È uno stile inconfondibile, fatto di forme sintetiche e ampie campiture di colori brillanti, quello di Agostino Iacurci (Foggia, 1986), street artist pugliese, di stanza a Berlino, che ha portato i suoi monumentali dipinti murali in tante città del mondo, da Mosca a Nuova Delhi, e che ha prestato il suo talento anche al mondo del teatro, firmando le scenografie per lo spettacolo «Madame Pink» di Alfredo Arias, presentato al teatro Argentina nel 2017 e al théâtre du Rond Point di Parigi nel 2019.
Suggestioni teatrali si respirano anche nel suo ultimo lavoro in mostra ai musei civici di Pesaro, per la curatela di Marcello Smarrelli e la consulenza scientifica di Brunella Paolini. Si tratta di un viaggio onirico tra le pagine del «De Architectura» di Marco Vitruvio Pollione (80 a.C.- 15 a.C. circa), celebre architetto e scrittore romano attivo nella seconda metà del I sec. a.C., considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Il suo trattato, suddiviso in dieci tomi, offre un quadro generale delle conoscenze tecniche e pratiche collegate alla costruzione che lo studioso aveva acquisito dopo una vita intera di attività professionale.
Nel primo libro, dopo aver proposto la definizione dell’architettura, si descrivono le doti dell’architetto che deve avere competenze tecniche e una cultura enciclopedica; vi sono anche accenni all’urbanistica.
Nei libri successivi si affrontano diverse tematiche collegate alla costruzione degli edifici, iniziando dal libro secondo nel quale si presenta la storia dell’edilizia e si illustrano le tecniche e i materiali utilizzati.
Si passa, poi, alla trattazione della costruzione dei templi in cui predomina l’ordine ionico, nel libro terzo, per illustrare, in quello successivo, gli altri ordini e stili di realizzazione degli edifici sacri.
Nel quinto libro si descrivono, invece, edifici pubblici quali la basilica, il carcere, i bagni e le palestre.
I libri successivi, il sesto e il settimo, sono dedicati all’edilizia privata, della quale si specificano l’uso degli spazi, l’orientamento, le misure e, poi, le decorazioni interne e le rifiniture. Gli ultimi tre libri, probabilmente scritti in epoca successiva ai precedenti, sono, infine, dedicati a riflessioni su temi di carattere più generale quali l’idraulica, l’astronomia, l’astrologia e gli orologi solari, la meccanica civile e militare.
Agostino Iacurci ha guardato a questo lavoro e ha pensato a un progetto site specific, intitolato «Tracing Vitruvio», per Palazzo Mosca, edificio nel cuore della città marchigiana, dove è esposto un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano, vera e propria summa di tutta la pittura sacra del XV secolo, quale l'«Incoronazione della Vergine» di Giovanni Bellini.
Il percorso si snoda partendo dal cortile, con monumentali istallazioni ispirate alle architetture vitruviane, accompagnate da una traccia sonora composta per l’occasione dal gruppo «Tuktu and the Belugas Quartet».
La mostra, realizzata grazie alla collaborazione della M77 Gallery di Milano, prosegue, quindi, all’interno del museo seguendo due fili conduttori.
Il primo, più tradizionale e squisitamente filologico, intende analizzare la fortuna critica ed editoriale del testo vitruviano, risalente al I sec. a.C. e ampiamente diffuso nel Rinascimento, grazie all’introduzione della stampa.
Questo successo è puntualmente documentato dalle raccolte della Biblioteca Oliveriana, che annoverano numerose edizioni del «De Architectura», alcune molto rare e preziose. Dieci di queste, accuratamente selezionate, sono riunite ai musei civici e presentate in ordine cronologico, aperte ognuna su uno dei dieci libri di cui l’opera è composta, in modo da poterne avere una panoramica completa e analizzarne più approfonditamente i contenuti.
L’altro percorso, più libero e visionario, è espressione della cifra stilistica di Agostino Iacurci, la cui ricerca attuale è molto vicina ai temi dell’antico e allo studio sull’uso del colore nell’architettura e nelle arti plastiche di età classica.
Per accompagnare la presentazione dei volumi del «De Architectura», l’artista ha realizzato un percorso in cui le forme e le creazioni vitruviane sono ridisegnate utilizzando il suo linguaggio pittorico caleidoscopico e surreale.
Cariatidi, capitelli, colonne, templi, sembrano rianimarsi, rivitalizzati dall’uso di cromie forti e brillanti, liberando l’antichità classica dall’etereo candore e dall’aura di olimpico equilibrio che il Neoclassicismo ci ha tramandato. L’artista ci restituisce così l’immagine di un’architettura nata da un popolo mediterraneo, fortemente legata al colore, alla luce, sempre in costante tensione tra l’apollineo e il dionisiaco, tra ragione e sentimento.
L’intervento di Iacurci si pone come un ulteriore commentario per immagini ai volumi, in dialogo con le edizioni e con gli artisti del passato che, attraverso la tecnica dell’incisione, si erano impegnati ad illustrare gli scritti di Vitruvio, spesso con risultati estetici di altissimo livello. L’artista ne fornisce una nuova e originale interpretazione attraverso il suo sguardo contemporaneo, intelligente e ironico, con una componente fortemente onirica. Il risultato è quasi un sogno a occhi aperti, una sorta di moderna «Hypnerotomachia Poliphili», il celebre romanzo allegorico attribuito a Francesco Colonna, corredato da centosessantanove illustrazioni xilografiche, che costituisce una delle fonti iconografiche più celebri e utilizzate nel Rinascimento, di cui è esposta la magnifica edizione di Aldo Manuzio (Venezia, 1499).
Una mostra innovativa e dal carattere sperimentale, dunque, quella a Palazzo Mosca, ulteriore testimonianza di come la cultura classica possa rappresentare sempre una fonte d’ispirazione di primaria importanza per un artista contemporaneo e di come Pesaro, con il suo ricco patrimonio, sia un perfetto laboratorio culturale.
Didascalie delle immagini
[Figg. dalla 1 alla 6] Allestimento della mostra «Tracing Vitruvio». Foto di Michele Angelucci;[fig. 7] Installazione per la mostra «Tracing Vitruvio» all'esterno di Palazzo Mosca. Foto di Palmieri
Informazioni utili
«Agostino Iacurci. Tracing Vitruvio. Viaggio onirico tra le pagine del De Architectura». Palazzo Mosca – Musei Civici, viale Mosca, 29 – Pesaro. Orari: da martedì a giovedì, ore 10.00-13.00, da venerdì a domenica e festivi, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-18.30. Ingresso con Biglietto unico Pesaro Musei (vale 15 giorni e consente l’accesso a Consente l’accesso a Palazzo Mosca – Musei Civici, Museo Nazionale Rossini, Casa Rossini, Domus – Area archeologica di via dell’Abbondanza, Area archeologica e Aantiquarium di Colombarone, Centro Arti Visive Pescheria): intero € 13,00, ridotto (ruppi min. 15 persone, Possessori di tessera FAI, TOURING CLUB ITALIANO, COOP Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Nordest, Estense, ISIC, ITIC, IYTC Card, Studenti universitari, Amici del Rof) € 11, ridotto speciale (possessori di Card Pesaro Cult, Gruppi accompagnati da guida turistica della Provincia di Pesaro- Urbino), gratuito per minori di 19 anni, soci ICOM, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e persona che li accompagna, possessori di Carta Famiglia del Comune di Pesaro. Informazioni: pesaro@sistemamuseo.it | tel. 0721.387541. Fino al 24 novembre 2019
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
giovedì 24 ottobre 2019
mercoledì 23 ottobre 2019
Anche il sax ha il suo museo. In mostra a Fiumicino la collezione di Attilio Berni
È lo strumento principe del jazz come documentano le esemplari interpretazioni di Ben Webster, Ornette Coleman, Charlie Parker, John Coltrane, Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Dexter Gordon. Stiamo parlando del sassofono, la cui invenzione si deve al flautista e clarinettista Antoine-Joseph Sax (Dinant, 6 novembre 1814 – Parigi, 7 febbraio 1894), detto Adolphe, membro di una famiglia franco-belga di costruttori di strumenti musicali in metallo.
Frutto del tentativo di migliorare il timbro del clarinetto basso, il sassofono fece la sua comparsa sulla scena musicale nel 1840; il brevetto dello strumento risale, invece, a sei anni dopo e porta la data del 28 giugno 1846.
Accolto con diffidenza nell’ambiente della musica accademica, tanto che il suo inventore trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, il sassofono venne usato dapprima nelle bande militari e solo in seguito si affermò nella musica colta grazie al lavoro di autori come Hector Berlioz, Jean-Marie Londeix, Georges Kastner e, poi, Georges Bizet, Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Camille Saint-Saëns, Armand Limnander e Jérôme Savari.
Il sassofono diventò presto anche materia di studio: le prime cattedre di questo strumento vennero istituite a Parigi, nel 1857, per volontà dello stesso Adophe Sax e al Conservatorio di Bologna, nel 1844, grazie alla geniale intuizione di Gioachino Rossini, che inserì questo strumento anche in una delle sue ultime composizioni: «La corona d’Italia».
Ma è Oltreoceano, nei primi anni del Novecento, che le note suadenti e malinconiche del sax incontrano il giusto riconoscimento, anzi entrano nella leggenda.
Lo strumento conosce, infatti, il suo periodo d'oro grazie ai ritmi sincopati del jazz e ai suoi principali interpreti, ovvero Lester Young e Coleman Hawkins, passando per Louis Armstrong, Charlie Parker, John Coltrane e Stan Getz, fino agli odierni «mostri sacri» Michael Breker o Joshua Reedman.
Tra i jazzisti e il sassofono è amore a prima vista e il motivo è semplice: «si può piangere e parlare e piangere e gridare nel sassofono, come si fa con la voce».
Al «tubo dal fascino imprescindibile» e a tutte le sue metamorfosi è stato da poco dedicato anche un museo, il primo nel panorama internazionale. Si trova alle porte di Roma -a Maccarese, una frazione di Fiumicino- ed è nato grazie all’amore, alla conoscenza e alla generosità del musicista e docente laziale Attilio Berni, che ha messo a disposizione la sua ricca raccolta, composta in oltre trent’anni, per «dare forma -spiega lo stesso collezionista- alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali».
Circa seicento pezzi (alcuni molto rari), oltre ottocento fotografie d’epoca, vinili, LP, spartiti, libri, documenti originali e, persino, cinquecento giocattoli a forma di sax compongono il patrimonio del Museo del Saxofono, che si sviluppa su trecentocinquanta metri quadrati di sale espositive e uno spazio esterno altrettanto grande per i concerti estivi, oltre a due sale archivio.
Dal piccolissimo soprillo di trentadue centimetri al gigantesco sax sub-contrabbasso di quasi tre metri, costruito dall’artigiano brasiliano Gilberto Lopes ed esposto nel 2014 al Louvre di Parigi in una mostra su Adolphe Sax, il percorso espositivo permette di vedere tante curiosità come i primi esperimenti dell’inventore belga, il Grafton Plastic, il mitico Conn O-Sax, il Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, il Jazzophone, i grandiosi Conn Artist De Luxe, i sax a coulisse, i saxorusofoni Bottali, il Tex Beneke, l’Ophicleide, il Tex Beneke e i tenori Selmer appartenuti a Sonny Rollins.
Quello di Maccarese è, dunque, un percorso che permette al visitatore di districarsi nelle innumerevoli metamorfosi del saxofono grazie al contatto diretto con i grandi capolavori delle fabbriche Conn, Selmer, King, Buescher, Martin, Buffet Crampon, Rampone, Borgani, Couesnon, seguendo un connubio tra arte e artigianalità, creatività e tradizione che dura da quasi centottant’anni.
Al Museo di Attilio Berni sono, inoltre, esposti anche strumenti posseduti e suonati da importanti personaggi e interpreti come Rudy Wiedoeft, Sonny Rollins, Adrian Rollini, Marcel Mule, Benny Goodman e Tom Scott.
Mentre la raccolta fotografica documenta la storia del sax, dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni Venti fino alle band degli anni Settanta. Tra i pezzi esposti ci sono fotografie originali di Sigurd Rascher, madame Helise Hall, Dorothy Johnson, del Schuster Sister Saxophone Quartet, dei Six Brown Brothers e delle gemelle Violet & Daisy Hilton.
Una segnalazione meritano, infine, i sax giocattolo, di vitale importanza per la diffusione della cultura dello strumento, che vennero fabbricati principalmente in America e nei Paesi dell’Est Europa.
Un percorso, dunque, interessante quello del museo di Maccarese per scoprire tutti i volti, anche i più giocosi, di uno strumento capace di dar voce alle emozioni. Uno strumento dal fascino particolare, di cui Charlie Parker diceva: «Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».
Informazioni utili
Museo del Saxofono, via dei Molini - Maccarese - Fiumicino (Roma). Orari: martedì - venerdì, ore 15.00 - 19:00; sabato - domenica, ore 10.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: adulti € 7,00, studenti e over 65, € 5,00, bambini fino ai 6 anni gratuito. Visite guidate: € 50,00 per minimo 12 persone. Informazioni: tel. 06.61697862. Sito web: www.museodelsaxofono.com.
Frutto del tentativo di migliorare il timbro del clarinetto basso, il sassofono fece la sua comparsa sulla scena musicale nel 1840; il brevetto dello strumento risale, invece, a sei anni dopo e porta la data del 28 giugno 1846.
Accolto con diffidenza nell’ambiente della musica accademica, tanto che il suo inventore trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, il sassofono venne usato dapprima nelle bande militari e solo in seguito si affermò nella musica colta grazie al lavoro di autori come Hector Berlioz, Jean-Marie Londeix, Georges Kastner e, poi, Georges Bizet, Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Camille Saint-Saëns, Armand Limnander e Jérôme Savari.
Il sassofono diventò presto anche materia di studio: le prime cattedre di questo strumento vennero istituite a Parigi, nel 1857, per volontà dello stesso Adophe Sax e al Conservatorio di Bologna, nel 1844, grazie alla geniale intuizione di Gioachino Rossini, che inserì questo strumento anche in una delle sue ultime composizioni: «La corona d’Italia».
Ma è Oltreoceano, nei primi anni del Novecento, che le note suadenti e malinconiche del sax incontrano il giusto riconoscimento, anzi entrano nella leggenda.
Lo strumento conosce, infatti, il suo periodo d'oro grazie ai ritmi sincopati del jazz e ai suoi principali interpreti, ovvero Lester Young e Coleman Hawkins, passando per Louis Armstrong, Charlie Parker, John Coltrane e Stan Getz, fino agli odierni «mostri sacri» Michael Breker o Joshua Reedman.
Tra i jazzisti e il sassofono è amore a prima vista e il motivo è semplice: «si può piangere e parlare e piangere e gridare nel sassofono, come si fa con la voce».
Al «tubo dal fascino imprescindibile» e a tutte le sue metamorfosi è stato da poco dedicato anche un museo, il primo nel panorama internazionale. Si trova alle porte di Roma -a Maccarese, una frazione di Fiumicino- ed è nato grazie all’amore, alla conoscenza e alla generosità del musicista e docente laziale Attilio Berni, che ha messo a disposizione la sua ricca raccolta, composta in oltre trent’anni, per «dare forma -spiega lo stesso collezionista- alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali».
Circa seicento pezzi (alcuni molto rari), oltre ottocento fotografie d’epoca, vinili, LP, spartiti, libri, documenti originali e, persino, cinquecento giocattoli a forma di sax compongono il patrimonio del Museo del Saxofono, che si sviluppa su trecentocinquanta metri quadrati di sale espositive e uno spazio esterno altrettanto grande per i concerti estivi, oltre a due sale archivio.
Dal piccolissimo soprillo di trentadue centimetri al gigantesco sax sub-contrabbasso di quasi tre metri, costruito dall’artigiano brasiliano Gilberto Lopes ed esposto nel 2014 al Louvre di Parigi in una mostra su Adolphe Sax, il percorso espositivo permette di vedere tante curiosità come i primi esperimenti dell’inventore belga, il Grafton Plastic, il mitico Conn O-Sax, il Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, il Jazzophone, i grandiosi Conn Artist De Luxe, i sax a coulisse, i saxorusofoni Bottali, il Tex Beneke, l’Ophicleide, il Tex Beneke e i tenori Selmer appartenuti a Sonny Rollins.
Quello di Maccarese è, dunque, un percorso che permette al visitatore di districarsi nelle innumerevoli metamorfosi del saxofono grazie al contatto diretto con i grandi capolavori delle fabbriche Conn, Selmer, King, Buescher, Martin, Buffet Crampon, Rampone, Borgani, Couesnon, seguendo un connubio tra arte e artigianalità, creatività e tradizione che dura da quasi centottant’anni.
Al Museo di Attilio Berni sono, inoltre, esposti anche strumenti posseduti e suonati da importanti personaggi e interpreti come Rudy Wiedoeft, Sonny Rollins, Adrian Rollini, Marcel Mule, Benny Goodman e Tom Scott.
Mentre la raccolta fotografica documenta la storia del sax, dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni Venti fino alle band degli anni Settanta. Tra i pezzi esposti ci sono fotografie originali di Sigurd Rascher, madame Helise Hall, Dorothy Johnson, del Schuster Sister Saxophone Quartet, dei Six Brown Brothers e delle gemelle Violet & Daisy Hilton.
Una segnalazione meritano, infine, i sax giocattolo, di vitale importanza per la diffusione della cultura dello strumento, che vennero fabbricati principalmente in America e nei Paesi dell’Est Europa.
Un percorso, dunque, interessante quello del museo di Maccarese per scoprire tutti i volti, anche i più giocosi, di uno strumento capace di dar voce alle emozioni. Uno strumento dal fascino particolare, di cui Charlie Parker diceva: «Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».
Informazioni utili
Museo del Saxofono, via dei Molini - Maccarese - Fiumicino (Roma). Orari: martedì - venerdì, ore 15.00 - 19:00; sabato - domenica, ore 10.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: adulti € 7,00, studenti e over 65, € 5,00, bambini fino ai 6 anni gratuito. Visite guidate: € 50,00 per minimo 12 persone. Informazioni: tel. 06.61697862. Sito web: www.museodelsaxofono.com.
martedì 22 ottobre 2019
Leonardo500, in mostra a Milano «La Vergine delle Rocce del Borghetto»
È un’occasione da non perdere quella offerta dalla Fondazione Orsoline di San Carlo a Milano. In occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario leonardesco, la congregazione religiosa fondata da sant’Angela Merici apre le porte della sua sede davanti alla basilica di sant’Ambrogio, e più precisamente la chiesa di san Michele del Dosso, e rende accessibile al pubblico «La Vergine delle Rocce del Borghetto» (1517-1520).
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.
Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari
Informazioni utili
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.
Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari
Informazioni utili
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.
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