ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 2 ottobre 2020

Rimini ha un nuovo museo. In mostra al Part la collezione d’arte della Fondazione San Patrignano

È un raffinato incontro tra antico e moderno quello che offre il Part, il nuovo sito museale di Rimini nato dalla riqualificazione di due edifici storici della città, il duecentesco Palazzo dell’Arengo e il trecentesco Palazzo del Podestà, che accoglie al proprio interno la collezione d’arte contemporanea della Fondazione San Patrignano.
Affacciato sulla centralissima piazza Cavour – arena del potere cittadino e cuore della vita sociale riminese con l'appena riqualificato teatro Amintore Galli, Palazzo Garampi (sede centrale della Municipalità) e l’antica Pescheria settecentesca- il nuovo museo è stato restaurato dallo studio milanese AR.CH.IT, guidato da Luca Cipelletti.
Il progetto di recupero architettonico e artistico ha bandito ogni falso storico per riportare alla luce volumi ed elementi medioevali, dalle grandi e luminose polifore ai soffitti lignei a capriate, senza dimenticare i pregevoli affreschi a parete, dalla suggestiva decorazione floreale, di epoca tardo ottocentesca e ormai storicizzati.
Al Medioevo risale anche il monumentale dipinto del «Giudizio Universale», attribuito a Giovanni da Rimini e considerato una delle più pregevoli testimonianze del Trecento riminese e della vitalità culturale della famiglia Malatesta, ora esposto in diagonale nella Sala dell’Arengo, con un basamento dello stesso materiale del parquet in rovere.
L’opera, di proprietà della Diocesi, ha una storia da romanzo. Con ogni probabilità fu realizzata tra il 1315 e il 1318 per la chiesa di Sant’Agostino, dove rimase visibile fino al 1719, quando in seguito a un restauro fu coperta da una pesante controsoffittatura. Solo nel 1916, a causa del terremoto che sconvolse la città romagnola, il «Giudizio Universale» riaffiorò sotto gli intonaci settecenteschi della chiesa. Gaetano Nave ne curò il distacco, il restauro, il riposizionamento su tela e la collocazione nella Sala dell’Arengo, dove il dipinto rimase quasi ininterrottamente dal 1926 al 1985, ‘vegliando’ sulle sedute del Consiglio comunale, per poi trovare parziale collocazione, nel 1991, nell’allestimento dell’allora nuovo Museo della Città di Rimini.
In questi spazi l’opera ritornerà tra circa diciotto mesi all’interno di un inedito percorso specificatamente dedicato alla pittura riminese del Trecento, con focus tematici e postazioni interattive e multimediali.
Vale, inoltre, la pena ricordare che il dipinto riminese incrociò anche la vicenda umana dello storico e filologo Augusto Campana, professore universitario di paleografia e diplomatica a Urbino e, poi, di letteratura umanistica e filologia medievale a Roma. Fu lui, nel 1944, a far trasportare temporaneamente l’opera alla Biblioteca Gambalunga di Rimini, «salvandola -raccontano nella città romagnola- da una sicura distruzione a seguito dell’utilizzo da parte delle truppe di occupazione, in tempi di guerra, di ogni tipo di materiale combustibile per riscaldarsi». È, dunque, anche grazie all’amore per il passato dello studioso di Santarcangelo -un vero e proprio «monument man» per la Romagna, insieme al bibliotecario Carlo Lucchesi- se ancora oggi possiamo ammirare la bellezza di questo dipinto «dominato -si legge nella scheda di presentazione- dalla teoria di apostoli che, ieratici, affiancano, con le loro plastiche figure, il Cristo, mentre dall'alto vibranti angeli in volo recano palme e corone agli eletti o cacciano all'inferno, armati di lance e scudi, i dannati».
All’interno di questo suggestivo contesto -interessato da un primo intervento di restyling, caratterizzato dall’adeguamento degli impianti, dalla sostituzione dei serramenti, dall’ammodernamento dei materiali di pavimentazione e dalla tinteggiatura degli spazi- ha trovato casa la collezione della Fondazione San Patrignano. Si tratta di una settantina di opere firmate dal gotha dell’arte contemporanea -da Mimmo Paladino a Sam Falls, da Carsten Höller a Julian Schnabel, da Ettore Spalletti a Michelangelo Pistoletto, da Sandro Chia a Mario Schifano - donate, a partire dal 2017, da collezionisti, galleristi e artisti alla comunità terapeutica di recupero per tossicodipendenti, fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli a Coriano, sulle colline riminesi.
Tele, sculture, fotografie e installazioni, di cui ne sono state selezionate sessantadue per l’esposizione al Part, sono state elargite con la clausola dell’endowment: un modello ereditato dal mondo anglosassone, innovativo nel contesto italiano, che permetterà a San Patrignano di avere una risorsa patrimoniale in caso di futuri investimenti strutturali. Le opere della raccolta -nata grazie alla tenacia e alla lungimiranza di Letizia e Gian Marco Moratti- sono, infatti, state date con atti che impegnano la fondazione romagnola a non alienarle per un periodo minimo di cinque anni, rendendole nel frattempo visibili al pubblico; successivamente queste donazioni potranno essere cedute, ma solo in caso di reali esigenze economiche della comunità, che oggi ospita mille e trecento ragazzi.
Il progetto museografico -anche questo a cura di Luca Cipelletti, che si è avvalso per lo studio illuminotecnico della professionalità di Alberto Pasetti Bombardella- ha dovuto tener conto della natura disomogenea della collezione, a cui fanno da filo conduttore unicamente i temi del dono e della solidarietà. Quello che poteva essere un apparente limite è stato, invece, interpretato come un’ulteriore opportunità: «evitando la rigidità della ‘scatola nella scatola’, -racconta Luca Cipelletti- sono state favorite la reversibilità, la percezione dell’architettura e una libera collocazione delle opere, in modo che siano in dialogo soprattutto con lo spazio, più che tra loro».
Contemporaneo e medioevale si confrontano così in un dialogo pacato e intenso, che lascia libero il visitatore di crearsi un percorso di visita indirizzato dal gusto personale e dall’emozione del momento.
Ad accogliere il visitatore nel nuovo museo è l’intervento site-specific fatto dall’anglo-svizzero David Tremlett con i ragazzi dei laboratori artistici di San Patrignano: «From the ceiling, down» («Dal soffitto in giù», 2020), un’opera murale con stendardi di ispirazione medioevale -dalle tonalità ocra, cenere e mattone-, che sembra strizzare l’occhio alla lezione di Giotto e Piero della Francesca
 Sala dopo sala incrociamo, tra l’altro, la grande «Bibbia di vetro» (1994), anzi di cristallo curvato, firmata da Emilio Isgrò, la gigantesca testa dalle fattezze classiche («Luci di Nara», 2014) di Igor Mitoraj, il ricamo su tela «Madonna con lacrima cubista» (2019) di Francesco Vezzoli e il cavallo bronzeo con in groppa il naso di Napoleone di Willam Kentridge («Nose on horse: Napoleon», 2007). Ma ci sono anche, tra le sale del Part, le farfalle smaltate di Damien Hirst («Beautiful black and white love charity painting», 2008) la toccante maternità di Vanessa Beecroft(«VBSS.002», 2006-2018), con una Madonna bianca che allatta due bambini neri, lo specchio coperto da una tenda di velluto di Shilpa Gupta («I look at things with eyes different from yours», 2010) e l’opera «Persepoli» (2014) di Luca Pignatelli, con un volto di donna greca che emerge dalla trama di un tappeto persiano. 
Non manca, infine, lungo il percorso espositivo il grande ritratto in bianco e nero del cinese Yan Pei Ming (2018) raffigurante Vincenzo Muccioli, il carismatico fondatore di San Patrignano, l’uomo che «nel suo operato -ricorda Letizia Moratti in catalogo- ha fatto proprie le parole di Pierre-Auguste Renoir al giovane Henri Matisse»: «la sofferenza passa, la bellezza resta». La bellezza, come avviene a Rimini, può essere anche racchiusa tra le mura di un museo per raccontare la forza straordinaria dell’arte: testimonianza di ciò che è stato, strumento di riscatto sociale e balsamo curativo per l’anima.

Per saperne di più

Didascalie delle immagini
[Figg.1,2,3,4,5,7] Allestimento della collezione d'arte della Fondazione San Patrignano al Part di Rimini. Courtesy: PART, ©HenrikBlomqvist; [fig. 6] David Tremlett installa la sua opera site-specific con i ragazzi della comunità San Patrignano. Courtesy Fondazione San Patrignano e il Comune di Rimini 

Informazioni utili 
Part, Piazza Cavour, 26 - Rimini. Orari di apertura: dal martedì al venerdì, dalle ore 9.30 alle ore 13 e dalle ore 16 alle ore 19 | sabato, domenica e festivi, dalle ore 10 alle ore 19 |chiuso i lunedì non festivi. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,00. Informazioni: tel. 0541.793879 e part@comune.rimini.it. Sito internet: https://palazziarterimini.it

Appuntamenti on-line (aggiornamento del 28 aprile 2021)
«Una voce a Part», progetto digitale. Calendario: Emilio Isgrò (podcast e minivideo 28 aprile)Flavio Favelli (trailer lunedì 3 maggio | podcast mercoledì 5 maggio | minivideo venerdì 7 maggio), Claudia Losi (trailer lunedì 10 maggio | podcast mercoledì 12 maggio | minivideo venerdì 14 maggio), Roberto Coda Zabetta (trailer lunedì 17 maggio | podcast mercoledì 19 maggio | minivideo venerdì 21 maggio), Elisa Sighicelli (trailer lunedì 24 maggio | podcast mercoledì 26 maggio | minivideo venerdì 28 maggio) e Alberto Garutti (trailer lunedì 31 maggio | podcast mercoledì 2 giugno | minivideo venerdì 4 giugno). Note: i singoli podcast, della durata di circa sei/sette minuti ciascuno, introdurranno il visitatore nelle sale dei medievali del nuovo museo e all'interno della sua raccolta, offrendo la possibilità di incontrare virtualmente gli artisti. Ogni episodio è modellato sulla durata dell’esperienza di visione reale di chi voglia approfondire la conoscenza di un'opera. Le pillole video, invece, saranno l’occasione per poter vedere l’opera nella sua interezza, con immagini di dettaglio insieme al contesto in cui è esposta e con l’accompagnamento eventuale di materiali di archivio.  Oltre a essere pubblicati sul sito web www.palazziarterimini.it, i podcast saranno caricati sulla pagina Spotify di Part, mentre i brevi video saranno visibili sul canale YouTube.

giovedì 1 ottobre 2020

Una mostra e un libro da collezionare per la Patagonia di Lorenzo Mattotti

Il suo segno immaginifico e penetrante è conosciuto in tutto al mondo grazie alla collaborazione con quotidiani e riviste come «The New Yorker», «Le Monde», «Das Magazin», «Suddeutsche Zeitung», «Nouvel Observateur» e «Vanity Fair», senza dimenticare gli italiani «Corriere della Sera» e «Repubblica». Lorenzo Mattotti (Brescia, 1954), uno dei più grandi illustratori italiani del nostro tempo, da più di vent’anni residente a Parigi, non è però solo un fuoriclasse del disegno. È anche un versatile fumettista, premiato nel 1993 con il Grand Prix di Bratislava per il suo «Eugenio», e, da poco, anche un regista di talento, consacrato dal successo del film di animazione «La famosa invasione degli orsi in Sicilia», tratto dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati.
Al 2003 risale la sua avventura «alla fine del mondo», in quella terra mitica che è la Patagonia, dove si reca con l’amico Jorge Zentner, scrittore argentino, di stanza a Barcellona, che con Lorenzo Mattotti ha pubblicato per Einaudi «Il rumore della brina». 
Partendo da Buenos Aires in macchina i due scendono per un mese lentamente a sud per arrivare fino alla Terra del Fuoco.
Mentre si susseguono sotto i suoi occhi gli immensi e mutevoli paesaggi di questo luogo, che tanto ha suggestionato esploratori e viaggiatori, l'artista prende appunti visivi. Per catturare la vastità delle steppe e la maestosità delle montagne, quando ha la possibilità, Lorenzo Mattotti realizza degli schizzi veloci su un classico taccuino da viaggio moleskine utilizzando i propri pastelli, altrimenti si affida alla fotografia o al video per catturare le immagini che colpiscono il suo sguardo. 
Rientrato a Parigi attende sei mesi prima di rielaborare le proprie suggestioni e trasferirle in una serie di tavole. Trovato un taccuino di carta nepalese fatta a mano dalla forma allungata fa rivivere, utilizzando unicamente un pennello, della china, e il suo tratto inconfondibile, le sinuosità e le profondità della Patagonia. 
Per riuscire a restituire questi due aspetti concepisce i disegni sviluppandoli direttamente su doppie pagine, sfruttando al massimo la larghezza offerta del quaderno aperto, in modo anche da creare un effetto panoramico e di continuità.
A distanza di anni quel diario di viaggio diventa un libro da collezionare, pubblicato dalla casa editrice Lazy Dog Press, con ventiquattro tavole in bianco e nero e una selezione di disegni a colori, accompagnati dalle parole dello stesso illustratore, di Jorge Zentner e di Melania Gazzotti.
In occasione della pubblicazione, in uscita il prossimo 5 ottobre, il libro diventa anche una mostra nei suggestivi spazi di Mutty, realtà culturale pluridisciplinare di Castiglione delle Stiviere, a pochi chilometri dal lago di Garda, che è spazio espositivo, libreria indipendente e caffè ristorante.
Non è la prima volta che Lorenzo Mattotti, agli onori delle cronache in questi giorni anche per la realizzazione del manifesto per la cinquantaduesima edizione della Barcolana di Trieste (11 ottobre 2020), sente il bisogno di realizzare un diario illustrato di viaggio. Lo aveva già fatto nel 2014, raccogliendo una serie di disegni che documentavano la sua scoperta del Vietnam in un prezioso travel book, poi pubblicato da Louis Vuitton.
Sulla Patagonia l'artista non ha, però, voluto realizzare un vero e proprio reportage; ad interessarlo di questo luogo è stato un solo aspetto: la sua natura sconfinata e vergine e non i suoi abitanti e le loro storie che tanto avevano affascinato narratori come Bruce Chatwin e Luis Sepulveda.
Per Lorenzo Mattotti la Patagonia è prima di tutto un luogo della mente e a spiegarlo è lo stesso illustratore: «Laggiù mi sono confrontato con spazi, distese che mi hanno enormemente scosso: è lo spazio a perdita di vista, lo spazio infinito, ma dove l’armonia delle forme apre spazi, dà profondità… Ho cercato di ricostruire questo, di ricostruirlo a memoria. Con l’aiuto del pennello ho cercato di ritrovare l’armonia dello sguardo che avevo sentito mentre viaggiavo. Era una specie di musica. Sei mesi dopo ho trovato un album di carta orientale, e ho iniziato a disegnare una sorta di spartito paesaggistico. Ho cercato di ritrovare questa musica delle forme, ho cercato la mia Patagonia dalla Patagonia che avevo attraversato».
Lorenzo Mattotti rinuncia al colore. Sintetizza le forme, ponendo attenzione alle linee. Rende ciò che vede quasi astratto con l’intento di restituirci prima che un'immagine una sensazione, quella che prova ogni uomo quando si trova in una terra estrema, in una terra alla fine del mondo. Distese sconfinate, spazi e cieli a perdita di vista, vento, vuoto totale, «montagne che paiono a portata di mano e che invece non raggiungi mai» vengono raccontate con un personalissimo alfabeto grafico, che mette al centro l’immensità della natura madre e matrigna.

Informazioni utili
Lorenzo Mattotti. Patagonia. Mutty, viale Maifreni, 54 - Castiglione delle Stiviere (Mantova). Orari: ore 11.00-20.00, chiuso martedì e domenica.Ingresso libero. Inaugurazione: domenica 4 ottobre,  ore 18 | per partecipare all'inaugurazione, a causa numero limitato di posti previsti per le normative anti-Covid 19, è necessario prenotarsi scrivendo una mail a info@mutty.it. Dal 5 ottobre al 28 novembre 2020. 

mercoledì 30 settembre 2020

Venezia, un nuovo allestimento e una mostra di Umberto Moggioli per la riapertura di Ca’ Pesaro

Nella notte fra il 12 e il 13 novembre 2019 una marea eccezionale sommergeva Venezia, le calli e le case, le botteghe artigiane e gli spazi della cultura. L’«acqua granda» mostrava il volto fragile della città, travolgendo la vita dei suoi abitanti e sconvolgendo lo sguardo del mondo.
Tra i musei cittadini a pagare il prezzo più alto era Ca’ Pesaro. La conta dei danni era pesante: bookshop, guardaroba, bar, portineria e biglietteria erano totalmente distrutti; un guasto alla cabina elettrica aveva, poi, provocato un principio di incendio in una sala sotto lo scalone d’accesso.
Quando la riapertura sembrava vicina è arrivata la pandemia. Le calli vuote, le case serrate, i musei senza visitatori hanno di nuovo occupato le cronache globali, il virus ha interrotto la ripresa della città e anche i lavori di ripristino della Galleria internazionale d'arte moderna, resi possibili dai fondi messi a disposizione dalla Banca d’Italia.
C’è voluto così quasi un anno affinché il museo, il cui edificio di impianto barocco fu costruito per volontà della nobile famiglia Pesaro nella seconda metà del XVII secolo su progetto di Baldassare Longhena, potesse riaprire le sue porte ai visitatori.
Dopo mille traversie, dunque, dallo scorso venerdì 11 settembre è ritornata visibile la ricca collezione della galleria veneziana, che annovera al suo interno capolavori come «Il pensatore» di Auguste Rodin e la «Giuditta II (Salomé)» di Gustav Klimt, insieme a lavori di artisti quali Medardo Rosso, Giacomo Balla, Adolfo Wildt, Arturo Martini, Gino Rossi, Giorgio Morandi e Felice Casorati, ma non solo.
Ca’ Pesaro è, infatti, anche l’elegante scenario in cui vedere, a rotazione, la ricca collezione Sonnabend di New York, composta da centosei opere di arte pop, minimal, concettuale e povera, in deposito a lungo termine alla Fondazione dei Musei civici di Venezia. In questi giorni, in Sala quindici, sono per esempio visibili, in ricordo di Germano Celant, scomparso di recente a causa del Coronavirus, importanti capolavori di artisti da lui consacrati come Mario Merz, Pier Paolo Calzolari, Michelangelo Pistoletto,Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo e Jannis Kounellis.
Un’altra importante collezione conservata a Ca’ Pesaro è quella della Fondazione Chiara e Francesco Carraro con le sue ottantadue opere, visibili in Sala sei e sette, che offrono uno sguardo sul Novecento con esemplari unici dell’arte vetraria del veneziano Vittorio Zecchin, di Carlo Scarpa e di Archimede Seguso, opere dell’ebanista Carlo Bugatti e capolavori, tra gli altri, di Arturo Martini, Giorgio De Chirico, Antonio Donghi e Gino Severini.
Da luglio è arrivata a Ca’ Pesaro anche la collezione del bolzanino Paul Prast, ha donato trentaquattro opere di autori importantissimi per l’arte del ‘900, tra cui gli Schiele esposti in Sala tre e le grafiche di de Chirico in Sala dieci.
Ivan Novelli e l’archivio Novelli hanno, invece, lasciato in deposito a lungo termine il lavoro «Allunga il passo amico mio», visibile in questi giorni in Sala tredici.
La ripresa di Ca’ Pesaro è stata nel segno della continuità. Il museo ha voluto, infatti, riaprire con la mostra temporanea di Umberto Maggioli, per la curatela di Gabriella Belli ed Elisabetta Barisoni, che si sarebbe dovuta inaugurare pochi giorni dopo l’«acqua granda» dello scorso autunno.
L’esposizione, visitabile fino al prossimo 8 dicembre, allinea una ventina di opere solitamente non visibili al pubblico: dipinti a olio, disegni e acqueforti provenienti da collezioni sia pubbliche che private, in gran parte transitate nelle sale del museo veneziano negli anni delle cosiddette «Avanguardie capesarine», nelle mostre del 1912 e 1913 e in quelle postume del 1919 e 1925.
Umberto Moggioli, artista trentino che a Venezia e in Laguna trovò la vera fonte di ispirazione, nacque nel 1886 e morì nel 1919, vittima a soli 33 anni dell'influenza spagnola.
In questi pochi anni di vita è stato capace di segnare la storia del panorama figurativo veneziano dei primi due decenni del Novecento con i suoi dipinti densi di luce impressionista, testimonianza di quanta cultura internazionale filtrasse nei primi anni del secolo tra la città lagunare e le sue isole.
I suoi accordi cromatici rendono le vibrazioni atmosferiche del variare delle stagioni e delle ore del giorno e riescono anche a suscitare emozioni. La componente poetica è tradotta visivamente in grandi cieli solcati da nubi ricche di sfumature lilla o da cirri biancastri, sinuosi e filiformi.
Burano osservata dall'alto e dalla vicina Torcello, con le case colorate immerse nella luce del tramonto e gli orti lambiti dalla laguna densi di luce impressionista, sono i soggetti più frequenti nei lavori esposti.
La riapertura di Ca’ Pesaro segna anche una nuova vita per la statua bronzea del «Cardinale» di Giacomo Manzù, che per anni è stata collocata nell’androne, alla base dello scalone di ingresso al museo. L’opera, danneggiata dalla marea dello scorso novembre, è stata restaurata dall’impresa veneziana Co.New Tech, grazie al contributo di Targa Telematics, e ora si trova in Sala undici, accanto al suo bozzetto preparatorio.
Ma non è tutto. Il museo non vuole dimenticare questi ultimi mesi, che hanno segnato pesantemente la sua storia. «Nulla può essere come era prima, -raccontano, infatti, dalla galleria veneziana- l'arte non può fare finta di niente di fronte alle vicende del mondo e rinascere significa anche comprendere nella propria identità la storia che l'ha attraversata». Per questo motivo accanto al lavoro ormai storicizzato degli artisti sono state affiancate le immagini fotografiche dell'attualità, della cronaca di questi mesi, di quello che Venezia, l'Italia e il mondo intero hanno vissuto. Perché per scrivere bene il futuro, nel segno di una reale continuità, non bisogna dimenticare il passato, la storia dei luoghi e di chi li ha vissuti.

Didascalie delle immagini
[Figg.1, 3 e 4] Nuovo allestimento di Ca' Pesaro a Venezia. Foto di Roberto Serra; [fig. 2 e 5]  Nuovo allestimento di Ca' Pesaro a Venezia. Foto di Stefano Mazzola

Informazioni utili 
https://capesaro.visitmuve.it/

martedì 29 settembre 2020

«The Sky in a Room», a Milano un progetto di Ragnar Kjartansson per rielaborare la quarantena

«Quando sei qui con me / Questa stanza non ha più pareti / Ma alberi, alberi infiniti / Quando sei qui vicino a me / Questo soffitto viola / No, non esiste più / Io vedo il cielo sopra noi». Era il 1960 quando Gino Paoli scriveva «Il cielo in una stanza», una canzone che celebra il potere dell’immaginazione raccontando di come l'amore e la musica possano espandere anche lo spazio più piccolo, fino a portarci oltre i confini conosciuti, in un luogo inedito e astratto.
A questa canzone ha guardato l’artista e musicista islandese Ragnar Kjartansson (Reykjavík, 1976) con il suo progetto «The Sky in a Room», un intervento dal forte valore simbolico che la Fondazione Nicola Trussardi ha voluto donare alla città di Milano dopo il difficile periodo di quarantena che ha segnato la vita pubblica e privata di milioni di italiani, in particolare dei cittadini della Lombardia.
Scenario del progetto, in cartellone fino al prossimo 25 ottobre (ingresso libero, con prenotazione), è la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, edificio ottogonale di costruzione rinascimentale, nel quartiere di Porta Venezia, conosciuto dai milanesi anche come san Carlino e reso celebre da Alessandro Manzoni che qui ambientò una delle scene più struggenti del suo romanzo «l promessi sposi»: l’incontro, dopo mille traversie, tra Renzo e Lucia, entrambi sopravvissuti ai giorni travagliati della peste seicentesca.
Tra queste pareti fatte costruire da san Carlo Borromeo all’architetto Pellegrino Tibaldi, faro e conforto per molti malati durante le epidemie pestilenziali del 1576 e del 1630, ogni giorno, per sei ore consecutive (dalle 14 alle 20), cantanti professionisti si alterneranno, uno alla volta e per venti minuti ciascuno, all’organo proponendo un arrangiamento della canzone di Gino Paoli e dando così vita a «una ninna nanna infinita», a una sorta di mantra o di rosario ininterrotto.
«Dopo mesi trascorsi nello spazio chiuso delle proprie abitazioni, accanto ai propri cari o, più tristemente, lontani dai familiari e dagli affetti» – raccontano dalla Fondazione Trussardi, al suo diciottesimo anno di «attività nomade» nel capoluogo lombardo, con l’intento di riscoprire luoghi dimenticati o insoliti – «la performance di Kjartansson può essere letta come un poetico memoriale contemporaneo: un inusuale monumento e un’orazione civile in ricordo dei dolorosi mesi passati a immaginare il cielo in una stanza e a sognare nuovi modi per stare insieme e per combattere la solitudine e l’isolamento».
Già conosciuto dal pubblico milanese per l’installazione «The Visitors», presentata nel 2013 all’Hangar Bicocca, l’artista islandese si serve di vari media espressivi (video, performance, musica, pittura) per creare opere venate da un senso di profonda malinconia, spesso ispirate alla tradizione del teatro e della letteratura nordica del Novecento, con riferimenti al lavoro di Tove Janson, Halldór Laxness, Edvard Munch e August Strindberg, tra gli altri.
Cresciuto all’interno di un contesto artistico e musicale colto –i genitori sono attori teatrali di successo, la madrina è una cantante folk professionista– Kjartansson si è occupato a lungo di musica suonando con i Kanada, i Kósý, e i Trabant e il mondo delle sette note è cuore pulsante anche nel suo percorso artistico, iniziato nel 2007. «In particolare, -raccontano dalla Fondazione Trussardi- la ripetizione di suoni e gesti è un elemento fondamentale nelle composizioni e coreografie dell'artista, che sono state spesso descritte come forme di meditazione e di riflessione nelle quali ritornelli, frasi e arie musicali sono trasformate in litanie toccanti e mantra ipnotici».
A proposito dell’intervento «The Sky in a Room», commissionato nel 2008 da Artes Mundi e dal National Museum of Wales di Cardiff, con il supporto del Derek Williams Trust e dell'ArtFund, l’artista afferma: «Il cielo in una stanza è l'unica canzone che conosco che rivela una delle caratteristiche fondamentali dell'arte: la sua capacità di trasformare lo spazio. In un certo senso, è un'opera concettuale. Ma è anche una celebrazione del potere dell'immaginazione – infiammata dall'amore – di trasformare il mondo attorno a noi. È una poesia che racconta di come l'amore e la musica possano espandere anche lo spazio più piccolo, fino ad abbracciare il cielo e gli alberi». Perché, come diceva Oscar Wilde, «l’amore sa leggere ciò che è scritto sulla stella più lontana».

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 3] Ragnar Kjartansson The Sky in a Room, 2018 – 2020 Performer, organo e canzone Il Cielo in una Stanza di Gino Paoli (1960)  Originariamente commissionato da Artes Mundi e Amgueddfa Cymru – National Museum Wales e acquisitor con il supporto di Derek Williams Trust e Art Fund A Milano, presentato e prodotto dalla Fondazione Nicola Trussardi alla Chiesa di San Carlo al Lazzaretto Courtesy dell’artista, Luhring Augustine, New York e i8 Gallery, Reykjavik Photo: Marco De Scalzi; [fig. 4] Chiesa di san Carlo al Lazzaretto, Milano

Informazioni utili 
 Ragnar Kjartansson. The Sky in a Room. Chiesa di San Carlo al Lazzaretto, largo fra’ Paolo Bellintani, 1 - Milano. Orari: tutti i giorni, dalle 14 alle 20. Ingresso gratuito previa prenotazione. Prenotazioni: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-the-sky-in-a-room-120366640863. Informazioni: https://www.fondazionenicolatrussardi.com/mostre/the-sky-in-a-room/. Fino al 25 ottobre 2020. 

lunedì 28 settembre 2020

Bologna, i fiori di Giorgio Morandi per la prima tappa di «Re-Collecting»

Sono i fiori di Giorgio Morandi a tenere a battesimo il progetto espositivo «Re-Collecting», nato da un’idea del direttore Lorenzo Balbi, con cui il Mambo – Museo d’arte moderna di Bologna e Casa Morandi riprendono la propria attività espositiva dopo l’emergenza sanitaria per il Covid-19.
Fino al gennaio 2021 i due musei ospiteranno cinque focus tematici sulle sue collezioni e sulle raccolte di Casa Morandi, valorizzando opere solitamente non visibili al grande pubblico e offrendo approcci originali, e quando possibile anche inusuali, al suo cospicuo patrimonio.
«Morandi racconta. Il fascino segreto dei suoi fiori» è il titolo del primo progetto, a cura di Alessia Masi, che presenta tredici lavori, prevalentemente dipinti, realizzati in un arco di tempo in un arco che spazia dal 1924 al 1957.
Ad aprire e chiudere il percorso espositivo, visibile fino al prossimo 15 novembre a Casa Morandi, è un mazzo di papaveri appena colti in due differenti rappresentazioni; quella più recente è raffigurata in un modello realizzato in seta come lo sono le rose, soggetto che ricorre nelle altre nove tele esposte.
Per offrire suggestioni sulle modalità di lavoro di Morandi, sono visibili in mostra anche due oggetti in porcellana provenienti da Casa Morandi, insieme a ciò che resta di quei fiori di seta o essiccati che, proprio per la loro durata perenne, erano i prediletti dell’artista come modelli di rappresentazione.
Ad arricchire il percorso, due acqueforti in cui si affronta lo stesso tema, utilizzando fiori veri e freschi, oltre ad una selezione di lettere e documenti.
La mostra si conclude con un video in cui la curatrice Alessia Masi approfondisce il tema dei fiori lungo l'arco della ricerca morandiana.
Giorgio Morandi affronta il tema floreale nell'arco di tutta la sua ricerca artistica, preferendo ai fiori freschi, rappresentati principalmente nelle opere giovanili, quelli essiccati o di seta, raffinatissimo prodotto dell'artigianato bolognese del Settecento, che mantengono inalterato il loro stato e non subiscono variazioni nel tempo indipendenti dalla volontà dell'autore. Alla pari degli altri soggetti, anche i fiori sono per Morandi solo un pretesto necessario per studiare gli aspetti della composizione, eliminando il superfluo per far affiorare la sostanza, l'essenza. Ciò che gli interessa non è tanto cogliere la fragilità organica del fiore, il suo naturale disfacimento, quanto studiarne la forma, il colore e gli aspetti luministici per andare alla radice del visibile, restituendo al visitatore dei brani di pura poesia.
Morandi rappresenta i fiori sempre soli, unici protagonisti della scena, a differenza di altri artisti come Renoir – da lui molto amato e studiato – che li inseriscono in composizioni più articolate. 
Per Morandi l'unica variante è costituita dai vasi, talvolta rappresentati per intero o talvolta solo parzialmente, prevalentemente bianchi, dal corpo allungato e, in pochissimi casi, decorati con qualche motivo ornamentale. La loro forma è sempre rigorosamente funzionale alla composizione spaziale e in alcune opere si intravede solo l'imboccatura per concentrare l'attenzione dell'osservatore sul mazzo di fiori.
Quello fra il 1920 e il 1924 è uno dei periodi in cui è più intensa la ricerca morandiana su questo tema. Spesso l’artista prepara sulla tela uno sfondo circolare entro cui, in modo altrettanto sferico, si iscrivono i fiori presentati da Morandi come un'entità organica policroma e multiforme, senza alcun indugio descrittivo sulla qualità dei petali e dei boccioli, quasi l’aggregarsi delle corolle costituisse un oggetto a sé stante. La stessa cosa si ripete in alcune incisioni, dove la lastra viene lavorata solo entro un dato perimetro a lieve tratteggio, al centro del quale si colloca l'elemento vegetale. Se nei fiori dei primi anni si sente il debito nei confronti della pittura di Rousseau, Cézanne, Chardin e soprattutto di Renoir (nella resa carnale e sensuale delle corolle), a partire dagli anni Cinquanta, invece, i fiori sono ridotti a una forma geometrica tondeggiante, in uno spazio indefinito e quasi senza respiro. Il tema viene affrontato da Morandi non solo in pittura e nell'incisione, ma anche nel disegno e nell'acquerello, con composizioni in cui sono evidenti l'estrema semplicità della forma, la volumetria dei piccoli recipienti e l'ombra che proiettano sullo sfondo, per raggiungere, specie nelle opere degli ultimi anni, quote di astrazione e dematerializzazione uniche, diventando pura atmosfera.
Una curiosità non nota a tutti è la finalità con la quale Morandi dipingeva una parte dei quadri di fiori: spesso si trattava di regali ad amici cari come Roberto Longhi, Lionello Venturi, Piero Bigongiari, Eugenio Montale, Vittorio De Sica e Valerio Zurlini, oppure alle stesse sorelle, che li ricevevano in occasione dei compleanni, così come ad altre donne legate all’artista da un profondo rapporto di amicizia e stima.
«Morandi racconta. Il fascino segreto dei suoi fiori», mostra della quale rimarrà documentazione in un agile catalogo pubblicato dal Mambo, fornisce anche occasione per presentare al pubblico due nuovi dipinti pervenuti al museo in comodato grazie alla generosità di Enos e Alberto Ferri: «Fiori» del 1946 (V. 501) e «Fiori» del 1957 (V. 1021). Si conferma così il rapporto di stima e fiducia che lega i collezionisti all’Istituzione Bologna Musei. I due nuovi lavori si aggiungono, infatti, ai tre concessi in comodato in precedenza: una «Natura morta» del 1931 (V.167), un «Paesaggio» del 1940 (V.283) e una «Natura morta» del 1960 (P.1960/5).
Dopo questo primo focus, «Re-Collecting» continuerà con «Castagne matte» (23 ottobre – 8 dicembre 2020), a cura di Caterina Molteni, «Morandi racconta. Tono e composizione nelle sue nature morte» (19 novembre 2020 – 10 gennaio 2021), a cura di Giusi Vecchi, «Contenere lo spazio» (17 dicembre 2020 – 31 gennaio 2021), a cura di Sabrina Samorì, e «Morandi racconta. Il segno inciso, tratteggi e chiaroscuri» (14 gennaio – 14 marzo 2021 ), a cura di Lorenza Selleri: quattro appuntamenti di qualità per riscoprire opere conservate nelle collezioni cittadine, un patrimonio prezioso che fa conoscere Bologna nel mondo.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giorgio Morandi, Fiori, 1924 (V.88). Olio su tela, cm 58 x 48. Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi; [fig. 2] Giorgio Morandi, Fiori, 1946 (V.501). Olio su tela, cm 24,5 x 19. Collezione Enos e Alberto Ferri. Deposito in comodato gratuito al Museo Morandi da luglio 2020; [fig. 3] Giorgio Morandi, Fiori, 1957 (V.1020). Olio su tela, cm 22,5 x 28. Collezione Enos e Alberto Ferri. Deposito in comodato gratuito al Museo Morandi da luglio 2020

Informazioni utili
Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 - 40121 Bologna, tel. +39.051.6496611. Sito internet: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Instagram: @mambobologna. Twitter: @MAMboBologna. YouTube: MAMbo channel.

venerdì 25 settembre 2020

Otto secoli d’arte, quattro musei e un sestiere: a Venezia torna a vivere il «Dorsoduro Museum Mile»

«L’unione fa la forza». Il vecchio adagio trova casa a Venezia, dove è stato appena rilanciato, su basi più solide e concrete, un progetto di rete nato nel 2015: il «Dorsoduro Museum Mile». Itinerari integrati, comunicazione condivisa e sconti sui biglietti d’ingresso alle realtà afferenti al circuito sono le principali novità che, da qualche giorno, accolgono i turisti e gli amanti dell’arte nel sestiere veneziano di Dorsoduro.
Qui, tra il Canal Grande e il canale della Giudecca, ci sono quattro musei che propongono un viaggio lungo otto secoli nella storia dell’arte mondiale: dai capolavori della pittura veneziana medievale e rinascimentale delle Gallerie dell’Accademia ai protagonisti della scena dell’arte contemporanea esposti a Punta della Dogana, passando per le storiche case-museo di due grandi mecenati come Vittorio Cini e Peggy Guggenheim con le loro collezioni.
La prima iniziativa, nata per far fronte alla crisi economica che si sta vivendo in questi tempi mutevoli e complessi a causa del Covid-19, riguarda l’attivazione di una speciale scontistica a beneficio dei visitatori di ognuno dei musei del circuito. Dal 18 settembre è, infatti, sufficiente esibire un biglietto a pagamento di una delle istituzioni coinvolte nel progetto per avere accesso alle altre a tariffe esclusive. Nella fattispecie, chi compra il biglietto in uno dei musei di Dorsoduro o possiede la membership card di una delle istituzioni partner godrà di una speciale riduzione sull’acquisto del titolo di accesso: da 15 euro a 13 euro alla Collezione Peggy Guggenheim, da 15 euro a 12 euro a Punta della Dogana (ma anche nell’altro museo della fondazione Pinault, il vicino Palazzo Grassi), da 10 euro a 7 euro alla Galleria di Palazzo Cini a San Vio, da 12 euro a 9 euro alle Gallerie dell’Accademia.
La speciale scontistica è un invito a godere «dal vivo» i capolavori di una delle città più belle del mondo, confrontandosi con una pluralità di linguaggi artistici che non può che arricchire il pensiero.
Il percorso può partire dalle Gallerie dell’Accademia, una delle più importanti istituzioni museali d’Italia, che conserva al proprio interno la più completa raccolta di arte veneta del mondo, con capolavori realizzati tra il Trecento e l’Ottocento. Bellini, Piero della Francesca, Mantegna, Bosch, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, Tiepolo e Canova sono solo alcuni degli artisti che compongono la raccolta, situata nel complesso comprendente l’ex chiesa e Scuola di Santa Maria della Carità e il convento dei Canonici lateranensi, progettato da Palladio.
Da qui ci si può spostare a Palazzo Cini, raffinata casa-museo sorta nel 1984, che custodisce un prezioso nucleo di opere di Beato Angelico, Filippo Lippi, Sandro Botticelli, Piero di Cosimo e Pontormo, oltre a un raro nucleo di dipinti del Rinascimento ferrarese, con capolavori di Ercole de’ Roberti, Cosmè Tura e Dosso Dossi.
Da questo museo, unico nel paesaggio veneziano, ci si può spostare alla casa di Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni, un edificio «non finito» in pietra d’Istria affacciato sul Canal Grande, che al suo interno annovera una delle più complete collezioni per l’arte europea ed americana del XX secolo. Pablo Picasso, Vasily Kandinsky, René Magritte, Jackson Pollock, Joan Miró, Alexander Calder, Marc Chagall, Giorgio de Chirico sono solo alcuni degli artisti presenti nella collezione della mecenate americana.
A chiudere il percorso è un altro museo frutto di mecenatismo: quello di François Pinault a Punta Dogana, che esplora senza sosta i nuovi territori della creatività. 
Un bel progetto di sinergia, dunque, quello rinato a Venezia in uno degli angoli più caratteristici della città, dove le osterie e i bacari, la movida giovanile e i colori vivaci delle piccole attività commerciali fanno da cornice a quattro musei che credono nel potere lenitivo della cultura e hanno capito che, unendo le forze, si può continuare a educare al bello nonostante il Coronavirus. Rete, circuito, sinergia -parole fin troppo abusate nel nostro Paese e spesso vuote di un reale significato- diventano così realtà a Venezia, andando a incidere concretamente sulla vita dei turisti perché in tempi di crisi anche un piccolo sconto può fare la differenza.

Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Promo del «Dorsoduro Museum Mile»; [fig. 2] Punta della Dogana. © Thomas Mayer; [fig. 3] © Collezione Peggy Guggenheim. Photo Matteo De Fina; [fig. 4] Gallerie dell'Accademia di Venezia. ©G.A.VE Archivio fotografico – Foto Maddalena Santi  2016. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Gallerie dell’Accademia di Venezia; [fig. 5] Jacopo Pontormo, Doppio ritratto di amici, 1523-1524. Opera conservata a Palazzo Cini a San Vio. 

Informazioni utili
GALLERIE DELL’ACCADEMIA, Campo della Carità, Dorsoduro 1050 – 30123 Venezia | www.gallerieaccademia.it. PALAZZO CINI A SAN VIO, Campo San Vio, Dorsoduro 864 – 30123 Venezia | www.palazzocini.it. PEGGY GUGGENHEIM COLLECTION, Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 – 30123 Venezia | www.guggenheim-venice.it. PUNTA DELLA DOGANA, Fondamenta Salute, Dorsoduro 2 – 30123 Venezia | www.palazzograssi.it

giovedì 24 settembre 2020

«Lo schermo dell’arte», a Venezia nove film sulla scena creativa contemporanea

Si rinnova la collaborazione tra la Fondazione Pinault e il festival fiorentino «Lo schermo dell’arte», progetto che vede alla direzione artistica Silvia Lucchesi. Mentre a Firenze si scaldano i motori per la nuova edizione, la numero dodici, in programma dal 10 al 14 novembre al cinema La compagnia, in presenza, e on-demand sul portale MyMovies, a Venezia ritorna puntuale, con l’inizio dell’autunno, la rassegna di Palazzo Grassi che offre al pubblico un’esclusiva selezione di film, documentari e progetti cinematografici firmati da importanti video-artisti e filmmaker internazionali che hanno focalizzato la loro attenzione sul mondo dell’arte contemporanea.
Scenario della manifestazione, in programma dal 28 settembre al 1° ottobre, è ancora una volta il Teatrino di Palazzo Grassi. Tutti i film sono in lingua originale, con i sottotitoli in italiano.
Ad aprire il festival, a ingresso gratuito con accesso prioritario ai possessori della Membership Card, sarà il 28 settembre, alle ore 18.30, a «Ettore Spalletti» (Italia, 2019, 89’), documentario di Alessandra Galletta dedicato al maestro recentemente scomparso. L’opera costituisce una preziosa testimonianza della vita e della pratica di un artista lontano dai clamori dei palcoscenici del sistema, che ha lasciato un contributo fondamentale all’arte contemporanea grazie alla sua indagine sulla luce e il colore, tanto in pittura, quanto in scultura. A seguire, alle ore 20.15, ci sarà la proiezione di «Putin’s Happy» di Jeremy Deller (Regno Unito, 2019, 40’), un film che racconta le istanze xenofobe, l’isolazionismo e il patriottismo che hanno alimentato la scelta della Gran Bretagna di uscire dall’Unione Europea.
Martedì 29 settembre si parte sempre alle ore 18.30 con «The Proposal» di Jill Magid (Stati Uniti, 2018, 82’), che ripercorre la complessa vicenda della realizzazione di un progetto della stessa regista che sarebbe dovuto confluire in una mostra dedicata al visionario architetto messicano Luis Barragàn.
Nel tentativo di consultarne gli archivi divisi tra Città del Messico e Basilea, l’artista va incontro a una lunga serie di difficoltà, scontrandosi in particolar modo con Federica Manco, colei che, per una serie di vicissitudini legate all’eredità dell’architetto messicano, oggi possiede e conserva in Svizzera il suo archivio professionale e i diritti legati alla riproduzione del suo lavoro.
Chiude la sessione, alle ore 20.10, il film che Halina Dyrschka ha dedicato all’artista e mistica svedese Hilma Af Klint (1862–1944): «Beyond the Visible» (Germania, 2019, 93’). Il progetto restituisce così visibilità a un’artista dimenticata, che ha però avuto un ruolo di primissimo piano nell’evoluzione storico-artistica, essendo stata tra i primi ad aver introdotto l’astrazione in pittura al principio del XX secolo.
Mercoledì 30 settembre la rassegna proseguirà al Teatrino, alle ore 18.30, con il film «Olafur Eliasson: Miracles of Rare Device» (Regno Unito, 2019, 61’) di Alan Yentob che indaga la pratica dell’artista danese (1967) a partire dalla preparazione della sua nuova mostra personale, «Real Life», alla Tate Modern, che segue lo straordinario successo ottenuto nel 2003 da «Weather Project, visitato da più di due milioni di spettatori. Il tema centrale di «Real Life», che sta alla base della maggior parte dei lavori di Eliasson, è l’interazione tra elementi naturali come l’acqua e la luce con la percezione fisica che lo spettatore ha dello spazio.
Dalle ore 19.45, protagonista dello schermo sarà, invece, il duo artistico Masbedo, composto da Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni, con «Welcome Palermo» (Italia, 2018-2019, 75’). Il film è l’evoluzione formale e narrativa del progetto «Videomobile», l’articolata installazione multi-canale dedicata al rapporto tra Palermo e il cinema e concepita dagli artisti nel 2018 in occasione di Manifesta 12 Palermo.
Giovedì 1° ottobre la rassegna si concluderà con la visione di tre film. Si inizierà alle ore 18.30 con la proiezione di «Triple-Chaser» (Regno Unito, 2019, 11’) del collettivo inglese Forensic Architecture, candidato al Turner Prize 2018. L’obiettivo della ricerca, che prende nome da un tipo di granata contenente gas lacrimogeno, è quello di identificare le granate esaminando, attraverso una speciale tecnologia digitale, milioni di immagini condivise sul web così da conoscerne l’effettivo utilizzo contro la popolazione.
Si continuerà con «Walled Unwalled» dell’artista giordano Lawrence Abu Hamdan (Germania, Libano, 2018, 21’), che ha vinto il Turner Prize nel 2019. La video-performance è stata realizzata a Berlino negli studi di effetti sonori Funkhaus, ubicati nell’ex stazione radiofonica della Germania dell’Est, e si interroga su come il suono sia percepito dall’orecchio umano quando chi ascolta si trova oltre una barriera fisica. Per farlo, l’artista ha analizzato tre celebri casi giudiziari, tra cui quello molto noto dell’atleta Oscar Pistorius L’ultimo film in programma è «Barbara Rubin and the Exploding NY Underground» di Chuck Smith (Stati Uniti, 2018, 78’), che riporta in luce la vicenda umana e professionale dell’artista, filmmaker e performer americana Barbara Rubin (1945 – 1980), attraverso un fondo epistolare conservato dall’amico e cineasta Jonas Mekas.
Quattro giorni di programmazione e nove titoli caratterizzano, dunque, la nuova edizione veneziana del festival «Lo schermo dell’arte», uno dei tanti eventi di questo primo scorcio d’autunno in programma al Teatrino di Palazzo Grassi. Sabato 26 settembre, dalle ore 15 alle ore 18, il fotografo Marco Cappelletti e Roberta Albiero, docente di Composizione architettonica e urbana allo Iauv di Vanezia, condurranno, per esempio, il laboratorio «Fender», che prevede l’utilizzo del mezzo fotografico per riformulare il concetto di «distanziamento» sociale. Mentre giovedì 1° ottobre, a partire dalle ore 10.30, si terrà il seminario «Verso una carta di Venezia per la cultura urbana», realizzato con il patrocinio del Consolato generale di Svizzera a Milano.
Gli appuntamenti al Teatrino sono anche un’ottima occasione per vedere la bella mostra che Palazzo Grassi dedica in questi giorni a Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 22 agosto 1908 – L'Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004) . «Le Grand Jeu», questo il titolo del progetto espositivo, rivisita la Master Collection del fotografo a partire dalle suggestioni di cinque curatori particolari: il regista Wim Wenders, la fotografa Annie Leibovitz, lo scrittore Javier Cercas, la curatrice Sylvie Aubenas e, naturalmente, il padrone di casa, il collezionista Francois Pinault. Un’occasione, questa, per rivedere le più belle immagini del maestro del «momento decisivo», del fotografo che è stato definito l’«occhio del secolo» per averci scatti di momenti storici epocali, ritratti di vita popolare del tempo e raffigurazioni di grandi personaggi dell’epoca.

Vedi anche


Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Masbedo, «Welcome Palermo». 2018-2019 Still da film- Commissioned by Manifesta 12. Produced by In Between Art Film; [fig. 2] «Beyond the Visible. Hilma af Klint» di Halina Dyrschka”, Germania, 2019, 93’. still; [fig. 3] «Ettore Spalletti» di Alessandra Galletta, Italia, 2019, 89’; [fig. 4]  «Beyond the Visible. Hilma af Klint» di Halina Dyrschka, Germania, 2019, 93’. still;[fig. 5] «Walled Unwalled» dell’artista giordano Lawrence Abu Hamdan (Germania, Libano, 2018, 21’)

Informazioni utili 
Lo schermo dell’arte – VII Edizione. Teatrino di Palazzo Grassi, San Marco 3260 - Venezia. Dal 28 settembre al 1 ottobre 2020, dalle 18.30. Sito internet: www.palazzograssi.it

 


mercoledì 23 settembre 2020

«Play with Food», quando il buon cibo dà spettacolo

Compie dieci anni «Play with Food – La scena del cibo», il primo e unico festival teatrale italiano interamente dedicato al mondo dell’eno-gastronomia e alla convivialità, nato nel 2010 da un’idea di Davide Barbato, attuale direttore artistico, che fino al marzo del 2019 ha co-organizzato la manifestazione con Chiara Cardea per conto dell’associazione Cuochilab.
Per spegnere le dieci candeline, e nel rispetto delle normative anti-Covid, la rassegna, realizzata con il patrocinio della Città di Torino, si apre al nuovo e propone un debutto all’insegna dell’on-line, aprendo così virtualmente le porte al pubblico di tutto il territorio nazionale (e non solo).
Lunedì 28 settembre, alle ore 19, va in scena in prima assoluta, ed esclusivamente sul web, la performance interattiva «Questo non è un tavolo» di Chiara Vallini (posto unico euro 5,00), con le musiche originali di Fabio Viana e Fulvio Montano.
Nata dalle sperimentazioni dell'artista durante la quarantena, l'esperienza, riservata a una ventina di persone per volta e in replica tutte le sere fino al 4 ottobre, inizia come «una normale web chat» in cui gli spettatori, come invitati a un aperitivo virtuale, «si ritroveranno inaspettatamente coinvolti -raccontano gli organizzatori- in un evento misterioso, partecipando alla creazione di un racconto nel quale, gradualmente, presente e passato, finzione e realtà si intrecceranno».
Si apriranno così sette giorni di spettacoli dal vivo, performance on-line, cene teatrali, colazioni cinematografiche, eventi segreti e, come di consueto, appuntamenti conviviali, riuniti sotto il titolo: «Il cuore nello stomaco».
La nuova immagine, opera dell'illustratore Cesco Rossi, racconta perfettamente questa storia, rappresentando una pietanza fantastica, allo stesso tempo primordiale e futuristica, deliziosa e repellente, enigmatica ed emozionante, che ricorda le fattezze di «un cuore pulsante, colorato e complicato».
Il primo appuntamento in presenza si terrà, invece, martedì 29 settembre, alle ore 20, al teatro Astra con la prima regionale di «Racconti di zafferano» di Maria Pilar Peréz Aspa per la produzione della compagnia milanese ATIR / Teatro Ringhiera. Durante lo spettacolo, in un’atmosfera intima e suggestiva, l’attrice spagnola cucinerà una paella di carne, secondo la ricetta dell’epoca cervantina, che sarà poi servita agli spettatori. Tra i fornelli e i profumi della cucina, prenderanno vita pagine memorabili di Cervantes, Proust, Vicent, Montanari, Scarpellini, Montalbán e Fernando de Rojas che parlano di cibo, di fame, di nutrimento, di ritualità.
Sempre al teatro Astra andrà in scena, mercoledì 30 settembre, alle ore 20, un celebre testo di Annibale Ruccello, «Anna Cappelli», qui interpretato da Carlo Massari, in un insolito allestimento che, letteralmente, farà entrare il pubblico nella casa della protagonista, per assistere alla sua comica e grottesca parabola, e scoprire inaspettate e macabre declinazioni del cibo.
Prima dello spettacolo, Chiara Cardea proporrà un «assaggio» dei cinque racconti e dei due monologhi pubblicati sul numero speciale di «Crack Rivista» dedicato a «Play with Food», esito della call «Abbiamo fame di storie!» che conferma la volontà del festival di sostenere e incoraggiare la creatività di giovani scrittori e drammaturghi. In occasione della nona edizione della rassegna torinese, partirà, inoltre, la seconda parte della call, per la selezione della compagnia a cui verrà affidata la messa in scena dei due monologhi selezionati, il cui debutto si terrà durante l'edizione 2020 del Torino Fringe Festival (www.tofringe.it/partecipa).
Giovedì 1°ottobre
, alle ore 20, «Play with Food» si sposterà, quindi, al Qubì, dove il romano Claudio Morici proporrà la prima regionale dello spettacolo «Il grande carrello», tratto dall’omonimo libro di Fabio Ciconte e Stefano Liberti pubblicato nel 2019 per i tipi di Laterza. L’appuntamento teatrale si configura come un’indagine comica e serissima che scompone e mette a nudo la realtà nascosta dietro la distribuzione organizzata, che veicola il settanta per cento dei consumi alimentari degli italiani. Da dove arriva il cibo che vendono i supermercati? Chi ne decide il prezzo e la disposizione sugli scaffali? Perché viene esposto un determinato prodotto a discapito di un altro? sono alcune delle domande che tessono il racconto con l’obiettivo di informare su questioni fondamentali ma anche di suscitare reazioni che, mai come in questo caso, potremmo definire «di pancia».
Venerdì 2 ottobre, alle ore 21, i riflettori saranno, invece, puntati sugli attori-contadini del Teatro delle Ariette che tornano a Torino, all'Unione culturale Franco Antonicelli, con il loro storico spettacolo «Teatro da mangiare?», che ha debuttato a Volterrateatro il 18 luglio 2000, vent’anni fa, e che in questi anni si è comportato come un vero e proprio organismo vivente crescendo, maturando e arricchendosi dell’esperienza di oltre milleduecento repliche in giro per l’Italia e l’Europa.
Con «Teatro da mangiare?» si mangia davvero e si mangia bene. Si mangiano i prodotti della terra che Paola Berselli e Stefano Pasquini coltivano dal 1989 nelle campagne dell'Appennino bolognese.
Seduti attorno a un tavolo, consumando un vero pasto, gli spettatori-commensali, sempre pochi per creare un'atmosfera intima e unica, ascolteranno l'appassionante esperienza di un teatro fatto fuori dai teatri.  
Tagliatelle fatte in casa, tigelle, vino e prodotti rigorosamente biologici non mancano mai in questa curiosa performance, tra mattarelli da cucina e vecchie canzoni, della quale ha scritto anche il quotidiano francese «Le Monde».
Lo spettacolo sarà in replica sabato 3 ottobre, sempre alle ore 21, mentre domenica 4, dalle ore 10 alle ore 14, ancora all'Unione culturale, il Teatro delle Ariette proporrà la masterclass «La memoria del cibo», a cura di Per+formare e Progetto Zoran, aperta a tutti, attori professionisti e non.
Anche in questa strana stagione segnata dal distanziamento sociale, «Play with Food» organizzerà, nella serata di sabato 3 ottobre, a partire dalle ore 19, una delle sue tradizionali «Underground dinner»: un evento performativo e conviviale in un luogo segreto il cui indirizzo sarà svelato ai soli partecipanti. Protagoniste saranno la fiorentina Patrizia Menichelli - artista che, dal 1996, fa parte della storica compagnia Teatro de los Sentidos di Barcellona – e la food stylist toscana Claudia Guarducci
In scena ci sarà la prima nazionale di «The Poetic Dinner: Amalia, ricette senza ingredienti»: un’esperienza sensoriale, un viaggio intimo che coinvolge un piccolo gruppo di persone alla scoperta della vera storia di Amalia Moretti Foggia, giornalista e scrittrice nata nel 1872 e nota con lo pseudonimo di Petronilla
Gli ospiti, invitati in un luogo sconosciuto, saranno accompagnati a incontrare la storia di Amalia attraverso i cinque sensi, scoprendo memorie, ricordi, impressioni, sogni, oggetti, profumi e piccoli sapori.
Domenica 4 ottobre, alle ore 10.30, ci sarà un altro appuntamento classico del festival: la Cinecolazione, organizzata in collaborazione con Les Petites Madeleines e ospitata in una delle storiche bocciofile torinesi, l’Asd La Tesoriera.
Non mancheranno, poi, un momento di approfondimento: sabato 3 ottobre, dalle ore 14.30 alle ore 18, al Circolo dei lettori si terrà il convegno «Play at Home», a cura del critico e organizzatore Alessandro Iachino, dedicato al teatro d’appartamento, ottima occasione per riflettere sulle esperienze nazionali più rilevanti dedicate a questo formato spettacolare, insieme a operatori, artisti e studiosi. Saranno presenti Paola Berselli, Stefano Pasquini, Patrizia Menichelli, Claudia Guarducci, Chiara Vallini, Laura Valli, Rossella Tansini, Barbara Ferrato e Lorenzo Barello. Chiuderà l’incontro un approfondimento di Francesca Serrazanetti, critica e docente al Politecnico di Milano.
A chiudere il festival sarà Gabriele Vacis che domenica 4 ottobre, alle ore 17.30, proporrà al teatro Colosseo una «Meditazione sul cibo», accompagnato dalle scenofonie di Roberto Tarasco
A partire da «Il pranzo di Babette», racconto di Karen Blixen reso celebre dal film da Oscar di Gabriel Axel, il regista torinese delineerà un intenso percorso attraverso miti e ricette, economie e speculazioni, giudizi e pregiudizi su ciò che ci nutre. 
In occasione dell'evento, è previsto un inconsueto Aperitivo Fuorisede, in rispettosa applicazione delle normative vigenti: non potendo proporre al pubblico un momento conviviale nel foyer del teatro, a causa del distanziamento sociale, i food partner offriranno a tutti gli spettatori una degustazione «in differita» presso i loro punti vendita.
Un’edizione, dunque, ricca di eventi, riservati a pochi e dal grande fascino, tutti nati per nutrire il corpo e lo spirito con cibo e parole. 

Vedi anche

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Una scena dello spettacolo «Racconti di zafferano» di Maria Pilar Peréz Aspa. Foto: Serena Serrani [fig. 2] Immagine di  Cesco Rossi per la decima edizione di Play with food; [fig. 3] Immagine promozionale dello spettacolo «Anna Cappelli», interpretato da Carlo Massari; [fig. 4] Una scena di uno spettacolo del Teatro delle Ariette. Foto: Roberto Cerè; [fig. 5] Una scena di uno spettacolo del Teatro delle Ariette. Foto: Giovanni Battista Parente; [fig. 6] Immagine promozionale dello spettacolo «Il grande carrello» di Claudio Morici, tratto dall’omonimo libro di Fabio Ciconte e Stefano Liberti

Informazioni utili 
Play with food – La scena del cibo. 10 anni 2010-2020. Torino, 28 settembre - 4 ottobre 2020. Informazioni: tel. +39.351.6555757. Sito internet: www.playwithfood.it

martedì 22 settembre 2020

«Dopo», tre spettatori alla volta per un racconto sulle nostre ferite emotive

Ha un titolo non casuale il primo spettacolo della nuova stagione del Funaro di Pistoia. Si intitola «Dopo» ed è un’installazione sensoriale, abitata e itinerante, di Gabriella Salvaterra, storica componente del Teatro de los Sentidos di Enrique Vargas, che sembra pensata appositamente per questi tempi incerti, caratterizzati dal distanziamento sociale. L’ingresso alla performance, in cartellone dal 24 al 27 settembre, è, infatti, studiato per piccoli gruppi: soli tre spettatori alla volta ogni dieci minuti.
Primo progetto indipendente dell’artista modenese, che per oltre vent’anni ha lavorato fianco a fianco con il regista e antropologo colombiano, teorico della cosiddetta «drammaturgia sensoriale» in cui la scena diventa un luogo in cui sperimentare e compiere un viaggio interiore, «Dopo» ha iniziato a prendere forma nel 2015 e, negli anni, è diventato la prima tappa di una trilogia sui temi della rottura e della riparazione insieme.
Gabriella Salvaterra, classe 1968, ha, infatti, ideato in questi ultimi anni anche gli spettacoli «Un attimo prima», che ha debuttato nel 2017 al festival «Da vicino nessuno è normale» a Milano, e «Sollievo», del 2019, prodotto a Calais da Le Channel – Scène nationale. 
Scavare nella memoria alla ricerca di una ferita emotiva che abbiamo nascosto al nostro inconscio perché troppo dolorosa, ma che ha modificato completamente la nostra vita e il nostro modo di relazionarci agli altri, è il tema al centro dell’installazione, che al Funaro di Pistoia vedrà la partecipazione anche di Loredana D'Agruma ed Elena Ferretti
L’artista modenese, che al suo percorso teatrale associa anche la docenza al master universitario «Linguaggio sensoriale e poetica del gioco» dell'università spagnola di Girona, così racconta la scintilla da cui è nato il progetto: «come per moltissime persone, qualcosa […] si è rotto dentro di me. Gli eventi mi hanno colpita in maniera profonda e personale e hanno segnato indelebilmente la mia famiglia. E sono dovuta tornare al punto di partenza, ho dovuto e voluto guardare con occhi nuovi la rottura, quelle interruzioni che ci costituiscono come individui e come società. Ho sentito che questo nuovo sguardo era più forte più centrato, addirittura forse più sereno. Sembra che quando si rompono le certezze, emergono silenzi che vale la pena ascoltare e attraversare, verso quello che potrà accadere...dopo».
Lo spettacolo di Gabriella Salvaterra è il primo appuntamento di una stagione che per il momento è programmata da settembre a dicembre, in attesa di capire quello che sarà possibile proporre nei prossimi mesi, in questo periodo di incertezza che tocca ogni ambito e che è caratterizzato da particolari restrizioni per le sale teatrali.
Grande attenzione verrà riservata in questi primi mesi di programmazione ai più piccoli, la cui stagione prenderà il via sabato 21 novembre con «Fiabe Toscane» di Toscana Media Arte; mentre sabato 12 dicembre sono in programma tre repliche dello spettacolo «Fiabe in forno» di Francesca Giaconi. Per i bambini delle materne, dai 3 ai 5 anni, sono stati, invece, pensati, per le giornate del 7 novembre e del 5 dicembre, degli «Incontri di movimento creativo», a cura di Sara Balducci. Non mancherà, poi, la rassegna «Il Raccontamerende», che quest'anno si terrà il terzo mercoledì del mese: il 21 ottobre ci sarà «Ti conosco mascherina», il 18 novembre «Se la torta non ha torto. Racconti golosi» e, infine, il 16 dicembre «Un quadrato a tutto tondo. Racconti senza spigoli».
Sono previsti anche degli incontri per gli adulti, tutti coordinati da Massimiliano Barbini della Biblioteca del Funaro, che spaziano dagli appuntamenti sul Novecento italiano, incentrati sulle figure di Primo Levi (9 ottobre) e di Carlo Emilio Gadda (6 novembre), al progetto «La mezz’ora d’aria ovvero Shakespeare da tavolo», con due racconti di trenta minuti ciascuno intitolati rispettivamente «I due gentiluomini di Verona» (13 novembre) e «Il racconto d'inverno» (4 dicembre). Completa l’offerta per i più grandi «Leggiamo poi si vedrà»: letture e proiezioni su cinema, letteratura e teatro, precedute da aperitivo, che quest'anno indagheranno la figura di Pier Paolo Pasolini (23 ottobre, 27 novembre e 11 dicembre).
A ottobre riprenderà anche l’attività didattica, che prevede oltre venti corsi per diverse tipologie di allievi (dai bambini agli anziani, dai ragazzi ai disabili) e con differenti discipline (dal teatro al circo, dalla scrittura allo yoga teatrale).
Mentre a novembre il Funaro tornerà a svolgere la sua funzione di residenza artistica, in questo caso per Daniel Pennac e la compagnie Mia, per lo spettacolo «La legge del sognatore», tratto dall'omonimo libro edito da Feltrinelli editore, con la regia di Clara Bauer.
Una proposta, dunque, composita quella del Funaro di Pistoia che mette al centro, il pubblico a partire dal primo appuntamento del nuovo corso, quello post Covid: un invito a riflettere su di noi, sulle crepe del cuore, su ciò che non può più essere guarito e su ciò che si può ancora riparare, anche se niente sarà più come prima. Il viaggio, pur sempre intenso e intimo, è diverso per ognuno perché, citando il compositore Claude Debussy, «l’anima altrui è una foresta oscura dove bisogna camminare con precauzione».

Informazioni utili 
Il Funaro Centro culturale, via del Funaro 16/18 – Pistoia. Info: tel. 0573.977225/ 976853, e-mail info@ilfunaro.org. Sito web : www.ilfunaro.org.
Ingresso per «Dopo»: € 15,00 intero; € 12,00 tesserati il Funaro e convenzionati (abbonati Teatri di Pistoia, Stagione Fondazione Pistoiese Promusica, membri Institut Français di Firenze, Soci FAI, Slow Food Pistoia, Touring Club Italiano, visitatori Centro Guide Turismo Pistoia, Trenitalia - abbonati regionali, possessori di biglietto nella stessa giornata dello spettacolo o di badge aziendale per dipendenti e familiari.
Ingresso per gli spettacoli per bambini e famiglie: € 8,00 intero; € 6,00 tesserati il Funaro e convenzionati (Abbonati Teatri di Pistoia, Stagione Fondazione Pistoiese Promusica, membri Institut Français di Firenze, Soci FAI, Slow Food Pistoia, Touring Club Italiano, visitatori Centro Guide Turismo Pistoia, Trenitalia - abbonati regionali, possessori di biglietto nella stessa giornata dello spettacolo o di badge aziendale per dipendenti e familiari.
Note: per gli spettacoli la prenotazione è obbligatoria ed è possibile scrivendo a info@ilfunaro.org o telefonando al numero 0573.977225 (da martedì a venerdì, ore 10-13 e ore 16-19, lunedì, ore 16-19). Il biglietto dovrà essere ritirato al Funaro (negli stessi orari e giorni di apertura della biglietteria telefonica) entro 48 ore dalla data prenotata (diversamente decadrà la prenotazione).