ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 25 ottobre 2019

«Pittura di luce», Burano e il suo cenacolo di artisti

«Alla sera, per consolarci e consultarci in privato, salpavamo su una flottiglietta di sandoli verso Burano beata, e colà, sotto una pergola amicissima, nel crepuscolo incantato […] finivamo di demolire del tutto l’arte decrepita, la critica orba, la ciurma dei bottegai e dei borghesi senza testa e senza cuore […]». Sono le parole pronunciate nel 1948 da Nino Barbantini (Ferrara, 5 luglio 1884 – Ferrara, 17 dicembre 1952), primo direttore di Ca’ Pesaro, culla per la pittura italiana e veneziana delle Avanguardie, la migliore introduzione alla mostra «Pittura di Luce», allestita negli spazi del Museo civico del Merletto di Burano, per la curatela di Chiara Squarcina ed Elisabetta Barisoni.
La grande tradizione della pittura buranella dei primi decenni del Novecento, ancora sconosciuta ai più, rivive attraverso un selezionato numero di opere, tutte provenienti dalla collezione dei Musei civici di Venezia ed espressione di quell’«Avanguardia capesarina» che, tra il 1908 e il 1920, trovò nel palazzo progettato dall’architetto Baldassare Longhena sul Canal Grande, trasformato in galleria d’arte per volere della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, una «palestra intellettuale» nella quale esercitarsi e confrontare il proprio linguaggio con quello di tanti altri giovani artisti.
Nasce così il cenacolo di Burano, la cui storia -raccontava, sempre nel 1948, Nino Barbantini- sembra quella di una grande «famiglia», nella quale «tutti» erano «legati a doppio filo da una passione tale per l’arte, da una fede tale nella vita […], che quando si ripensa, tra i conti d’oggi, alla rarità delle vendite e ai prezzi d’allora, vien da supporre che di quella passione e di quella fede i più dei nostri campassero».
Come tutte le storie che hanno il sapore delle favole il «c’era una volta» ha una data ben precisa. Tutto inizia nel 1909 con l’incontro tra Gino Rossi (Venezia, 1884 ‒ Treviso, 1947) e Umberto Moggioli (Trento, 1886 – Roma, 26 gennaio 1919), che si ritrovano a vivere uno accanto all’altro sull’isola di Burano. Il primo è attento all'arte che si produce Parigi e frequenta la Bretagna, dove sta prendendo forma la scuola di Pont-Aven con Paul Gaugin e il suo gruppo. Il secondo è arrivato in laguna dalla natìa Trento per frequentare l'Accademia di belle arti e, innamoratosi dell’isola, ha deciso di prendere casa lì, in quell’angolo di laguna in cui i toni terrosi del paesaggio incontrano l’azzurro del cielo e del mare.
Tre anni dopo, nel 1912, Burano diventa anche la casa del mantovano Pio Semeghini (Quistello, 31 gennaio 1878 – Verona, 11 marzo 1964), di ritorno da Parigi dove è andato alla scoperta della pittura impressionista e post-impressionista, studiando, tra gli altri, Cezanne, Matisse e Bonnard.
Le case dai mille colori, le pallide fanciulle chine sul tombolo, i rudi pescatori di laguna con gli occhi bruciati dal sale, le donne che stendono il bucato nei campielli, la terra sospesa tra l’acqua e il cielo sono gli scenari che si offrono agli occhi di questi tre pittori e dei loro amici. Tutto sembra appartenere a un tempo fuori dalla storia, di cui fissare sulla tela luce e colori.
Sull’isola nasce una sorta di Pont- Aven lagunare, dove gli intatti paesaggi buranelli, con la loro condizione di quiete esistenziale, ideale per far riposare l’animo e i pensieri, vengono dipinti en plein air.
Nel frattempo, in quello scorcio di primo Novecento, Venezia vede nascere, sotto l’abile e propositiva regìa del giovane critico Nino Barbantini, una specie di contro-Biennale, nella quale sono esposte le opere di artisti che presentano una visione antiaccademica e antitetica rispetto alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini. Arturo Martini, Gino Rossi, Guido Cadorin, Pio Semeghini, Felice Casorati, Vittorio Zecchin, Umberto Moggioli, Teodoro Wolf Ferrari sono alcuni dei nomi di quelli che la critica battezza come «i ribelli di Ca’ Pesaro».
La fine di questa prima stagione arriva con lo scoppio, nel 1914, della Prima guerra mondiale e con la prematura scomparsa, nel 1919, di Moggioli.
La storia della pittura e dei pittori a Burano continua, però, per buona parte del Novecento, sempre a fianco dell'avventura di Ca' Pesaro. Il trevisano Nino Springolo (Treviso 1886-1975), con la sua cifra stilistica di impronta divisionista, e il veneziano Fioravante Seibezzi (1906-1975), per il quale il critico Ivo Prandin parla di «ripresa del vedutismo canalettiano», chiudono questa seconda stagione della scuola buranella. Una scuola che sembra aver fatto proprio il consiglio che il pittore Ponga diede proprio a Fioravante Seibezzi, agli inizi della carriera: «è tutto qui: copiare dal vero, aver fede, perseverare nel lavoro, non credere mai perfetto ciò che riesce facile. E soprattutto, lasciarsi guidare dall'istinto».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Pio Semeghini, La casa incantata; [fig. 2] Pio Semeghini, Paesaggio lagunare; [fig. 3] Umberto Moggioli, La casa dell'artista; [fig. 4] Umberto Moggioli, Piccolo paesaggio di Burano

Informazioni utili
Pittura di luce. Burano e i suoi pittori. Museo del Merletto, piazza Galuppi, 187 – Burano. Orari: fino al 31 ottobre, dalle ore 10.30 alle ore 17.00 (la biglietteria chiude alle ore 16.30); dal 1° novembre al 31 marzo, dalle ore 10.30 alle ore 16.30 (la biglietteria chiude alle ore 16.00); chiuso il lunedì, il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,50 (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card. Offerta Famiglie: biglietto ridotto per tutti i componenti, per famiglie composte da due adulti e almeno un ragazzo); gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; altre categorie aventi diritto per legge. Sito internet: www.museomerletto.visitmuve.it. Fino all’8 gennaio 2020. 

giovedì 24 ottobre 2019

«Tracing Vitruvio», il «De Architectura» incontra il linguaggio pop di Agostino Iacurci

È uno stile inconfondibile, fatto di forme sintetiche e ampie campiture di colori brillanti, quello di Agostino Iacurci (Foggia, 1986), street artist pugliese, di stanza a Berlino, che ha portato i suoi monumentali dipinti murali in tante città del mondo, da Mosca a Nuova Delhi, e che ha prestato il suo talento anche al mondo del teatro, firmando le scenografie per lo spettacolo «Madame Pink» di Alfredo Arias, presentato al teatro Argentina nel 2017 e al théâtre du Rond Point di Parigi nel 2019.
Suggestioni teatrali si respirano anche nel suo ultimo lavoro in mostra ai musei civici di Pesaro, per la curatela di Marcello Smarrelli e la consulenza scientifica di Brunella Paolini. Si tratta di un viaggio onirico tra le pagine del «De Architectura» di Marco Vitruvio Pollione (80 a.C.- 15 a.C. circa), celebre architetto e scrittore romano attivo nella seconda metà del I sec. a.C., considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Il suo trattato, suddiviso in dieci tomi, offre un quadro generale delle conoscenze tecniche e pratiche collegate alla costruzione che lo studioso aveva acquisito dopo una vita intera di attività professionale.
Nel primo libro, dopo aver proposto la definizione dell’architettura, si descrivono le doti dell’architetto che deve avere competenze tecniche e una cultura enciclopedica; vi sono anche accenni all’urbanistica.
Nei libri successivi si affrontano diverse tematiche collegate alla costruzione degli edifici, iniziando dal libro secondo nel quale si presenta la storia dell’edilizia e si illustrano le tecniche e i materiali utilizzati.
Si passa, poi, alla trattazione della costruzione dei templi in cui predomina l’ordine ionico, nel libro terzo, per illustrare, in quello successivo, gli altri ordini e stili di realizzazione degli edifici sacri.
Nel quinto libro si descrivono, invece, edifici pubblici quali la basilica, il carcere, i bagni e le palestre.
I libri successivi, il sesto e il settimo, sono dedicati all’edilizia privata, della quale si specificano l’uso degli spazi, l’orientamento, le misure e, poi, le decorazioni interne e le rifiniture. Gli ultimi tre libri, probabilmente scritti in epoca successiva ai precedenti, sono, infine, dedicati a riflessioni su temi di carattere più generale quali l’idraulica, l’astronomia, l’astrologia e gli orologi solari, la meccanica civile e militare.
Agostino Iacurci ha guardato a questo lavoro e ha pensato a un progetto site specific, intitolato «Tracing Vitruvio», per Palazzo Mosca, edificio nel cuore della città marchigiana, dove è esposto un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano, vera e propria summa di tutta la pittura sacra del XV secolo, quale l'«Incoronazione della Vergine» di Giovanni Bellini.
Il percorso si snoda partendo dal cortile, con monumentali istallazioni ispirate alle architetture vitruviane, accompagnate da una traccia sonora composta per l’occasione dal gruppo «Tuktu and the Belugas Quartet».
La mostra, realizzata grazie alla collaborazione della M77 Gallery di Milano, prosegue, quindi, all’interno del museo seguendo due fili conduttori.
Il primo, più tradizionale e squisitamente filologico, intende analizzare la fortuna critica ed editoriale del testo vitruviano, risalente al I sec. a.C. e ampiamente diffuso nel Rinascimento, grazie all’introduzione della stampa.
Questo successo è puntualmente documentato dalle raccolte della Biblioteca Oliveriana, che annoverano numerose edizioni del «De Architectura», alcune molto rare e preziose. Dieci di queste, accuratamente selezionate, sono riunite ai musei civici e presentate in ordine cronologico, aperte ognuna su uno dei dieci libri di cui l’opera è composta, in modo da poterne avere una panoramica completa e analizzarne più approfonditamente i contenuti.
L’altro percorso, più libero e visionario, è espressione della cifra stilistica di Agostino Iacurci, la cui ricerca attuale è molto vicina ai temi dell’antico e allo studio sull’uso del colore nell’architettura e nelle arti plastiche di età classica.
Per accompagnare la presentazione dei volumi del «De Architectura», l’artista ha realizzato un percorso in cui le forme e le creazioni vitruviane sono ridisegnate utilizzando il suo linguaggio pittorico caleidoscopico e surreale.
Cariatidi, capitelli, colonne, templi, sembrano rianimarsi, rivitalizzati dall’uso di cromie forti e brillanti, liberando l’antichità classica dall’etereo candore e dall’aura di olimpico equilibrio che il Neoclassicismo ci ha tramandato. L’artista ci restituisce così l’immagine di un’architettura nata da un popolo mediterraneo, fortemente legata al colore, alla luce, sempre in costante tensione tra l’apollineo e il dionisiaco, tra ragione e sentimento.
L’intervento di Iacurci si pone come un ulteriore commentario per immagini ai volumi, in dialogo con le edizioni e con gli artisti del passato che, attraverso la tecnica dell’incisione, si erano impegnati ad illustrare gli scritti di Vitruvio, spesso con risultati estetici di altissimo livello. L’artista ne fornisce una nuova e originale interpretazione attraverso il suo sguardo contemporaneo, intelligente e ironico, con una componente fortemente onirica. Il risultato è quasi un sogno a occhi aperti, una sorta di moderna «Hypnerotomachia Poliphili», il celebre romanzo allegorico attribuito a Francesco Colonna, corredato da centosessantanove illustrazioni xilografiche, che costituisce una delle fonti iconografiche più celebri e utilizzate nel Rinascimento, di cui è esposta la magnifica edizione di Aldo Manuzio (Venezia, 1499).
Una mostra innovativa e dal carattere sperimentale, dunque, quella a Palazzo Mosca, ulteriore testimonianza di come la cultura classica possa rappresentare sempre una fonte d’ispirazione di primaria importanza per un artista contemporaneo e di come Pesaro, con il suo ricco patrimonio, sia un perfetto laboratorio culturale.

Didascalie delle immagini
[Figg. dalla 1 alla 6] Allestimento della mostra «Tracing Vitruvio». Foto di Michele Angelucci;[fig. 7] Installazione per la mostra «Tracing Vitruvio» all'esterno di Palazzo Mosca. Foto di Palmieri

Informazioni utili  «Agostino Iacurci. Tracing Vitruvio. Viaggio onirico tra le pagine del De Architectura». Palazzo Mosca – Musei Civici, viale Mosca, 29 – Pesaro. Orari: da martedì a giovedì, ore 10.00-13.00, da venerdì a domenica e festivi, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-18.30. Ingresso con Biglietto unico Pesaro Musei (vale 15 giorni e consente l’accesso a Consente l’accesso a Palazzo Mosca – Musei Civici, Museo Nazionale Rossini, Casa Rossini, Domus – Area archeologica di via dell’Abbondanza, Area archeologica e Aantiquarium di Colombarone, Centro Arti Visive Pescheria): intero € 13,00, ridotto (ruppi min. 15 persone, Possessori di tessera FAI, TOURING CLUB ITALIANO, COOP Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Nordest, Estense, ISIC, ITIC, IYTC Card, Studenti universitari, Amici del Rof) € 11, ridotto speciale (possessori di Card Pesaro Cult, Gruppi accompagnati da guida turistica della Provincia di Pesaro- Urbino), gratuito per minori di 19 anni, soci ICOM, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e persona che li accompagna, possessori di Carta Famiglia del Comune di Pesaro. Informazioni: pesaro@sistemamuseo.it | tel. 0721.387541. Fino al 24 novembre 2019

mercoledì 23 ottobre 2019

Anche il sax ha il suo museo. In mostra a Fiumicino la collezione di Attilio Berni

È lo strumento principe del jazz come documentano le esemplari interpretazioni di Ben Webster, Ornette Coleman, Charlie Parker, John Coltrane, Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Dexter Gordon. Stiamo parlando del sassofono, la cui invenzione si deve al flautista e clarinettista Antoine-Joseph Sax (Dinant, 6 novembre 1814 – Parigi, 7 febbraio 1894), detto Adolphe, membro di una famiglia franco-belga di costruttori di strumenti musicali in metallo.
Frutto del tentativo di migliorare il timbro del clarinetto basso, il sassofono fece la sua comparsa sulla scena musicale nel 1840; il brevetto dello strumento risale, invece, a sei anni dopo e porta la data del 28 giugno 1846.
Accolto con diffidenza nell’ambiente della musica accademica, tanto che il suo inventore trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, il sassofono venne usato dapprima nelle bande militari e solo in seguito si affermò nella musica colta grazie al lavoro di autori come Hector Berlioz, Jean-Marie Londeix, Georges Kastner e, poi, Georges Bizet, Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Camille Saint-Saëns, Armand Limnander e Jérôme Savari.
Il sassofono diventò presto anche materia di studio: le prime cattedre di questo strumento vennero istituite a Parigi, nel 1857, per volontà dello stesso Adophe Sax e al Conservatorio di Bologna, nel 1844, grazie alla geniale intuizione di Gioachino Rossini, che inserì questo strumento anche in una delle sue ultime composizioni: «La corona d’Italia».
Ma è Oltreoceano, nei primi anni del Novecento, che le note suadenti e malinconiche del sax incontrano il giusto riconoscimento, anzi entrano nella leggenda.
Lo strumento conosce, infatti, il suo periodo d'oro grazie ai ritmi sincopati del jazz e ai suoi principali interpreti, ovvero Lester Young e Coleman Hawkins, passando per Louis Armstrong, Charlie Parker, John Coltrane e Stan Getz, fino agli odierni «mostri sacri» Michael Breker o Joshua Reedman.
Tra i jazzisti e il sassofono è amore a prima vista e il motivo è semplice: «si può piangere e parlare e piangere e gridare nel sassofono, come si fa con la voce».
Al «tubo dal fascino imprescindibile» e a tutte le sue metamorfosi è stato da poco dedicato anche un museo, il primo nel panorama internazionale. Si trova alle porte di Roma -a Maccarese, una frazione di Fiumicino- ed è nato grazie all’amore, alla conoscenza e alla generosità del musicista e docente laziale Attilio Berni, che ha messo a disposizione la sua ricca raccolta, composta in oltre trent’anni, per «dare forma -spiega lo stesso collezionista- alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali».
Circa seicento pezzi (alcuni molto rari), oltre ottocento fotografie d’epoca, vinili, LP, spartiti, libri, documenti originali e, persino, cinquecento giocattoli a forma di sax compongono il patrimonio del Museo del Saxofono, che si sviluppa su trecentocinquanta metri quadrati di sale espositive e uno spazio esterno altrettanto grande per i concerti estivi, oltre a due sale archivio.
Dal piccolissimo soprillo di trentadue centimetri al gigantesco sax sub-contrabbasso di quasi tre metri, costruito dall’artigiano brasiliano Gilberto Lopes ed esposto nel 2014 al Louvre di Parigi in una mostra su Adolphe Sax, il percorso espositivo permette di vedere tante curiosità come i primi esperimenti dell’inventore belga, il Grafton Plastic, il mitico Conn O-Sax, il Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, il Jazzophone, i grandiosi Conn Artist De Luxe, i sax a coulisse, i saxorusofoni Bottali, il Tex Beneke, l’Ophicleide, il Tex Beneke e i tenori Selmer appartenuti a Sonny Rollins.
Quello di Maccarese è, dunque, un percorso che permette al visitatore di districarsi nelle innumerevoli metamorfosi del saxofono grazie al contatto diretto con i grandi capolavori delle fabbriche Conn, Selmer, King, Buescher, Martin, Buffet Crampon, Rampone, Borgani, Couesnon, seguendo un connubio tra arte e artigianalità, creatività e tradizione che dura da quasi centottant’anni.
Al Museo di Attilio Berni sono, inoltre, esposti anche strumenti posseduti e suonati da importanti personaggi e interpreti come Rudy Wiedoeft, Sonny Rollins, Adrian Rollini, Marcel Mule, Benny Goodman e Tom Scott.
Mentre la raccolta fotografica documenta la storia del sax, dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni Venti fino alle band degli anni Settanta. Tra i pezzi esposti ci sono fotografie originali di Sigurd Rascher, madame Helise Hall, Dorothy Johnson, del Schuster Sister Saxophone Quartet, dei Six Brown Brothers e delle gemelle Violet & Daisy Hilton.
Una segnalazione meritano, infine, i sax giocattolo, di vitale importanza per la diffusione della cultura dello strumento, che vennero fabbricati principalmente in America e nei Paesi dell’Est Europa.
Un percorso, dunque, interessante quello del museo di Maccarese per scoprire tutti i volti, anche i più giocosi, di uno strumento capace di dar voce alle emozioni. Uno strumento dal fascino particolare, di cui Charlie Parker diceva: «Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».

Informazioni utili 
Museo del Saxofono,  via dei Molini - Maccarese - Fiumicino (Roma). Orari: martedì - venerdì, ore 15.00 - 19:00; sabato - domenica, ore 10.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: adulti € 7,00, studenti e over 65, € 5,00, bambini fino ai 6 anni gratuito. Visite guidate: € 50,00 per minimo 12 persone. Informazioni: tel. 06.61697862. Sito web: www.museodelsaxofono.com.