [fig. 7] Roberto Polillo, Archie Shepp, Bergamo 1974
Informazioni utili
Roberto Polillo. Jazz Icons of the ‘60s. Galleria Aprés coup Arte, via Privata della Braida, 5 - Milano. Orari:dal martedì al sabato, dalle ore 11.30 alle 23.00. Ingresso libero. Sito: http://www.apres-coup.it/. Fino al 10 gennaio 2020.
martedì 5 novembre 2019
Sandro Becchetti e i «protagonisti» della nostra storia
Centinaia di grandi protagonisti dell’arte, della letteratura, della musica, del cinema, dello sport e della cultura sono passati per quattro decenni, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, davanti alla lente delle sue fotocamere per, poi, finire sulle pagine di importanti periodici e quotidiani nazionali, da «La Repubblica» a «Il Messaggero», da «L’Unità» a «L’Espresso», da «Paese Sera» a «Il Secolo XIX».
Sandro Becchetti (Roma, 25 dicembre 1935 – Lugnano in Teverina - Terni, 5 giugno 2013) non era un fotografo da appostamenti, scatti rubati e scoop scandalistici. È stato l’anti-paparazzo per eccellenza. Per lui un ritratto, rigorosamente in bianco e nero, era un incontro, una relazione tra esseri umani, anche se era ben consapevole che un clic, così come una chiacchierata superficiale, non avrebbe mai potuto raccontare l’intensità e la verità di una persona e della sua esistenza. Anzi.
«Intorno ad ogni foto -diceva, infatti, Becchetti- ciascuno può costruire la propria menzogna. Perché questa per me è stata la fotografia: la menzogna, una componente essenziale della verità. Le mie macchine fotografiche contenevano –per me, intendo dire– tutte le immagini possibili, ma come le platoniche ombre contenevano anche il loro contrario».
Al ritratto come «specchio dell’anima», dunque, il fotografo romano, che aveva scelto di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in Umbria, non ha mai creduto: «i segni di una faccia -diceva- dissimulano più che rilevare» e la fotografia è «un inganno mediocre: non condensa mai una vita».
Di certo le immagini in mostra fino al prossimo 8 dicembre a Castiglione del Lago, negli spazi suggestivi del cinquecentesco Palazzo della Corgna, «condensano», invece, puntualmente la storia e la cultura del nostro Paese a partire dagli anni Sessanta, quando Sandro Becchetti si muove sulla strada del reportage militante documentando la realtà sociale, politica e culturale dell'Italia. Tutto cambia con il servizio fotografico per i funerali di piazza Fontana a Milano. Il disgusto per un Paese «assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e l’indifferenza» gli fanno cambiare idea sul suo futuro: «nel profondo -racconta ancora Becchetti- cessai lì di essere fotografo e diventai ritrattista».
Davanti alla sua Leica passano tutti i grandi personaggi del tempo. Il celebre scatto con lo sbadiglio annoiato, per non dire sbeffeggiante, di Alfred Hitchock, risposta alle domande della stampa italiana, porta la firma del fotografo romano. Suoi sono anche il ritratto del pugile argentino Carlos Monzón, il cui volto reale non è il viso ma il pugno chiuso che lo ha reso un campione, e quello di un pensieroso Pier Paolo Pasolini, immortalato con l’amata madre.
È di Sandro Becchetti anche una delle fotografie più iconiche del cinema mondiale: Dustin Hoffman, solo, in un corridoio di un albergo romano ai tempi del film «Uomo da marciapiede».
Significativo è anche il suo ritratto di Moira Orfei, il cui viso è immortalato su un manifesto affisso a un bandone, ovvero l’icona che forse identifica più di tutte l’artista con il circo.
Nella mostra sul lago Trasimeno scorrono sotto gli occhi del visitatore anche le immagini di tanti altri protagonisti del Novecento: una giovanissima e suadente Claudia Cardinale, un furente Federico Fellini, un concentrato Giorgio Strehler, un giovanissimo Christo mentre lavora ad impacchettare un edificio e, poi, Andy Warhol, Joe Cocker, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Valentina Cortese, Dacia Maraini, Ornella Vanoni e tanti altri ancora.
I loro ritratti, nei quali si respira quello che Sandro Becchetti chiamava l’«inganno del vero», si alternano a volti di perfetti sconosciuti, mettendo a fuoco sguardi, particolari dell’abbigliamento o della corporeità, in un racconto che focalizza l’attenzione sulla partecipazione sociale e sul mondo del lavoro con i suoi disagi.
Il fotografo romano rende così immortale l’attimo fuggente dell’attualità, la nostra Storia, con le piccole e grandi battaglie quotidiane. Ed è su queste che Sandro Becchetti si concentra in quello che sembra essere il suo testamento artistico: «ho ricevuto molto più di quanto abbia dato. Sono cresciuto, grazie all’esperienza fotografica, soprattutto umanamente. Ritengo di essere diventato una persona migliore, perché migliore era il mondo che i protagonisti delle mie foto si auguravano e per il quale si battevano. Di questo non potrò mai ringraziarli abbastanza».
Informazioni utili
Sandro Becchetti. Protagonisti. Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago (Perugia). Orari: ore 10.00-17.00; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. È possibile prenotare l’apertura straordinaria per visite riservate. Ingresso (comprensivo di ingresso anche alla Rocca del Leone): intero € 8,00; ridotto A € 6,00 (gruppi +15; fino a 25 anni); ridotto B € 3,00 (6-17 anni); gratuito bambini fino a 5 anni, residenti Comune di Castiglione del Lago. Visite guidate: in italiano € 80; in inglese € 100. Al costo si aggiunge il biglietto ridotto. Informazioni, visite guidate e laboratori per le scuole: Palazzo della Corgna, tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Prenotazioni: Call center 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-13.00), callcenter@sistemamuseo.it. Fino all’8 dicembre 2019
Sandro Becchetti (Roma, 25 dicembre 1935 – Lugnano in Teverina - Terni, 5 giugno 2013) non era un fotografo da appostamenti, scatti rubati e scoop scandalistici. È stato l’anti-paparazzo per eccellenza. Per lui un ritratto, rigorosamente in bianco e nero, era un incontro, una relazione tra esseri umani, anche se era ben consapevole che un clic, così come una chiacchierata superficiale, non avrebbe mai potuto raccontare l’intensità e la verità di una persona e della sua esistenza. Anzi.
«Intorno ad ogni foto -diceva, infatti, Becchetti- ciascuno può costruire la propria menzogna. Perché questa per me è stata la fotografia: la menzogna, una componente essenziale della verità. Le mie macchine fotografiche contenevano –per me, intendo dire– tutte le immagini possibili, ma come le platoniche ombre contenevano anche il loro contrario».
Al ritratto come «specchio dell’anima», dunque, il fotografo romano, che aveva scelto di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in Umbria, non ha mai creduto: «i segni di una faccia -diceva- dissimulano più che rilevare» e la fotografia è «un inganno mediocre: non condensa mai una vita».
Di certo le immagini in mostra fino al prossimo 8 dicembre a Castiglione del Lago, negli spazi suggestivi del cinquecentesco Palazzo della Corgna, «condensano», invece, puntualmente la storia e la cultura del nostro Paese a partire dagli anni Sessanta, quando Sandro Becchetti si muove sulla strada del reportage militante documentando la realtà sociale, politica e culturale dell'Italia. Tutto cambia con il servizio fotografico per i funerali di piazza Fontana a Milano. Il disgusto per un Paese «assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e l’indifferenza» gli fanno cambiare idea sul suo futuro: «nel profondo -racconta ancora Becchetti- cessai lì di essere fotografo e diventai ritrattista».
Davanti alla sua Leica passano tutti i grandi personaggi del tempo. Il celebre scatto con lo sbadiglio annoiato, per non dire sbeffeggiante, di Alfred Hitchock, risposta alle domande della stampa italiana, porta la firma del fotografo romano. Suoi sono anche il ritratto del pugile argentino Carlos Monzón, il cui volto reale non è il viso ma il pugno chiuso che lo ha reso un campione, e quello di un pensieroso Pier Paolo Pasolini, immortalato con l’amata madre.
È di Sandro Becchetti anche una delle fotografie più iconiche del cinema mondiale: Dustin Hoffman, solo, in un corridoio di un albergo romano ai tempi del film «Uomo da marciapiede».
Significativo è anche il suo ritratto di Moira Orfei, il cui viso è immortalato su un manifesto affisso a un bandone, ovvero l’icona che forse identifica più di tutte l’artista con il circo.
Nella mostra sul lago Trasimeno scorrono sotto gli occhi del visitatore anche le immagini di tanti altri protagonisti del Novecento: una giovanissima e suadente Claudia Cardinale, un furente Federico Fellini, un concentrato Giorgio Strehler, un giovanissimo Christo mentre lavora ad impacchettare un edificio e, poi, Andy Warhol, Joe Cocker, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Valentina Cortese, Dacia Maraini, Ornella Vanoni e tanti altri ancora.
I loro ritratti, nei quali si respira quello che Sandro Becchetti chiamava l’«inganno del vero», si alternano a volti di perfetti sconosciuti, mettendo a fuoco sguardi, particolari dell’abbigliamento o della corporeità, in un racconto che focalizza l’attenzione sulla partecipazione sociale e sul mondo del lavoro con i suoi disagi.
Il fotografo romano rende così immortale l’attimo fuggente dell’attualità, la nostra Storia, con le piccole e grandi battaglie quotidiane. Ed è su queste che Sandro Becchetti si concentra in quello che sembra essere il suo testamento artistico: «ho ricevuto molto più di quanto abbia dato. Sono cresciuto, grazie all’esperienza fotografica, soprattutto umanamente. Ritengo di essere diventato una persona migliore, perché migliore era il mondo che i protagonisti delle mie foto si auguravano e per il quale si battevano. Di questo non potrò mai ringraziarli abbastanza».
Informazioni utili
Sandro Becchetti. Protagonisti. Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago (Perugia). Orari: ore 10.00-17.00; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. È possibile prenotare l’apertura straordinaria per visite riservate. Ingresso (comprensivo di ingresso anche alla Rocca del Leone): intero € 8,00; ridotto A € 6,00 (gruppi +15; fino a 25 anni); ridotto B € 3,00 (6-17 anni); gratuito bambini fino a 5 anni, residenti Comune di Castiglione del Lago. Visite guidate: in italiano € 80; in inglese € 100. Al costo si aggiunge il biglietto ridotto. Informazioni, visite guidate e laboratori per le scuole: Palazzo della Corgna, tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Prenotazioni: Call center 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-13.00), callcenter@sistemamuseo.it. Fino all’8 dicembre 2019
lunedì 4 novembre 2019
«Modulazione Ascendente», una nuova vita per la scultura di Fausto Melotti alla Gam di Torino
Con il passare del tempo il sole e la pioggia avevano ossidato e annerito il rame di cui è composta. «Modulazione Ascendente» di Fausto Melotti (Rovereto, 8 giugno 1901 – Milano, 22 giugno 1986), l’opera che accoglie, dal 1993, i visitatori all’ingresso della Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, meritava da tempo un serio intervento di restauro.
A compiere i lavori di pulitura e ripristino, durati circa tre mesi, è stato Federico Borgogni, con la supervisione di Elena Volpato, conservatore del museo, e con la collaborazione della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Torino.
L’intervento è stato reso possibile grazie alla generosità della Compagnia De’ Juliani, associazione no profit, nata nel 2001, con la missione di dare un contributo sempre maggiore al territorio di appartenenza, attraverso iniziative di valore sociale e culturale.
«Modulazione Ascendente» ha ritrovato così il suo colore ramato originale e la sua leggiadra poesia, frutto di un gioco di sottili lamine metalliche, per un totale di quattro lastre e ventuno elementi a forma di stella, freccia e mezzaluna, che vanno a formare un segno zigzagante, ritmico e aereo, proteso verso il cielo.
Ideata nel 1977 da un Fausto Melotti ormai in età matura, l’opera è giunta alla GAM - Galleria civica d'arte moderna e contemporanea nel 1992, dopo essere stata acquisita e concessa in comodato d’uso dalla Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, ente che dalla sua fondazione, nel 1982, ha incrementato significativamente le collezioni del museo torinese con disegni, pitture e sculture dell’Ottocento e Novecento, firmate, tra gli altri, da Palagi, Hayez, Pellizza da Volpedo, Morbelli, Balla, Casorati, de Chirico, de Pisis, Morandi, Vedova, Burri.
La scultura, che emana tutta la tensione musicale fatta di vuoti e pieni che è la cifra dell’artista roveretano, è stata riposizionata negli spazi della Gam a metà ottobre in una posizione nuova rispetto al passato: non più al centro del giardino, ma davanti ai bambù, così da poter essere ammirata in tutti i suoi dettagli e da non confondersi con la struttura architettonica del museo.
Prima dell’intervento di restauro, l’opera mostrava problemi di «corrosione dalla colorazione chiara», c’erano incrostazioni, patine di colore scuro e lievi fenomeni di esfoliazione.
Nello specifico, «tutte le superfici -raccontano dalla Gam- risultavano interessate da diffusi depositi di particellato atmosferico e di aggregati di diversa natura e coerenza, per lo più aderenti al substrato. Le parti maggiormente esposte all’azione degli agenti atmosferici e degli inquinanti, come le lastre dove alloggiano gli elementi che costituiscono l’opera, mostravano corrosione dalla colorazione chiara; le zone in sottosquadro, al riparo del dilavamento, erano, invece, prevalentemente interessate da incrostazioni e patine di colore scuro».
Il restauro -spiegano ancora dal museo torinese- è stato condotto con due metodi differenti. «Nella prima fase è stata eseguita una pulitura meccanica, mediante l’utilizzo di spazzole di cotone sulle quali veniva steso uno strato di cera con ossidi di metallo sotto forma di macro sfere. Successivamente, dopo aver rimosso le ossidazioni di colore verde, è stata eseguita una pulitura chimica a tampone con soluzione di Edta (sale bisodico e tetrasodico)».
Si rinnova, dunque, il biglietto da visita della Gam, che in questi giorni di inizio novembre presenta più di un motivo per una gita fuori porta. Sempre nel giardino è possibile, per esempio, vedere, fino al prossimo 19 gennaio, l’installazione site-specific «The Caliph seeks Asylum (Il Califfo cerca Asilo)» dell’artista saudita Muhannad Shono (Riyadh, Arabia Saudita, 1977), inaugurata nei frenetici giorni di Artissima. Si tratta di un’opera realizzata con tremilacinquecento tubi in pvc nero, decorati con minute raffigurazioni tratte dagli antichi volumi miniati della cultura arabo-islamica andati distrutti nella caduta di Baghdad, disposti come un accampamento di fortuna.
Internamente, negli spazi dedicati alle esposizioni permanenti, è, invece, allestita una mostra antologica di Paolo Icaro (Torino, 1936), sempre per la curatela di Elena Volpato, che racconta cinquantacinque anni del lavoro dell’artista, dal 1964 al 2019, compendiati in una cinquantina di opere, alcune realizzate appositamente per l’esposizione.
Mentre in Videoteca, spazio che compie quest’anno vent’anni dall’apertura, è visibile fino al prossimo 8 marzo un omaggio a Gino De Dominicis, prima di sei esposizioni, a cura di Elena Volpato, che indagheranno anche la ricerca video di Giuseppe Chiari, Alighiero Boetti, Claudio Parmiggiani, Vincenzo Agnetti e Jannis Kounellis, promosse dal museo torinese in collaborazione con l’Archivio storico della Biennale di Venezia. Per l’occasione sarà possibile vedere due video che affrontano in modo diverso il tema dell’eternità: «Videotape» del 1974, con una donna che ci guarda e che si sente a sua volta guardata, e «Tentativo di volo» del 1969, che si propone come verifica dell’immortalità filogenetica, parlando di un compito impossibile passato da padre a figlio.
Nella Wunderkammer, infine, è stata da poco inaugurata la mostra «Primo Levi. Figure», a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio, con una selezione significativa dei lavori in filo metallico, realizzati dal grande scrittore e intellettuale torinese tra il 1955 e il 1975. Gli animali sono la prima fonte di ispirazione, ma non mancano le creature fantastiche e la figura umana.
Accostarsi a questi lavori, esposti fino al prossimo 26 gennaio con il progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià e la collaborazione di Anna Rita Bertorello, consente di aprire una straordinaria finestra sul mondo di Levi (nella foto accanto, in uno scatto di Mario Monge): un mondo di competenze e di sensibilità molteplici e ricchissime, ben al di là dell’immagine univoca, più nota e diffusa, di testimone della persecuzione e della deportazione. Ne emerge una figura ricca e complessa, nella quale convivono la formazione del chimico, una solida cultura letteraria classica, la passione per le lingue, le etimologie e i giochi di parole, l’alpinismo, il fantastico, l’ironia e l’umorismo, una curiosità aperta per le più recenti espressioni artistiche, un interesse vivo e competente per la matematica, la fisica, le scienze naturali.
Un calendario di appuntamenti, dunque, ricco quello della Gam di Torino per le prossime settimane, che si arricchisce tutti i sabati e ogni primo martedì del mese di visite guidate alle proprie collezioni, dove si possono ammirare opere di Morandi, Casorati e De Pisis, con testimonianze delle Avanguardie storiche internazionali, tra cui opere di Paul Klee e Picabia fino ad arrivare alle sperimentazioni dell’Arte Povera con i lavori di Boetti e Pistoletto.
Informazioni utili
GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, via Magenta, 31 – Torino. Orari: martedì – domenica, ore 10.00-18.00, chiuso lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingressi: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni. Informazioni per il pubblico: tel. 011.4429518. Sito Internet: www.gamtorino.it.
A compiere i lavori di pulitura e ripristino, durati circa tre mesi, è stato Federico Borgogni, con la supervisione di Elena Volpato, conservatore del museo, e con la collaborazione della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Torino.
L’intervento è stato reso possibile grazie alla generosità della Compagnia De’ Juliani, associazione no profit, nata nel 2001, con la missione di dare un contributo sempre maggiore al territorio di appartenenza, attraverso iniziative di valore sociale e culturale.
«Modulazione Ascendente» ha ritrovato così il suo colore ramato originale e la sua leggiadra poesia, frutto di un gioco di sottili lamine metalliche, per un totale di quattro lastre e ventuno elementi a forma di stella, freccia e mezzaluna, che vanno a formare un segno zigzagante, ritmico e aereo, proteso verso il cielo.
Ideata nel 1977 da un Fausto Melotti ormai in età matura, l’opera è giunta alla GAM - Galleria civica d'arte moderna e contemporanea nel 1992, dopo essere stata acquisita e concessa in comodato d’uso dalla Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, ente che dalla sua fondazione, nel 1982, ha incrementato significativamente le collezioni del museo torinese con disegni, pitture e sculture dell’Ottocento e Novecento, firmate, tra gli altri, da Palagi, Hayez, Pellizza da Volpedo, Morbelli, Balla, Casorati, de Chirico, de Pisis, Morandi, Vedova, Burri.
La scultura, che emana tutta la tensione musicale fatta di vuoti e pieni che è la cifra dell’artista roveretano, è stata riposizionata negli spazi della Gam a metà ottobre in una posizione nuova rispetto al passato: non più al centro del giardino, ma davanti ai bambù, così da poter essere ammirata in tutti i suoi dettagli e da non confondersi con la struttura architettonica del museo.
Prima dell’intervento di restauro, l’opera mostrava problemi di «corrosione dalla colorazione chiara», c’erano incrostazioni, patine di colore scuro e lievi fenomeni di esfoliazione.
Nello specifico, «tutte le superfici -raccontano dalla Gam- risultavano interessate da diffusi depositi di particellato atmosferico e di aggregati di diversa natura e coerenza, per lo più aderenti al substrato. Le parti maggiormente esposte all’azione degli agenti atmosferici e degli inquinanti, come le lastre dove alloggiano gli elementi che costituiscono l’opera, mostravano corrosione dalla colorazione chiara; le zone in sottosquadro, al riparo del dilavamento, erano, invece, prevalentemente interessate da incrostazioni e patine di colore scuro».
Il restauro -spiegano ancora dal museo torinese- è stato condotto con due metodi differenti. «Nella prima fase è stata eseguita una pulitura meccanica, mediante l’utilizzo di spazzole di cotone sulle quali veniva steso uno strato di cera con ossidi di metallo sotto forma di macro sfere. Successivamente, dopo aver rimosso le ossidazioni di colore verde, è stata eseguita una pulitura chimica a tampone con soluzione di Edta (sale bisodico e tetrasodico)».
Si rinnova, dunque, il biglietto da visita della Gam, che in questi giorni di inizio novembre presenta più di un motivo per una gita fuori porta. Sempre nel giardino è possibile, per esempio, vedere, fino al prossimo 19 gennaio, l’installazione site-specific «The Caliph seeks Asylum (Il Califfo cerca Asilo)» dell’artista saudita Muhannad Shono (Riyadh, Arabia Saudita, 1977), inaugurata nei frenetici giorni di Artissima. Si tratta di un’opera realizzata con tremilacinquecento tubi in pvc nero, decorati con minute raffigurazioni tratte dagli antichi volumi miniati della cultura arabo-islamica andati distrutti nella caduta di Baghdad, disposti come un accampamento di fortuna.
Internamente, negli spazi dedicati alle esposizioni permanenti, è, invece, allestita una mostra antologica di Paolo Icaro (Torino, 1936), sempre per la curatela di Elena Volpato, che racconta cinquantacinque anni del lavoro dell’artista, dal 1964 al 2019, compendiati in una cinquantina di opere, alcune realizzate appositamente per l’esposizione.
Mentre in Videoteca, spazio che compie quest’anno vent’anni dall’apertura, è visibile fino al prossimo 8 marzo un omaggio a Gino De Dominicis, prima di sei esposizioni, a cura di Elena Volpato, che indagheranno anche la ricerca video di Giuseppe Chiari, Alighiero Boetti, Claudio Parmiggiani, Vincenzo Agnetti e Jannis Kounellis, promosse dal museo torinese in collaborazione con l’Archivio storico della Biennale di Venezia. Per l’occasione sarà possibile vedere due video che affrontano in modo diverso il tema dell’eternità: «Videotape» del 1974, con una donna che ci guarda e che si sente a sua volta guardata, e «Tentativo di volo» del 1969, che si propone come verifica dell’immortalità filogenetica, parlando di un compito impossibile passato da padre a figlio.
Nella Wunderkammer, infine, è stata da poco inaugurata la mostra «Primo Levi. Figure», a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio, con una selezione significativa dei lavori in filo metallico, realizzati dal grande scrittore e intellettuale torinese tra il 1955 e il 1975. Gli animali sono la prima fonte di ispirazione, ma non mancano le creature fantastiche e la figura umana.
Accostarsi a questi lavori, esposti fino al prossimo 26 gennaio con il progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià e la collaborazione di Anna Rita Bertorello, consente di aprire una straordinaria finestra sul mondo di Levi (nella foto accanto, in uno scatto di Mario Monge): un mondo di competenze e di sensibilità molteplici e ricchissime, ben al di là dell’immagine univoca, più nota e diffusa, di testimone della persecuzione e della deportazione. Ne emerge una figura ricca e complessa, nella quale convivono la formazione del chimico, una solida cultura letteraria classica, la passione per le lingue, le etimologie e i giochi di parole, l’alpinismo, il fantastico, l’ironia e l’umorismo, una curiosità aperta per le più recenti espressioni artistiche, un interesse vivo e competente per la matematica, la fisica, le scienze naturali.
Un calendario di appuntamenti, dunque, ricco quello della Gam di Torino per le prossime settimane, che si arricchisce tutti i sabati e ogni primo martedì del mese di visite guidate alle proprie collezioni, dove si possono ammirare opere di Morandi, Casorati e De Pisis, con testimonianze delle Avanguardie storiche internazionali, tra cui opere di Paul Klee e Picabia fino ad arrivare alle sperimentazioni dell’Arte Povera con i lavori di Boetti e Pistoletto.
Informazioni utili
GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, via Magenta, 31 – Torino. Orari: martedì – domenica, ore 10.00-18.00, chiuso lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingressi: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni. Informazioni per il pubblico: tel. 011.4429518. Sito Internet: www.gamtorino.it.
mercoledì 30 ottobre 2019
«Viaggio nell’infinito», il genio visionario di Escher al cinema
Una vecchia macchina da scrivere in bianco e nero, il ticchettio delle dita che battono sui tasti a fare da sottofondo e in sovrimpressione una scritta che si compone lentamente: «I am afraid there is only one person in the world who could make a good film about my prints; me»; «Temo che ci sia una sola persona al mondo che potrebbe fare un buon film sulle mie stampe; io stesso». Inizia così, con queste parole dette a un collezionista americano nel 1969, il documentario «Escher - Viaggio nell’infinito», per la regia e la fotografia dell’olandese Robin Lutz, che arriva nelle sale cinematografiche italiane da lunedì 16 dicembre grazie a Feltrinelli e alla società di distribuzione Wanted Cinema, specializzata in pellicole di ricerca e “ricercate” per un pubblico che si aspetta non soltanto divertimento, ma anche pensiero, stimolo, dibattito, sorpresa e approfondimento.
Il film, che si avvale del sostegno di sir Roger Penrose, emerito professore di matematica all’Università di Oxford, racconta l’artista e il suo universo creativo attraverso i suoi stessi occhi, avvalendosi anche della colonna sonora di Louis Zarli e del montaggio di Moek de Groot.
La voce dell’attore e scrittore inglese Stephen John Fry, conosciuto nel Regno Unito per aver realizzato gli audio-book di tutti e sette i libri della saga di Harry Potter, legge lettere (quasi mille quelle studiate), diari, appunti di lezioni, testi per cataloghi scritti da Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden, 17 giugno 1898 – Laren, 27 marzo 1972), autore di più di quattrocento litografie, xilografie e incisioni su legno e oltre duemila disegni e schizzi, che raffigurano costruzioni impossibili, esplorazioni dell’infinito e motivi geometrici, in una combinazione perfetta tra elementi fantastici e matematici.
È, dunque, lo stesso Escher a raccontare allo spettatore la sua vita, la famiglia, le paure, i dubbi, i momenti di euforia, le considerazioni politiche, i suoi sviluppi artistici e ovviamente le opinioni sul suo lavoro, diventando così egli stesso regista del suo film «non letteralmente -come afferma Robin Lutz-, ma simbolicamente».
Nel documentario appaiono anche due dei figli dell’artista, George e Jan, rispettivamente di 92 e 80 anni, che si abbandonano ai ricordi sui loro genitori e della loro vita in giro per l’Europa.
Il documentario, della durata di circa un’ora, ci porta, infatti, nei luoghi che sono stati per l’artista fonte di grande ispirazione e, mentre Escher parla, la camera cattura in soggettiva la realtà come se fosse guardata dai suoi stessi occhi. Ci sono spezzoni storici di Leeuwarden, il paese di nascita, di Haarlem, il luogo dove è stato educato, e dell’Italia, dove l’artista ha vissuto durante l’ascesa di Mussolini, negli anni dal 1923 al 1935, stabilendosi a Roma, città di cui lo affascinavano i «fronzoli barocchi», e visitando molte altre località del nostro Paese, da Genova a Venezia, dalla costiera amalfitana a Viareggio. A colpire Escher sono soprattutto la campagna e le città della Toscana, in particolare San Gimignano e Siena. Ma più che il verde degli ulivi e il marrone della terra arsa dal sole, a lasciare sbalordito l’artista è l’azzurro del cielo senza nubi, una tonalità della quale egli scrive -ricorda il film di Robin Lutz- che è «più blu del Mediterraneo, più blu del blu della bandiera olandese, più blu della neve bianca e del catrame nero».
Il documentario porta, poi, lo spettatore in Spagna, Paese che Escher ha conosciuta appena prima della salita al potere di Franco e dove ha trovato l’ispirazione per il suo «riempimento semplice», studiando soprattutto i mosaici di Alahmbra dalle forme geometriche e dai colori vividi.
Il viaggio dell’artista, e quello dello spettatore, prosegue, quindi, verso l’Olanda, vissuta durante l’occupazione tedesca, e, infine, a Baarn, dove Escher ha trascorso i decenni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Sono gli anni della notorietà grazie a un articolo di «Time Life», pubblicato nel 1951 dal giornalista Israel Shenker.
L’incisore diventa così uno degli artisti olandesi più famosi dopo Rembrandt e Van Gogh. Chiunque riconosce immediatamente le sue opere. L’enorme successo, specialmente tra i ragazzi, stupisce soprattutto il diretto interessato: «Ma che diavolo vedono questi giovani nel mio lavoro? -afferma l’artista- Non manca esso di tutte quelle qualità che sono di tendenza oggi? È celebrare e razionale, invece di essere selvaggio e sexy». Eppure, malgrado le considerazioni di Escher, Mike Jagger richiede un’immagine per un suo album, ricevendo come risposta un categorico no. Uno stampatore californiano vende, con successo, riproduzioni che regalano ai lavori escheriani improbabili tonalità fluorescenti: «orge di colori» dai «risultati orrendi», per usare le stesse parole dell’artista. Un’icona del pop come Graham Nash -la cui testimonianza è presente nel film- racconta di come proprio grazie ad Escher sia diventato collezionista e si sia appassionato all’arte.
Si chiude, dunque, così, con l’eredità lasciata dal grafico olandese, il documentario: fumetti, pubblicità, film, mostre, balletti, costruzioni Lego, rivisitazioni in chiave contemporanea scorrono sullo schermo, accompagnate da una versione moderna della «Toccata e fuga in D minore (B 565)» di Bach, documentando l’interesse sempre più vivo nei confronti di un’arte che ha fatto del paradosso percettivo e del rigore geometrico i suoi cavalli di battaglia.
Informazioni utili
«Escher - Viaggio nell’infinito». Documentario, Olanda, 2018, 90 min. Regia: Robin Lutz. Fotografia: Robin Lutz. Montaggio: Moek de Groot, NCE. Suono: Louis Zarli Produzione: Robin Lutz AV productions. Dal 16 dicembre 2019 nei cinema italiani.
Il film, che si avvale del sostegno di sir Roger Penrose, emerito professore di matematica all’Università di Oxford, racconta l’artista e il suo universo creativo attraverso i suoi stessi occhi, avvalendosi anche della colonna sonora di Louis Zarli e del montaggio di Moek de Groot.
La voce dell’attore e scrittore inglese Stephen John Fry, conosciuto nel Regno Unito per aver realizzato gli audio-book di tutti e sette i libri della saga di Harry Potter, legge lettere (quasi mille quelle studiate), diari, appunti di lezioni, testi per cataloghi scritti da Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden, 17 giugno 1898 – Laren, 27 marzo 1972), autore di più di quattrocento litografie, xilografie e incisioni su legno e oltre duemila disegni e schizzi, che raffigurano costruzioni impossibili, esplorazioni dell’infinito e motivi geometrici, in una combinazione perfetta tra elementi fantastici e matematici.
È, dunque, lo stesso Escher a raccontare allo spettatore la sua vita, la famiglia, le paure, i dubbi, i momenti di euforia, le considerazioni politiche, i suoi sviluppi artistici e ovviamente le opinioni sul suo lavoro, diventando così egli stesso regista del suo film «non letteralmente -come afferma Robin Lutz-, ma simbolicamente».
Nel documentario appaiono anche due dei figli dell’artista, George e Jan, rispettivamente di 92 e 80 anni, che si abbandonano ai ricordi sui loro genitori e della loro vita in giro per l’Europa.
Il documentario, della durata di circa un’ora, ci porta, infatti, nei luoghi che sono stati per l’artista fonte di grande ispirazione e, mentre Escher parla, la camera cattura in soggettiva la realtà come se fosse guardata dai suoi stessi occhi. Ci sono spezzoni storici di Leeuwarden, il paese di nascita, di Haarlem, il luogo dove è stato educato, e dell’Italia, dove l’artista ha vissuto durante l’ascesa di Mussolini, negli anni dal 1923 al 1935, stabilendosi a Roma, città di cui lo affascinavano i «fronzoli barocchi», e visitando molte altre località del nostro Paese, da Genova a Venezia, dalla costiera amalfitana a Viareggio. A colpire Escher sono soprattutto la campagna e le città della Toscana, in particolare San Gimignano e Siena. Ma più che il verde degli ulivi e il marrone della terra arsa dal sole, a lasciare sbalordito l’artista è l’azzurro del cielo senza nubi, una tonalità della quale egli scrive -ricorda il film di Robin Lutz- che è «più blu del Mediterraneo, più blu del blu della bandiera olandese, più blu della neve bianca e del catrame nero».
Il documentario porta, poi, lo spettatore in Spagna, Paese che Escher ha conosciuta appena prima della salita al potere di Franco e dove ha trovato l’ispirazione per il suo «riempimento semplice», studiando soprattutto i mosaici di Alahmbra dalle forme geometriche e dai colori vividi.
Il viaggio dell’artista, e quello dello spettatore, prosegue, quindi, verso l’Olanda, vissuta durante l’occupazione tedesca, e, infine, a Baarn, dove Escher ha trascorso i decenni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Sono gli anni della notorietà grazie a un articolo di «Time Life», pubblicato nel 1951 dal giornalista Israel Shenker.
L’incisore diventa così uno degli artisti olandesi più famosi dopo Rembrandt e Van Gogh. Chiunque riconosce immediatamente le sue opere. L’enorme successo, specialmente tra i ragazzi, stupisce soprattutto il diretto interessato: «Ma che diavolo vedono questi giovani nel mio lavoro? -afferma l’artista- Non manca esso di tutte quelle qualità che sono di tendenza oggi? È celebrare e razionale, invece di essere selvaggio e sexy». Eppure, malgrado le considerazioni di Escher, Mike Jagger richiede un’immagine per un suo album, ricevendo come risposta un categorico no. Uno stampatore californiano vende, con successo, riproduzioni che regalano ai lavori escheriani improbabili tonalità fluorescenti: «orge di colori» dai «risultati orrendi», per usare le stesse parole dell’artista. Un’icona del pop come Graham Nash -la cui testimonianza è presente nel film- racconta di come proprio grazie ad Escher sia diventato collezionista e si sia appassionato all’arte.
Si chiude, dunque, così, con l’eredità lasciata dal grafico olandese, il documentario: fumetti, pubblicità, film, mostre, balletti, costruzioni Lego, rivisitazioni in chiave contemporanea scorrono sullo schermo, accompagnate da una versione moderna della «Toccata e fuga in D minore (B 565)» di Bach, documentando l’interesse sempre più vivo nei confronti di un’arte che ha fatto del paradosso percettivo e del rigore geometrico i suoi cavalli di battaglia.
Informazioni utili
«Escher - Viaggio nell’infinito». Documentario, Olanda, 2018, 90 min. Regia: Robin Lutz. Fotografia: Robin Lutz. Montaggio: Moek de Groot, NCE. Suono: Louis Zarli Produzione: Robin Lutz AV productions. Dal 16 dicembre 2019 nei cinema italiani.
martedì 29 ottobre 2019
Al Funaro di Pistoia arriva il Fondo Paolo Grassi
Il suo nome è legato a doppio filo con quello del Piccolo Teatro di Milano, una delle sale più famose e importanti d’Italia, prestigioso punto di riferimento anche nel panorama internazionale. È il 14 maggio del 1947 quando Paolo Grassi, insieme con la moglie Nina Vinchi e con l’amico Giorgio Strehler, fonda il primo teatro stabile ed ente comunale di prosa del nostro Paese. La sua intuizione, che ha del rivoluzionario, si riassume nello slogan «teatro d'arte per tutti», una formula -questa- che sta ad indicare la volontà di proporre spettacoli di alta qualità a un pubblico il più vasto possibile, mettendo così al centro la funzione sociale di cui il linguaggio teatrale è portatore.
«L‘albergo dei poveri», del drammaturgo russo Maksim Gorkij, apre trionfalmente la prima stagione della sala. Orio Vergani, sulle pagine del «Corriere della Sera», scrive: « [...] folla da grandissime occasioni. Immaginate una grande prima della Scala condensata come in un dado da minestra. Pubblico succosissimo [...]».
Prende così il via un’avventura destinata a segnare la storia del teatro italiano e internazionale. A dieci anni dal debutto, il bilancio è tutto positivo, forte di settantatré spettacoli, oltre duemila repliche nella sede di via Rovello, più di quattrocento in Italia e circa duecento all’estero.
Quell’idea di fondare non un semplice teatro, ma un luogo votato «all’impegno sociale, alla coscienza etica, alla maturità civile» piace ai milanesi e non solo.
Il merito è anche di un cartellone vario e di elevata qualità, nel quale compaiono grandi opere internazionali, autori italiani, attori di grido del momento e, soprattutto, le opere di Giorgio Strehler.
Il 4 maggio 2007, in occasione dei sessant’anni dalla fondazione, Maurizio Porro, sempre sulle pagine del «Corriere della Sera», riassume in poche righe il segreto del successo: «Il Piccolo lascia una scia di memorie meravigliose, di titoli, di volti di attori (uno li vale tutti, tutti lo valgono, direbbe Sartre), di polemiche, di scandali politici (quando la Dc non voleva il «Galileo» di Brecht), anche di snobberie intellettuali... Alle prime c’era tutta l’intellighenzia illuminata alla milanese (magari ci incontrava Brecht) ma poi seguiva un pubblico vero, vivo, giovane e nuovo che imparava ad ascoltare Shakespeare, Goldoni, Pirandello, Brecht senza annoiarsi un attimo. E senza che Strehler abbia mai cambiato una battuta dei testi».
La storia del Piccolo alle origini è anche la storia di Paolo Grassi, che ne sarà direttore dal 1947 al 1972. L’intellettuale milanese ha appena ventotto anni quando dà avvio all’avventura di un nuovo teatro nella sede del vecchio cinema Broletto.
La sua passione per il palcoscenico si era manifestata da giovanissimo. A 18 anni era già attivo come critico, firmava la sua prima regia e iniziava un intenso percorso che lo avrebbe reso celebre come studioso e organizzatore, figura, quest’ultima, la cui invenzione come la conosciamo oggi si deve proprio all’intellettuale milanese.
Dopo l’esperienza del Piccolo, per Grassi verrà la sovrintendenza della Scala, che, con Massimo Bogiankino e Claudio Abbado, viene riportata a una dimensione di grande valore artistico e riconoscibilità. Sarà, poi, la volta della presidenza della Rai (dal 1976) e di quella del gruppo editoriale Electa, dove l'intellettuale riprende con grande passione la sua attività editoriale che, comunque, aveva coltivato quasi ininterrottamente durante tutta la carriera.
Questa storia sarà al centro dell’incontro in programma mercoledì 30 ottobre, alle ore 19.00, al Funaro di Pistoia. L’occasione, ideata per i cento anni dalla nascita dell’intellettuale milanese (nato proprio nella giornata del 30 ottobre), è offerta dall’ospitalità del Fondo Paolo Grassi all’interno della biblioteca dell’ente teatrale toscano, inaugurata nel 2009. La donazione va ad arricchire un già cospicuo catalogo composto da una collezione di seimila volumi, il Fondo Andres Neumann, con circa settantacinquemila documenti che compongono l’archivio professionale del produttore, e la Biblioteca teatrale di Piero Palagi, formata da tremila titoli fra saggi, drammi, commedie, tragedie, satire, teatro di narrazione e non solo del bibliotecario della Nazionale di Firenze, grande appassionato di teatro, che, fino agli ultimi anni della sua vita, non ha smesso di raccogliere opere ad esso dedicate.
Per quanto riguarda la ricchissima biblioteca di Paolo Grassi va ricordato che questa fu divisa tra due diversi eredi dopo la sua morte. Una metà fu donata alla Biblioteca civica di Martina Franca, dove ora ha sede la Fondazione Paolo Grassi, l'altra metà è giunta alla Biblioteca San Giorgio nell'ambito della donazione di due appassionati bibliofili: Annapaola Campori Mettel e Paolo Mettel.
Il lascito è composto da circa quattromila volumi, che riguardano l'attività delle varie collane editoriali di cui Grassi è stato direttore e curatore (per Einaudi ed Electa, per citarne due) o gli allestimenti del Piccolo, accanto agli approfondimenti critici intorno a diversi argomenti e autori.
Gran parte dei testi, in italiano, francese, inglese, tedesco, riguardano il teatro nei suoi molteplici aspetti: dalla legislazione alla scenografia, dalle biografie degli attori alle storie delle varie drammaturgie.
Molti sono i volumi di letteratura italiana (con particolare riferimento al Novecento) e soprattutto di politica e storia contemporanea.
I libri, editi in un arco di tempo che va dalla fine del Settecento fino agli ultimi anni di vita di Grassi, perlopiù sono siglati o autografati dal possessore al frontespizio e molti sono quelli con dedica degli autori allo stesso Grassi (tra le altre quelle di Romolo Valli, Giorgio Strehler, Eduardo De Filippo e Bertolt Brecht).
Quasi sempre si tratta di edizioni originali o prime traduzioni italiane, in particolare, gran parte della drammaturgia tedesca di inizio secolo è in prima edizione originale.
Maria Stella Rasetti, direttrice della biblioteca San Giorgio, ha proposto di affidare l'ospitalità del Fondo Grassi alla Biblioteca del Funaro, anch'essa parte della Rete documentaria della Provincia di Pistoia e specializzata in testi di teatro, quindi particolarmente adatta ad accogliere i materiali. I libri sono in fase di catalogazione e quando verrà terminata sarà possibile consultarne le notizie bibliografiche sull'Opac della Rete bibliotecaria della Provincia di Pistoia e sarà insieme possibile la consultazione dei volumi al Funaro.
Un nuovo e prezioso tassello, dunque, va ad arricchire la proposta della realtà teatrale toscana, centro culturale che, con la sua sempre articolata e preziosa attività, che spazia dai corsi alle produzioni, dai workshop alle residenze artistiche, sembra poter dire, con le parole di Paolo Grassi, «il teatro è per me come l'acqua per i pesci. Il mio teatro è sempre stato un teatro vivo, con il sipario aperto, oppure un teatro semivivo, con il sipario aperto senza il pubblico, durante la prova, oppure anche un teatro apparentemente morto, senza nessuno in sala: sono stato tanto tempo in sala a gustare il silenzio sublime del teatro. Il teatro è un modo di amare le cose, il mondo, il nostro prossimo. Io non ho mai amato il teatro come fine a se stesso [...]. Attraverso il teatro io penso tutto il resto: io vedo la politica attraverso il teatro, vedo l'urbanistica [...]. Ho creduto e ho vissuto per il momento fragile, insostituibile, della comunicazione teatrale».
Informazioni utili
Il Funaro centro culturale, via del Funaro 16/18 – 51100 Pistoia, tel/fax 0573.977225, tel 0573.976853, e–mail: info@ilfunaro.org. Sito web: www.ilfunaro.org.
«L‘albergo dei poveri», del drammaturgo russo Maksim Gorkij, apre trionfalmente la prima stagione della sala. Orio Vergani, sulle pagine del «Corriere della Sera», scrive: « [...] folla da grandissime occasioni. Immaginate una grande prima della Scala condensata come in un dado da minestra. Pubblico succosissimo [...]».
Prende così il via un’avventura destinata a segnare la storia del teatro italiano e internazionale. A dieci anni dal debutto, il bilancio è tutto positivo, forte di settantatré spettacoli, oltre duemila repliche nella sede di via Rovello, più di quattrocento in Italia e circa duecento all’estero.
Quell’idea di fondare non un semplice teatro, ma un luogo votato «all’impegno sociale, alla coscienza etica, alla maturità civile» piace ai milanesi e non solo.
Il merito è anche di un cartellone vario e di elevata qualità, nel quale compaiono grandi opere internazionali, autori italiani, attori di grido del momento e, soprattutto, le opere di Giorgio Strehler.
Il 4 maggio 2007, in occasione dei sessant’anni dalla fondazione, Maurizio Porro, sempre sulle pagine del «Corriere della Sera», riassume in poche righe il segreto del successo: «Il Piccolo lascia una scia di memorie meravigliose, di titoli, di volti di attori (uno li vale tutti, tutti lo valgono, direbbe Sartre), di polemiche, di scandali politici (quando la Dc non voleva il «Galileo» di Brecht), anche di snobberie intellettuali... Alle prime c’era tutta l’intellighenzia illuminata alla milanese (magari ci incontrava Brecht) ma poi seguiva un pubblico vero, vivo, giovane e nuovo che imparava ad ascoltare Shakespeare, Goldoni, Pirandello, Brecht senza annoiarsi un attimo. E senza che Strehler abbia mai cambiato una battuta dei testi».
La storia del Piccolo alle origini è anche la storia di Paolo Grassi, che ne sarà direttore dal 1947 al 1972. L’intellettuale milanese ha appena ventotto anni quando dà avvio all’avventura di un nuovo teatro nella sede del vecchio cinema Broletto.
La sua passione per il palcoscenico si era manifestata da giovanissimo. A 18 anni era già attivo come critico, firmava la sua prima regia e iniziava un intenso percorso che lo avrebbe reso celebre come studioso e organizzatore, figura, quest’ultima, la cui invenzione come la conosciamo oggi si deve proprio all’intellettuale milanese.
Dopo l’esperienza del Piccolo, per Grassi verrà la sovrintendenza della Scala, che, con Massimo Bogiankino e Claudio Abbado, viene riportata a una dimensione di grande valore artistico e riconoscibilità. Sarà, poi, la volta della presidenza della Rai (dal 1976) e di quella del gruppo editoriale Electa, dove l'intellettuale riprende con grande passione la sua attività editoriale che, comunque, aveva coltivato quasi ininterrottamente durante tutta la carriera.
Questa storia sarà al centro dell’incontro in programma mercoledì 30 ottobre, alle ore 19.00, al Funaro di Pistoia. L’occasione, ideata per i cento anni dalla nascita dell’intellettuale milanese (nato proprio nella giornata del 30 ottobre), è offerta dall’ospitalità del Fondo Paolo Grassi all’interno della biblioteca dell’ente teatrale toscano, inaugurata nel 2009. La donazione va ad arricchire un già cospicuo catalogo composto da una collezione di seimila volumi, il Fondo Andres Neumann, con circa settantacinquemila documenti che compongono l’archivio professionale del produttore, e la Biblioteca teatrale di Piero Palagi, formata da tremila titoli fra saggi, drammi, commedie, tragedie, satire, teatro di narrazione e non solo del bibliotecario della Nazionale di Firenze, grande appassionato di teatro, che, fino agli ultimi anni della sua vita, non ha smesso di raccogliere opere ad esso dedicate.
Per quanto riguarda la ricchissima biblioteca di Paolo Grassi va ricordato che questa fu divisa tra due diversi eredi dopo la sua morte. Una metà fu donata alla Biblioteca civica di Martina Franca, dove ora ha sede la Fondazione Paolo Grassi, l'altra metà è giunta alla Biblioteca San Giorgio nell'ambito della donazione di due appassionati bibliofili: Annapaola Campori Mettel e Paolo Mettel.
Il lascito è composto da circa quattromila volumi, che riguardano l'attività delle varie collane editoriali di cui Grassi è stato direttore e curatore (per Einaudi ed Electa, per citarne due) o gli allestimenti del Piccolo, accanto agli approfondimenti critici intorno a diversi argomenti e autori.
Gran parte dei testi, in italiano, francese, inglese, tedesco, riguardano il teatro nei suoi molteplici aspetti: dalla legislazione alla scenografia, dalle biografie degli attori alle storie delle varie drammaturgie.
Molti sono i volumi di letteratura italiana (con particolare riferimento al Novecento) e soprattutto di politica e storia contemporanea.
I libri, editi in un arco di tempo che va dalla fine del Settecento fino agli ultimi anni di vita di Grassi, perlopiù sono siglati o autografati dal possessore al frontespizio e molti sono quelli con dedica degli autori allo stesso Grassi (tra le altre quelle di Romolo Valli, Giorgio Strehler, Eduardo De Filippo e Bertolt Brecht).
Quasi sempre si tratta di edizioni originali o prime traduzioni italiane, in particolare, gran parte della drammaturgia tedesca di inizio secolo è in prima edizione originale.
Maria Stella Rasetti, direttrice della biblioteca San Giorgio, ha proposto di affidare l'ospitalità del Fondo Grassi alla Biblioteca del Funaro, anch'essa parte della Rete documentaria della Provincia di Pistoia e specializzata in testi di teatro, quindi particolarmente adatta ad accogliere i materiali. I libri sono in fase di catalogazione e quando verrà terminata sarà possibile consultarne le notizie bibliografiche sull'Opac della Rete bibliotecaria della Provincia di Pistoia e sarà insieme possibile la consultazione dei volumi al Funaro.
Un nuovo e prezioso tassello, dunque, va ad arricchire la proposta della realtà teatrale toscana, centro culturale che, con la sua sempre articolata e preziosa attività, che spazia dai corsi alle produzioni, dai workshop alle residenze artistiche, sembra poter dire, con le parole di Paolo Grassi, «il teatro è per me come l'acqua per i pesci. Il mio teatro è sempre stato un teatro vivo, con il sipario aperto, oppure un teatro semivivo, con il sipario aperto senza il pubblico, durante la prova, oppure anche un teatro apparentemente morto, senza nessuno in sala: sono stato tanto tempo in sala a gustare il silenzio sublime del teatro. Il teatro è un modo di amare le cose, il mondo, il nostro prossimo. Io non ho mai amato il teatro come fine a se stesso [...]. Attraverso il teatro io penso tutto il resto: io vedo la politica attraverso il teatro, vedo l'urbanistica [...]. Ho creduto e ho vissuto per il momento fragile, insostituibile, della comunicazione teatrale».
Informazioni utili
Il Funaro centro culturale, via del Funaro 16/18 – 51100 Pistoia, tel/fax 0573.977225, tel 0573.976853, e–mail: info@ilfunaro.org. Sito web: www.ilfunaro.org.
lunedì 28 ottobre 2019
«Elogio dei fiori finti», Bertozzi & Casoni rileggono Giorgio Morandi
È stato il pittore delle silenziose quotidianità e nella sua casa bolognese di via Fondazza, lontano dai grandi circuiti dell’arte, ha creato un proprio personale linguaggio figurativo, semplice e nello stesso tempo fortemente simbolico. Brocche, bottiglie, vasi, fiori e recipienti sono stati i suoi modelli, raffigurati quasi fino all'ossessione.
Quello stile dai ridotti accordi cromatici, dalle forme elegantemente geometriche e dall'atmosfera contemplativa è capace, con la sua poesia, di parlare ancora oggi agli artisti, che ne hanno fatto propria la visione e l’hanno restituita attraverso differenti linguaggi.
Giorgio Morandi è così diventato un modello con cui confrontarsi. Lo hanno dimostrato, negli anni, le mostre bolognesi di Alexandre Hollan, Wayne Thiebaud, Tacita Dean, Rachel Whiteread, Brigitte March Niedermair, Joel Meyerowitz e Catherine Wagner.
Ora il Museo Morandi prosegue il percorso di valorizzazione della propria collezione invitando il duo artistico Bertozzi & Casoni, formato da Giampaolo Bertozzi (Borgo Ossignano, 1957) e da Stefano Dal Monte Casoni (Lugo di Romagna, 1961), a confrontarsi con la lezione del pittore bolognese.
Il risultato è la mostra «Elogio dei fiori finti», focus espositivo, visibile fino al prossimo 6 gennaio, che filtra la lezione del pittore bolognese attraverso il linguaggio della ceramica.
L’attenzione dei due artisti si è rivolta ad alcuni celebri dipinti morandiani, presenti in via Fondazza, che raffigurano vasi di fiori.
Morandi guardava preferibilmente non al fiore fresco, caduco e destinato a modificarsi giorno dopo giorno (e, quindi, a creare varianti indipendenti dalla sua volontà), ma al fiore di seta o a quello essiccato che mantiene il suo stato inalterato e, al pari degli altri oggetti, raccoglie la polvere, creando effetti tonali per nulla sgraditi e forse volutamente ricercati.
Bertozzi & Casoni interessati da sempre al tema floreale, sembrano, invece, voler concedere nuova vita a quelle rose che hanno scelto di realizzare a gambo volutamente lungo, sulle cui foglie si aggirano presenze insettiformi dalla colorazione cangiante.
Nei tre lavori proposti in mostra assistiamo a una rivisitazione attenta e personale da cui nascono veri e propri «d’aprés Morandi» dopo quelli celeberrimi, firmati Gio Ponti, che più di settant’anni fa riproponevano bottiglie trafitte, ingioiellate, mascherate e addirittura abbottonate.
I fiori di Bertozzi & Casoni sono, infatti, diversi da quelli di Giorgio Morandi, che, ricordava Cesare Brandi, «tagliava le sue rose sotto il bocciolo e le disponeva sull’orlo del vaso, fitte come un bouquet da sposa».
Informazioni utili
«Elogio dei fiori finti. Bertozzi & Casoni». Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari di apertura: martedì, mercoledì, venerdì, sabato, domenica e festivi, ore 10.00 – 18.30; giovedì, ore 10.00 – 22.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 051.6496611, info@mambo-bologna.it. Sito web: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Fino al 6 gennaio 2020.
Quello stile dai ridotti accordi cromatici, dalle forme elegantemente geometriche e dall'atmosfera contemplativa è capace, con la sua poesia, di parlare ancora oggi agli artisti, che ne hanno fatto propria la visione e l’hanno restituita attraverso differenti linguaggi.
Giorgio Morandi è così diventato un modello con cui confrontarsi. Lo hanno dimostrato, negli anni, le mostre bolognesi di Alexandre Hollan, Wayne Thiebaud, Tacita Dean, Rachel Whiteread, Brigitte March Niedermair, Joel Meyerowitz e Catherine Wagner.
Ora il Museo Morandi prosegue il percorso di valorizzazione della propria collezione invitando il duo artistico Bertozzi & Casoni, formato da Giampaolo Bertozzi (Borgo Ossignano, 1957) e da Stefano Dal Monte Casoni (Lugo di Romagna, 1961), a confrontarsi con la lezione del pittore bolognese.
Il risultato è la mostra «Elogio dei fiori finti», focus espositivo, visibile fino al prossimo 6 gennaio, che filtra la lezione del pittore bolognese attraverso il linguaggio della ceramica.
L’attenzione dei due artisti si è rivolta ad alcuni celebri dipinti morandiani, presenti in via Fondazza, che raffigurano vasi di fiori.
Morandi guardava preferibilmente non al fiore fresco, caduco e destinato a modificarsi giorno dopo giorno (e, quindi, a creare varianti indipendenti dalla sua volontà), ma al fiore di seta o a quello essiccato che mantiene il suo stato inalterato e, al pari degli altri oggetti, raccoglie la polvere, creando effetti tonali per nulla sgraditi e forse volutamente ricercati.
Bertozzi & Casoni interessati da sempre al tema floreale, sembrano, invece, voler concedere nuova vita a quelle rose che hanno scelto di realizzare a gambo volutamente lungo, sulle cui foglie si aggirano presenze insettiformi dalla colorazione cangiante.
Nei tre lavori proposti in mostra assistiamo a una rivisitazione attenta e personale da cui nascono veri e propri «d’aprés Morandi» dopo quelli celeberrimi, firmati Gio Ponti, che più di settant’anni fa riproponevano bottiglie trafitte, ingioiellate, mascherate e addirittura abbottonate.
I fiori di Bertozzi & Casoni sono, infatti, diversi da quelli di Giorgio Morandi, che, ricordava Cesare Brandi, «tagliava le sue rose sotto il bocciolo e le disponeva sull’orlo del vaso, fitte come un bouquet da sposa».
Informazioni utili
«Elogio dei fiori finti. Bertozzi & Casoni». Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari di apertura: martedì, mercoledì, venerdì, sabato, domenica e festivi, ore 10.00 – 18.30; giovedì, ore 10.00 – 22.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 051.6496611, info@mambo-bologna.it. Sito web: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Fino al 6 gennaio 2020.
venerdì 25 ottobre 2019
«Pittura di luce», Burano e il suo cenacolo di artisti
«Alla sera, per consolarci e consultarci in privato, salpavamo su una flottiglietta di sandoli verso Burano beata, e colà, sotto una pergola amicissima, nel crepuscolo incantato […] finivamo di demolire del tutto l’arte decrepita, la critica orba, la ciurma dei bottegai e dei borghesi senza testa e senza cuore […]». Sono le parole pronunciate nel 1948 da Nino Barbantini (Ferrara, 5 luglio 1884 – Ferrara, 17 dicembre 1952), primo direttore di Ca’ Pesaro, culla per la pittura italiana e veneziana delle Avanguardie, la migliore introduzione alla mostra «Pittura di Luce», allestita negli spazi del Museo civico del Merletto di Burano, per la curatela di Chiara Squarcina ed Elisabetta Barisoni.
La grande tradizione della pittura buranella dei primi decenni del Novecento, ancora sconosciuta ai più, rivive attraverso un selezionato numero di opere, tutte provenienti dalla collezione dei Musei civici di Venezia ed espressione di quell’«Avanguardia capesarina» che, tra il 1908 e il 1920, trovò nel palazzo progettato dall’architetto Baldassare Longhena sul Canal Grande, trasformato in galleria d’arte per volere della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, una «palestra intellettuale» nella quale esercitarsi e confrontare il proprio linguaggio con quello di tanti altri giovani artisti.
Nasce così il cenacolo di Burano, la cui storia -raccontava, sempre nel 1948, Nino Barbantini- sembra quella di una grande «famiglia», nella quale «tutti» erano «legati a doppio filo da una passione tale per l’arte, da una fede tale nella vita […], che quando si ripensa, tra i conti d’oggi, alla rarità delle vendite e ai prezzi d’allora, vien da supporre che di quella passione e di quella fede i più dei nostri campassero».
Come tutte le storie che hanno il sapore delle favole il «c’era una volta» ha una data ben precisa. Tutto inizia nel 1909 con l’incontro tra Gino Rossi (Venezia, 1884 ‒ Treviso, 1947) e Umberto Moggioli (Trento, 1886 – Roma, 26 gennaio 1919), che si ritrovano a vivere uno accanto all’altro sull’isola di Burano. Il primo è attento all'arte che si produce Parigi e frequenta la Bretagna, dove sta prendendo forma la scuola di Pont-Aven con Paul Gaugin e il suo gruppo. Il secondo è arrivato in laguna dalla natìa Trento per frequentare l'Accademia di belle arti e, innamoratosi dell’isola, ha deciso di prendere casa lì, in quell’angolo di laguna in cui i toni terrosi del paesaggio incontrano l’azzurro del cielo e del mare.
Tre anni dopo, nel 1912, Burano diventa anche la casa del mantovano Pio Semeghini (Quistello, 31 gennaio 1878 – Verona, 11 marzo 1964), di ritorno da Parigi dove è andato alla scoperta della pittura impressionista e post-impressionista, studiando, tra gli altri, Cezanne, Matisse e Bonnard.
Le case dai mille colori, le pallide fanciulle chine sul tombolo, i rudi pescatori di laguna con gli occhi bruciati dal sale, le donne che stendono il bucato nei campielli, la terra sospesa tra l’acqua e il cielo sono gli scenari che si offrono agli occhi di questi tre pittori e dei loro amici. Tutto sembra appartenere a un tempo fuori dalla storia, di cui fissare sulla tela luce e colori.
Sull’isola nasce una sorta di Pont- Aven lagunare, dove gli intatti paesaggi buranelli, con la loro condizione di quiete esistenziale, ideale per far riposare l’animo e i pensieri, vengono dipinti en plein air.
Nel frattempo, in quello scorcio di primo Novecento, Venezia vede nascere, sotto l’abile e propositiva regìa del giovane critico Nino Barbantini, una specie di contro-Biennale, nella quale sono esposte le opere di artisti che presentano una visione antiaccademica e antitetica rispetto alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini. Arturo Martini, Gino Rossi, Guido Cadorin, Pio Semeghini, Felice Casorati, Vittorio Zecchin, Umberto Moggioli, Teodoro Wolf Ferrari sono alcuni dei nomi di quelli che la critica battezza come «i ribelli di Ca’ Pesaro».
La fine di questa prima stagione arriva con lo scoppio, nel 1914, della Prima guerra mondiale e con la prematura scomparsa, nel 1919, di Moggioli.
La storia della pittura e dei pittori a Burano continua, però, per buona parte del Novecento, sempre a fianco dell'avventura di Ca' Pesaro. Il trevisano Nino Springolo (Treviso 1886-1975), con la sua cifra stilistica di impronta divisionista, e il veneziano Fioravante Seibezzi (1906-1975), per il quale il critico Ivo Prandin parla di «ripresa del vedutismo canalettiano», chiudono questa seconda stagione della scuola buranella. Una scuola che sembra aver fatto proprio il consiglio che il pittore Ponga diede proprio a Fioravante Seibezzi, agli inizi della carriera: «è tutto qui: copiare dal vero, aver fede, perseverare nel lavoro, non credere mai perfetto ciò che riesce facile. E soprattutto, lasciarsi guidare dall'istinto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Pio Semeghini, La casa incantata; [fig. 2] Pio Semeghini, Paesaggio lagunare; [fig. 3] Umberto Moggioli, La casa dell'artista; [fig. 4] Umberto Moggioli, Piccolo paesaggio di Burano
Informazioni utili
Pittura di luce. Burano e i suoi pittori. Museo del Merletto, piazza Galuppi, 187 – Burano. Orari: fino al 31 ottobre, dalle ore 10.30 alle ore 17.00 (la biglietteria chiude alle ore 16.30); dal 1° novembre al 31 marzo, dalle ore 10.30 alle ore 16.30 (la biglietteria chiude alle ore 16.00); chiuso il lunedì, il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,50 (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card. Offerta Famiglie: biglietto ridotto per tutti i componenti, per famiglie composte da due adulti e almeno un ragazzo); gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; altre categorie aventi diritto per legge. Sito internet: www.museomerletto.visitmuve.it. Fino all’8 gennaio 2020.
La grande tradizione della pittura buranella dei primi decenni del Novecento, ancora sconosciuta ai più, rivive attraverso un selezionato numero di opere, tutte provenienti dalla collezione dei Musei civici di Venezia ed espressione di quell’«Avanguardia capesarina» che, tra il 1908 e il 1920, trovò nel palazzo progettato dall’architetto Baldassare Longhena sul Canal Grande, trasformato in galleria d’arte per volere della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, una «palestra intellettuale» nella quale esercitarsi e confrontare il proprio linguaggio con quello di tanti altri giovani artisti.
Nasce così il cenacolo di Burano, la cui storia -raccontava, sempre nel 1948, Nino Barbantini- sembra quella di una grande «famiglia», nella quale «tutti» erano «legati a doppio filo da una passione tale per l’arte, da una fede tale nella vita […], che quando si ripensa, tra i conti d’oggi, alla rarità delle vendite e ai prezzi d’allora, vien da supporre che di quella passione e di quella fede i più dei nostri campassero».
Come tutte le storie che hanno il sapore delle favole il «c’era una volta» ha una data ben precisa. Tutto inizia nel 1909 con l’incontro tra Gino Rossi (Venezia, 1884 ‒ Treviso, 1947) e Umberto Moggioli (Trento, 1886 – Roma, 26 gennaio 1919), che si ritrovano a vivere uno accanto all’altro sull’isola di Burano. Il primo è attento all'arte che si produce Parigi e frequenta la Bretagna, dove sta prendendo forma la scuola di Pont-Aven con Paul Gaugin e il suo gruppo. Il secondo è arrivato in laguna dalla natìa Trento per frequentare l'Accademia di belle arti e, innamoratosi dell’isola, ha deciso di prendere casa lì, in quell’angolo di laguna in cui i toni terrosi del paesaggio incontrano l’azzurro del cielo e del mare.
Tre anni dopo, nel 1912, Burano diventa anche la casa del mantovano Pio Semeghini (Quistello, 31 gennaio 1878 – Verona, 11 marzo 1964), di ritorno da Parigi dove è andato alla scoperta della pittura impressionista e post-impressionista, studiando, tra gli altri, Cezanne, Matisse e Bonnard.
Le case dai mille colori, le pallide fanciulle chine sul tombolo, i rudi pescatori di laguna con gli occhi bruciati dal sale, le donne che stendono il bucato nei campielli, la terra sospesa tra l’acqua e il cielo sono gli scenari che si offrono agli occhi di questi tre pittori e dei loro amici. Tutto sembra appartenere a un tempo fuori dalla storia, di cui fissare sulla tela luce e colori.
Sull’isola nasce una sorta di Pont- Aven lagunare, dove gli intatti paesaggi buranelli, con la loro condizione di quiete esistenziale, ideale per far riposare l’animo e i pensieri, vengono dipinti en plein air.
Nel frattempo, in quello scorcio di primo Novecento, Venezia vede nascere, sotto l’abile e propositiva regìa del giovane critico Nino Barbantini, una specie di contro-Biennale, nella quale sono esposte le opere di artisti che presentano una visione antiaccademica e antitetica rispetto alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini. Arturo Martini, Gino Rossi, Guido Cadorin, Pio Semeghini, Felice Casorati, Vittorio Zecchin, Umberto Moggioli, Teodoro Wolf Ferrari sono alcuni dei nomi di quelli che la critica battezza come «i ribelli di Ca’ Pesaro».
La fine di questa prima stagione arriva con lo scoppio, nel 1914, della Prima guerra mondiale e con la prematura scomparsa, nel 1919, di Moggioli.
La storia della pittura e dei pittori a Burano continua, però, per buona parte del Novecento, sempre a fianco dell'avventura di Ca' Pesaro. Il trevisano Nino Springolo (Treviso 1886-1975), con la sua cifra stilistica di impronta divisionista, e il veneziano Fioravante Seibezzi (1906-1975), per il quale il critico Ivo Prandin parla di «ripresa del vedutismo canalettiano», chiudono questa seconda stagione della scuola buranella. Una scuola che sembra aver fatto proprio il consiglio che il pittore Ponga diede proprio a Fioravante Seibezzi, agli inizi della carriera: «è tutto qui: copiare dal vero, aver fede, perseverare nel lavoro, non credere mai perfetto ciò che riesce facile. E soprattutto, lasciarsi guidare dall'istinto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Pio Semeghini, La casa incantata; [fig. 2] Pio Semeghini, Paesaggio lagunare; [fig. 3] Umberto Moggioli, La casa dell'artista; [fig. 4] Umberto Moggioli, Piccolo paesaggio di Burano
Informazioni utili
Pittura di luce. Burano e i suoi pittori. Museo del Merletto, piazza Galuppi, 187 – Burano. Orari: fino al 31 ottobre, dalle ore 10.30 alle ore 17.00 (la biglietteria chiude alle ore 16.30); dal 1° novembre al 31 marzo, dalle ore 10.30 alle ore 16.30 (la biglietteria chiude alle ore 16.00); chiuso il lunedì, il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,50 (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card. Offerta Famiglie: biglietto ridotto per tutti i componenti, per famiglie composte da due adulti e almeno un ragazzo); gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; altre categorie aventi diritto per legge. Sito internet: www.museomerletto.visitmuve.it. Fino all’8 gennaio 2020.
giovedì 24 ottobre 2019
«Tracing Vitruvio», il «De Architectura» incontra il linguaggio pop di Agostino Iacurci
È uno stile inconfondibile, fatto di forme sintetiche e ampie campiture di colori brillanti, quello di Agostino Iacurci (Foggia, 1986), street artist pugliese, di stanza a Berlino, che ha portato i suoi monumentali dipinti murali in tante città del mondo, da Mosca a Nuova Delhi, e che ha prestato il suo talento anche al mondo del teatro, firmando le scenografie per lo spettacolo «Madame Pink» di Alfredo Arias, presentato al teatro Argentina nel 2017 e al théâtre du Rond Point di Parigi nel 2019.
Suggestioni teatrali si respirano anche nel suo ultimo lavoro in mostra ai musei civici di Pesaro, per la curatela di Marcello Smarrelli e la consulenza scientifica di Brunella Paolini. Si tratta di un viaggio onirico tra le pagine del «De Architectura» di Marco Vitruvio Pollione (80 a.C.- 15 a.C. circa), celebre architetto e scrittore romano attivo nella seconda metà del I sec. a.C., considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Il suo trattato, suddiviso in dieci tomi, offre un quadro generale delle conoscenze tecniche e pratiche collegate alla costruzione che lo studioso aveva acquisito dopo una vita intera di attività professionale.
Nel primo libro, dopo aver proposto la definizione dell’architettura, si descrivono le doti dell’architetto che deve avere competenze tecniche e una cultura enciclopedica; vi sono anche accenni all’urbanistica.
Nei libri successivi si affrontano diverse tematiche collegate alla costruzione degli edifici, iniziando dal libro secondo nel quale si presenta la storia dell’edilizia e si illustrano le tecniche e i materiali utilizzati.
Si passa, poi, alla trattazione della costruzione dei templi in cui predomina l’ordine ionico, nel libro terzo, per illustrare, in quello successivo, gli altri ordini e stili di realizzazione degli edifici sacri.
Nel quinto libro si descrivono, invece, edifici pubblici quali la basilica, il carcere, i bagni e le palestre.
I libri successivi, il sesto e il settimo, sono dedicati all’edilizia privata, della quale si specificano l’uso degli spazi, l’orientamento, le misure e, poi, le decorazioni interne e le rifiniture. Gli ultimi tre libri, probabilmente scritti in epoca successiva ai precedenti, sono, infine, dedicati a riflessioni su temi di carattere più generale quali l’idraulica, l’astronomia, l’astrologia e gli orologi solari, la meccanica civile e militare.
Agostino Iacurci ha guardato a questo lavoro e ha pensato a un progetto site specific, intitolato «Tracing Vitruvio», per Palazzo Mosca, edificio nel cuore della città marchigiana, dove è esposto un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano, vera e propria summa di tutta la pittura sacra del XV secolo, quale l'«Incoronazione della Vergine» di Giovanni Bellini.
Il percorso si snoda partendo dal cortile, con monumentali istallazioni ispirate alle architetture vitruviane, accompagnate da una traccia sonora composta per l’occasione dal gruppo «Tuktu and the Belugas Quartet».
La mostra, realizzata grazie alla collaborazione della M77 Gallery di Milano, prosegue, quindi, all’interno del museo seguendo due fili conduttori.
Il primo, più tradizionale e squisitamente filologico, intende analizzare la fortuna critica ed editoriale del testo vitruviano, risalente al I sec. a.C. e ampiamente diffuso nel Rinascimento, grazie all’introduzione della stampa.
Questo successo è puntualmente documentato dalle raccolte della Biblioteca Oliveriana, che annoverano numerose edizioni del «De Architectura», alcune molto rare e preziose. Dieci di queste, accuratamente selezionate, sono riunite ai musei civici e presentate in ordine cronologico, aperte ognuna su uno dei dieci libri di cui l’opera è composta, in modo da poterne avere una panoramica completa e analizzarne più approfonditamente i contenuti.
L’altro percorso, più libero e visionario, è espressione della cifra stilistica di Agostino Iacurci, la cui ricerca attuale è molto vicina ai temi dell’antico e allo studio sull’uso del colore nell’architettura e nelle arti plastiche di età classica.
Per accompagnare la presentazione dei volumi del «De Architectura», l’artista ha realizzato un percorso in cui le forme e le creazioni vitruviane sono ridisegnate utilizzando il suo linguaggio pittorico caleidoscopico e surreale.
Cariatidi, capitelli, colonne, templi, sembrano rianimarsi, rivitalizzati dall’uso di cromie forti e brillanti, liberando l’antichità classica dall’etereo candore e dall’aura di olimpico equilibrio che il Neoclassicismo ci ha tramandato. L’artista ci restituisce così l’immagine di un’architettura nata da un popolo mediterraneo, fortemente legata al colore, alla luce, sempre in costante tensione tra l’apollineo e il dionisiaco, tra ragione e sentimento.
L’intervento di Iacurci si pone come un ulteriore commentario per immagini ai volumi, in dialogo con le edizioni e con gli artisti del passato che, attraverso la tecnica dell’incisione, si erano impegnati ad illustrare gli scritti di Vitruvio, spesso con risultati estetici di altissimo livello. L’artista ne fornisce una nuova e originale interpretazione attraverso il suo sguardo contemporaneo, intelligente e ironico, con una componente fortemente onirica. Il risultato è quasi un sogno a occhi aperti, una sorta di moderna «Hypnerotomachia Poliphili», il celebre romanzo allegorico attribuito a Francesco Colonna, corredato da centosessantanove illustrazioni xilografiche, che costituisce una delle fonti iconografiche più celebri e utilizzate nel Rinascimento, di cui è esposta la magnifica edizione di Aldo Manuzio (Venezia, 1499).
Una mostra innovativa e dal carattere sperimentale, dunque, quella a Palazzo Mosca, ulteriore testimonianza di come la cultura classica possa rappresentare sempre una fonte d’ispirazione di primaria importanza per un artista contemporaneo e di come Pesaro, con il suo ricco patrimonio, sia un perfetto laboratorio culturale.
Didascalie delle immagini
[Figg. dalla 1 alla 6] Allestimento della mostra «Tracing Vitruvio». Foto di Michele Angelucci;[fig. 7] Installazione per la mostra «Tracing Vitruvio» all'esterno di Palazzo Mosca. Foto di Palmieri
Informazioni utili «Agostino Iacurci. Tracing Vitruvio. Viaggio onirico tra le pagine del De Architectura». Palazzo Mosca – Musei Civici, viale Mosca, 29 – Pesaro. Orari: da martedì a giovedì, ore 10.00-13.00, da venerdì a domenica e festivi, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-18.30. Ingresso con Biglietto unico Pesaro Musei (vale 15 giorni e consente l’accesso a Consente l’accesso a Palazzo Mosca – Musei Civici, Museo Nazionale Rossini, Casa Rossini, Domus – Area archeologica di via dell’Abbondanza, Area archeologica e Aantiquarium di Colombarone, Centro Arti Visive Pescheria): intero € 13,00, ridotto (ruppi min. 15 persone, Possessori di tessera FAI, TOURING CLUB ITALIANO, COOP Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Nordest, Estense, ISIC, ITIC, IYTC Card, Studenti universitari, Amici del Rof) € 11, ridotto speciale (possessori di Card Pesaro Cult, Gruppi accompagnati da guida turistica della Provincia di Pesaro- Urbino), gratuito per minori di 19 anni, soci ICOM, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e persona che li accompagna, possessori di Carta Famiglia del Comune di Pesaro. Informazioni: pesaro@sistemamuseo.it | tel. 0721.387541. Fino al 24 novembre 2019
Suggestioni teatrali si respirano anche nel suo ultimo lavoro in mostra ai musei civici di Pesaro, per la curatela di Marcello Smarrelli e la consulenza scientifica di Brunella Paolini. Si tratta di un viaggio onirico tra le pagine del «De Architectura» di Marco Vitruvio Pollione (80 a.C.- 15 a.C. circa), celebre architetto e scrittore romano attivo nella seconda metà del I sec. a.C., considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Il suo trattato, suddiviso in dieci tomi, offre un quadro generale delle conoscenze tecniche e pratiche collegate alla costruzione che lo studioso aveva acquisito dopo una vita intera di attività professionale.
Nel primo libro, dopo aver proposto la definizione dell’architettura, si descrivono le doti dell’architetto che deve avere competenze tecniche e una cultura enciclopedica; vi sono anche accenni all’urbanistica.
Nei libri successivi si affrontano diverse tematiche collegate alla costruzione degli edifici, iniziando dal libro secondo nel quale si presenta la storia dell’edilizia e si illustrano le tecniche e i materiali utilizzati.
Si passa, poi, alla trattazione della costruzione dei templi in cui predomina l’ordine ionico, nel libro terzo, per illustrare, in quello successivo, gli altri ordini e stili di realizzazione degli edifici sacri.
Nel quinto libro si descrivono, invece, edifici pubblici quali la basilica, il carcere, i bagni e le palestre.
I libri successivi, il sesto e il settimo, sono dedicati all’edilizia privata, della quale si specificano l’uso degli spazi, l’orientamento, le misure e, poi, le decorazioni interne e le rifiniture. Gli ultimi tre libri, probabilmente scritti in epoca successiva ai precedenti, sono, infine, dedicati a riflessioni su temi di carattere più generale quali l’idraulica, l’astronomia, l’astrologia e gli orologi solari, la meccanica civile e militare.
Agostino Iacurci ha guardato a questo lavoro e ha pensato a un progetto site specific, intitolato «Tracing Vitruvio», per Palazzo Mosca, edificio nel cuore della città marchigiana, dove è esposto un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano, vera e propria summa di tutta la pittura sacra del XV secolo, quale l'«Incoronazione della Vergine» di Giovanni Bellini.
Il percorso si snoda partendo dal cortile, con monumentali istallazioni ispirate alle architetture vitruviane, accompagnate da una traccia sonora composta per l’occasione dal gruppo «Tuktu and the Belugas Quartet».
La mostra, realizzata grazie alla collaborazione della M77 Gallery di Milano, prosegue, quindi, all’interno del museo seguendo due fili conduttori.
Il primo, più tradizionale e squisitamente filologico, intende analizzare la fortuna critica ed editoriale del testo vitruviano, risalente al I sec. a.C. e ampiamente diffuso nel Rinascimento, grazie all’introduzione della stampa.
Questo successo è puntualmente documentato dalle raccolte della Biblioteca Oliveriana, che annoverano numerose edizioni del «De Architectura», alcune molto rare e preziose. Dieci di queste, accuratamente selezionate, sono riunite ai musei civici e presentate in ordine cronologico, aperte ognuna su uno dei dieci libri di cui l’opera è composta, in modo da poterne avere una panoramica completa e analizzarne più approfonditamente i contenuti.
L’altro percorso, più libero e visionario, è espressione della cifra stilistica di Agostino Iacurci, la cui ricerca attuale è molto vicina ai temi dell’antico e allo studio sull’uso del colore nell’architettura e nelle arti plastiche di età classica.
Per accompagnare la presentazione dei volumi del «De Architectura», l’artista ha realizzato un percorso in cui le forme e le creazioni vitruviane sono ridisegnate utilizzando il suo linguaggio pittorico caleidoscopico e surreale.
Cariatidi, capitelli, colonne, templi, sembrano rianimarsi, rivitalizzati dall’uso di cromie forti e brillanti, liberando l’antichità classica dall’etereo candore e dall’aura di olimpico equilibrio che il Neoclassicismo ci ha tramandato. L’artista ci restituisce così l’immagine di un’architettura nata da un popolo mediterraneo, fortemente legata al colore, alla luce, sempre in costante tensione tra l’apollineo e il dionisiaco, tra ragione e sentimento.
L’intervento di Iacurci si pone come un ulteriore commentario per immagini ai volumi, in dialogo con le edizioni e con gli artisti del passato che, attraverso la tecnica dell’incisione, si erano impegnati ad illustrare gli scritti di Vitruvio, spesso con risultati estetici di altissimo livello. L’artista ne fornisce una nuova e originale interpretazione attraverso il suo sguardo contemporaneo, intelligente e ironico, con una componente fortemente onirica. Il risultato è quasi un sogno a occhi aperti, una sorta di moderna «Hypnerotomachia Poliphili», il celebre romanzo allegorico attribuito a Francesco Colonna, corredato da centosessantanove illustrazioni xilografiche, che costituisce una delle fonti iconografiche più celebri e utilizzate nel Rinascimento, di cui è esposta la magnifica edizione di Aldo Manuzio (Venezia, 1499).
Una mostra innovativa e dal carattere sperimentale, dunque, quella a Palazzo Mosca, ulteriore testimonianza di come la cultura classica possa rappresentare sempre una fonte d’ispirazione di primaria importanza per un artista contemporaneo e di come Pesaro, con il suo ricco patrimonio, sia un perfetto laboratorio culturale.
Didascalie delle immagini
[Figg. dalla 1 alla 6] Allestimento della mostra «Tracing Vitruvio». Foto di Michele Angelucci;[fig. 7] Installazione per la mostra «Tracing Vitruvio» all'esterno di Palazzo Mosca. Foto di Palmieri
Informazioni utili «Agostino Iacurci. Tracing Vitruvio. Viaggio onirico tra le pagine del De Architectura». Palazzo Mosca – Musei Civici, viale Mosca, 29 – Pesaro. Orari: da martedì a giovedì, ore 10.00-13.00, da venerdì a domenica e festivi, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-18.30. Ingresso con Biglietto unico Pesaro Musei (vale 15 giorni e consente l’accesso a Consente l’accesso a Palazzo Mosca – Musei Civici, Museo Nazionale Rossini, Casa Rossini, Domus – Area archeologica di via dell’Abbondanza, Area archeologica e Aantiquarium di Colombarone, Centro Arti Visive Pescheria): intero € 13,00, ridotto (ruppi min. 15 persone, Possessori di tessera FAI, TOURING CLUB ITALIANO, COOP Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Nordest, Estense, ISIC, ITIC, IYTC Card, Studenti universitari, Amici del Rof) € 11, ridotto speciale (possessori di Card Pesaro Cult, Gruppi accompagnati da guida turistica della Provincia di Pesaro- Urbino), gratuito per minori di 19 anni, soci ICOM, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e persona che li accompagna, possessori di Carta Famiglia del Comune di Pesaro. Informazioni: pesaro@sistemamuseo.it | tel. 0721.387541. Fino al 24 novembre 2019
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