ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 15 novembre 2019

Man Ray e le sue donne: duecento scatti in mostra a Torino

È il 1924. Man Ray (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), artista di spicco prima della stagione dadaista e poi di quella surrealista, rimane sedotto da «La Grande Baigneuse di di Valpinçon», opera realizzata nel 1808 da Jean-Auguste-Dominique Ingres, oggi conservata al Louvre. Con quella tela in testa, mette in posa la sua modella Kiki de Montparnasse, nome d’arte della cantante e cabarettista Alice Prin, una delle figure più affascinanti della ruggente Parigi degli anni Venti. La veste con un grande turbante e trasforma, idealmente, la sua schiena nuda in uno strumento musicale, disegnandole sopra le due F che simboleggiano la viola e il violoncello. Poi scatta e quella fotografia, dall’elegante bianco e nero, finisce per diventare una delle immagini più iconiche del Novecento.
L’opera, intitolata «Le violon d'Ingres», è una delle duecento immagini che compongono il percorso espositivo della mostra «wo/MAN RAY», allestita fino al prossimo 19 gennaio a Torino, negli spazi di Camera – Centro italiano per la fotografia.
La rassegna, per la curatela di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, ripercorre il rapporto dell’artista con l’universo femminile, fonte di ispirazione primaria dell’intera sua poetica, proprio nella sua declinazione fotografica.
Tra le immagini selezionate, realizzate a partire dagli anni Venti fino alla morte dell’artista (avvenuta nel 1976), ci sono altre icone del Novecento come «Lacrime di vetro» del 1932, con il primo piano degli occhi di un’anonima ballerina di can-can bagnati da gocce rotondamente perfette, «Noire et Blanche» del 1926, con il volto di una donna dai capelli neri appoggiato sul tavolo, mentre con una mano sorregge una scultura africana dalle forme stilizzate, e la «Prière» (1930), con in primo piano le mani e il fondoschiena di Kiki de Montparnasse.
Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo chicche come il portfolio capolavoro «Electricitè» (1931) e il rarissimo «Les mannequins. Résurrection des mannequins» (1938), testimonianza unica di uno degli eventi cruciali della storia del Surrealismo e delle pratiche espositive del XX secolo, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi del 1938.
Appare evidente dalla mostra, resa possibile grazie alla collaborazione di istituzioni quali lo Csac di Parma e il Mast di Bologna (solo per fare due esempi), come Man Ray sia stato capace di reinventare non solo il linguaggio fotografico, ma anche la rappresentazione del corpo e del volto, i generi stessi del nudo e del ritratto.
Attraverso i suoi rayographs, le solarizzazioni, le doppie esposizioni, il corpo femminile è, infatti, stato sottoposto a una continua metamorfosi di forme e significati, divenendo di volta in volta forma astratta, oggetto di seduzione, memoria classica, ritratto realista, in una straordinaria -giocosa e raffinatissima– riflessione sul tempo e sui modi della rappresentazione, fotografica e non solo.
Assistenti, muse ispiratrici, compagne di vita e di avventure intellettuali, le donne protagoniste della mostra allestita a Torino sono figure centrali nella storia di quegli anni come Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse e Nusch Eluard, e artiste di straordinario talento come Lee Miller, Berenice Abbott e Dora Maar. Accanto a loro c’è anche Juliet Browner, l’inseparabile compagna di una vita, a cui Man Ray dedica lo strepitoso portfolio «The Fifty Faces of Juliet» (1943-1944), cinquanta immagini in bianco e nero, spesso ritoccate a mano con pastelli colorati o stampate con innovative tecniche fotografiche, in cui si assiste alla straordinaria trasformazione della donna in tante figure diverse, in un gioco di affetti e seduzioni, citazioni e provocazioni.
In mostra a Camera sfilano anche le istantanee di alcune di queste donne che sono state prima modelle e poi allieve dell’artista. È così possibile ammirare un corpus di opere, riferite in particolare agli anni Trenta e Quaranta, vale a dire quelli della loro più diretta frequentazione con l’ambiente dell’avanguardia dada e surrealista parigina. Ecco così gli splendidi ritratti dei protagonisti di quella stagione storica, tra cui Eugene Atget o James Joyce, scattati da Berenice Abbott tra il 1926 e il 1938 a Parigi e a New York, capitali dell’arte di avanguardia della prima metà del XX secolo. Dora Maar è, invece, presente in mostra con opere riconducibili a un linguaggio di street photography e di paesaggio come ben documenta l’opera «Gamin aux Chaussures Dépareillés» (1933). Mentre l’indagine sul corpo femminile è il fulcro del lavoro di Lee Miller, della quale sono esposti numerosi autoritratti e nudi di modelle e modelli che lavoravano con lei sia in ambito di ricerca che di fotografia di moda.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella proposta a Torino perché permette sia di vedere alcune immagini simbolo del Novecento sia di ricostruire una storia ancora poco conosciuta, quella dell’interesse dell’artista americano per i ritratti femminili. Un interesse che André Breton commentò con queste parole: «Solo da Man Ray potevamo attenderci la Ballata delle donne del tempo presente».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Man Ray, Violon d’Ingres (Kiki), 1924 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 2] Man Ray, Noire et blanche, 1926 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [Fig. 3] Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941/1943. Cm 39,5 x 34 x 2,7. Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 4] Man Ray, Electricité, 1931. Portfolio di 10 rayografie. Cm 
 
Informazioni utili 

«wo/MAN RAY». CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine, 18 – Torino. Orari: lunedì ore 11.00 – 19.00, martedì chiuso
, mercoledì ore 11.00 – 19.00, giovedì ore 11.00 – 21.00, venerdì ore 11.00 – 19.00, sabato ore 11.00 – 19.00, domenica ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Ingresso: intero € 10,00, ridotto (fino a 26 anni, oltre 70 anni Soci Touring Club Italiano e associazioni aventi diritto) € 6,00, ingresso gratuito per bambini fino agli 11 anni. Informazioni utili: camera@camera.to. Sito internet: www.camera.to. Fino al 19 gennaio 2020.

martedì 12 novembre 2019

«Pedigree», Rodrigo Hernández rilegge la storia del marchio Campari

Si respira il clima festoso e colorato del Messico alla Galleria Campari di Sesto San Giovanni. Lo spazio museale alle porte di Milano, centro di ricerca e produzione culturale nato nel 2010 in occasione dei centocinquant’anni dalla fondazione della nota azienda di beverage, ha da poco aperto le porte a una personale di Rodrigo Hernández (Città del Messico, 1983).
«Pedigree» -questo il titolo dell’esposizione, per la curatela di Ilaria Bonacossa- allinea otto sculture che l’artista sudamericano ha voluto mettere in dialogo con una speciale carta da parati optical realizzata in omaggio alla vicenda della famiglia Campari e alla sua storia imprenditoriale e creativa.
Si rinnova così il sodalizio tra il celebre marchio milanese e «Artissima», la fiera internazionale d’arte contemporanea di Torino, che dal 2017 ha dato vita al Campari Art Prize, riconoscimento riservato ad artisti under 35, selezionati in base alla «ricerca sul potere evocativo del racconto, sulla dimensione comunicativa e sulla capacità narrativa» della loro opera.
Rodrigo Hernández, presentato nell’ambito dell'edizione 2018 del prestigioso evento mercantile piemontese dalla galleria Madragoa di Lisbona, si è aggiudicato il riconoscimento dopo Sári Ember, vincitrice nel 2017, e prima di Julian Irlinger, premiata soto pochi giorni all'Oval del Lingotto.
A selezionare il lavoro dell'artista sudamericano è stata una giuria composta da Lorenzo Fusi, direttore di Piac - Fondation Prince Pierre di Monaco, da Abaseh Mirvali, direttrice e capo curatrice del Contemporary Art Museum Santa Barbara, e da Claire Tancons, co-curatrice della Sharjah Biennal 14.
Rodrigo Hernández -secondo la motivazione data per l'assegnazione del riconoscimento- «rivisita una storia e un'estetica che trae spunto dall'iconografia Meso-americana così come dal modernismo europeo e dalle avanguardie italiane, e li reinterpreta nuovamente puntando sugli elementi e le componenti più essenziali di questi linguaggi e tradizioni. In tal modo, crea un vocabolario nuovo e unico, ma allo stesso tempo ricorda le molte storie e i riferimenti da cui ha attinto».
Attraverso un vocabolario formale del tutto personale e unico, sospeso tra ironia e classicità, e per mezzo di installazioni, sculture e disegni, l’artista sudamericano ricorre per le sue opere a elementi tratti dall’iconografia antica, dalla storia dell’arte e dalla quotidianità.
Ispirato dall’ambiguità delle immagini, Rodrigo Hernández sviluppa i propri lavori lasciandosi guidare dall’immaginazione e dalle associazioni personali, legate spesso a suggestioni letterarie, come ad esempio i testi di Rovert Walser, Juan Rulfo e Patrick Modiano. Da quest’ultimo, in particolare da un suo scritto omonimo, prende le mosse il titolo «Pedigree» dato alla mostra: l’autore in questo volume parla di sé come «un cane che finge di avere un pedigree», stimolo accolto dall’artista per ragionare sull’importanza di un certificatore di qualità.
Rodrigo Hernández ha scelto di intrecciare il tono e la struttura di questa narrazione autobiografica con la sua lettura della storia di Campari. «Ispirato e affascinato dalla vita del fondatore Gaspare -ha raccontato l'artista, mi sono trovato a riflettere sul significato e le implicazioni che la creazione dell’identità di una marca potesse avere nell’Ottocento».
Fonte di ispirazione sono state le originali testimonianze d’arte e design custodite nel museo aziendale di Sesto San Giovanni.
L’artista ha, più precisamente, focalizzato la sua attenzione sull’ideazione e sulla registrazione di un pioneristico «logo» ottocentesco: uno stemma Campari, rappresentante uno scudo con la figura di due cani accoccolati e sormontato da un elmo con foglie ornamentali.
Da questo spunto sono nate le nuove sculture dell’artista, che uniscono elementi astratti e figurativi, come ad esempio cani, edifici, uomini e macchine, dando vita a figure totemiche apotropaiche dai colori vivaci che richiamano alla memoria lo stile di un altro grande artista che ha lavorato per Campari: Fortunato Depero.
La mostra, allestita al secondo piano del museo, offre anche l’occasione per scoprire o riscoprire la Galleria Campari, spazio dinamico, interattivo e multimediale, interamente dedicato al rapporto tra il noto marchio del bevarage e la sua comunicazione attraverso l’arte e il design, i cui spazi sono stati disegnati da Mario Botta tra i 2007 e il 2009.
Il museo di Sesto San Giovanni deve la propria forza all’unicità e alla ricchezza dell’Archivio storico, vero e proprio giacimento culturale trasversale, che raccoglie oltre tremila opere su carta, soprattutto affiche originali della Belle époque, ma anche manifesti e grafiche pubblicitarie dagli anni ‘30 agli anni ‘90, firmate da importanti artisti come Marcello Dudovich, Leonetto Cappiello, Fortunato Depero, Franz Marangolo, Guido Crepax e Ugo Nespolo. Negli spazi di viale Gramsci sono visibili anche caroselli e spot di noti registi come Federico Fellini e Singh Tarsem, ma anche oggetti firmati da affermati designer come Matteo Thun, Dodo Arslan, Markus Benesch e Matteo Ragni.
Le opere sono esposte sia in originale sia in versione multimediale, rielaborate da giovani Interaction Designer (Cogitanz) utilizzando modalità digitali quali un video-wall con quindici schermi dedicati ai caroselli dagli anni ‘50 agli anni ‘70, 8 proiettori in alta definizione che proiettano su una parete di trentadue metri manifesti d’epoca animati, video dedicati ad artisti, immagini tratte dai calendari Campari e spot pubblicitari dagli anni ‘80 a oggi. Infine, un tavolo interattivo con dodici schermi touch screen consente di fruire gran parte del vasto patrimonio artistico dell’azienda.
Quella di Campari si configura così come una storia fatta di brillanti intuizioni, di campagne pubblicitarie raffinate, di una strategia comunicativa all’avanguardia che ha vestito il prodotto di arte e design e ha saputo associarlo alla cultura e alla creatività italiane, traghettando il marchio verso il futuro. Un futuro di cui il Campari Art Prize è un piccolo, ma importante tassello.

Didascalie delle immagini
Installation views, Rodrigo Hernández, Pedigree, Galleria Campari, Ph Marco Curatolo

Informazioni utili 
Rodrigo Hernández - Pedigree. HQs Gruppo Campari, Viale Gramsci, 161 - Sesto San Giovanni (Milano). Orari e biglietto: visite guidate gratuite su prenotazione dal martedì al venerdì, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00; ogni secondo sabato del mese, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00 |Aperture serali, alle ore 20.00, nelle giornate del 12 novembre e del 3 dicembre 2019. Opzione 1) Visita gratuita, su prenotazione. Opzione 2) Art&Mixology (per un pubblico maggiorenne): visita guidata condotta da uno storico dell'arte e da un bartender + cocktail experience. Su prenotazione fino a esaurimento posti, € 25,00 a persona. Informazioni e prenotazioni: galleria@campari.com, tel. 02.62251. Fino al 14 febbraio 2020. 

lunedì 11 novembre 2019

«Luxardo e il cinema», a Roma trentadue «facce da film»

È stato il fotografo dei telefoni bianchi e del Ventennio fascista. Ha lasciato un’indimenticabile galleria di nudi dalla bellezza asciutta e suggestiva, con corpi maschili muscolosi e forme femminili dalle linee sinuose, capaci di evocare la grazia e l’armonia della scultura classica antica. Ha firmato campagne pubblicitarie innovative, ideando, tra l’altro, l’immagine della donnina Ferrania, sexy e ammiccante, sul modello delle pin-up americane. Ha messo in posa politici, nobili, scrittori, ma anche uomini e donne comuni. Ha prestato il suo sguardo iconico e metaforico agli anni d’oro del cinema italiano, quelli tra il 1930 e il 1960, regalandoci ritratti indimenticabili delle dive più importanti dell’epoca. Davanti al suo obiettivo, nello studio romano di via del Tritone 197 (e, dal 1944, in quello milanese di corso Vittorio Emanuele), sono passate star nostrane come Sophia Loren, Claudia Cardinale, Silvana Mangano, Lucia Bosè e Gina Lollobrigida. Stiamo parlando di Elio Luxardo (Sorocaba, 1º agosto 1908 – Milano, 27 novembre 1969), a cui la Casa del Cinema di Roma, spazio culturale gestito da Zetema e diretto da Giorgio Gosetti, dedica fino al prossimo 1° dicembre una mostra, per la curatela di Roberto Mutti, che  racconta i rapporti dell'artista con la settima arte e con gli artisti di Cinecittà.
«Luxardo e il cinema», questo il titolo dell’esposizione, allinea nello specifico trentadue scatti, provenienti dalla Fondazione 3M, istituzione permanente di ricerca e formazione, proprietaria di uno storico archivio fotografico di circa centodiecimila immagini (lastre, cartoline fotografiche, negativi, stampe vintage e riproduzioni), provenienti dalla storica azienda fotografica italiana Ferrania e da una serie di donazioni e di acquisizioni avvenute nel tempo e recenti.
Sophia Loren, Claudia Cardinale, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Marisa Merlini e Gina Lollobrigida, ma anche Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Silvana Mangano, Sergio Tofano e Giorgio Albertazzi sono alcuni dei più noti protagonisti del cinema italiano, i cui ritratti sono visibili nella rassegna romana.
Elio Luxardo, nato da genitori di origini italiane in Brasile, si affermò inizialmente come atleta e come autore di documentari. Dal padre, fotografo di professione, imparò molto lavorando con i fratelli nello studio di famiglia. Nel 1932 si trasferì a Roma e si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia col sogno di diventare regista. Abbandonò, però, quasi subito la scuola per entrare nello studio del fotografo Sem Bosch e ne rilevò, poi, l’attività affermandosi rapidamente come ritrattista. Proprio in questa veste, il fotografo, che per anni ha immortalato anche le Miss Italia, è stato in particolar modo apprezzato dai divi di Cinecittà e dagli attori di teatro per la sua capacità di ricercare la bellezza nei volti e nei corpi, e di realizzare scatti mai ripetitivi.
Il fotografo, appassionato di cinema, aveva imparato sul set a utilizzare in maniera innovativa le luci per valorizzare i volti. Nei suoi scatti, rigorosamente in bianco e nero, emergono così le caratteristiche di ognuno dei soggetti raffigurati, di cui l’artista sottolinea l’ironia di uno sguardo e la forza seduttiva di un altro, le posture più classiche e quelle insolite. Le opere di Elio Luxardo trasmettono, inoltre, un senso di plasticità, grazie alla scelta delle riprese laterali, che vedono corpi e volti occupare lo spazio in diagonale.
Raffinatezza, eleganza e divismo sono, dunque, i protagonisti della mostra romana alla Casa del Cinema, che celebra una delle massime griffe fotografiche degli anni della Dolce Vita.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1]Marisa Merlini; [fig. 2] Gina Lollobrigida; [fig. 3] Silvana Mangano

Informazioni utili 
Casa del cinema, Largo Marcello Mastroianni, 1 – Roma. Orari: lunedi – venerdì,ore16.00 – 20.00; sabato – Domenica, ore 10.00 – 13.00 / 16.00 – 20.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 060608. Sito internet: www.casadelcinema.it | www.060608.it. Fino al 1° dicembre 2019.