In mostra a Venezia la «20. malaktion» di Hermann Nitsch
«Volevo mostrare come le colature, gli spruzzi, le sbavature e gli schizzi di liquido di colore rosso possono evocare un’eccitazione intensa nello spettatore, portandolo a provare sensazioni molto forti». Così Hermann Nitsch (Vienna, 29 agosto 1938 – Mistelbach, 18 aprile 2022), padre dell’Azionismo viennese, protagonista di performance acclamate e discusse, con corpi nudi, animali sgozzati, sangue e interiora, parlava di «20. malaktion», la ventesima azione pittorica originariamente creata e presentata al Wiener Secession di Vienna nel 1987. Il lavoro è in mostra fino al 20 luglio a Venezia, negli spazi delle Oficine 800, sull'isola della Giudecca, in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Presentata da Zuecca Projects e promossa dalla Helmut Essl’s Private Collection, in collaborazione con la Galerie Kandlhofer, l’esposizione, per la curatela di Roman Grabner, si articola in un’opera di grande formato (5x20 metri) realizzata con la tecnica del pouring (colatura), collocata sulla parete frontale, un grande quadro splatter (10x10 metri), steso sul pavimento, e numerosi quadri più piccoli, per un totale di cinquantadue lavori dalla pittura gestuale e immediata.
Le opere della «20. malaktion», che fanno tutte parte della medesima collezione, quella di Hulumt Essl, rivelano come la loro genesi abbia avuto luogo tra «scoppi di furia scatenata e gesti delicati». Le tele sono allestite negli spazi delle Oficine 800 con l’intento di ricreare quella disposizione sacra, rituale, che l’artista organizzò più di trenta anni fa. L’installazione, che pervade l’intero spazio espositivo, è, infatti, completata da vesti imbrattate, fiori e un altare a significare come questo progetto estremo e cruento, dall’alta valenza teatrale, volesse condurre il pubblico a una riflessione sulla sua vita e a una conseguente catarsi e purificazione, liberandolo da tabù religiosi, morali e sessuali. Un’energia mistica e un’ebbrezza visionaria colgono, in effetti, chiunque entri nello spazio espositivo della Giudecca per vedere quella che è a oggi la più grande retrospettiva mai realizzata in Italia sul padre dell’Azionismo viennese.
Per maggiori informazioni: http://www.zueccaprojects.org/.
Nelle immagini: «Hermann Nitsch - 20. malaktion». Venezia, Oficine Ottocento. Fino al 20 luglio 2022. Vista della mostra. Foto di Marcin Gierat
- A Venezia il rosso e il nero di Anish Kapoor- Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano - «Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni
«Volevo mostrare come le colature, gli spruzzi, le sbavature e gli schizzi di liquido di colore rosso possono evocare un’eccitazione intensa nello spettatore, portandolo a provare sensazioni molto forti». Così Hermann Nitsch (Vienna, 29 agosto 1938 – Mistelbach, 18 aprile 2022), padre dell’Azionismo viennese, protagonista di performance acclamate e discusse, con corpi nudi, animali sgozzati, sangue e interiora, parlava di «20. malaktion», la ventesima azione pittorica originariamente creata e presentata al Wiener Secession di Vienna nel 1987. Il lavoro è in mostra fino al 20 luglio a Venezia, negli spazi delle Oficine 800, sull'isola della Giudecca, in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Presentata da Zuecca Projects e promossa dalla Helmut Essl’s Private Collection, in collaborazione con la Galerie Kandlhofer, l’esposizione, per la curatela di Roman Grabner, si articola in un’opera di grande formato (5x20 metri) realizzata con la tecnica del pouring (colatura), collocata sulla parete frontale, un grande quadro splatter (10x10 metri), steso sul pavimento, e numerosi quadri più piccoli, per un totale di cinquantadue lavori dalla pittura gestuale e immediata.
Le opere della «20. malaktion», che fanno tutte parte della medesima collezione, quella di Hulumt Essl, rivelano come la loro genesi abbia avuto luogo tra «scoppi di furia scatenata e gesti delicati». Le tele sono allestite negli spazi delle Oficine 800 con l’intento di ricreare quella disposizione sacra, rituale, che l’artista organizzò più di trenta anni fa. L’installazione, che pervade l’intero spazio espositivo, è, infatti, completata da vesti imbrattate, fiori e un altare a significare come questo progetto estremo e cruento, dall’alta valenza teatrale, volesse condurre il pubblico a una riflessione sulla sua vita e a una conseguente catarsi e purificazione, liberandolo da tabù religiosi, morali e sessuali. Un’energia mistica e un’ebbrezza visionaria colgono, in effetti, chiunque entri nello spazio espositivo della Giudecca per vedere quella che è a oggi la più grande retrospettiva mai realizzata in Italia sul padre dell’Azionismo viennese.
Per maggiori informazioni: http://www.zueccaprojects.org/.
Nelle immagini: «Hermann Nitsch - 20. malaktion». Venezia, Oficine Ottocento. Fino al 20 luglio 2022. Vista della mostra. Foto di Marcin Gierat
«Vivere nel vetro»: a Venezia quattro designer del XX secolo e le loro creazioni per FontanaArte
Ci sono alcuni elementi d’arredo iconici come i vasi «Cartoccio» degli anni Trenta, il lampadario a sospensione «Dahlia», che riproduce un grande fiore con i petali di cristallo colorato sorretti da una struttura in ottone zapponato e nichelato, o la lampada da tavolo «Giova», che all’occorrenza si trasforma in un portafiori, nella mostra «FontanaArte. Vivere nel vetro», allestita fino al 31 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore.
Ottantacinque pezzi tra i più significativi della produzione centenaria dell’azienda milanese sono esposti ne «Le stanze del vetro», progetto culturale nato nel 2012 dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e la Pentagram Stiftung, che si avvale per l’occasione della curatela di Christian Larsen e dell’allestimento di Massimiliano Locatelli. Si tratta di vasi, lampade, portaritratti, scatole, posacenere e set da tavolo dall’eleganza raffinata e lineare, oltre a rari tavoli in cristallo con sostegni in legno, realizzati tra il 1932 e il 1996, sotto la guida di quattro affermati designer del XX secolo: Gio Ponti (1932-1933), Pietro Chiesa (1933-1948), Max Ingrand (1954-1967) e Gae Aulenti (1979-1996).
La mostra veneziana si concentra, dunque, sulle possibilità poetiche del vetro in lastre, un materiale industriale che la FontanaArte porta nel mondo del design d’autore, facendolo incontrare ora con la logica razionale del Modernismo ora la giocosità del Postmodernismo.
Il percorso espositivo, nel quale è presente una sala per ognuno dei quattro designer che furono a capo della direzione creativa dell’azienda milanese, culmina in una suite arredata con l’intento di rievocare una dimora fatta di interni in vetro, dando così forma al sogno degli architetti modernisti diventato realtà per la prima volta con Gio Ponti e Luigi Fontana.
Sull’isola di San Giorgio Maggiore, dove fino al primo maggio, è stata visitabile anche la seconda edizione di «Homo Faber», maestoso evento dedicato ai mestieri dell’alto artigianato artistico internazionale, che propone anche un focus sui maestri del Giappone e il loro ancestrale savoir-faire.
Fino al 24 luglio la Fondazione Cini presenta, inoltre, due mostre di arte contemporanea. In collaborazione con la galleria Tornabuoni, si tiene la rassegna «On Fire», a cura di Bruno Corà, con ventisei opere elaborate mediante il fuoco da artistiche delle Avanguardie novecentesche come Alberto Burri, Yves Klein, Arman, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis e Claudio Parmiggiani. Mentre, con la galleria Templon di Parigi, viene proposta una personale dell’americano Kehinde Wiley, a cura di Christophe Leribault, presidente del Musée d'Orsay e del Musée de l'Orangerie. «An Archaeology of Silence», questo il titolo dell’esposizione, include una serie di dipinti e sculture monumentali inediti, nei quali l’artista mette in luce la brutalità del passato coloniale, americano e globale, usando il linguaggio figurativo dell'eroe caduto. I nuovi ritratti mostrano giovani uomini e donne neri in posizioni di vulnerabilità che raccontano una storia di sopravvivenza e resilienza.
Per maggiori informazioni: www.cini.it.
Emilio Vedova e Arnulf Rainer, due artisti e i mali del mondo
«Un artista non può accettare la guerra. Non può accettare la sopraffazione. Voi direte: cosa centra questo con la pittura? Io vi dico: questa è la mia pittura». Suonano attuali le parole del partigiano e pittore Emilio Vedova (Venezia, 1919-2016), diffuse attraverso un video, all’interno della mostra allestita fino al 30 ottobre a Venezia, nello studio dell’artista alle Zattere, oggi spazio espositivo.
Curata da Fabrizio Gazzarri, la rassegna allinea una selezione di ventiquattro lavori, realizzati tra il 1949 e il 1993, che documentano come la pratica artistica del pittore veneziano, uno degli esponenti di spicco dell’Informale italiano, abbia tratto linfa vitale dalle vicende politiche e sociali del suo tempo e abbia sempre costruito una relazione responsabile con l’altro e con il mondo.
Con la sua pittura viscerale, fisica e violenta, Emilio Vedova, figlio di una stagione definita dal potenziale di malvagità e spargimento di sangue della Seconda guerra mondiale e dai rischi della passività di fronte al totalitarismo, ha dato, per esempio, voce al dolore per il bombardamento della biblioteca di Sarajevo («Chi brucia un libro, brucia un uomo», 1993) o per la rivoluzione in Romania dell’89 («Per uno spazio», 1989), ma ha anche raccontato la Berlino del muro («Plurimo», 1964 e «Berlin ’64», 1964).
A dare conferma di questo interesse dell’artista per le criticità del nostro tempo e la fragilità della nostra esistenza sono i titoli delle varie sezioni espositive che compongono la mostra, parole ricorrenti nei suoi scritti e discorsi: «Contro», «No», «Venezia muore», «Allarme», «Umano», «Confine», «Plurimo», «Per».
La rassegna veneziana, intitolata «Ora», si completa nel vicino Magazzino del sale con una sezione dedicata ad Arnulf Rainer (Baden bei Wien, 1929), amico dell’artista, mosso da un comune interesse per le vicende dell’uomo.
Del pittore tedesco, influenzato principalmente dal Surrealismo e dall’Espressionismo astratto americano, sono esposte una ventina di opere, scelte tra le «Croci» degli anni ’80 e i «Kosmos» dei primi anni ’90. Questi ultimi lavori, dalla forma circolare, rappresentano l’universo e sono metafora dell’infinito. Mentre le Croci, che per l’artista sono «abbreviazioni» del volto umano, rimandano inevitabilmente al tema della sofferenza, che, nel confronto con le pareti in mattone impregnate di sale dello spazio espositivo, «difficilmente – racconta il curatore Helmut Friedel - potrebbe essere percepita in modo più straziante».
Per maggiori informazioni: www.fondazionevedova.org.
Didascalie delle immagini: Particolare di allestimento della mostra “Rainer - Vedova: Ora.”, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia, 23 aprile 2022 - 30 ottobre 2022. © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio, Siena
Venezia: Heinz Mack, Lucio Fontana, Antony Gormley e Huong Dodinh, quattro artisti in piazza San Marco
È «Der Garten Eden (Il giardino dell'Eden)», travolgente, multicolore e monumentale (6 x 3,5 metri) quadro a campi di colore, dall'indiscusso effetto ipnotico, l’opera più simbolica della mostra «Vibration of Light / Vibrazione della luce», in programma fino al 17 luglio alla Biblioteca nazionale marciana di Venezia, nello storico Salone monumentale del Sansovino. Curata da Manfred Möller, l’esposizione presenta una selezione di dipinti di grande formato di Heinz Mack (Lollar, Germania, 1931), uno dei più importanti esponenti dell'arte cinetica a livello mondiale, accanto a un insieme di stele di luce parzialmente rotanti e a una scultura a specchio alta quattro metri, creata appositamente per l’occasione ed esposta nel cortile interno di Palazzo reale.
I lavori proposti – tra cui spiccano delle tele nei toni del nero, grigio e bianco, in cui centrale è il tema della struttura - sono collocati in un dialogo di grande effetto storico-artistico con i dipinti a parete e i tondi del soffitto che ornano il Salone monumentale del Sansovino, opere che portano la firma dei più importanti artisti rinascimentali, dal Tintoretto a Tiziano.
Si accede alla mostra, che fa parte degli Eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, attraverso il Museo Correr, dove espone, nell’ambito di «Muve contemporaneo», l’artista franco-vietnamita Huong Dodinh (Soc Trang, 1935). «Ascension» è il titolo della sua esposizione, pensata appositamente per la Sala delle Quattro Porte. L’installazione comprende quattordici dipinti, ciascuno alto tre metri, sostenuti da altrettanti pannelli alti e affusolati, collocati secondo uno schema triangolare attorno alla scultura lignea della «Madonna della Misericordia», che risale al XV secolo. Su una superficie pittorica dai colori neutri, ogni tela presenta sottili e quasi impercettibili linee curve e verticali, dipinte dell’artista durante la sua pratica meditativa. Il tutto crea un’atmosfera mistica e spirituale, scandita da una sorta di ascensione verso la luce.
Chiude il percorso tra le proposte espositive visitabili in piazza San Marco, dove è aperta anche «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce» di Anselm Kiefer, la mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley», a cura di Luca Massimo Barbero, che presenta opere su carta, disegni e sculture dei due artisti. Scenario dell’esposizione, aperta fino al 27 novembre, è il Negozio Olivetti, gioiello architettonico progettato da Carlo Scarpa e affidato in gestione al Fai – Fondo per l’ambiente italiano. Per informazioni: https://bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it/ | https://www.visitmuve.it/ | https://fondoambiente.it.
Didascalie delle immagini: «Persistence», mostra di Louise Nevelson alle Procuratie di Venezia per la 59esima Biennale d'arte. Foto di Lorenzo Palmieri. Courtesy: Louise Nevelson Foundation
Ottantacinque pezzi tra i più significativi della produzione centenaria dell’azienda milanese sono esposti ne «Le stanze del vetro», progetto culturale nato nel 2012 dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e la Pentagram Stiftung, che si avvale per l’occasione della curatela di Christian Larsen e dell’allestimento di Massimiliano Locatelli. Si tratta di vasi, lampade, portaritratti, scatole, posacenere e set da tavolo dall’eleganza raffinata e lineare, oltre a rari tavoli in cristallo con sostegni in legno, realizzati tra il 1932 e il 1996, sotto la guida di quattro affermati designer del XX secolo: Gio Ponti (1932-1933), Pietro Chiesa (1933-1948), Max Ingrand (1954-1967) e Gae Aulenti (1979-1996).
La mostra veneziana si concentra, dunque, sulle possibilità poetiche del vetro in lastre, un materiale industriale che la FontanaArte porta nel mondo del design d’autore, facendolo incontrare ora con la logica razionale del Modernismo ora la giocosità del Postmodernismo.
Il percorso espositivo, nel quale è presente una sala per ognuno dei quattro designer che furono a capo della direzione creativa dell’azienda milanese, culmina in una suite arredata con l’intento di rievocare una dimora fatta di interni in vetro, dando così forma al sogno degli architetti modernisti diventato realtà per la prima volta con Gio Ponti e Luigi Fontana.
Sull’isola di San Giorgio Maggiore, dove fino al primo maggio, è stata visitabile anche la seconda edizione di «Homo Faber», maestoso evento dedicato ai mestieri dell’alto artigianato artistico internazionale, che propone anche un focus sui maestri del Giappone e il loro ancestrale savoir-faire.
Fino al 24 luglio la Fondazione Cini presenta, inoltre, due mostre di arte contemporanea. In collaborazione con la galleria Tornabuoni, si tiene la rassegna «On Fire», a cura di Bruno Corà, con ventisei opere elaborate mediante il fuoco da artistiche delle Avanguardie novecentesche come Alberto Burri, Yves Klein, Arman, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis e Claudio Parmiggiani. Mentre, con la galleria Templon di Parigi, viene proposta una personale dell’americano Kehinde Wiley, a cura di Christophe Leribault, presidente del Musée d'Orsay e del Musée de l'Orangerie. «An Archaeology of Silence», questo il titolo dell’esposizione, include una serie di dipinti e sculture monumentali inediti, nei quali l’artista mette in luce la brutalità del passato coloniale, americano e globale, usando il linguaggio figurativo dell'eroe caduto. I nuovi ritratti mostrano giovani uomini e donne neri in posizioni di vulnerabilità che raccontano una storia di sopravvivenza e resilienza.
Per maggiori informazioni: www.cini.it.
Didascalie delle immagini:FontanaArte. Vivere nel vetro, installation view, ph. Enrico Fiorese
Emilio Vedova e Arnulf Rainer, due artisti e i mali del mondo
«Un artista non può accettare la guerra. Non può accettare la sopraffazione. Voi direte: cosa centra questo con la pittura? Io vi dico: questa è la mia pittura». Suonano attuali le parole del partigiano e pittore Emilio Vedova (Venezia, 1919-2016), diffuse attraverso un video, all’interno della mostra allestita fino al 30 ottobre a Venezia, nello studio dell’artista alle Zattere, oggi spazio espositivo.
Curata da Fabrizio Gazzarri, la rassegna allinea una selezione di ventiquattro lavori, realizzati tra il 1949 e il 1993, che documentano come la pratica artistica del pittore veneziano, uno degli esponenti di spicco dell’Informale italiano, abbia tratto linfa vitale dalle vicende politiche e sociali del suo tempo e abbia sempre costruito una relazione responsabile con l’altro e con il mondo.
Con la sua pittura viscerale, fisica e violenta, Emilio Vedova, figlio di una stagione definita dal potenziale di malvagità e spargimento di sangue della Seconda guerra mondiale e dai rischi della passività di fronte al totalitarismo, ha dato, per esempio, voce al dolore per il bombardamento della biblioteca di Sarajevo («Chi brucia un libro, brucia un uomo», 1993) o per la rivoluzione in Romania dell’89 («Per uno spazio», 1989), ma ha anche raccontato la Berlino del muro («Plurimo», 1964 e «Berlin ’64», 1964).
A dare conferma di questo interesse dell’artista per le criticità del nostro tempo e la fragilità della nostra esistenza sono i titoli delle varie sezioni espositive che compongono la mostra, parole ricorrenti nei suoi scritti e discorsi: «Contro», «No», «Venezia muore», «Allarme», «Umano», «Confine», «Plurimo», «Per».
La rassegna veneziana, intitolata «Ora», si completa nel vicino Magazzino del sale con una sezione dedicata ad Arnulf Rainer (Baden bei Wien, 1929), amico dell’artista, mosso da un comune interesse per le vicende dell’uomo.
Del pittore tedesco, influenzato principalmente dal Surrealismo e dall’Espressionismo astratto americano, sono esposte una ventina di opere, scelte tra le «Croci» degli anni ’80 e i «Kosmos» dei primi anni ’90. Questi ultimi lavori, dalla forma circolare, rappresentano l’universo e sono metafora dell’infinito. Mentre le Croci, che per l’artista sono «abbreviazioni» del volto umano, rimandano inevitabilmente al tema della sofferenza, che, nel confronto con le pareti in mattone impregnate di sale dello spazio espositivo, «difficilmente – racconta il curatore Helmut Friedel - potrebbe essere percepita in modo più straziante».
Per maggiori informazioni: www.fondazionevedova.org.
Didascalie delle immagini: Particolare di allestimento della mostra “Rainer - Vedova: Ora.”, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia, 23 aprile 2022 - 30 ottobre 2022. © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio, Siena
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Danh Vo, Isamu Noguchi e Park Seo-Bo: sperimentazioni contemporanee alla Querini Stampalia di Venezia
Come si può infondere nuova vita a un palazzo storico che racchiude in sé storie differenti? Cosa si può aggiungere a un percorso espositivo già completo, che spazia tra stili ed epoche differenti, dal Cinquecento veneto al Modernismo novecentesco, in un raffinato collage di decorazioni, arredi, libri, oggetti pregiati e opere d’arte di Bellini, Tiepolo, Longhi e Credi? Sono queste le domande che si è posto il danese-vietnamita Danh Vo (Bà Rịa – Vietnam, 1975) per la mostra che la Fondazione Querini Stampalia ospita, in collaborazione con White Cube, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia.
L’artista - che cura anche il progetto espositivo con Chiara Bertola, responsabile del programma pluriennale «Conservare il futuro» - espone insieme all’architetto e scultore statunitense di origini giapponesi Isamu Noguchi (Los Angeles, 1904 – New York, 1988), e al pittore coreano Park Seo-Bo (Yecheon – Gyeongbuk, 1931), riconosciuto come il padre del movimento Dansaekhwa.
Le opere dei tre artisti, appartenenti a generazioni differenti e con stili narrativi dissimili, instaurano un dialogo raffinato con il palazzo veneziano, la cui struttura è stata rivisitata, per l’occasione, con luci e pareti temporanee, agili configurazioni che indicano una strada e al contempo mostrano l’evoluzione dello spazio.
A segnare il percorso sono una serie di ritratti fotografici, dedicati al tema del giardinaggio e scattati con lo smartphone, che raffigurano i fiori del giardino di Danh Vo a Güldenhof - il suo studio e fattoria a nord di Berlino – e nei parchi di Pantelleria, della Danimarca, del Friuli e di Siviglia. Le immagini sono stampate a colori con i nomi latini scritti in bella calligrafia a matita dal padre dell'artista, Phung Vo.
Di Park Seo-Bo è, invece, esposto un insieme di dipinti monocromi della serie «Écriture», che si legano profondamente alle nozioni di tempo, spazio e materia. Mentre di Isamu Noguchi sono visibili le iconiche lampade «Akari» (ovvero «luce»), strutture in carta, ricavate dall’albero di gelso, concepite nel 1951 nel corso di un viaggio a Hiroshima, che richiamano le lanterne chochin giapponesi e sono influenzate dall’estetica del design americano.
«Ospiti e intrusi» del palazzo veneziano, Vo, Noguchi e Park Seo-Bo alterano così la nostra percezione di oggetti e opere, portando una nuova luce nel percorso espositivo. Il tutto all’insegna di una vitale sperimentazione.
Per maggiori informazioni: https://www.querinistampalia.org.
Come si può infondere nuova vita a un palazzo storico che racchiude in sé storie differenti? Cosa si può aggiungere a un percorso espositivo già completo, che spazia tra stili ed epoche differenti, dal Cinquecento veneto al Modernismo novecentesco, in un raffinato collage di decorazioni, arredi, libri, oggetti pregiati e opere d’arte di Bellini, Tiepolo, Longhi e Credi? Sono queste le domande che si è posto il danese-vietnamita Danh Vo (Bà Rịa – Vietnam, 1975) per la mostra che la Fondazione Querini Stampalia ospita, in collaborazione con White Cube, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia.
L’artista - che cura anche il progetto espositivo con Chiara Bertola, responsabile del programma pluriennale «Conservare il futuro» - espone insieme all’architetto e scultore statunitense di origini giapponesi Isamu Noguchi (Los Angeles, 1904 – New York, 1988), e al pittore coreano Park Seo-Bo (Yecheon – Gyeongbuk, 1931), riconosciuto come il padre del movimento Dansaekhwa.
Le opere dei tre artisti, appartenenti a generazioni differenti e con stili narrativi dissimili, instaurano un dialogo raffinato con il palazzo veneziano, la cui struttura è stata rivisitata, per l’occasione, con luci e pareti temporanee, agili configurazioni che indicano una strada e al contempo mostrano l’evoluzione dello spazio.
A segnare il percorso sono una serie di ritratti fotografici, dedicati al tema del giardinaggio e scattati con lo smartphone, che raffigurano i fiori del giardino di Danh Vo a Güldenhof - il suo studio e fattoria a nord di Berlino – e nei parchi di Pantelleria, della Danimarca, del Friuli e di Siviglia. Le immagini sono stampate a colori con i nomi latini scritti in bella calligrafia a matita dal padre dell'artista, Phung Vo.
Di Park Seo-Bo è, invece, esposto un insieme di dipinti monocromi della serie «Écriture», che si legano profondamente alle nozioni di tempo, spazio e materia. Mentre di Isamu Noguchi sono visibili le iconiche lampade «Akari» (ovvero «luce»), strutture in carta, ricavate dall’albero di gelso, concepite nel 1951 nel corso di un viaggio a Hiroshima, che richiamano le lanterne chochin giapponesi e sono influenzate dall’estetica del design americano.
«Ospiti e intrusi» del palazzo veneziano, Vo, Noguchi e Park Seo-Bo alterano così la nostra percezione di oggetti e opere, portando una nuova luce nel percorso espositivo. Il tutto all’insegna di una vitale sperimentazione.
Per maggiori informazioni: https://www.querinistampalia.org.
Didascalie delle immagini: 1.Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Francesco Allegretto); 2 . e 3. Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Ollie Hammick)
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Venezia, a Palazzo Grimani Mary Weatherford reinterpreta Tiziano
È una delle opere più potenti, crude e sconvolgenti di Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 27 agosto 1576) la fonte di ispirazione del ciclo pittorico che Mary Weatherford (Ojai, 1963) presenta a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, all’interno di uno dei più incantevoli scrigni rinascimentali della città: il Museo di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa.
«La punizione di Marsia», un’opera di soggetto mitologico dipinta dal maestro veneto in tarda età, tra il 1570 e il 1576, e oggi conservata al Museo arcivescovile di Kroměříž nella Repubblica Ceca, è, infatti, lo spunto che ha dato vita a una dozzina di lavori, realizzati dall’artista californiana tra il gennaio e il marzo 2021 e riuniti sotto il titolo «The Flaying of Marsyas».
Ispirandosi alla tavolozza del pittore rinascimentale e rendendo omaggio alla caratteristica luce di Venezia, Mary Weatherford ha utilizzato la vernice Flashe e luci al neon - materiali che fanno parte della sua pratica artistica dal 2012 - per restituire l’effetto della tela antica. Macchie di colore dalle tonalità cupe e terrose danno così forma alla violenza della scena tizianesca, che raffigura il dio Apollo mentre scuoia il satiro Marsia, dopo aver vinto una sfida di canto e musica. Mentre i neon, con i loro tubi e cavi dell’alimentazione, simili a tante linee disegnate a mano, feriscono e illuminano le tele, con cui l’artista vuole proporre una riflessione sul destino, l'alterigia e il rapporto tra l'umano e il divino.
La mostra completa l’attuale programma espositivo del museo veneziano, che in questi giorni ospita anche le rassegne «Domus Grimani», sulla statuaria classica che faceva parte della collezione del patriarca Giovanni Grimani, e «Archinto», con dodici tele di Georg Baselitz, realizzate appositamente per la Sala del Portego e collocate in cornici settecentesche a stucco, dove fino alla fine del XIX secolo campeggiavano i ritratti della famiglia Grimani.
Per maggiori informazioni: https://polomusealeveneto.beniculturali.it/musei/museo-di-palazzo-grimani.
Didascalie delle immagini: Mary Weatherford, The Flaying of Marsyas – 4500 Triphosphor, 2021-22. Flashe e neon su lino, 236,2 x 200,7 cm. © Mary Weatherford. Foto: Frederik Nilsen Studio. Courtesy: Gagosian
È una delle opere più potenti, crude e sconvolgenti di Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 27 agosto 1576) la fonte di ispirazione del ciclo pittorico che Mary Weatherford (Ojai, 1963) presenta a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, all’interno di uno dei più incantevoli scrigni rinascimentali della città: il Museo di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa.
«La punizione di Marsia», un’opera di soggetto mitologico dipinta dal maestro veneto in tarda età, tra il 1570 e il 1576, e oggi conservata al Museo arcivescovile di Kroměříž nella Repubblica Ceca, è, infatti, lo spunto che ha dato vita a una dozzina di lavori, realizzati dall’artista californiana tra il gennaio e il marzo 2021 e riuniti sotto il titolo «The Flaying of Marsyas».
Ispirandosi alla tavolozza del pittore rinascimentale e rendendo omaggio alla caratteristica luce di Venezia, Mary Weatherford ha utilizzato la vernice Flashe e luci al neon - materiali che fanno parte della sua pratica artistica dal 2012 - per restituire l’effetto della tela antica. Macchie di colore dalle tonalità cupe e terrose danno così forma alla violenza della scena tizianesca, che raffigura il dio Apollo mentre scuoia il satiro Marsia, dopo aver vinto una sfida di canto e musica. Mentre i neon, con i loro tubi e cavi dell’alimentazione, simili a tante linee disegnate a mano, feriscono e illuminano le tele, con cui l’artista vuole proporre una riflessione sul destino, l'alterigia e il rapporto tra l'umano e il divino.
La mostra completa l’attuale programma espositivo del museo veneziano, che in questi giorni ospita anche le rassegne «Domus Grimani», sulla statuaria classica che faceva parte della collezione del patriarca Giovanni Grimani, e «Archinto», con dodici tele di Georg Baselitz, realizzate appositamente per la Sala del Portego e collocate in cornici settecentesche a stucco, dove fino alla fine del XIX secolo campeggiavano i ritratti della famiglia Grimani.
Per maggiori informazioni: https://polomusealeveneto.beniculturali.it/musei/museo-di-palazzo-grimani.
Didascalie delle immagini: Mary Weatherford, The Flaying of Marsyas – 4500 Triphosphor, 2021-22. Flashe e neon su lino, 236,2 x 200,7 cm. © Mary Weatherford. Foto: Frederik Nilsen Studio. Courtesy: Gagosian
Al Fondaco dei Tedeschi le «Storie invisibili» di Leila Alaoui
«Era un’artista che brillava. E lottava per i dimenticati della società, i senzatetto, i migranti. Usando una sola arma, la fotografia». Così il 19 gennaio 2016, sulle pagine del «New York Times», Dan Bilefsky ricordava Leila Alaoui (Parigi, 10 luglio 1982- Ouagadougou, 18 gennaio 2016), giovane fotografa e videoartista franco-marocchina, morta in seguito a un attentato di terroristi jihadisti a Ouagadougou, mentre lavorava per una commissione di Amnesty International sui diritti delle donne in Burkina Faso.
Il suo impegno umanitario, che l’ha portata più volte a raccontare le diversità culturali e le migrazioni nell’area del Mediterraneo, ha dato vita a una fondazione, che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, porta a Venezia, con la complicità della Galleria Continua, la mostra «Storie invisibili/Unseen stories».
Al Fondaco dei Tedeschi, centro dello shopping deluxe nei pressi del ponte di Rialto, sono esposti, fino al 27 novembre, due progetti documentari della fotografa.
La corte interna dell’edificio è abitata una serie di gigantografie, di grande impatto visivo e in parte inedite, tratte da «Les Marocains», un ritratto corale del Paese d’origine di Leila Alaoui, realizzato con uno studio fotografico portatile, che documenta le popolazioni marocchine e le loro tradizioni, a rischio di estinzione.
Al quarto piano si trova, invece, un estratto di «Crossing», racconto attraverso immagini e video del viaggio intrapreso dai migranti subsahariani per raggiungere il Marocco e le coste dell’Europa. Frammenti di realtà si uniscono a immagini fittizie e a effetti sonori derivati dalla registrazione di narrazioni vere per un percorso di grande impatto emotivo.
Per maggiori informazioni: https://www.dfs.com/it/venice/art-and-culture/leila-alaoui-unseen-stories.
Nella fotografia: Leila Alaoui, Souk de Boumia - Moyen-Atlas (Les Marocains), 2011. Stampa Lambda, 180 x 120 cm Courtesy: Galleria Continua & Fondation Leila Alaoui
Il suo impegno umanitario, che l’ha portata più volte a raccontare le diversità culturali e le migrazioni nell’area del Mediterraneo, ha dato vita a una fondazione, che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, porta a Venezia, con la complicità della Galleria Continua, la mostra «Storie invisibili/Unseen stories».
Al Fondaco dei Tedeschi, centro dello shopping deluxe nei pressi del ponte di Rialto, sono esposti, fino al 27 novembre, due progetti documentari della fotografa.
La corte interna dell’edificio è abitata una serie di gigantografie, di grande impatto visivo e in parte inedite, tratte da «Les Marocains», un ritratto corale del Paese d’origine di Leila Alaoui, realizzato con uno studio fotografico portatile, che documenta le popolazioni marocchine e le loro tradizioni, a rischio di estinzione.
Al quarto piano si trova, invece, un estratto di «Crossing», racconto attraverso immagini e video del viaggio intrapreso dai migranti subsahariani per raggiungere il Marocco e le coste dell’Europa. Frammenti di realtà si uniscono a immagini fittizie e a effetti sonori derivati dalla registrazione di narrazioni vere per un percorso di grande impatto emotivo.
Per maggiori informazioni: https://www.dfs.com/it/venice/art-and-culture/leila-alaoui-unseen-stories.
Nella fotografia: Leila Alaoui, Souk de Boumia - Moyen-Atlas (Les Marocains), 2011. Stampa Lambda, 180 x 120 cm Courtesy: Galleria Continua & Fondation Leila Alaoui
Venezia: Heinz Mack, Lucio Fontana, Antony Gormley e Huong Dodinh, quattro artisti in piazza San Marco
È «Der Garten Eden (Il giardino dell'Eden)», travolgente, multicolore e monumentale (6 x 3,5 metri) quadro a campi di colore, dall'indiscusso effetto ipnotico, l’opera più simbolica della mostra «Vibration of Light / Vibrazione della luce», in programma fino al 17 luglio alla Biblioteca nazionale marciana di Venezia, nello storico Salone monumentale del Sansovino. Curata da Manfred Möller, l’esposizione presenta una selezione di dipinti di grande formato di Heinz Mack (Lollar, Germania, 1931), uno dei più importanti esponenti dell'arte cinetica a livello mondiale, accanto a un insieme di stele di luce parzialmente rotanti e a una scultura a specchio alta quattro metri, creata appositamente per l’occasione ed esposta nel cortile interno di Palazzo reale.
I lavori proposti – tra cui spiccano delle tele nei toni del nero, grigio e bianco, in cui centrale è il tema della struttura - sono collocati in un dialogo di grande effetto storico-artistico con i dipinti a parete e i tondi del soffitto che ornano il Salone monumentale del Sansovino, opere che portano la firma dei più importanti artisti rinascimentali, dal Tintoretto a Tiziano.
Si accede alla mostra, che fa parte degli Eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, attraverso il Museo Correr, dove espone, nell’ambito di «Muve contemporaneo», l’artista franco-vietnamita Huong Dodinh (Soc Trang, 1935). «Ascension» è il titolo della sua esposizione, pensata appositamente per la Sala delle Quattro Porte. L’installazione comprende quattordici dipinti, ciascuno alto tre metri, sostenuti da altrettanti pannelli alti e affusolati, collocati secondo uno schema triangolare attorno alla scultura lignea della «Madonna della Misericordia», che risale al XV secolo. Su una superficie pittorica dai colori neutri, ogni tela presenta sottili e quasi impercettibili linee curve e verticali, dipinte dell’artista durante la sua pratica meditativa. Il tutto crea un’atmosfera mistica e spirituale, scandita da una sorta di ascensione verso la luce.
Chiude il percorso tra le proposte espositive visitabili in piazza San Marco, dove è aperta anche «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce» di Anselm Kiefer, la mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley», a cura di Luca Massimo Barbero, che presenta opere su carta, disegni e sculture dei due artisti. Scenario dell’esposizione, aperta fino al 27 novembre, è il Negozio Olivetti, gioiello architettonico progettato da Carlo Scarpa e affidato in gestione al Fai – Fondo per l’ambiente italiano. Per informazioni: https://bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it/ | https://www.visitmuve.it/ | https://fondoambiente.it.
Didascalie delle immagini: 1. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack; 2. Mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley» al Negozio Olivetti di Venezia. ©photo: Ela Bialkowska OKNO studio; 3. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack
Biennale Arte 2022, una mostra di Louise Nevelson per la riapertura della Procuratie Vecchie
Cinquanta archi e cento finestre affacciate sulla piazza più bella del mondo: si presentano così le Procuratie Vecchie, uno dei monumenti più iconici di Venezia, antica sede dei Procuratori della Serenissima Repubblica, collocata sul lato sinistro di piazza San Marco, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr.
Dopo cinquecento anni, il prestigioso edificio lagunare - progettato all’inizio del XVI secolo dall’architetto Bartolomeo Bon e completato una ventina di anni dopo, nel 1538, da Jacopo Sansovino - ha riaperto al pubblico per iniziativa delle Agenzie Generali, che ne hanno fatto la casa della Fondazione «The Uman Safety Net», un hub dedicato alle iniziative sociali, per il sostegno e la valorizzazione delle potenzialità delle persone più fragili e più vulnerabili, a cominciare dai bambini e dai rifugiati.
Il restauro, durato cinque anni, è stato affidato allo studio David Chipperfield Architects Milan, che ha restituito al pubblico i 12.400 metri quadrati dei tre piani dell’edificio creando un ambiente moderno, ma fedele alla sua originaria struttura.
Nell’ambito degli eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, le Procuratie Vecchie ospitano, fino all’11 settembre, una monografica di Louise Nevelson (vicino a Kiev, Ucraina, 1899 – New York, 1988), figura rivoluzionaria dell’astrazione americana, in mostra anche all’Arsenale con il potente assemblage «Homage to the Huniverse» (1968).
«Persistence», questo il titolo della rassegna in piazza San Marco, riunisce, per la curatela di Julia Bryan-Wilson, una sessantina di lavori realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento.
Articolato in nove sale del secondo piano, il percorso espositivo presenta, nello specifico, collage e assemblage scultorei, insieme ad alcuni pezzi iconici come le sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, le sculture bianche, tra le quali l’installazione multipla a colonna «Dawn’s Presence – Three» (1975), e rari lavori dalle tonalità color oro come «The Golden Pearl» (1962).
Il pubblico potrà così approfondire i tratti salienti del processo creativo dell’artista, oltre al suo interesse per materiali non convenzionali come legno grezzo, metallo, cartone, carta vetrata e pellicola di alluminio.
Per maggiori informazioni: louisenevelsonvenice.com.
Cinquanta archi e cento finestre affacciate sulla piazza più bella del mondo: si presentano così le Procuratie Vecchie, uno dei monumenti più iconici di Venezia, antica sede dei Procuratori della Serenissima Repubblica, collocata sul lato sinistro di piazza San Marco, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr.
Dopo cinquecento anni, il prestigioso edificio lagunare - progettato all’inizio del XVI secolo dall’architetto Bartolomeo Bon e completato una ventina di anni dopo, nel 1538, da Jacopo Sansovino - ha riaperto al pubblico per iniziativa delle Agenzie Generali, che ne hanno fatto la casa della Fondazione «The Uman Safety Net», un hub dedicato alle iniziative sociali, per il sostegno e la valorizzazione delle potenzialità delle persone più fragili e più vulnerabili, a cominciare dai bambini e dai rifugiati.
Il restauro, durato cinque anni, è stato affidato allo studio David Chipperfield Architects Milan, che ha restituito al pubblico i 12.400 metri quadrati dei tre piani dell’edificio creando un ambiente moderno, ma fedele alla sua originaria struttura.
Nell’ambito degli eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, le Procuratie Vecchie ospitano, fino all’11 settembre, una monografica di Louise Nevelson (vicino a Kiev, Ucraina, 1899 – New York, 1988), figura rivoluzionaria dell’astrazione americana, in mostra anche all’Arsenale con il potente assemblage «Homage to the Huniverse» (1968).
«Persistence», questo il titolo della rassegna in piazza San Marco, riunisce, per la curatela di Julia Bryan-Wilson, una sessantina di lavori realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento.
Articolato in nove sale del secondo piano, il percorso espositivo presenta, nello specifico, collage e assemblage scultorei, insieme ad alcuni pezzi iconici come le sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, le sculture bianche, tra le quali l’installazione multipla a colonna «Dawn’s Presence – Three» (1975), e rari lavori dalle tonalità color oro come «The Golden Pearl» (1962).
Il pubblico potrà così approfondire i tratti salienti del processo creativo dell’artista, oltre al suo interesse per materiali non convenzionali come legno grezzo, metallo, cartone, carta vetrata e pellicola di alluminio.
Per maggiori informazioni: louisenevelsonvenice.com.
Didascalie delle immagini: «Persistence», mostra di Louise Nevelson alle Procuratie di Venezia per la 59esima Biennale d'arte. Foto di Lorenzo Palmieri. Courtesy: Louise Nevelson Foundation
A Venezia un capolavoro di Giorgione: il «Ritratto di giovane» del Museo di belle arti di Budapest
Arriva dal Museo di belle arti di Budapest il nuovo ospite speciale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il «Ritratto di giovane» di Giorgione, al suo ritorno nella città lagunare dopo più di duecento anni. Il museo sul Canal Grande, dove è in corso la grande mostra del contemporaneo Anish Kapoor (ne abbiamo parlato al link https://foglidarte.blogspot.com/2022/04/anish-kapoor-venezia-gallerie-accademia-.html, ndr) offre, dunque, un'occasione in più ai turisti della Biennale per attraversare le sue porte e lasciarsi avvolgere dalla bellezza.
Il prestito, che rientra in un progetto di scambi internazionali che la realtà diretta da Giulio Manieri Elia sta portando avanti negli ultimi anni, rappresenta un’occasione importante per ammirare un’opera di straordinaria qualità accanto ad altri capolavori del pittore veneto presenti nel museo veneziano: la «Sacra Conversazione», la «Vecchia», la «Tempesta», il «Concerto» e la «Nuda». Il ritratto è collocato, a partire dal 31 marzo, proprio in sala VIII, al primo piano, dove sono esposti gli altri lavori del maestro di Castelfranco in collezione.
Il dipinto, realizzato intorno al 1503, è «una delle poche opere superstiti di Giorgione - sottolinea László Baán, direttore generale del museo di Budapest-, proviene dalla collezione dell'unico patriarca veneziano di origine non italiana, l'ungherese Giovanni Ladislao Pyrker, vissuto nel XIX secolo, e grazie alla sua generosa donazione è entrato a far parte del patrimonio nazionale ungherese». Vi è raffigurato un uomo giovane, vestito di un'ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana, con scriminatura al centro, ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie. Il volto ovale è girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù. Gli occhi sono grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.
Sotto il profilo compositivo e stilistico il lavoro si ricollega strettamente alla «Vecchia». Dunque, l’esposizione dei due dipinti affiancati sulla stessa parete innescherà probabilmente ulteriori riflessioni in merito alla ipotesi, avanzata da parte della critica, che la tela oggi a Budapest costituisse «il coperto […] depento con un’homo con una veste de pelle negra» che accompagnava la «Vecchia», secondo quanto indicato nell’inventario Vendramin del 1601.
Roberta Battaglia, curatrice delle collezioni del Quattrocento e Cinquecento alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, afferma, inoltre, che «la proposta di interpretare il ritratto come esempio di contemplazione e ascesi neoplatonica si addice alla dimensione interiore del personaggio cui concorre anche la qualità astratta e ideale della luce. L’incarnato del volto risalta sulla massa compatta della chioma scura, contraddistinta da una insolita bicromia, che ha fatto supporre la presenza di una reticella oppure l’utilizzo di una tintura per schiarire le bande laterali dei capelli, secondo la moda per lo più femminile del tempo».
Dóra Sallay, curatrice della Pittura italiana (1250-1500) al museo di Budapest, sottolinea, infine, che il dipinto «si distingue tra i ritratti rinascimentali anche per il suo soggetto enigmatico: l'espressione assorta del giovane sconosciuto, il gesto che indica un sentimento profondo e la serie di emblemi difficilmente decifrabili dipinti sul parapetto hanno dato origine a innumerevoli interpretazioni e colpiscono tutti noi con la forza del loro mistero».
Arriva dal Museo di belle arti di Budapest il nuovo ospite speciale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il «Ritratto di giovane» di Giorgione, al suo ritorno nella città lagunare dopo più di duecento anni. Il museo sul Canal Grande, dove è in corso la grande mostra del contemporaneo Anish Kapoor (ne abbiamo parlato al link https://foglidarte.blogspot.com/2022/04/anish-kapoor-venezia-gallerie-accademia-.html, ndr) offre, dunque, un'occasione in più ai turisti della Biennale per attraversare le sue porte e lasciarsi avvolgere dalla bellezza.
Il prestito, che rientra in un progetto di scambi internazionali che la realtà diretta da Giulio Manieri Elia sta portando avanti negli ultimi anni, rappresenta un’occasione importante per ammirare un’opera di straordinaria qualità accanto ad altri capolavori del pittore veneto presenti nel museo veneziano: la «Sacra Conversazione», la «Vecchia», la «Tempesta», il «Concerto» e la «Nuda». Il ritratto è collocato, a partire dal 31 marzo, proprio in sala VIII, al primo piano, dove sono esposti gli altri lavori del maestro di Castelfranco in collezione.
Il dipinto, realizzato intorno al 1503, è «una delle poche opere superstiti di Giorgione - sottolinea László Baán, direttore generale del museo di Budapest-, proviene dalla collezione dell'unico patriarca veneziano di origine non italiana, l'ungherese Giovanni Ladislao Pyrker, vissuto nel XIX secolo, e grazie alla sua generosa donazione è entrato a far parte del patrimonio nazionale ungherese». Vi è raffigurato un uomo giovane, vestito di un'ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana, con scriminatura al centro, ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie. Il volto ovale è girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù. Gli occhi sono grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.
Sotto il profilo compositivo e stilistico il lavoro si ricollega strettamente alla «Vecchia». Dunque, l’esposizione dei due dipinti affiancati sulla stessa parete innescherà probabilmente ulteriori riflessioni in merito alla ipotesi, avanzata da parte della critica, che la tela oggi a Budapest costituisse «il coperto […] depento con un’homo con una veste de pelle negra» che accompagnava la «Vecchia», secondo quanto indicato nell’inventario Vendramin del 1601.
Roberta Battaglia, curatrice delle collezioni del Quattrocento e Cinquecento alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, afferma, inoltre, che «la proposta di interpretare il ritratto come esempio di contemplazione e ascesi neoplatonica si addice alla dimensione interiore del personaggio cui concorre anche la qualità astratta e ideale della luce. L’incarnato del volto risalta sulla massa compatta della chioma scura, contraddistinta da una insolita bicromia, che ha fatto supporre la presenza di una reticella oppure l’utilizzo di una tintura per schiarire le bande laterali dei capelli, secondo la moda per lo più femminile del tempo».
Dóra Sallay, curatrice della Pittura italiana (1250-1500) al museo di Budapest, sottolinea, infine, che il dipinto «si distingue tra i ritratti rinascimentali anche per il suo soggetto enigmatico: l'espressione assorta del giovane sconosciuto, il gesto che indica un sentimento profondo e la serie di emblemi difficilmente decifrabili dipinti sul parapetto hanno dato origine a innumerevoli interpretazioni e colpiscono tutti noi con la forza del loro mistero».
Per maggiori informazioni: gallerieaccademia.it.
...E poi...
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