ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 8 novembre 2019

«Il volo di Leonardo», al Piccolo Teatro di Milano la storia leggendaria del «grande nibbio»

«Nessuna guarda a cosa c’è davanti ai suoi piedi. Tutti guardano le stelle», diceva il poeta e drammaturgo romano Quinto Ennio, il padre della letteratura latina.
Forse proprio quegli occhi rivolti al cielo, a seguire il moto degli astri, a studiare i fenomeni meteorologici o a guardare il librare degli uccelli, sono all'origine di uno dei sogni più ricorrenti nella storia dell’umanità: volare.
Tutti, almeno per sentito dire, conoscono il mito greco di Icaro, il figlio dell’inventore Dedalo, che riuscì a fuggire dal labirinto del re cretese Minosse e dal suo Minotauro, grazie a un paio di ali di cera, anche se quel volo gli fu fatale: inebriato dall'esperienza, il giovane si avvicinò troppo al sole e precipitò in mare.
Ma quello di Dedalo è solo uno dei tanti miti nati nell'antichità, prima di ogni invenzione rivoluzionaria, quando l’uomo poteva volare solo con la fantasia. Basti pensare, per esempio, ai tappeti volanti delle antiche favole orientali o alla divinità egizia di Iside, ritratta con le ali, o ancora a Weland il fabbro, mitologico personaggio di origine germanica capace di fabbricare spade indistruttibili, armature e ali per volare grazie alle tecniche apprese dai nani, abili forgiatori di metalli.
Anche Leonardo da Vinci non fu immune al fascino del volo. Mentre Filippo Brunelleschi sfidava le grandi altezze con la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, che avrebbe eclissato qualsiasi altra costruzione del primo Rinascimento con la solennità dei suoi centoquattordici metri di altezza. Leonardo cercava di oltrepassare i limiti umani con i suoi studi contenuti nel «Codice di volo degli uccelli», fascicoletto composto da diciotto fogli di ventuno per quindici centimetri, fitto di note, schizzi, osservazioni, disegni e intuizioni scientifiche sulle leggi fisiche che permettono a passeri, rondini e colombi di librarsi in volo.
Scritto nel 1505, il Codice, oggi conservato alla Biblioteca reale di Torino, rappresenta il primo passo di quell'ardito esperimento che, secondo la leggenda, Leonardo compì nel 1506 sul Monte Ceceri, nei pressi di Fiesole, con il suo prototipo di macchina da volo: «il grande nibbio».
Prende spunto da questa storia lo spettacolo «Il volo di Leonardo», in cartellone da sabato 9 a domenica 24 novembre a Milano, nella Scatola magica del Teatro Strehler.
In occasione dei cinquecento anni dalla morte del genio vinciano, Flavio Albanese racconta ai più piccoli «i sogni, il pensiero, la vita, le peripezie, i segreti» di quello che è universalmente riconosciuto come uno più grandi geni dell’umanità, un uomo dalla personalità particolarissima personalità e dall'indomita e inesauribile voglia di conoscere e insegnare.
A raccontare la figura di Leonardo è il suo amico e collaboratore prediletto: Tommaso Masini detto Zoroastro, che fu protagonista anche dell’esperimento con «il grande nibbio», una delle invenzioni leonardesche più visionarie e anticipatrici. L’esperimento non funzionò perfettamente, ma la fede di Leonardo nel volo umano restò sempre immutata, a testimonianza di una altrettanto profonda fede: quella nella capacità dell’uomo di superarsi e di imparare dall'esperienza, che, al di là dei risultati, è sempre maestra di vita.
Attraverso gli occhi del giovane Tommaso, interpretato da Albanese (che è anche autore e regista dello spettacolo), i bambini dai 9 anni in su faranno così un viaggio avventuroso tra esperimenti scientifici, azzardi culinari e la realizzazione dell’«Ultima Cena», per scoprire come i sogni, prima o poi, possano diventare realtà. L’importante è crederci e non focalizzare l’attenzione sull'errore.
Risultano così profetiche le parole dello stesso Leonardo: «Una volta che avrete imparato a volare, camminerete sulla terra guardando il cielo perché è là che siete stati ed è là che vorrete tornare».

Informazioni utili
Il volo di Leonardo. scritto, diretto e interpretato da Flavio Albanese. Per bambini dai 9 anni in  su. Piccolo Teatro Strehler - Scatola Magica, Largo Greppi, 1 – Milano. Orari: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, ore 9.45 e 11.15; sabato, ore 15 e 16.30; domenica, ore 11. Durata: 55 minuti senza intervallo. Biglietto: posto unico 10 euro. Informazioni e prenotazioni: tel. 0242411889. Sito web: www.piccoloteatro.org. Dal 9 al 24 novembre 2019. 

giovedì 7 novembre 2019

«L’abisso», Davide Enia al Piccolo con il suo monologo su Lampedusa

«Noi siamo figli di una traversata in mare». Siamo figli di Europa, una fanciulla della città fenicia di Tiro che, un giorno, decise di fuggire dal suo paese in fiamme, sotto assedio. Quella giovane donna corse sulla sabbia del deserto e, quando la terra finì, attraversò il mare sul dorso di un toro bianco, sotto le cui sembianze si nascondeva il dio Zeus, per giungere sull’isola di Creta, di cui, poi, divenne regina. «Questa è la nostra origine. Ecco chi siamo [….] Scuru».
Si chiude con il racconto mitologico dedicato alla madre di Minosse -una leggenda, questa, narrata anche da Omero nell’«Iliade» e da Ovidio nelle «Metamorfosi»- «L’abisso», il monologo scritto, diretto e interpretato dallo scrittore e drammaturgo Davide Enia che, da martedì 12 a domenica 24 novembre, sarà in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano.
Le repliche saranno precedute mercoledì 13 novembre, alle ore 17, da un incontro con il pubblico al Chiostro di via Ravello, occasione utile per approfondire i temi al centro della pièce, co-produzione del Teatro di Roma, del Biondo di Palermo e dell’Accademia Perduta - Romagna Teatri, in collaborazione con il Festival internazionale di narrazione Arzo.
Tratto dal romanzo «Appunti per un naufragio», pubblicato da Sellerio editore nel 2017, lo spettacolo porta il pubblico in quella terra complessa e affascinante che è la Sicilia e in quella piccola isola del Mediterraneo, Lampedusa, che da anni si trova ad affrontare, prima tra tutti, l’emergenza dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, i tanti sbarchi di migranti che arrivano nel nostro Paese in cerca di un futuro migliore.
«L’abisso» di cui parla l’autore nel titolo è, dunque, quello del nostro «mare magnum», che talvolta culla i sogni di chi ha detto addio per sempre alla sua patria fino alla vista di un lembo di terra che diventa sempre più grande, talaltra ingoia, tra onde gigantesche e nelle sue acque fredde, essere umani, portandosi via per sempre le loro speranze.
Davide Enia è uomo di mare. È nato a Palermo. La Sicilia è casa sua. Lampedusa la conosce bene. «Quando ho visto il primo sbarco ero con mio padre -racconta-. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi. Nell’arco degli anni sono tornato sull’isola, costruendo un dialogo continuo con i testimoni diretti: pescatori, personale della Guardia Costiera, residenti, medici, volontari e sommozzatori».
Le loro parole e, soprattutto, i loro silenzi sono diventati un racconto, testimonianza storica, percorso esistenziale: «Durante i nostri incontri -spiega ancora lo scrittore- si parlava in dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia».
La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali: gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare restituisce corpi senza vita di uomini, donne, bambini.
Non serve molto a Davide Enia per raccontare questa storia: una sedia per lui e una per il suo compagno di scena, Giulio Barocchieri, autore della partitura musicale composta secondo la logica dell’accumulo, dove «note e rumori si sommano uno all’altro, in progressione, senza scampo, creando disequilibri continui, echi distorti flebili ma persistenti».
Gli sbarchi, l’accoglienza, la cura dei profughi senza strutture sanitarie, il peso che ciascun migrante si porta addosso sono tanti piccoli frammenti di una stessa storia, non semplice da raccontare. Davide Enia si rende conto che il rischio della spettacolarizzazione della tragedia è dietro l’angolo. «Il lavoro -spiega l’autore- è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione del movimento interno».
È la parola, dunque, la grande protagonista di questo spettacolo di narrazione e di teatro civile, che nella passata stagione si è aggiudicato i premi Hystrio Twister 2019 e Le Maschere del teatro italiano 2019, riconoscimenti più che meritati. Davide Enia parla alle nostre coscienze, le scuote e la domanda che a più riprese si pone diventa anche nostra: «che cosa posso fare?». Impossibile rimanere indifferenti.

Informazioni utili
L’abisso. Piccolo Teatro Grassi , via Rovello, 2 – Milano. Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16. Durata: 75 minuti senza intervallo. Prezzi: platea € 33,00, balconata € 26,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 02.42411889. Sito internet: www.piccoloteatro.org. Dal 12 al 24 novembre 2019. 

mercoledì 6 novembre 2019

«Jazz Icons of the ‘60s», quando la musica è una passione di famiglia

Per quasi quarant’anni ha svolto un ruolo fondamentale nella divulgazione e promozione della musica jazz in Italia. Sofisticato intenditore musicale, impeccabile organizzatore di concerti, saggista e giornalista di settore tra i più autorevoli al mondo, Arrigo Polillo (Pavullo nel Frignano, 12 luglio 1919 - Milano, 17 luglio 1984) è stato tra le persone che hanno portato il grande jazz in Italia. C'è, infatti, il suo nome dietro a tante trasferte sui palcoscenici italiani, già a partire dai primi anni Cinquanta, di importanti protagonisti della scena internazionale, da Louis Armstrong a John Coltrane, da Ornette Coleman a Duke Ellington, da Ella Fitzgerald a Miles Davis e Thelonious Monk.
Quella passione per le note suadenti del jazz Arrigo Polillo è riuscito a trasmetterla anche al figlio Roberto, fotografo e informatico milanese, classe 1946, autore di progetti come «Impressions of the World», un viaggio in immagini attraverso venticinque Paesi di tutto il mondo, e «Future and The City», studio di ipotesi visive sulle città del futuro.
«Sono cresciuto con mio padre tra giradischi a tutto volume -racconta, infatti, Roberto Polillo- e fu proprio lui a incoraggiare la mia passione: la sua rivista («Musica Jazz», di cui fu caporedattore dal 1945 al 1965 e direttore dal 1965 al 1984, ndr), aveva bisogno di immagini. Così a 16 anni mi regalò una buona macchina fotografica e mi mise al seguito dei musicisti americani in tournée. Mi ritrovai a fotografare praticamente ogni icona jazz del Novecento. Stavo sempre con loro, ma li inquadravo quando non se ne accorgevano, mimetizzandomi sul palco o nei camerini».
Parte di quelle immagini sono ora in mostra a Milano, negli spazi della Galleria Aprés-coup Arte, nata due anni fa nel cuore del quartiere Porta Romana per iniziativa di David Ponzecchi, grazie alla collaborazione della Noema Gallery, realtà diretta da Aldo Sardoni nel cuore di Brera, che rappresenta il fotografo milanese in Italia.
«Jazz Icons of the ‘60s», questo il titolo della rassegna, è inserita nell’ambito degli eventi collaterali per la quarta edizione della rassegna «JazzMi», in programma a Milano fino al prossimo 10 novembre, che festeggia così i cento anni dalla nascita di Arrigo Polillo e i tre quarti di secolo di «Musica Jazz», la più longeva pubblicazione europea del settore.
L’esposizione, visitabile fino al 10 gennaio, allinea una quarantina di immagini, molte di grande formato, scattate durante una serie di concerti tenutisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta a Milano, San Remo, Bologna, Lugano, Pescara, Juan-Les-Pins, Montreaux e in molte altre città.
A selezionare gli scatti, ristampati a partire dai negativi originali dell’epoca, è stato il musicologo Francesco Martinelli, che per l’occasione si è avvalso del contributo del critico e storico della fotografia Roberto Mutti.
Davanti agli occhi del visitatore scorrono i volti dei più grandi interpreti del jazz: Louis Armstrong, Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk, Ella Fitzgerald, Ray Charles, Gerry Mulligan e Charles Mingus.
Non mancano lungo il percorso espositivo le foto di due tra gli interpreti di questa edizione del festival milanese «JazzMi»Herbie Hanckock e Archie Shepp,  che Roberto Polillo ha ripreso rispettivamente nel 1972 e nel 1974 in due concerti a Bergamo.
Ci sono in mostra alla Galleria Aprés-coup Arte anche alcuni scatti iconici della storia della musica di quegli anni, tutti ormai entrati nell'immaginario collettivo. È il caso della fotografia che ritrae il primo concerto di John Coltrane e del suo quartetto in Italia, al Teatro dell’Arte di Milano. È il 2 dicembre 1962.
Per Roberto Polillo, che ha iniziato la sua attività al settimo festival del jazz di Sanremo, è il vero inizio di un’avventura nel mondo della fotografia di musica. «Ricordo ancora distintamente, a distanza di anni -scrive il fotografo nel libro «Swing Bop and Free. Il Jazz degli anni ‘60»-, l’impressione fortissima di quel concerto: la musica e l’uomo Coltrane che, a due metri dalla mia macchina fotografica, in smoking, urlava con il suo strumento grondando rivoli di sudore, totalmente assorto in una rappresentazione quasi mistica, quale mai si era vista prima nel jazz».
Porta la data del 1962 anche un altro scatto di John Coltrane firmato da Polillo, che ha fatto il giro del mondo: il celebre e intenso profilo del musicista, con il sigaro in bocca. «Tutti -svela il fotografo milanese-hanno pensato che in questa foto Coltrane avesse uno sguardo particolarmente profondo, mistico...invece stava aspettando le valigie a Linate ed era in preda al jet lag».
Da allora Roberto Polillo segue sempre il padre nelle sue trasferte e scatta immagini che servono alla rivista «Musica Jazz»: ritratti dei musicisti più importanti al loro arrivo negli aeroporti, in teatro durante le prove e i concerti, e qualche volta fuori dal palco, dietro le quinte. È il caso dei due scatti di Miles Davis e Dizzy Gillespie presenti in mostra, nei quali i due musicisti sono fermati dall'obiettivo poetico e discreto di Roberto Polillo durante due concerti a Milano, il primo tenutosi nel 1964 al Teatro dell’Arte, il secondo al teatro Lirico nel 1966.
Il fotografo milanese -le cui opere sono esposte stabilmente alla Fortezza medicea di Siena, sede dell’Accademia nazionale del jazz- è protagonista, in questo inizio di novembre, anche della mostra collettiva «Milano Anni 60 - Storia di un decennio irripetibile», per la curatela di Stefano Galli, allestita negli spazi di Palazzo Morando a Milano.
È qui che si trova uno dei suoi scatti più belli: l'immagine di Miles Davis "beccato" a suonare un sassofono, e non l’inseparabile tromba. «Questa è una foto speciale –ha rivelato Roberto Polillo- e la situazione in cui fu scattata è stata raccontata da mio padre nel suo libro «Stasera Jazz». Miles si era molto arrabbiato, perché un giornalista lo aveva disturbato in teatro, subito prima dell’inizio del concerto, per un’intervista. Il giornalista fu cacciato in malo modo, e Davis per ripicca annunciò a mio padre (che organizzava il concerto) che non avrebbe più suonato. Tutto però alla fine si risolse per il meglio, e la foto documenta il momento della pace: Davis, scherzando con mio padre (che si vede sullo sfondo), imbracciò un sassofono imitando i movimenti impacciati di un sassofonista drogato. Io, che assistevo alla scena, riuscii a scattare al volo questa foto, mossa e sfuocata. Probabilmente l’unica foto esistente in cui Davis suona (o finge di suonare) un sassofono».
Uno dei tanti aneddoti, questo, che Roberto Polillo può raccontare, svelando il volto sconosciuto del periodo d’oro del jazz e quello dei suoi protagonisti, virtuosi della tromba, del sax, del pianoforte, ma soprattutto geni dell’improvvisazione.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Roberto Polillo, John Coltrane, Milano 1962; [fig. 2] Roberto Polillo, Ella Fitzgerald, Milano 1968; [fig. 3] Roberto Polillo, Duke Ellington, Milano 1966; [fig. 4] Roberto Polillo, Miles Davis e Arrigo Polillo, Milano 1964; [fig. 5] Roberto Polillo, Herbie Hancock, Bergamo 1972; [fig. 6] Roberto Polillo, Thelonious Monk, Milano 1964; [fig. 7] Roberto Polillo, Archie Shepp, Bergamo 1974

Informazioni utili
Roberto Polillo. Jazz Icons of the ‘60s. Galleria Aprés coup Arte, via Privata della Braida, 5 - Milano. Orari:dal martedì al sabato, dalle ore 11.30 alle 23.00. Ingresso libero. Sito: http://www.apres-coup.it/. Fino al 10 gennaio 2020.