ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 18 marzo 2019

Giornate Fai di primavera, da Palermo a Brescia un ideale «Ponte tra le culture»

«Lo splendido paradosso della bellezza italiana è l’essere insieme quotidiana e straordinaria, a volte sontuosa ed esplicita, altre nascosta e ferita, ma sempre così profondamente nostra da definire chi siamo e ricordarci gli innumerevoli intrecci che hanno tessuto le nostre origini, lasciando impronte nel nostro patrimonio culturale quasi fossero indizi». Nascono da questa considerazione le Giornate Fai di primavera, in programma nel fine settimana di sabato 23 e domenica 24 marzo .
Dal Palazzo della Consulta a Roma al Castello di Melegnano, dal Centro di geodesia spaziale a Matera alla città di Pontremoli, sono tanti i luoghi che, con la complicità del Fai – Fondo per l’ambiente italiano, apriranno le proprie porte per permettere -affermano gli organizzatori- «di guardare l’Italia come non abbiamo mai fatto prima e costruire un ideale «Ponte tra culture» che ci farà viaggiare in tutto il mondo».

Giunta ormai alla ventisettesima edizione, la manifestazione si è trasformata, negli anni, in «una grandiosa festa mobile per un pubblico vastissimo», come dimostrano i numeri messi a disposizione dalla fondazione milanese. Dal 1993 le Giornate Fai di primavera hanno appassionato 10.665.000 visitatori, hanno visto l’apertura di 12.190 luoghi in più di 5.126 città e hanno coinvolto oltre 130.000 volontari e più di 286.000 «Apprendisti ciceroni», studenti della scuola di ogni ordine e grado che hanno scelto, con i loro docenti, di partecipare nell’anno scolastico a un progetto formativo di cittadinanza attiva, che li vedrà raccontare, nel prossimo week-end, le meraviglie del loro territorio.
Il programma messo a punto per il 2019 sembra destinato a non smentire il successo di questa iniziativa del Fondo per l'ambiente italiano, sempre molto attesa in tutta Italia per la possibilità di visitare anche siti inaccessibili ai più. Saranno, infatti, 1.100 i luoghi aperti in 430 località, grazie alla spinta organizzativa dei 325 gruppi di delegati sparsi in tutte le regioni -Delegazioni regionali, provinciali e Gruppi giovani- e grazie a 40.000 «Apprendisti ciceroni».
«FAI ponte tra culture» sarà il leitmotiv di questa edizione delle Giornate Fai di primavera, una due giorni culturale che ha ricevuto la Targa del Presidente della Repubblica quale premio di rappresentanza e che si svolge in collaborazione con la Commissione europea e con la presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della protezione civile e con il patrocinio, tra gli altri, del Ministero per i beni e le attività culturali.
Quest’anno il Fai si propone di amplificare e raccontare le diverse influenze culturali straniere disseminate nei beni aperti in tutta Italia. Molti di questi luoghi testimoniano la ricchezza derivata dall’incontro e dalla fusione tra la nostra tradizione e quella dei Paesi europei, asiatici, americani e africani. Ecco perché -spiegano dagli uffici della fondazione milanese- «in alcuni di questi siti e in alcuni Beni Fai le visite saranno curate da oltre un centinaio di volontari di origine straniera che racconteranno gli aspetti storici, artistici e architettonici tipici della loro cultura di provenienza che, a contatto con la nostra, ha contribuito a dar vita al nostro patrimonio».
Sarà il caso del Gabinetto cinese di Palazzo Reale a Torino, della Scuola Dalmata dei Santi Giorgio e Trifone a Venezia, di piazza Sett’Angeli a Palermo, un libro aperto dove leggere la storia millenaria della città,o della Biblioteca «Carlo Viganò» dell’Università Cattolica a Brescia, che si configura come un vero e proprio viaggio tra le lingue latina, greca, araba e volgare attraverso manoscritti, cinquecentine e opere a stampa che documentano lo sviluppo dell’algebra, dell’astronomia, della fisica e di altre scienze.
Novità di questa edizione, che vede come al solito il sostegno della Rai con una maratona televisiva e radiofonica di una settimana tesa a sensibilizzare sempre più italiani sul valore del nostro straordinario patrimonio artistico e paesaggistico, è anche l’aggiornamento dell’immagine-simbolo dell’evento. «La storica composizione del volto femminile che guarda attraverso le stanze della Rocca di Soragna, realizzata nel 1998 dall’agenzia Armando Testa, aveva bisogno di essere attualizzata. È stato chiesto -raccontano dal Fai- alla stessa agenzia di rimettere mano al visual e di rinnovarlo in modo da renderlo più plurale e dinamico. È nata quindi una campagna multi-soggetto ambientata nei beni della fondazione che vuole parlare a persone di ogni genere ed età, perché questo è l’intento stesso delle Giornate Fai di primavera».
Il catalogo dei siti visitabili durante la manifestazione 2019 raccoglie una proposta così varia e originale che è impossibile da sintetizzare in poche righe. Basti pensare che si parla dell'apertura, tra l'altro, di 296 luoghi di culto, 227 palazzi e ville, 30 castelli, 40 borghi, 35 tra parchi, giardini, boschi e aree naturalistiche , 22 aree archeologiche, 23 tra campanili e torri, 44 piccoli musei, 11 biblioteche, 8 ex ospedali psichiatrici o antichi ospedali, 12 teatri e 2 stadi.
A Roma sarà, per esempio, possibile visitare il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale dal 1955, edificato nella prima metà del Settecento e importante luogo istituzionale nella storia d’Italia. In via eccezionale si accederà anche alla Chiesa di San Silvestro al Quirinale, risalente al X secolo circa e ricostruita nel Cinquecento per volere dei Domenicani della Congregazione di San Marco, e a Palazzo della Rovere, costruito tra il 1475 e il 1490, oggi sede dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che custodisce al piano nobile il «Soffitto dei Semidei», capolavoro del Pinturicchio.
A Matera, Capitale europea della cultura 2019, si svelerà, insieme con il Centro di geodesia spaziale, un luogo della tradizione come la Fabbrica del carro trionfale della festa della Bruna, mentre a La Spezia sono in programma visite eccezionali alla Nave Italia, brigantino di 61 metri, simbolo dell’impegno sociale della Marina militare, e alla Nave Carlo Bergamini, varata nel 2011 e utilizzata nell’operazione «Mare Nostrum». Si respirerà aria di mare anche a Catania, dove tra i luoghi visitabili ci sarà il porto con le opere del progetto «Street Art Silos», che nel 2015 ha coinvolto artisti internazionali per reinterpretare i miti della tradizione avendo come supporti i silos dello scalo.
Tanti saranno anche i luoghi insoliti aperti, dallo stadio comunale Artemio Franchi di Firenze, capolavoro dell’ingegner Pier Luigi Nervi, al Cinema teatro Odeon a Udine, progettato da Ettore Gilberti e oggi dismesso e inutilizzato, senza dimenticare il Bastione di Saint Remy a Cagliari, dove verranno aperti in via eccezionale la «passeggiata coperta» (il corridoio novecentesco) e il percorso archeologico delle mura.
Tra i piccoli musei aperti si segnalano, invece, il Museo Onda Rossa a Caronno Pertusella, che ospita all’interno di un ex calzificio circa 40 modelli di vetture sportive italiane, e il Museo degli Alberghieri ad Armeno, una raccolta unica di oggetti appartenuti a grandi chef, camerieri, maître e portieri di tutto il mondo.
Sono, inoltre, previsti ingressi dedicati e accessi prioritari ai soci Fai a Venezia, alla sede del conservatorio Benedetto Marcello a Palazzo Pisani, e a Napoli, nel teatro del seicentesco Palazzo Donn’Anna, affacciato sul mare, ex studio dell’architetto Ezio De Felice e ora sede della Fondazione De Felice che promuove la museografia, l’architettura e l’arte.
«Le Giornate Fai di Primavera, oltre a essere un momento di incontro prezioso ed emozionante tra il Fai e la gente, sono anche -spiegano dalla fondazione milanese- un’importante occasione di condivisione degli obiettivi e della missione della fondazione. Tutti possono dare il loro sostegno attraverso l’iscrizione annuale (vale tutto l’anno per avere sconti, omaggi e opportunità e in occasione delle Giornate Fai di primavera permette di godere di ingressi dedicati e accessi prioritari), oppure con un contributo facoltativo, preferibilmente da 2 a 5 euro, che verrà richiesto all’accesso di ogni luogo aperto o ancora con l’invio di un sms solidale al numero 45584, attivo fino al 31 marzo». Un’occasione, dunque, quella offerta dal Fondo ambiente italiano per il prossimo fine settimana che ci ricorda che «l’Italia ha bisogno di cure» e che tutti possiamo, nel nostro piccolo, difendere un territorio fragile e meraviglioso come il nostro.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] La Spezia, Nave Italia © Upicom Marina Militare; [fig. 21] Pontremoli MS, Palazzo Negri Dosi Foto di REONstudio © FAI - Fondo Ambiente Italiano; [fog. 3] Roma, Palazzo della Consulta - Foto Giovanni Formosa © FAI - Fondo Ambiente Italiano; [fig. 4] Napoli, Pagoda di Villa Doria D'Angri e dietro Palazzo Donn'Anna - Foto StudioF64 © FAI  - Fondo Ambiente Italiano; [fig.5] Castello di Melegnano (MI) © Fotografia di Adriano Carafòli; [fig. 6] Venezia, Palazzo Pisani, Conservatorio Benedetto Marcello - Foto Maurizio Frisoli © FAI - Fondo Ambiente Italiano; [fig. 7] Badolato (CZ), borgo - Foto Salvatore Paravati © FAI - Fondo Ambiente Italiano 

Informazioni utili
 Per l’elenco completo delle aperture è possibile consultare il sito www.giornatefai.it o telefonare al numero 02.467615399. L’hashtag dell'iniziativa è #giornatefai.

sabato 16 marzo 2019

1949-1979-2019, Peggy Guggenheim e la «Continuità di una visione»

«[..] Organizzai in giardino una mostra di sculture più o meno recenti, ed il professor Giuseppe Marchiori, un critico piuttosto noto, scrisse l'introduzione al catalogo. Esponemmo un Arp, un Brancusi, un mobile di Calder; tre Giacometti che avevo nella mia collezione, ed un Mirko, un Consagra [..] c’era anche un Marino Marini, che avevo comprato a Milano direttamente dall'artista». Sono queste le parole, tratte dalla autobiografia «Una vita per l’arte» (Rizzoli Editori, Milano, 1998), con cui Peggy Guggenheim ricordava la sua prima mostra a Palazzo Venier dei Leoni, la «splendida dimora non finita» sul Canal Grande. Sono passati settanta anni da allora: era, infatti, l’autunno del 1949, quando la mecenate americana faceva di Venezia la sua città, dopo Parigi, Londra e New York.
Paggy Guggenheim rimase lì fino alla sua scomparsa, avvenuta il 23 dicembre del 1979, esattamente quarant’anni anni fa.
1949 – 1979 sono, dunque, due date cruciali per la storia della collezione veneziana, che per l’occasione ha ideato il calendario «Continuità di una visione»: un’ampissima serie di attività gratuite aperte al pubblico, che si svolgeranno dentro e fuori il museo, volte ad attualizzare l’insegnamento coraggioso quanto innovativo della sua ideatrice.
In concomitanza con la mostra «Dal gesto alla forma. Arte europea e americana del dopoguerra nella Collezione Schulhof», in programma fino al prossimo 18 marzo, è stato inaugurato un originale riallestimento della collezione permanente di Palazzo Venier dei Leoni. In mostra la maggior parte delle opere acquistate da Peggy Guggenheim tra il 1938, quando a Londra aprì la sua prima galleria Guggenheim Jeune, e il 1947, anno in cui si stabilì a Venezia.

L’allestimento riflette fortemente l’interesse della mecenate americana per il Cubismo, il Futurismo, la pittura metafisica, l’astrazione europea, la scultura d’avanguardia e il Surrealismo.
Gran parte dei lavori esposti vennero acquisiti attraverso le amicizie e i consigli di artisti e intellettuali come Marcel Duchamp, lo storico dell’arte Sir Herbert Read e lo scrittore Samuel Beckett, che convinse Peggy a dedicarsi all’arte contemporanea poiché «vivente».
Negli spazi della barchessa del palazzo non mancano i dipinti degli espressionisti astratti americani, tra cui spiccano i capolavori di Jackson Pollock, il cui sostegno Peggy Guggenheim annovera come il suo maggior successo di mecenate e collezionista.
Se questa presentazione getta luce sul collezionismo pre 1948, dal 21 settembre al 27 gennaio 2020, l’attesa mostra «Peggy Guggenheim. L’ultima Dogaressa», a cura di Karole P.B. Vail e Gražina Subelytė, celebrerà il collezionismo post 1948: dipinti, sculture e opere su carta acquisite tra la fine degli anni Quaranta e il 1979.
Non mancheranno le opere di artisti italiani attivi dalla fine degli anni Quaranta, come Edmondo Bacci, Tancredi Parmeggiani ed Emilio Vedova, e la produzione di alcuni artisti legati all’arte Optical (Op) e Cinetica, come Marina Apollonio, Alberto Biasi e Franco Costalonga.
L’esposizione permetterà, inoltre, di ricontestualizzare celebri capolavori come «L’impero della luce» (1953-54) di René Magritte, acquistato nel 1954, accanto ad opere meno note al grade pubblico di artisti come René Brô, Gwyther Irwin e Grace Hartigan, e di pittori di origine giapponese come Kenzo Okada e Tomonori Toyofuku, che dimostrano come l’interesse artistico della mecenate superò i confini di Europa e Stati Uniti.
Tra questi due grandi momenti che ripercorreranno a 360 gradi la storia del collezionismo di Peggy Guggenheim, si inserisce il prezioso omaggio a Jean (Hans) Arp, primo artista ad essere entrato a far parte della sua collezione con la scultura «Testa e conchiglia» (1933), acquisita nel 1938.
Dal 13 aprile al 2 settembre la mostra «La Natura di Arp», a cura di Catherine Craft e organizzata dal Nasher Sculpture Center, Dallas, proporrà una lettura suggestiva e a lungo attesa della produzione dell’artista franco-tedesco, il cui approccio sperimentale alla creazione e il ripensamento radicale delle forme d'arte tradizionali lo resero uno degli artisti più influenti del Novecento e il primo ad aver fatto breccia con la sua arte nel cuore della mecenate americana.
Il tributo al collezionismo di Peggy Guggenheim proseguirà anche con la prima mostra del 2020, «Migrating Objects»: un’esposizione che farà luce su un momento cruciale, seppur meno conosciuto, della sua storia di collezionista, ovvero il suo interesse degli anni ’50 e ’60 per le arti dell’Africa, dell’Oceania e delle Americhe.
L’allestimento sarà seguito da un comitato curatoriale che include studiose e curatrici provenienti da prestigiose istituzioni museali internazionali, insieme a Vivien Greene, Senior Curator, 19th- and Early 20th-Century Art, Guggenheim Museum, e Karole P.B. Vail.
A corollario del programma espositivo è stata pensata una lunga lista di attività, eventi, conferenze, workshop, approfondimenti sulle orme di Peggy Guggenheim. Nel 1949, in occasione della mostra di scultura contemporanea, la mecenate aveva aperto la propria casa al pubblico, e così continuò a fare fino al 1979, educandolo alla conoscenza di una delle più importanti collezioni d’arte del Novecento.
Il programma di public programs «Continuità di una visione» intende portare avanti la lezione della sua fondatrice e l’attuale mission della collezione, ovvero divulgare i propri contenuti ad un pubblico quanto più eterogeneo per condividere lo straordinario potere educativo di questa disciplina nel formare e alimentare il pensiero critico.
Ecco così programmi di accessibilità per non vedenti e ipovedenti incentrati sui grandi capolavori del museo, il progetto social «Point of View», che darà voce al pubblico per raccontare il proprio punto di vista sul museo e sulle opere più amate, un’iniziativa partecipativa atta a ricostruire la figura di Peggy Guggenheim attraverso la memoria collettiva nella comunità locale.
Sono, poi, in programma tre conversazioni con tre donne, filantrope e collezioniste visionarie, che hanno fatto dell'arte la loro missione come impegno personale nei confronti della società: Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (8 aprile 2019), presidente dell’omonima Fondazione torinese, tra le figure di maggior spicco del collezionismo italiano e internazionale, Lekha Poddar della Devi Art Foundation (Dehli, India), attiva nel panorama artistico medio-orientale, e Francesca Thyssen-Bornemisza (von Habsburg), fondatrice di Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, tra le maggiori collezioni d’arte contemporanea in Europa. Tre donne, queste, che, come Peggy Guggenheim, possono essere d’ispirazione per le generazioni future.

Per saperne di più 
www.guggenheim-venice.it

venerdì 15 marzo 2019

«Artonauti», arrivano in edicola le figurine dell'arte

«Van Gogh celo, Gauguin celo, Monet manca»: il mondo delle figurine sta per riservare una sorpresa ai suoi estimatori. Da venerdì 15 marzo nelle edicole italiane arriva «Artonauti», un album interamente dedicato alla storia dell’arte. Calciatori, principesse e personaggi dei cartoni animati avranno così -si spera- dei nuovi rivali tra i piccoli ammiratori di un passatempo che sembra non conoscere la crisi.
L’idea e il progetto, riservato ai bambini dai 7 agli 11 anni, sono stati sviluppati da Daniela Re -insegnante, mediatrice culturale ed esperta in riabilitazione cognitiva, con ampia esperienza nel mondo educativo della scuola primaria- e da Marco Tatarella, editore di 22Publishing, casa editrice che si occupa di libri di arte e architettura, di periodici musicali e di servizi editoriali.
Insieme i due hanno fondato Wizart S.r.l.i.s., un’impresa sociale no profit, che con «Artonauti» ha vinto la quarta edizione del bando «Innovazione culturale» di Fondazione Cariplo.
Scoperta, gioco, apprendimento auto-costruttivo e accessibilità: sono le parole chiave che hanno dato vita a questo progetto educativo, ideato con l’intento di avvicinare i più piccoli alla bellezza e alla storia, ma anche di farli appassionare alla vita di grandi pittori e scultori come fossero eroi della televisione o amici di sempre.
Il termine «Artonauti» ben spiega questo intento. Si tratta, infatti, di un neologismo nato dall’unione tra le parole arte, astronauti -per identificare un viaggio avventuroso- e Argonauti -per evocare personaggi epici e i loro fantastici viaggi: una perfetta sintesi, dunque, tra l’aspetto ludico e quello didattico che ogni gioco dovrebbe avere.
Arte e creatività svolgono, inoltre, un ruolo fondamentale per lo sviluppo evolutivo dei bambini. «Numerosi studi -raccontano gli ideatori di «Artonauti»- dimostrano, infatti, che l’arte contribuisce a sviluppare le capacità espressive, il ragionamento logico, matematico e linguistico. Leggendo i più importanti esperti nel campo evolutivo si scopre l’importanza di avvicinare i bambini alle opere artistiche fin dalla più tenera età».
«Maria Montessori -raccontano ancora gli ideatori- pensava che la cultura fosse assorbita dal bambino attraverso esperienze individuali in un ambiente ricco di occasioni, di scoperta e di lavoro. Bruno Munari sosteneva che invece di lunghe spiegazioni è preferibile far vedere come si fa attraverso ‘azioni-gioco’, perché con il gioco il bambino partecipa attivamente, al contrario se ascolta si distrae. Loris Malaguzzi, ideatore del metodo Reggio Emilia, elaborò la teoria secondo la quale l’apprendimento è un processo ‘auto-costruttivo’, cioè il frutto dell’attività dei bambini stessi».
«Artonauti», che sarà in edicola al costo di tre euro (con tre bustine di figurine subito in omaggio), sembra, dunque, un perfetto strumento per incuriosire i più piccoli e allontanarli, almeno per qualche ora, da tablet e smartphone. Si tratta, intatti, molto più di un semplice album di figurine, è la storia di due bambini e un cane che compiono un fantastico viaggio nel tempo alla scoperta dei tesori dell’arte.
L’album è composto, nello specifico, da sessantaquattro pagine che contengono un racconto introduttivo, ventotto illustrazioni, sessantacinque opere d’arte, venti quiz e indovinelli e due pagine di giochi.
Le figurine, in tutto duecentosedici, compongono affreschi, dipinti, sculture, svelando ognuna un particolare di un’opera.
Dalle grotte di Lescaux alle piramidi degli Egizi, passando per i templi greci e l'arte romana, fino ad arrivare a Leonardo, Michelangelo, Raffaello e agli impressionisti ed espressionisti: sono molti i momenti storici che i più piccoli potranno conoscere, seguendo le avventure di Argo, Ale e Morgana.
Inoltre c’è il gioco nel gioco: ogni bustina contiene cinque figurine e una Twin Card. Collezionando tutte le venticinque coppie di Twin Card, i bambini le mischieranno coperte per divertirsi con il tipico gioco di memoria, scoprendole due a due. Ciascuna coppia di carte gemelle raffigura un’opera d’arte contenuta nell’album.
Tutto, sulla carta, fa pensare che «Artonauti» possa conquistare i più piccoli, facendo vincere anche ai più scettici un pregiudizio: l’arte non è un argomento troppo difficile per i bambini, basta trovare il linguaggio giusto.

Per saperne di più
www.artonauti.it 

giovedì 14 marzo 2019

«La storia del cinema di Topolino», il fumetto incontra la settima arte

Fumetto e cinema si incontrano, ancora una volta, in una nuova pubblicazione da non perdere, firmata Panini Comics: «La storia del cinema di Topolino». Si tratta di centoquarantaquattro pagine, con prefazione del giornalista Rai Vincenzo Mollica, che raccolgono in un unico volume le cinque avventure a tema cinematografico scritte da Roberto Gagnor per i disegni di Valerio Held e Giada Perissinotto, pubblicate sulle pagine del settimanale «Topolino» nel corso del 2018.
Le tavole e gli approfondimenti, che verranno presentati ufficialmente al pubblico nella serata di sabato 16 marzo (dalle ore 18) al Museo del cinema di Torino, guidano il lettore in un viaggio emozionante, ma anche ironico e divertente, che, pagina dopo pagina, attraversa la storia del cinema e i suoi generi cinematografici più rappresentativi, mettendo in luce le reciproche contaminazioni tra la settima e la nona arte, ovviamente nello stile di topi e paperi.
La prima avventura è già una sorpresa: in «Mickey Keaton e il kolossal pericoloso», Topolino, nei panni del mitico Buster Keaton, si ritrova protagonista di una storia a fumetti muta: nessun balloon, dunque, ma spazio solo a grandi didascalie, proprio come nel film dell’epoca.
«Howard Paperin e i misteri dello Studio 13» è, invece, un omaggio al genere horror e a un altro genio del cinema di sempre: Howard Hawks. La paura sarà naturalmente un pretesto per mettere in luce le divertenti gag dei paperi protagonisti.
Con «Dinamite Bla e le 400 melanzane», Gagnor si è, poi, cimentato con il racconto delle raffinate atmosfere della Nouvelle Vague di Truffaut attraverso la goffaggine e lo stile «buzzurro» (citazione d’obbligo) di Dinamite Bla.
Di pagina in pagina, il viaggio nella storia del cinema prosegue con un excursus nel poliziesco: «Basettoni e Manetta da Topolinia con furore» racconta il cinema “di genere” degli anni ’70, un tuffo nel passato dei due agenti, immortalati dalla matita di Giada Perissinotto con capelli lunghi e pantaloni a zampa di elefante.
Infine, il volume presenta un omaggio a un classico del nostro tempo, Steven Spielberg, attraverso la storia «Topolino e il bestio di Amicizity»: tante le citazioni ai più famosi e iconici lungometraggi del genere avventuroso.
«Cinema e fumetto vivono da sempre una contaminazione continua e noi, con questo volume, ci siamo divertiti a metterle in luce con l’ironia e la simpatia dei nostri topi e paperi, capaci di sdrammatizzare anche i capolavori più iconici - dice Alex Bertani, direttore di «Topolino». - I nostri lettori non si annoieranno nel cercare e riconoscere i numerosi riferimenti che Roberto Gagnor si è divertito a inserire in ogni storia».
Il volume si chiude con la raccolta di alcune locandine a fumetti di capolavori della storia del cinema protagonisti di altrettante più celebri parodie disneyane: da «Casablanca» a «La Strada», fino a «Metropolis», solo per citarne alcune.

Per saperne di più
www.topolino.it

mercoledì 13 marzo 2019

«Ecologies of Loss», quando l’arte incontra il pensiero ecologista

Propone una riflessione sul rapporto tra pratiche artistiche e pensiero ecologista nel continente asiatico la prima personale italiana dell’artista indiano Ravi Agarwal, allestita fino al prossimo 9 giugno negli spazi del PAV - Parco Arte Vivente di Torino per la curatela di Marco Scotini. «Ecologies of Loss», questo il titolo dell’esposizione, rientra in un progetto di più ampio respiro che si propone di far luce sulla «centralità dell'Asia nella crisi climatica», per usare le parole di Amitav Ghosh, e che ha preso avvio nei mesi scorsi con una personale dell'artista cinese Zheng Bo dal titolo «Weed Party III».
Tra i maggiori esponenti della scena artistica indiana, da decenni Ravi Agarwal conduce una pratica interdisciplinare come artista, fotografo, attivista ambientale, scrittore e curatore. Il suo impegno per l'ambiente lo ha visto fondare e tuttora dirigere la ONG ambientalista Toxic Link e gli è valso differenti premi, tra cui, nel 2008, lo Special Recognition Award for Chemical Safety delle Nazioni Unite e, nel 1997, l'Ashoka Fellowship per l'imprenditoria sociale.
Il lavoro di Ravi Agarwal esplora questioni nodali dell'epoca contemporanea quali l'ecologia, la società, lo spazio urbano e rurale, il capitale.
Per oltre quattro decadi, la fotografia ha costituito il medium d'elezione per il lavoro di Ravi Agarwal, che ha poi conosciuto una dimensione più estesa grazie all'inclusione di installazioni, video, interventi di arte pubblica, diari, all'interno di progetti dalla durata pluriennale.
La natura decentrata del suo approccio (plurale, frattale, polifonico) colloca Ravi Agarwal tra quegli esponenti di una scienza nomade (Deleuze e Guattari) che si muovono contro le istanze teoriche unitarie, in favore di saperi minori, frammentari e locali. Animato dal desiderio di riappropriazione dei poteri collettivi autonomi sottratti dal capitalismo, di auto-gestione e auto-governo dei propri corpi e delle proprie vite, di cooperazione nel lavoro umano ed extra-umano, Agarwal registra i cambiamenti in corso nell'ambiente a partire dal lato della perdita. Da qui deriva il titolo, «Ecologies of Loss», della mostra concepita per il PAV.
In questo senso, trattandosi della prima personale in Italia, la mostra cerca di raccogliere nuclei di opere scalate cronologicamente negli anni: da «Have you Seen the Flowers on the River» (2007 - 2010) a «Extinct?» (2008), da «Alien Waters» (2004 – 2006) a «Else All Will Be Still» (2013 – 2015). All'interno di queste estese ricerche, la perdita dell'animale (la comunità degli avvoltoi della parte meridionale dell'Asia) non è distinta dalla minaccia dell'estinzione della coltura del garofano indiano (la sua economia sostenibile, i suoi significati rituali), la perdita del fiume Yamuna, da quella del linguaggio (con il ricorso alla antica letteratura Sangam, scritta in Tamil), fino alla perdita del sé soggettivo – secondo una logica di interconnessione ecosistemica per la quale nessun elemento risulterebbe isolabile dal resto.
Ma l'aspetto fondamentale e originale della pratica artistica e attivista di Ravi Agarwal è quello che da più parti è stata definita come «personal ecology». E ciò fin dal 2002, quando il suo lavoro viene presentato a Documenta XI e il tema ecologico non è ancora all'ordine del giorno. Piuttosto che «personal ecology» sarebbe più giusto definirla, con la derivazione foucaultiana, «ecologia del sé», cioè come l'implicazione della propria auto-biografia all'interno dell'ambiente, come sua componente indissociabile. Per questo l'ambiente non potrà essere solo naturale, ma psichico, sociale, linguistico, semiotico. Da questo punto di vista, risulta particolarmente emblematico il lavoro presentato a Yinchuan Biennale. Il titolo, «Room of the Seas and Room of Suns», fa riferimento a due spazi della vita dell'artista, connessi dal comune elemento della sabbia. Due contesti ecologici, due politiche di sopravvivenza, il paesaggio umido della città costiera di Pondicherry e quello arido del deserto del Rajasthan, della sua infanzia e dei suoi antenati. Come afferma Agarwal, il fiume non è solo un corpo d'acqua che scorre attraverso la città, ma una rete di miriadi di relazioni interconnesse alla città, ai suoi abitanti e alla natura.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ravi Agarwal, Have you seen the flowers on the river?, stampe fotografiche, 2007. Courtesy l'artista; [fig. 2] Ravi Agarwal, Else, all will be still, serie fotografica, 2013-2015. Courtesy l'artista; [fig. 3] Ravi Agarwal, Alien Waters, serie fotografica, 2004-2006.  Courtesy l'artista; [fig.4] Ravi Agarwal, Else, all will be still, serie fotografica, 2013-2015. Courtesy l'artista

Informazioni utili 
«Ecologies of Loss» - Personale di Ravi Agarwal. PAV - Parco Arte Vivente, via Giordano Bruno, 31 – Torino. Orari: venerdì, ore 15.00 – 18.00; sabato e domenica, ore 12.00 – 19.00. Ingresso: € 4,00; ridotto € 3,00; gratuito: Abbonamento Torino Musei, Torino+Piemonte Card, minori di 10 anni, over 65, persone con disabilità. Informazioni: tel. 011.3182235, press@parcoartevivente.it. Fino al 9 giugno 2019. 

Al Mao di Torino un omaggio al teatro Kabuki

È un omaggio al teatro Kabuki, uno dei pilastri della cultura giapponese, il nuovo allestimento del Mao – Museo d’arte orientale di Torino per il corridoio dedicato alle stampe policrome nipponiche ukiyo. La rassegna allinea una selezione di opere che vanno dal 1760 al 1830 e che rientrano nel genere yakusha. Si tratta cioè di ritratti dei più famosi attori giapponesi dell'epoca, vere e proprie star del periodo Edo (1603-1868).
Il teatro kabuki, in quel periodo, occupava un posto di rilievo nella vita culturale dei principali centri urbani giapponesi, i cui cittadini amavano seguire le gesta degli attori più famosi e acquistare le stampe che li ritraevano. Fondamentale e reciprocamente vantaggioso era il rapporto tra le stampe, o meglio gli artisti e gli stampatori, e gli attori: le prime erano tanto più vendute quanto più erano famosi i secondi e la fama e la popolarità dei secondi incrementava proprio grazie alla diffusione delle prime.
Torii Kiyomitsu (1735-1785), caposcuola della terza generazione della scuola Torii, esprime al meglio le potenzialità grafiche del benizuri-e, le stampe che presentano un numero limitato di colori: rosso càrtamo, verde, giallo, indaco e marrone.
La produzione dell’artista è esemplificativa del periodo di transizione che porterà alle stampe policrome nishiki-e. Le tre opere esposte al Mao ben trasmettono l’equilibrio che l’artista raggiunge: l’impostazione statica delle figure ereditata dal passato risulta qui ingentilita da una nuova grazia che ispirerà gli artisti delle generazioni successive.
L’esposizione presenta, quinti, un altro nucleo di stampe di Utagawa Toyokuni (1769-1825), artista che dominò il mercato per circa un trentennio, in particolare con serie di stampe di ritratti di attori in palcoscenico caratterizzate dalla perfezione tecnica.
Il tratto morbido e sinuoso che delinea la figura di una danzatrice e quello deciso e possente che coglie il samurai al culmine dell’azione rivelano l’abilità di Toyokuni nell’usare la tecnica come veicolo delle caratterizzazioni dei diversi personaggi protagonisti di uno stesso dramma.
Ad essere colti nelle tipiche pose teatrali sono, ad esempio, gli attori Onoe Matsusuke I(1744-1875) e Onoe Eizaburo I (1784-1849), che interpretano due dei quarantasette ronin protagonisti della celebre opera teatrale intitolata «Kanadehon Chushingura», incentrata sulle gesta eroiche dei samurai che vendicarono la morte del loro signore Asano Naganori, prima di porre fine alle loro vite tramite seppuku.
La vendetta con onore è tema ispiratore di molti drammi giapponesi, come «Un voto di assistenza al santuario del monte Hiko», che ha come protagonisti Rokusuke e sua moglie Osono - ritratti proprio in un dittico esposto al Mao in cui gli attori sono rispettivamente Onoe Matsusuke II (1784-1849) e Sawamura Tanosuke II (1788-1817) - ed è tema ispiratore di innumerevoli trasposizioni moderne, tra i quali gli holliwoodiani «L’ultimo samurai» di Edward Zwick o «47 Ronin» di Carl Rinsch.
L’ultima sezione, invece, è un piccolo tributo a due dei più famosi artisti giapponesi, Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige, di cui sono esposte opere a tema paesaggistico. Del primo sono visibili cinque stampe in formato koban, tratte dalla serie intitolata «Piccola Tōkaido»;dell’altro e quattro opere del ciclo «Nelle 53 stazioni della Tōkaido».

Informazioni utili
MAO - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00 -18.00; sabato-domenica, ore 11.00– 19.00; chiuso lunedì. La biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito fino ai 18 anni e abbonati Musei Torino Piemonte. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito web: www.maotorino.it.

martedì 12 marzo 2019

«Pittura spazio e scultura», una riflessione sull’arte tra gli anni Sessanta e Ottanta

Da poco meno di un mese la Galleria d’arte moderna di Torino propone un nuovo allestimento delle sue collezioni dedicate al contemporaneo. L’allestimento inaugura un programma espositivo, su base biennale, che si propone di far conoscere al pubblico, attraverso diverse mostre tematiche, la ricchezza delle collezioni museali, dando voce a molteplici letture e interpretazioni critiche.
Questo primo ordinamento, a cura di Elena Volpato, si concentra su due decenni, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, in rapporto di continuità cronologica con quanto è esposto nelle collezioni del ‘900 e sceglie di raccontare aspetti rilevanti delle ricerche artistiche di quegli anni, scarsamente riconosciuti dalla più diffusa interpretazione storica.
Le opere in mostra provengono interamente dalle collezioni del museo. Il nucleo espositivo più rilevante in mostra è frutto delle numerose acquisizioni realizzate durante la direzione di Pier Giovanni Castagnoli, tra il 1998 e il 2008. Molte di queste opere sono state acquisite grazie al contributo della Fondazione per l’arte moderna e contemporanea CRT, a cui si deve anche la recente acquisizione dei libri d’artista e delle due opere di Marco Bagnoli, «Vedetta notturna» (1986) e «Iris» (1987), avvenuta durante l’attuale direzione di Riccardo Passoni.
Tra le opere esposte ci sono anche «Animale terribile» (1981) di Mario Merz e «Gli Attaccapanni (di Napoli)» di Luciano Fabro, facenti parte di un ristretto gruppo di lavori provenienti dalla Collezione Margherita Stein, acquistato per essere affidato alla comune cura della Gam e del Castello di Rivoli.
Quella che racconta la rassegna curata da Elena Volpato è la storia di un insieme di ricerche artistiche, perlopiù a lungo scarsamente riconosciute dalla più diffusa interpretazione storiografica.
Verso la metà degli anni Sessanta, quando le ricerche artistiche si muovevano in direzioni per lo più tese a sovvertire i tradizionali linguaggi artistici e a disconoscere ogni debito con il museo e la storia dell’arte, alcuni artisti italiani continuarono a interrogarsi sul significato della scultura, della pittura e del disegno, sulla possibilità di superare i limiti che sin lì quei linguaggi avevano espresso.
Lo fecero senza recidere i legami con la storia, ponendo mente alle origini stesse del gesto pittorico e scultoreo, aprendo le loro opere, come mai prima di allora, ad accogliere e nutrire al loro interno il respiro dello spazio e, con esso, quello del tempo.
Gli artisti rappresentati non fanno parte di un unico gruppo. Alcuni dei loro nomi sono legati alle vicende dell’Arte Povera. È il caso di Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Giovanni Anselmo. Il percorso di altri si è intrecciato con quello della Pittura analitica. Altri ancora, dopo una stagione concettuale, hanno trovato nuove ragioni per tornare a riflettere su linguaggi tradizionali e su antichi codici espressivi. Tuttavia, se le loro opere sembrano dialogare qui con naturalezza, non è per mera cronologia, ma perché nel lavoro di ciascuno di loro c’è molto più di quanto le parole della critica militante avesse motivo di raccontare. In tutti loro, come spesso accade, c’è più personalità e indipendenza di quanto le ragioni di un raggruppamento o le linee di tendenza del mondo dell’arte possano dire.
Ecco così che il visitatore può accostarsi ad opere come «Cultura Mummificata» (1972) di Eliseo Mattiacci, con i suoi calchi di libri antichi che ci parlano di un sapere custodito e da custodire o il «Rotolo di cartone ondulato» di Alighiero Boetti, in cui il disegno arcaico della spirale si coniuga con impressioni di architetture del Medio Oriente e con l'interesse per le simbologie dell’infinito, senza dimenticare lo scenografico «DadAndroginErmete» (1987) di Luigi Ontani, carico di simboli occidentali e orientali.
A distanza di decenni, ora che quelle storie d’insieme sono note e codificate, ora che sempre più mostre internazionali vengono tributate ad alcune di esse, possiamo concederci di guardare agli aspetti più personali del loro lavoro. Ed è proprio in quella cifra individuale che sembra risuonare con più chiarezza un insoluto legame con la storia dell’arte, con i suoi antichi linguaggi, per ciascuno in modo diverso, ma con simile forza.
Se si dovesse provare a spiegare in una frase cosa avvicina tra loro queste opere e i loro autori, là dove sembrano esprimere la loro voce più personale, si direbbe che hanno in comune un autentico desiderio dell’arte, un senso di appartenenza, la consapevolezza di tutto ciò che quella parola aveva significato sin lì e tutto ciò che ancora poteva rappresentare in virtù di quel passato.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Allestimento della mostra «Pittura spazio e scultura» alla Gam di Torino. Foto di Giorgio Perottino; [fig. 3] Luciano Fabro, Attaccapanni (di Napoli), 1976-1977. Bronzo, tela di lino, pittura acrilica, filo in cotone. Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT/già Collezione Margherita Stein; [fig. 4] Eliseo Mattiacci, Cultura mummificata, (1972). 134 calchi di libri in alluminio fuso. Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT [fig. 5] Alighiero Boetti, Rotolo di cartone ondulato (1966). Cartone ondulato. Dono dell’artista, 1967, per il Museo Sperimentale

Informazioni utili 
GAM, via Magenta, 31 - 10128 Torino. Orari di apertura: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.00, lunedì chiuso | la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00,  ingresso libero Abbonamento Musei e Torino Card. Informazioni: tel. 011.4429518 o 011.4436907, e-mail: gam@fondazionetorinomusei.it. Sito internet: www.gamtorino.it.

Da Vinci a Milano: in viaggio sulle orme di Leonardo

Il 2019 è l’anno di Leonardo da Vinci. Per festeggiare al meglio i cinquecento anni dalla morte dell'artista, figure-icona nella storia dell’umanità, Virail, la piattaforma e app che compara tutti i mezzi di trasporto, propone un itinerario alla scoperta delle opere del genio toscano.
Il viaggio parte simbolicamente da Anchiano, località alle pendici del Montalbano, collegata a Vinci dall’antico sentiero chiamato Strada Verde. Qui, in un paesaggio ricco di vigne e uliveti secolari, Leonardo trascorse infanzia e giovinezza, ponendo le basi per la sua attività di artista e scienziato.
In questo bel borgo toscano il visitatore può, dunque, scoprire la casa in cui l'artista nacque il 15 aprile 1452, all'interno della quale è ospitata un’esposizione interattiva dove un ologramma a grandezza naturale riproduce le fattezze del maestro e racconta la vita e i rapporti di questo con la sua terra.
Il viaggio può, quindi, continuare verso la vicina Vinci. Tra i luoghi che, in questa cittadina, testimoniano la presenza di Leonardo c’è la Chiesa di Santa Croce, nella quale è conservato il fonte battesimale in cui si ritiene che l’artista sia stato battezzato nel 1452.
Per ritrovare la più antica collezione di modelli delle opere di Leonardo architetto, scienziato e ingegnere, bisogna, invece, dirigersi al Museo leonardiano di Vinci: un vero e proprio centro di documentazione sull’opera tecnica e scientifica del maestro, che comprende anche l’originale sezione espositiva dedicata ai suoi studi sul corpo umano.
Da non perdere, infine, è una visita alla Biblioteca leonardiana, centro di documentazione internazionale specializzato nel lavoro dell'artista, che conserva più di 13mila opere, tra cui le riproduzioni in facsimile di manoscritti, disegni e opere stampate.
Rimanendo in Toscana non si può non andare a Firenze, città che vide Leonardo formarsi alla bottega di Andrea del Verrocchio.
Agli Uffizi, tappa imprescindibile è la Sala 35, dove si trovano tre opere giovanili dell'artista: il «Battesimo di Cristo» (1470-1475 circa), dipinto insieme al suo maestro; l’«Annunciazione» (1472), con le ali dell’angelo che ricordano quelle di un rapace, e l'«Adorazione dei Magi» (1481), opera destinata alla chiesa di San Donato a Scopeto, ma rimasta incompiuta per il trasferimento di Leonardo a Milano, alla corte di Ludovico il Moro.
Chi vuole ripercorrere la vita, le opere e i segreti del maestro, non può, poi, perdersi, sempre a Firenze, il Museo Leonardo da Vinci, con un percorso che si snoda attraverso macchine costruite seguendo i disegni dell’artista, riproduzioni di dipinti celebri, video mapping di studi anatomici su un modello di corpo umano.
Per i più curiosi è da mettere in conto anche una visita a Palazzo Vecchio, dove sembrerebbe che dietro le pareti del Salone dei Cinquecento siano nascosti i disegni originali della Battaglia di Anghiari e dove, dal prossimo 25 marzo, arriverà una selezione delle tavole del Codice Atlantico. I disegni, organizzati in più sezioni, racconteranno vari soggetti: le relazioni di parenti e amici con fatti fiorentini; il Palazzo della Signoria, i Medici, Santa Maria Nuova, l’Arno e la cartografia idraulica nel territorio fiorentino, gli studi sul volo e sulla geometria. «Oltre al corpus grafico -raccontano gli organizzatori- sarà presente in mostra il «Busto del Redentore», opera attribuita a Gian Giacomo Caprotti detto Salaino, già allievo di Leonardo e soggetto di molti dei suoi dipinti».
Un'altra tappa obbligata per gli amanti di Leonardo è Milano. Qui l'artista giunse nel 1482, stabilendosi alla corte di Ludovico il Moro, e vi rimase per circa vent’anni, lasciando tracce indelebili come l’«Ultima Cena», nel Refettorio di Santa Maria delle Grazie. La Veneranda Biblioteca Ambrosiana dal 1637 custodisce, invece, il Codice Atlantico, la più vasta raccolta al mondo di disegni e scritti autografi di Leonardo da Vinci, che trattano i temi più disparati, dall’anatomia all’architettura.
Una delle più belle testimonianze della presenza dell’artista alla corte sforzesca si trova, però, all’interno del Castello: la Sala delle Asse, che verrà riaperta al pubblico il 2 maggio, è stata, infatti, decorata dal maestro nel 1498 con un finto pergolato, dove i rami intrecciati formano l’emblema vinciano del nodo che forma un cerchio che inscrive una doppia croce.
A Milano, inoltre, è possibile visitare il Museo nazionale della scienza e tecnologia «Leonardo da Vinci», la più importante collezione al mondo di modelli leonardeschi, realizzati tra il 1952 e il 1956 da un gruppo di studiosi, interpretando i disegni dell’artista. Per scoprire un’altra passione del maestro toscano bisogna, infine, recarsi alla Vigna, spazio naturale che gli avrebbe donato Ludovico il Moro, situato sul retro della Casa degli Atellani.
Venezia vale, invece, una gita per avvicinarsi il più possibile al disegno originale a penna e inchiostro su carta de «L'Uomo Vitruviano», opera che siamo soliti “incontrare” quotidianamente sulle monete da un euro, il cui originale è conservato nel Gabinetto dei disegni e delle stampe delle Gallerie dell'Accademia. Purtroppo, come per la maggior parte delle opere in carta, per motivi conservativi il lavoro è raramente esposto al pubblico e, quindi, non è inserito nel percorso abituale di visita del museo. Con questa famosa rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano, riconducibile al periodo pavese (1490), Leonardo intendeva dimostrare come esso possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure "perfette" del cerchio, che rappresenta l'universo, la perfezione divina, e del quadrato, che simboleggia la Terra.
Proseguendo la ricerca delle opere di Leonardo in Italia, bisogna recarsi alla Galleria nazionale di Parma, dove è esposta «La testa di fanciulla» (detta «La Scapigliata»), un dipinto a terra ombra, ambra inverdita e biacca su tavola. Il lavoro, forse incompiuto, è avvolto nel mistero per quanto riguarda la datazione (probabilmente 1508), la provenienza e la sua destinazione. Si è anche ipotizzato che l'opera possa essere uno studio per la Leda col cigno andata perduta.
Il nostro viaggio sulle orme di Leonardo termina a Roma, dove l’artista arrivò nel 1514 per dedicarsi a studi scientifici, meccanici, di ottica e di geometria. Non può, quindi, mancare in questo percorso leonardesco una tappa al Museo Leonardo da Vinci, nei pressi della Basilica di Santa Maria del Popolo: qui è possibile scoprire le macchine interattive a grandezza naturale realizzate da artigiani italiani seguendo i codici manoscritti di Leonardo, oltre che studi delle sue opere rinascimentali più famose, bozzetti di anatomia umana e video multimediali dell’«Ultima Cena», dell’«Uomo Vitruviano» e del progetto di scultura equestre per gli Sforza.
Da non perdere, inoltre, nella capitale la mostra permanente «Leonardo Da Vinci Experience», in via della Conciliazione: per la prima volta in Italia presenta una riproduzione a grandezza naturale de l’«Ultima Cena». Sempre Roma, ma più precisamente nella Città del Vaticano, merita una visita la Pinacoteca, che accoglie il San Girolamo penitente, un’opera che rivela grande attenzione all’anatomia: è rimasta incompiuta ed è datata agli ultimi anni del primo soggiorno fiorentino di Leonardo (1480).

Per saperne di più
virail.it

lunedì 24 settembre 2018

Da Dalì a Banksy, la grande arte torna sul grande schermo

La grande arte ritorna protagonista al cinema, forte dei risultati della passata stagione che ha visto la presenza di oltre 650mila spettatori in più di trecentocinquanta sale italiane.
Dal 24 settembre prende il via un nuovo ciclo di eventi, capace di offrire al pubblico un’esperienza visiva innovativa e di far vivere sul grande schermo tutta la ricchezza delle mostre, degli artisti e dei musei più importanti del mondo.
Ad aprire la rassegna «Grande arte al cinema» sarà l’omaggio a uno degli artisti più fantasiosi, irruenti e imprevedibili del Novecento, di cui nel 2019 ricorre l’anniversario dei trent’anni dalla morte: Salvador Dalí (1904-1989).
Il film sull’artista surrealista, in cartellone dal 24 al 26 settembre, permetterà agli spettatori di conoscere da vicino il pittore e l'uomo, così come agli spazi da lui ideati e che hanno contribuito a plasmarne il mito.
«Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità», questo il titolo del progetto cinematografico, proporrà, nello specifico, un viaggio esaustivo attraverso la vita e l'opera dell’artista catalano e anche di Gala, sua musa e collaboratrice.
Il regista David Pujol ci guiderà, assieme a Montse Aguer Teixidor, direttrice del Museo Dalí, e Jordi Artigas, coordinatore delle Case Museo Dalí, in un percorso che ha inizio nel 1929, anno cruciale per il pittore sia dal punto di vista professionale che personale, fino alla sua morte, avvenuta nel 1989.
È nel 1929, infatti, che l’artista catalano si unisce al gruppo surrealista, suscitando le ire del padre che non accetta un cambiamento così radicale e tenta di allontanarlo da Cadaqués, luogo dove l’artista trascorre le estati soleggiate con la famiglia prima della rottura. Nello stesso anno il pittore incontra Gala, l’amore intenso di una vita, una donna che comprende il suo talento e le sue ossessioni, una musa che lo ispira e con cui sperimenta piaceri e divertimenti, ma che allo stesso tempo sa riportarlo alla realtà e gli restituisce l’equilibrio necessario.
Percorrendo vicende non scontate, il progetto filmico attraversa intere geografie vitali. Si può visitare virtualmente l’adorata casa a Portlligat, l’officina casalinga che, dalle finestre che si ingrandiscono con i progressivi ampliamenti dell’edificio, accoglie tutti i colori della Catalogna e i paesaggi tipici delle opere Dalí. In origine una cella di soli ventidue metri quadri, proprietà di Lidia, una figura paesana che con la sua «follia plastica» e «cerebro paranoica» influenzò spiritualmente l’artista: un piccolo nido appena sufficiente per due che negli anni si trasforma in un’enorme casa studio circondata da uliveti, frequentata da artisti, personaggi pubblici e giornalisti.
In questo viaggio tra luoghi, emozioni e arte, non può mancare Figueres, la città natale dove l’artista crea il museo-teatro Dalí, il suo testamento artistico. Proprio qui, nella Torre Galatea, l’artista decide di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in una dimensione più intima con studi volti a comprendere il caos e a carpire l’agognato segreto dell’immortalità.

Anche Púbol è un luogo caro a Dalí. In questo castello, donato all’amata Gala e simbolo di un amor cortese pensato per restituire una desiderata dimensione intima che a Portlligat si era persa, l’artista torna a un corteggiamento quasi antico: qui egli può accedere solo su invito scritto della stessa Gala.
Ma sono anche la Parigi surrealista di «Un Chien Andalou», prodotto e interpretato da Dalí e da Luis Buñuel, e la New York moderna e simbolo di speranza e risurrezione, ad essere protagoniste di «Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità», un film evento capace di farci penetrare nell’animo creativo, geniale, tormentato, di colui che secondo il regista Alfred Hitchcock era «il miglior uomo in grado di rappresentare i sogni» e replicare il mondo del subconscio.
Il film si configura così come un tour tra le creazioni dell’artista. La contemplazione della sua vita intrecciata a quella di Gala, immagini e documenti, alcuni dei quali completamente inediti, avvicinano lo spettatore a un genio unico nella storia dell’arte, un pittore che ha fatto di se stesso una straordinaria ed eccentrica opera, capace di assicurargli un posto tra i grandi maestri e nel mito e di regalargli quell’immortalità che ha cercato per tutta la vita.

La rassegna «Grande arte al cinema» proseguirà con il film «Klimt & Schiele. Eros e Psiche», che dal 22 al 24 ottobre porterà il pubblico nel 1918, a Vienna. Il progetto cinematografico si apre nella notte del 31 ottobre quando, nel letto della sua casa, muore Egon Schiele, una delle 20milioni di vittime dell’influenza spagnola. L’artista si spegne guardando in faccia il male invisibile, come solo lui sa fare: dipingendolo. Ha 28 anni e solo pochi mesi prima il salone principale del palazzo della Secessione si è aperto alle sue opere, diciannove oli e ventinove disegni, con la celebrazione di una pittura che rappresenta le inquietudini e i desideri dell’uomo. Qualche mese prima è morto anche il suo maestro e amico Gustav Klimt, che dall’inizio del secolo aveva rivoluzionato il sentimento dell’arte, fondando un nuovo gruppo: la Secessione.
Oggi i capolavori di questi due artisti attirano visitatori da tutto il mondo, a Vienna come alla Neue Galerie di New York, ma sono anche diventati immagini pop che accompagnano la nostra vita quotidiana su poster, cartoline e calendari.

Ora, cent’anni dopo, le opere di questi artisti visionari –tra Jugendstil e Espressionismo– tornano protagoniste assolute nella capitale austriaca, insieme a quelle del designer e pittore Koloman Moser e dell’architetto Otto Wagner, morti in quello stesso 1918, sempre a Vienna.
Prendendo spunto da alcune delle tante mostre che stanno per aprirsi in occasione del centenario, il film evento ci guida tra le sale dell’Albertina, del Belvedere, del Kunsthistorisches, del Leopold, del Freud e del Wien Museum, ripercorrendo questa straordinaria stagione: un momento magico per arte, letteratura e musica, in cui circolano nuove idee, si scoprono con Freud i moti della psiche e le donne cominciano a rivendicare la loro indipendenza. Un’età che svela gli abissi dell’Io in cui ci specchiamo ancora oggi.

Mentre il 26, 27, 28 novembre il pubblico si sposterà nella Francia di Giverny con «Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce», che narra la storia della nascita di una delle più grandi opere d’arte del ‘900, anzi di trecento capolavori che hanno rivoluzionato l’arte successiva. Il racconto di una passione viscerale che diventerà una vera ossessione e dell’uomo che da questa ossessione si è lasciato divorare: Claude Monet.
La dimora di Giverny è la villa più costosa della zona ma le manca ancora qualcosa. Appena vi si trasferisce, infatti, Monet decide immediatamente di mettersi al lavoro: desidera creare un giardino «per il piacere degli occhi», ma si accorge presto che questa meravigliosa tavolozza naturale può offrirgli innumerevoli soggetti per la sua pittura. È così che, attirandosi le ire dei suoi confinanti, sradica tutti gli alberi da frutto, distrugge l’orto e inizia a creare il suo atelier en-plein-air. Nel sud della Francia sorge ancora lo storico vivaio Latour-Marliac, presso il quale Monet acquista quei fiori esotici, dei quali si è innamorato all’esposizione universale di Parigi del 1889. Si tratta di sei bulbi di ninfee: quattro gialle e due bianche. Pur tra le mille difficoltà, nel 1895, l’artista piazza il cavalletto sulla riva del lago. Per la prima volta dai suoi pennelli prende vita un fiore di ninfea. È da queste prime pennellate che nasce il film evento che racconta l’amore e l’ossessione di Monet per le sue ninfee attraversando il giardino e la casa dell’artista a Giverny, ma anche il Musée D’Orsay, l’Orangerie e il Marmottan di Parigi, la grande mostra del Vittoriano di Roma.

A chiudere il 2018 della rassegna «Grande arte al cinema» sarà, l’11 e 12 dicembre, «L’uomo che rubò Banksy», diretto da Marco Proserpio e narrato da Iggy Pop, che ha riscosso successo all’ultima edizione del Tribeca Film Festival.
Il film-evento sull’artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della Street Art, racconta di arte, culture in conflitto, identità e mercato nero. L’inizio mostra la percezione dei palestinesi sul più importante artista di strada dei nostri tempi, ma si trasforma presto nella scoperta di un vasto mercato nero di muri e dipinti rubati nelle strade di tutto il mondo, ma anche in un dibattito sulla commercializzazione o conservazione della Street Art.Il docu-film porterà così lo spettatore a capire cosa abbia portato le opere d’arte di Banksy da Betlemme a una casa d’aste occidentale, insieme al muro su cui sono state dipinte.

Informazioni utili 
«La grande arte al cinema» - Nuova stagione 2018. Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità - 24, 25, 26 settembre | Klimt & Schiele. Eros e Psiche - 22, 23, 24 ottobre | Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce - 26, 27, 28 novembre | L’uomo che rubò Banksy - 11 e 12 dicembre. Progetto Scuole: tutti i titoli possono essere richiesti anche per speciali matinée al cinema dedicate alle scuole; per prenotazioni: Maria Chiara Buongiorno, progetto.scuole@nexodigital.it, tel. 02.8051633. Sito internet: www.nexodigital.it.

venerdì 29 giugno 2018

Da Nicola di Ulisse a Carlo Crivelli, il Quattrocento a Fermo

Racconta la preziosità artistica di un angolo di Marche la mostra «Il Quattrocento a Fermo. Tradizione e avanguardie da Nicola di Ulisse a Carlo Crivelli», per la curatela di Alessandro Marchi e Giulia Spina, allestita fino al 7ottobre nella chiesa di San Filippo. L’esposizione -che fa parte del progetto di valorizzazione del patrimonio culturale regionale «Mostrare le Marche», nato con l’intento di valorizzare i territori che hanno subito danni in seguito al sisma- si propone di raccontare un tratto di storia di Fermo perduta nell’oblio.
La città marchigiana, orgogliosa nei tempi antichi della sua posizione preminente in territorio Piceno, capoluogo di una circoscrizione ecclesiastica vastissima, ebbe nel Quattrocento un rilievo assai originale nelle vicende dell'arte marchigiana, non ancora riproposto alla ribalta che gli compete.
Dopo che nel 1433 Francesco Sforza conquista le terre della Marca, la città diventa anche la capitale di un nuovo stato. Sull'acropoli fermana si erge la rocca del Girfalco, in cui si insedia la corte sforzesca. Nel 1442 viene chiesto ai priori di Norcia di inviare una compagnia di pittori; a questi artisti viene commissionata la decorazione dipinta di una camera che doveva accogliere Francesco Sforza con la futura moglie Bianca Maria Visconti.
L'impresa pittorica risolta in affresco, o meglio secondo le tecniche della pittura murale a destinazione profana come usava a quei tempi, doveva esser condotta da Nicola di Ulisse da Siena (doc. a Norcia dal 1442 – m. tra il 1476 e il 1477), un protagonista assai attivo sul crinale appenninico fa Umbria e Marche, solo di recente riscoperto dalla critica.
Di questa impresa non rimane più nulla, perché i fermani, malgovernati dal tiranno romagnolo, dopo la capitolazione marchigiana degli Sforza (che da qui puntarono al dominio di Milano e di Pesaro) e con il benestare di papa Eugenio IV, distrussero completamente la rocca, cancellando per sempre il simbolo della tirannia.
Gli artisti che realizzarono i dipinti murali del Girfalco -Nicola di Ulisse, Bartolomeo di Tommaso da Foligno, Andrea Delitio da Lecce de' Marsi (Abruzzo), Giambono Di Corrado da Ragusa e Luca de Alemania- ritornano ora a Fermo, ovviamente con altre opere, sopravvissute al naufragio del tempo, per evocare in analogia le suggestioni e i fasti quattrocenteschi.
Nella mostra è possibile ammirare anche opere di artisti locali quali Marino Angeli, Pierpalma da Fermo e Paolo da Visso, che si sono formati ed hanno sviluppato i caratteri originali dello stile appenninico dei pittori del Girfalco. A questi lavori sono affiancate opere di altri pittori, documentati a Fermo negli anni centrali del Quattrocento, accanto a sculture, oreficerie, tessuti, ceramiche e miniature che ancora documentano nella città e nel vasto territorio che la circonda, e che nei secoli da essa è stato dominato, l'imponente fioritura del Quattrocento artistico marchigiano.
La mostra si conclude con opere di Carlo e Vittore Crivelli che, nel 1468, provenendo da Venezia e dopo un soggiorno in Dalmazia, fecero di Fermo il centro della loro splendida pittura. I due fratelli portarono a Fermo l’incisività della pittura squarcionesca di matrice veneta e la forza espressiva di una cultura che voleva parlare direttamente all’osservatore, puntando sull’ostensione dell’immagine attraverso la ricchezza delle superfici pittoriche.
Lungo il percorso è possibile così vedere capolavori di Nicola di Ulisse come il «Polittico di Sant’Eutizio», arrivato da Spoleto e appena stato restaurato dopo il terremoto del 2016, e il «Cristo Risorto», opera attualmente visibile solo nella mostra fermana poiché il Museo di Castellina da cui proviene è oggi impraticabile. Si segnala, poi, la presenza lungo il percorso espositivo della tavola «San Francesco che riceve le stimmate» di Falerone, di una cartapesta proveniente dalla bottega di Antonio Rossellino, dei frammenti della Pala di Ripatransone di Fra’ Mattia della Robbia e del «Polittico di Massa Fermana» di Carlo Crivelli, che è la prima opera marchigiana dell’artista veneziano.
Una sezione della mostra è, infine, dedicata agli oggetti di arte quattrocentesca esposti, come oreficerie, tessuti, boccali e piatti dell’Officina ‘Sforzesca’ di Pesaro della seconda metà del Quattrocento fra cui un preziosissimo «Boccale con volto di donna a rilievo», un «Boccale con decoro alla foglia gotica detta ‘cartoccio’», e un terzo «Boccale con stemma dipinto».

Informazioni utili
Il Quattrocento a Fermo. Chiesa di San Filippo, Corso Cavour, 53 – Fermo. Orari: giugno - da martedì a domenica, ore 10.30-13  e ore 14.30-19; luglio-agosto-settembre - da lunedì a domenica, ore 10.30-13  e ore 14.30-19, giovedì, ore 10.30-13 e ore 14.30-24. Ingresso: Biglietto unico per il circuito museale e monumentale (valido 1 anno) - intero € 8,00, ridotto € 6,00 (14-25 anni, gruppi > 15, soci Fai, Touring Club, Italia Nostra); omaggio per minori di 13 anni, disabili, soci ICOM, giornalisti con tesserino; ridotto con coupon sconto progetto «Mostrare le Marche» 6,00 €. Informazioni e prenotazioni visite guidate e servizi didattici: tel. 0734.217140 e fermo@sistemamuseo.it. Sito internet: www.sistemamuseo.it. Fino al 7 ottobre 2018


mercoledì 27 giugno 2018

A Massa Marittima undici capolavori di Ambrogio Lorenzetti

«A Massa [dipinse] una grande tauola et una capella». Con questa lapidaria, ma non troppo precisa indicazione, contenuta nei «Commentarii», l’architetto, scultore e scrittore Lorenzo Ghiberti (Pelago, 1378 – Firenze, 1º dicembre 1455), che probabilmente era ben informato sui fatti relativi al «famosissimo et singularissimo maestro» senese, indicava per primo l’attività di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa – Siena, 1348) nella città maremmana.
L’artista e storiografo fiorentino si riferiva alla grande tavola con la «Maestà», che «con la sua profonda dottrina, la sua bellezza figurativa, la sua calda e attraente gamma cromatica -per usare le parole di Alessandro Bagnoli, uno dei più attenti studiosi dell’opera di Lorenzetti- abbagliava dall’altare della piccola chiesa di San Pietro all’Orto, dove gli eremitani agostiniani di Massa Marittima avevano iniziato a svolgere la loro vita comunitaria e liturgica».
Questo importante dipinto, realizzato intorno al 1335, è al centro della mostra «Ambrogio Lorenzetti in Maremma. I capolavori dei territori di Grosseto e Siena», che allinea, fino al prossimo 16 settembre, nelle sale del Complesso museale di San Pietro all'Orto, undici tele dell’artista senese, alle quali sono affiancati video e pannelli illustrativi.
Il percorso espositivo si propone così non solo di essere facilmente fruibile da un pubblico di non esperti, ma anche di offrire una visione di insieme delle varie stagioni conosciute dal pittore nel corso della propria carriera, anche al fine di meglio contestualizzare la stessa «Maestà» nell’ambito di quella che in passato era considerata la Maremma senese.
Di questo straordinario dipinto a tempera e oro su tavola -si legge nella brochure che accompagna la mostra- «si erano perse le tracce da diversi secoli, quando gli studi eruditi dell’Ottocento proposero d’identi¬ficarla con l’opera allora conservata nella Cappella dei Priori del Palazzo comunale della città, che oggi ospita l’ufficio del sindaco. La tavola era stata ritrovata nel 1867 nella soffitta del Convento di Sant’Agostino divisa in cinque parti utilizzate in un deposito di carbone. La felice intuizione che in quelle tavole annerite si celasse l’opera perduta di Lorenzetti, confermata solo all’inizio del Novecento dopo una trentina di anni di studio, rappresentava la prova tangibile, dopo secoli d’incertezze, del fatto che uno dei più grandi pittori del Trecento italiano avesse davvero lavorato a Massa Marittima, sulla scia di altri maestri senesi del calibro di Duccio e Goro di Gregorio».
Ambrogio Lorenzetti elaborò per questo lavoro un’iconografia complessa, caratterizzata da un sovraffollamento di personaggi: le tre virtù teologali sono raffigurate sedute sui gradini che conducono al trono della Madonna con gli angeli musicanti, santi e profeti.
Si rivela così in questo straordinario dipinto tutta la maestria dell’artista, innovatore dei dipinti d'altare, di storie sacre e che ha allargato lo sguardo della pittura alla narrazione del paesaggio e della pittura d'ambiente.
Il percorso espositivo propone altre dieci opere a partire dagli anni 1320/25 con la ¬ figura del «Re Salomone», frammento che faceva in origine parte di una delle cornici di raccordo tra le scene che Ambrogio, assieme al fratello Pietro, eseguì per la Sala Capitolare del convento senese di San Francesco, ¬ fino al 1340 con il «Polittico di San Pietro in Castelvecchio» e il «Polittico della Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Paolo» dipinto per la Chiesa di Roccalbegna.

Tra queste due date si collocano le altre opere in mostra: la «Croce dipinta» della Pieve di Montenero d’Orcia, la vetrata raffigurante il «San Michele Arcangelo vittorioso sul demonio», le sinopie dell’«Annunciazione» della cappella di San Galgano a Montesiepi, i «Quattro Santi» del Museo dell’Opera della Metropolitana di Siena, le scene affrescate lungo il lato orientale del Chiostro di San Francesco, sempre a Siena, e l’«Allegoria della Redenzione» della Pinacoteca di Siena. Il percorso della mostra si completa con la visita ad altri due importanti luoghi della città, dove Lorenzetti lavorò: la Chiesa di San Pietro all’Orto, o i Museo degli Organi Meccanici Antichi, e la Cattedrale di San Cerbone, dove sono presenti affreschi recentemente attribuiti al grande artista senese.
Il percorso espositivo della mostra si completa con la visita ad altri due importanti luoghi della città, dove Lorenzetti lavorò: la Chiesa di San Pietro all’Orto, oggi Museo degli Organi Meccanici Antichi, e la Cattedrale di San Cerbone, dove sono presenti a affreschi recentemente attribuiti al grande artista senese.
Tra questi si segnala una grande «Annunciazione», posta al lato sinistro della porta laterale.
Nonostante la perdita di metà della superficie affrescata e la consunzione della pellicola pittorica, è ancora possibile apprezzare la stupenda invenzione compositiva e l’accuratezza dell’esecuzione.
Ambrogio Lorenzetti ha costruito una complessa architettura: lo spazio è scandito in profondità e si dispiega dall’area di primo piano, alle due volte in alto, sopra le quali si vedono due bifore di modernissima architettura gotica, al vano voltato dov’è la Vergine, nel fondo del quale si apre una porta che immette in una più lontana stanza.
«L’espediente di immaginare la porta socchiusa e delineata con scorcio prospettico ben misurato torna a riprova della responsabilità di Ambrogio Lorenzetti, che fu l’unico pittore del Trecento senese a concepire e realizzare con impressionate acutezza simili soluzioni. La stessa capacità di rappresentare le cose in uno spazio profondo e tangibile -spiega Alessandro Bagnoli-, si percepisce nella figura della Vergine, nelle sue mani e nel libro socchiuso, dove fra i due blocchetti delle pagine spicca isolata quella sulla quale era fissata la lettura. L’attenta cura nell’esecuzione si percepisce ancora nella fine elaborazione del nimbo della Vergine, che è riempito dall’impressione di stampini puntiformi, a scacchiera e a rosetta».
Per tutti questi elementi si può affermare che l’«Annunciata» della cattedrale di Massa Marittima si riveli come un’ulteriore prova magistrale della fase matura di Ambrogio Lorenzetti, «pratico coloritore a fresco», che – ebbe a scrivere Giorgio Vasari, un altro importante biografo dell’artista- «nel maneggiar la tempera i colori gl’adoperò con destrezza e facilità grande».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino e i santi Pietro e Paolo, circa 1340, tempera e oro su tavola, Roccalbegna, chiesa dei Santi Pietro e Paolo; foto di Andrea e Fabio Lensini, Siena © Diocesi di Pitigliano – Sovana - Orbetello; [fig. 2] Ambrogio Lorenzetti, Re Salomone, circa 1320-1325, affresco distaccato e applicato su supporto di vetroresina, Siena, Museo Diocesano; foto di Marcello Formichi © Arcidiocesi di Siena – Colle di Val d'Elsa – Montalcino; [fig. 3] Ambrogio Lorenzetti, Croce dipinta, circa 1320- 1325, tempera e oro su tavola, Montenero d’Orcia (Castel del Piano), pieve di Santa Lucia; foto di Andrea e Fabio Lensini, Siena © Arcidiocesi di Siena – Colle di Val d'Elsa – Montalcino; [fig. 4] Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono con Virtù teologali, angeli musicanti, santi e profeti, 1335- 1336, oro, argento, lapislazzuli e tempera su tavole di legno di pioppo, Massa Marittima, Museo di Arte Sacra Provenienza: Massa Marittima, chiesa di San Pietro all’Orto Iscrizioni: FIDES, SPES, CARITAS (sui gradini del trono della Vergine) FOTO 19 foto di Marcello Formichi 

Informazioni utili
«Ambrogio Lorenzetti in Maremma. Capolavori dei territori di Grosseto e Siena». Complesso museale di San Pietro all'Orto, corso Diaz, 36 - Massa Marittima (Grosseto). Orari: fino al 30 giugno - da martedì a domenica, ore 10.00 – 13.00 e ore 16.00- 19.00, dal 1° luglio al 16 settembre - tutti i giorni, dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e dalle ore 16.00 alle ore 20.00. Ingresso: intero 7 euro, ridotto 5 euro. Informazioni: Ufficio turistico Comune di Massa Marittima/ Musei di Massa Marittima, Musei di Maremma, tel.  0566901954, www.turismomassamarittima.it/news o www.museidimaremma.it.  Fino al 16 settembre 2018.