È lo strumento principe del jazz come documentano le esemplari interpretazioni di Ben Webster, Ornette Coleman, Charlie Parker, John Coltrane, Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Dexter Gordon. Stiamo parlando del sassofono, la cui invenzione si deve al flautista e clarinettista Antoine-Joseph Sax (Dinant, 6 novembre 1814 – Parigi, 7 febbraio 1894), detto Adolphe, membro di una famiglia franco-belga di costruttori di strumenti musicali in metallo.
Frutto del tentativo di migliorare il timbro del clarinetto basso, il sassofono fece la sua comparsa sulla scena musicale nel 1840; il brevetto dello strumento risale, invece, a sei anni dopo e porta la data del 28 giugno 1846.
Accolto con diffidenza nell’ambiente della musica accademica, tanto che il suo inventore trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, il sassofono venne usato dapprima nelle bande militari e solo in seguito si affermò nella musica colta grazie al lavoro di autori come Hector Berlioz, Jean-Marie Londeix, Georges Kastner e, poi, Georges Bizet, Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Camille Saint-Saëns, Armand Limnander e Jérôme Savari.
Il sassofono diventò presto anche materia di studio: le prime cattedre di questo strumento vennero istituite a Parigi, nel 1857, per volontà dello stesso Adophe Sax e al Conservatorio di Bologna, nel 1844, grazie alla geniale intuizione di Gioachino Rossini, che inserì questo strumento anche in una delle sue ultime composizioni: «La corona d’Italia».
Ma è Oltreoceano, nei primi anni del Novecento, che le note suadenti e malinconiche del sax incontrano il giusto riconoscimento, anzi entrano nella leggenda.
Lo strumento conosce, infatti, il suo periodo d'oro grazie ai ritmi sincopati del jazz e ai suoi principali interpreti, ovvero Lester Young e Coleman Hawkins, passando per Louis Armstrong, Charlie Parker, John Coltrane e Stan Getz, fino agli odierni «mostri sacri» Michael Breker o Joshua Reedman.
Tra i jazzisti e il sassofono è amore a prima vista e il motivo è semplice: «si può piangere e parlare e piangere e gridare nel sassofono, come si fa con la voce».
Al «tubo dal fascino imprescindibile» e a tutte le sue metamorfosi è stato da poco dedicato anche un museo, il primo nel panorama internazionale. Si trova alle porte di Roma -a Maccarese, una frazione di Fiumicino- ed è nato grazie all’amore, alla conoscenza e alla generosità del musicista e docente laziale Attilio Berni, che ha messo a disposizione la sua ricca raccolta, composta in oltre trent’anni, per «dare forma -spiega lo stesso collezionista- alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali».
Circa seicento pezzi (alcuni molto rari), oltre ottocento fotografie d’epoca, vinili, LP, spartiti, libri, documenti originali e, persino, cinquecento giocattoli a forma di sax compongono il patrimonio del Museo del Saxofono, che si sviluppa su trecentocinquanta metri quadrati di sale espositive e uno spazio esterno altrettanto grande per i concerti estivi, oltre a due sale archivio.
Dal piccolissimo soprillo di trentadue centimetri al gigantesco sax sub-contrabbasso di quasi tre metri, costruito dall’artigiano brasiliano Gilberto Lopes ed esposto nel 2014 al Louvre di Parigi in una mostra su Adolphe Sax, il percorso espositivo permette di vedere tante curiosità come i primi esperimenti dell’inventore belga, il Grafton Plastic, il mitico Conn O-Sax, il Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, il Jazzophone, i grandiosi Conn Artist De Luxe, i sax a coulisse, i saxorusofoni Bottali, il Tex Beneke, l’Ophicleide, il Tex Beneke e i tenori Selmer appartenuti a Sonny Rollins.
Quello di Maccarese è, dunque, un percorso che permette al visitatore di districarsi nelle innumerevoli metamorfosi del saxofono grazie al contatto diretto con i grandi capolavori delle fabbriche Conn, Selmer, King, Buescher, Martin, Buffet Crampon, Rampone, Borgani, Couesnon, seguendo un connubio tra arte e artigianalità, creatività e tradizione che dura da quasi centottant’anni.
Al Museo di Attilio Berni sono, inoltre, esposti anche strumenti posseduti e suonati da importanti personaggi e interpreti come Rudy Wiedoeft, Sonny Rollins, Adrian Rollini, Marcel Mule, Benny Goodman e Tom Scott.
Mentre la raccolta fotografica documenta la storia del sax, dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni Venti fino alle band degli anni Settanta. Tra i pezzi esposti ci sono fotografie originali di Sigurd Rascher, madame Helise Hall, Dorothy Johnson, del Schuster Sister Saxophone Quartet, dei Six Brown Brothers e delle gemelle Violet & Daisy Hilton.
Una segnalazione meritano, infine, i sax giocattolo, di vitale importanza per la diffusione della cultura dello strumento, che vennero fabbricati principalmente in America e nei Paesi dell’Est Europa.
Un percorso, dunque, interessante quello del museo di Maccarese per scoprire tutti i volti, anche i più giocosi, di uno strumento capace di dar voce alle emozioni. Uno strumento dal fascino particolare, di cui Charlie Parker diceva: «Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».
Informazioni utili
Museo del Saxofono, via dei Molini - Maccarese - Fiumicino (Roma). Orari: martedì - venerdì, ore 15.00 - 19:00; sabato - domenica, ore 10.00 - 13.00 e ore 15.00 - 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: adulti € 7,00, studenti e over 65, € 5,00, bambini fino ai 6 anni gratuito. Visite guidate: € 50,00 per minimo 12 persone. Informazioni: tel. 06.61697862. Sito web: www.museodelsaxofono.com.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 23 ottobre 2019
martedì 22 ottobre 2019
Leonardo500, in mostra a Milano «La Vergine delle Rocce del Borghetto»
È un’occasione da non perdere quella offerta dalla Fondazione Orsoline di San Carlo a Milano. In occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario leonardesco, la congregazione religiosa fondata da sant’Angela Merici apre le porte della sua sede davanti alla basilica di sant’Ambrogio, e più precisamente la chiesa di san Michele del Dosso, e rende accessibile al pubblico «La Vergine delle Rocce del Borghetto» (1517-1520).
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.
Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari
Informazioni utili
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.
Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari
Informazioni utili
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.
lunedì 21 ottobre 2019
«Ond'evitar tegole in testa!», sette secoli di assicurazione in mostra a Parma
È una storia che ha origini antiche e un primato tutto italiano. Furono, infatti, i mercanti genovesi e fiorentini del Trecento, per garantire un più sicuro sviluppo dei loro commerci, a dare vita al fenomeno assicurativo. I primi strumenti contrattuali noti riguardavano la spedizione di merci via mare verso l’Estremo Oriente. Questi viaggi erano, infatti, considerati pericolosi sia per l’impossibilità di prevedere con sufficiente anticipo l’arrivo di una tempesta sia per la presenza di pirati e corsari sulle rotte mercantili.
Il timore di perdere i guadagni ottenuti da questi commerci portò così i mercanti trecenteschi a inventare il «contratto assicurativo», un accordo scritto che trasferiva il rischio della perdita di un carico o della stessa nave ad altri che fossero disposti a prenderlo su di sé al fine di ottenere, a loro volta, un’analoga copertura per le loro spedizioni.
La polizza più antica, stilata da un notaio genovese, porta la data del 18 febbraio 1343 ed è proprio questa ad aprire il percorso espositivo della mostra «Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione», allestita nelle sale dell’APE Parma Museo, l’innovativo centro culturale e museale ideato e realizzato da Fondazione Monteparma nel cuore della città ducale.
L’esposizione, curata da Marina Bonomelli e Claudia Di Battista, presenta, nello specifico, duecentottanta pezzi, databili tra il Medioevo e i giorni nostri, tra cui quaranta testi antichi, ventisei polizze assicurative, centoventi targhe incendio prodotte negli ultimi due secoli e novantaquattro manifesti di compagnie italiane e straniere, realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’70 del Novecento.
Il percorso espositivo, che allinea materiale proveniente interamente dalla Fondazione Mansutti di Milano, si snoda seguendo due temi ben definiti.
La prima parte ricostruisce la storia dell’assicurazione negli ultimi settecento anni, presentando, tra l’altro, un focus sulla spinosa questione dell'usura: teologi e canonisti del Trecento e Quattrocento discussero, infatti, molto sulla moralità della polizza assicurativa.
A prova di questa stagione vi è il «De contractibus et usuris», un manoscritto su pergamena di San Bernardino da Siena, databile intorno al 1470, e in contrapposizione un trattato del teologo Konrad Summenhart che, al contrario di San Bernardino, pone sul medesimo piano l'aleatorietà del contratto assicurativo e la scommessa, quest'ultima condannata dalla Chiesa.
La mostra allinea anche opere sulla legislazione e sulla storia del diritto delle assicurazioni, tra cui il «Libro del Consolato de’ marinari» nell’edizione veneziana del 1549 e in quella olandese del 1704, il «Tractatus De assecurationibus» nella rara prima edizione del lusitano Pietro Santerna (1552) e il «De mercatura» di Benvenuto Stracca (1622).
Molto interessante è anche l’«Ordonnance de la Marine», promulgata da Luigi XIV nel 1681. Tra le sue norme vi è, ad esempio, quella che vieta l’assicurazione sulla vita delle persone, ma dà la facoltà di assicurare la vita degli schiavi che erano trattati alla stessa stregua delle merci trasportate sulla nave.
Un altro tema fondamentale dello sviluppo assicurativo è legato agli studi sul calcolo della probabilità e a quelli di matematica attuariale, come documenta l’«Ars conjectandi» di Jakob Bernouilli, pubblicato postumo a Basilea nel 1713.
La seconda parte della mostra segue, invece, l’evoluzione stilistica della grafica pubblicitaria assicurativa, attraverso manifesti, stampati nell'arco di oltre un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso.
Questi lavori regalano all'esposizione un valore artistico di grande impatto, oltre a rappresentare un filone a sé stante nell'ambito del mondo assicurativo, di cui costituiscono una testimonianza originale e fuori dal comune.
Le opere provengono in primis da Italia e Francia, dove il fenomeno della cartellonistica ha raggiunto livelli significativi, e a seguire da Svizzera, Belgio e Olanda; non mancano, però, esemplari provenienti anche da Germania, Spagna, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tra le firme più illustri, ritroviamo i triestini Marcello Dudovich e Leopoldo Metlicovitz insieme al loro maestro e mentore Adolf Hohenstein, il parmigiano Erberto Carboni, i romani Adolfo Busi e Gino Boccasile e persino Umberto Boccioni, in mostra con un raro manifesto. Tra gli artisti più recenti, ci sono, invece, i nomi di Savignac, Colin, Seneca, Piaubert e Ugo Nespolo, al quale è riservata una sezione con un originale e colorato omaggio al matematico svizzero Jakob Bernoulli e al suo teorema, conosciuto oggi come la legge dei grandi numeri.
Molte sono, inoltre, le curiosità disseminate lungo il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. Tra queste, c’è la polizza che Ernest Hemingway stipulò contro l’incendio e i cicloni per la sua casa cubana all’Havana, la «Finca La Vigìa», che aveva acquistato nel 1939 per 12.500 dollari e nella quale scrisse due capolavori della letteratura del Novecento come «Per chi suona la campana» e «Il vecchio e il mare».
Tra i pezzi da vedere si segnala anche la polizza che Marilyn Monroe stipulò contro il rischio d’incidenti automobilistici pochi mesi prima della sua morte.
Molto singolare è, infine, anche l'assicurazione sulla vita sottoscritta nel 1959 da Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, proclamato Santo l’anno scorso, con cui la compagnia, in caso di morte del cardinale in qualsiasi epoca dovesse avvenire, si impegnava a pagare agli eredi il capitale di un milione di lire.
Un percorso, dunque, articolato e completo quello della mostra in corso a Parma, che documenta l'evoluzione del settore assicurativo e il suo volto più artistico.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Manifesto di Briot per la Amicale des Mobilisés de l'Assurance, Parigi, 1933; [fig. 2] Manifesto di L. Edel per la Cassa mutua cooperativa italiana per le pensioni, Torino, 1895; [fig. 3] Manifesto della compagnia svizzera Zürich, Parigi, 1892; [fig. 4] Manifesto di U. Boccioni per la compagnia svizzera Helvetia, Milano, ca. 1914; [fig. 5] Manifesto di E. Carboni per la compagnia italiana La Cremonese, Parma, 1924
Informazioni utili
«Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione». Ape Parma Museo, via Farini, 32/a – Parma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.30. Biglietti: intero € 8,00; ridotto € 5,00 (over 65, persone diversamente abili e loro accompagnatori, gruppi di almeno 10 unità); ingresso gratuito scuole, under 18, studenti e personale dell’Università di Parma, guide turistiche e giornalisti. Informazioni: tel. 0521.2034; info@apeparmamuseo.it. Sito internet: www.apeparmamuseo.it; www.storiadelleassicurazioni.com. Fino al 15 gennaio 2020.
Il timore di perdere i guadagni ottenuti da questi commerci portò così i mercanti trecenteschi a inventare il «contratto assicurativo», un accordo scritto che trasferiva il rischio della perdita di un carico o della stessa nave ad altri che fossero disposti a prenderlo su di sé al fine di ottenere, a loro volta, un’analoga copertura per le loro spedizioni.
La polizza più antica, stilata da un notaio genovese, porta la data del 18 febbraio 1343 ed è proprio questa ad aprire il percorso espositivo della mostra «Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione», allestita nelle sale dell’APE Parma Museo, l’innovativo centro culturale e museale ideato e realizzato da Fondazione Monteparma nel cuore della città ducale.
L’esposizione, curata da Marina Bonomelli e Claudia Di Battista, presenta, nello specifico, duecentottanta pezzi, databili tra il Medioevo e i giorni nostri, tra cui quaranta testi antichi, ventisei polizze assicurative, centoventi targhe incendio prodotte negli ultimi due secoli e novantaquattro manifesti di compagnie italiane e straniere, realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’70 del Novecento.
Il percorso espositivo, che allinea materiale proveniente interamente dalla Fondazione Mansutti di Milano, si snoda seguendo due temi ben definiti.
La prima parte ricostruisce la storia dell’assicurazione negli ultimi settecento anni, presentando, tra l’altro, un focus sulla spinosa questione dell'usura: teologi e canonisti del Trecento e Quattrocento discussero, infatti, molto sulla moralità della polizza assicurativa.
A prova di questa stagione vi è il «De contractibus et usuris», un manoscritto su pergamena di San Bernardino da Siena, databile intorno al 1470, e in contrapposizione un trattato del teologo Konrad Summenhart che, al contrario di San Bernardino, pone sul medesimo piano l'aleatorietà del contratto assicurativo e la scommessa, quest'ultima condannata dalla Chiesa.
La mostra allinea anche opere sulla legislazione e sulla storia del diritto delle assicurazioni, tra cui il «Libro del Consolato de’ marinari» nell’edizione veneziana del 1549 e in quella olandese del 1704, il «Tractatus De assecurationibus» nella rara prima edizione del lusitano Pietro Santerna (1552) e il «De mercatura» di Benvenuto Stracca (1622).
Molto interessante è anche l’«Ordonnance de la Marine», promulgata da Luigi XIV nel 1681. Tra le sue norme vi è, ad esempio, quella che vieta l’assicurazione sulla vita delle persone, ma dà la facoltà di assicurare la vita degli schiavi che erano trattati alla stessa stregua delle merci trasportate sulla nave.
Un altro tema fondamentale dello sviluppo assicurativo è legato agli studi sul calcolo della probabilità e a quelli di matematica attuariale, come documenta l’«Ars conjectandi» di Jakob Bernouilli, pubblicato postumo a Basilea nel 1713.
La seconda parte della mostra segue, invece, l’evoluzione stilistica della grafica pubblicitaria assicurativa, attraverso manifesti, stampati nell'arco di oltre un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso.
Questi lavori regalano all'esposizione un valore artistico di grande impatto, oltre a rappresentare un filone a sé stante nell'ambito del mondo assicurativo, di cui costituiscono una testimonianza originale e fuori dal comune.
Le opere provengono in primis da Italia e Francia, dove il fenomeno della cartellonistica ha raggiunto livelli significativi, e a seguire da Svizzera, Belgio e Olanda; non mancano, però, esemplari provenienti anche da Germania, Spagna, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tra le firme più illustri, ritroviamo i triestini Marcello Dudovich e Leopoldo Metlicovitz insieme al loro maestro e mentore Adolf Hohenstein, il parmigiano Erberto Carboni, i romani Adolfo Busi e Gino Boccasile e persino Umberto Boccioni, in mostra con un raro manifesto. Tra gli artisti più recenti, ci sono, invece, i nomi di Savignac, Colin, Seneca, Piaubert e Ugo Nespolo, al quale è riservata una sezione con un originale e colorato omaggio al matematico svizzero Jakob Bernoulli e al suo teorema, conosciuto oggi come la legge dei grandi numeri.
Molte sono, inoltre, le curiosità disseminate lungo il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. Tra queste, c’è la polizza che Ernest Hemingway stipulò contro l’incendio e i cicloni per la sua casa cubana all’Havana, la «Finca La Vigìa», che aveva acquistato nel 1939 per 12.500 dollari e nella quale scrisse due capolavori della letteratura del Novecento come «Per chi suona la campana» e «Il vecchio e il mare».
Tra i pezzi da vedere si segnala anche la polizza che Marilyn Monroe stipulò contro il rischio d’incidenti automobilistici pochi mesi prima della sua morte.
Molto singolare è, infine, anche l'assicurazione sulla vita sottoscritta nel 1959 da Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, proclamato Santo l’anno scorso, con cui la compagnia, in caso di morte del cardinale in qualsiasi epoca dovesse avvenire, si impegnava a pagare agli eredi il capitale di un milione di lire.
Un percorso, dunque, articolato e completo quello della mostra in corso a Parma, che documenta l'evoluzione del settore assicurativo e il suo volto più artistico.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Manifesto di Briot per la Amicale des Mobilisés de l'Assurance, Parigi, 1933; [fig. 2] Manifesto di L. Edel per la Cassa mutua cooperativa italiana per le pensioni, Torino, 1895; [fig. 3] Manifesto della compagnia svizzera Zürich, Parigi, 1892; [fig. 4] Manifesto di U. Boccioni per la compagnia svizzera Helvetia, Milano, ca. 1914; [fig. 5] Manifesto di E. Carboni per la compagnia italiana La Cremonese, Parma, 1924
Informazioni utili
«Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione». Ape Parma Museo, via Farini, 32/a – Parma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.30. Biglietti: intero € 8,00; ridotto € 5,00 (over 65, persone diversamente abili e loro accompagnatori, gruppi di almeno 10 unità); ingresso gratuito scuole, under 18, studenti e personale dell’Università di Parma, guide turistiche e giornalisti. Informazioni: tel. 0521.2034; info@apeparmamuseo.it. Sito internet: www.apeparmamuseo.it; www.storiadelleassicurazioni.com. Fino al 15 gennaio 2020.
venerdì 18 ottobre 2019
Arezzo, Mimmo Paladino omaggia Piero della Francesca
«Piero della Francesca per me è una fonte inesauribile di scoperte. La sua capacità di creare forme dalla luce, spazio dalla matematica, colore dal grigio, la sua iconicità quasi araldica, sono un costante punto di riferimento, quasi una regola». Così Mimmo Paladino (Paduli - Benevento, 19 dicembre 1948), uno dei principali esponenti della Transavanguardia, parla del suo amore per il pittore e matematico di Montevarchi, una delle personalità più emblematiche del Rinascimento italiano, le cui opere colpiscono per l’attento uso della prospettiva, frutto di accurati studi geometrici come dimostra la celebre tavola «La flagellazione di Cristo» (1460), conservata a Urbino.
Per Mimmo Paladino le opere dell’artista rinascimentale sono state fonte di ispirazione non solo a livello estetico, ma anche metodologico e teorico. Piero della Francesca è stata, infatti, una delle figure del passato che più hanno contato nella formazione del maestro di Benevento e con la quale lui ha intrattenuto un dialogo costante in tutta la sua ricerca artistica.
Ad approfondire il rapporto tra i due artisti, in un elegante gioco di rimandi tra antico e contemporaneo, è la mostra diffusa «La regola di Pietro», allestita ad Arezzo, per la curatela di Luigi Maria Di Corato. Sono oltre cinquanta le opere selezionate per questo omaggio, che si articola in ben sei sedi espositive: la Galleria comunale d’arte contemporanea, la Fortezza medicea, la Basilica di San Francesco, la sala di Sant’Ignazio, la chiesa di San Domenico e Porta Stufi.
L'omaggio, pur svolgendosi e dipanandosi per tutta la città, non chiama mai direttamente in causa il maestro a livello formale, ma si risolve nel manifestare una condivisione di valori, come l’incontro tra tradizione e modernità, tra razionalità ed emozione, tra luce, forma e colore, tra idealizzazione, astrazione, simbolo e realtà.
L’arte di Paladino fonda le sue radici nella grande tradizione figurativa e filosofica italiana. Questa passione lo ha spesso portato a riscoprire le culture più diverse, alla ricerca di un confronto con gli archetipi, le matrici iconiche, le tradizioni fondanti che, dalle civiltà pre-romane al Rinascimento, hanno costellato il pensiero mediterraneo.
I due nuclei centrali della rassegna - che vede protagonista proprio la pittura e che presenta opere tridimensionali nella loro naturale vocazione pittorica - sono la Galleria comunale d’arte contemporanea e la Fortezza Medicea.
Nella Galleria è accolta una selezione di trentaquattro dipinti, tra cui opere celebri come due grandi quadri della serie «Il principio della prospettiva» (1999) e il lavoro «Senza titolo» (2018), un polittico inedito di sei elementi.
Si trovano, inoltre, in mostra una serie di cinque sculture del nucleo «Architettura», realizzate in materiali vari dal 2000 al 2002, e «Stele», una fusione in alluminio del 2000.
Al centro del percorso, che si chiude con una sala video nella quale viene ripercorso l’impegno di Mimmo Paladino in ambito cinematografico, si segnala la spettacolare istallazione «Scarpette», del 2007, realizzata con ben più di centoottanta scarpe e uccellini in ghisa che si trasformano in un basso-rilevo di ben sessantaquattro metri quadri.
Nella piazza antistante la Galleria -sulla quale si affaccia la basilica di San Francesco, che conserva al suo interno le «Storie della Vera Croce»- campeggia un grande obelisco votivo. L’opera, alta oltre venti metri, è intitolata «De Mathematica» e si ispira ai Gigli di Nola, macchine processionali a spalla, oggi patrimonio Unesco. Formata da numeri assemblati tra loro, quest'opera è un «monumento temporaneo» alla matematica, ma anche alla vocazione proto-scientifica dell’Umanesimo per la ricerca dell’esattezza, di cui i trattati di Piero della Francesca sono un celebre manifesto.
Per la Fortezza sono state selezionate, invece, un nucleo di opere monumentali capaci di innescare una tensione drammatica non comune con la scabra natura degli spazi. Il percorso comincia con la recentissima «Senza titolo», del 2018, composta da bronzo ed acqua, opera che il pubblico ha potuto vedere esposta solo a Napoli nel mese di dicembre 2018. La mostra prosegue, quindi, con «Zenith», dodecaedro stellato in alluminio del 2001, per poi continuare con un’opera degli anni Ottanta. Si tratta di «Senza titolo», un carro di bronzo del 1988, che trasporta venti teste, preziosi trofei di un corteo apotropaico che conducono all’interno della fortificazione.
Tra le altre sculture-pittoriche monumentali, spiccano i nove elementi di «Vento d’acqua», opera in bronzo del 2005, già esposta al Museo di Capodimonte di Napoli. Ci sono, inoltre, lungo il percorso espositivo anche i giganteschi «Specchi ustori» del 2017, un grande tavolo che ospita ben cinquanta piccoli bronzi e tre nuovissime sculture a figura intera sempre «Senza titolo», annidate nelle segrete della fortezza.
Completano il percorso altre tre tappe fondamentali. Nella chiesa di San Domenico c’è la grande croce in foglia d’oro «Senza titolo» del 2016. A Porta Stufi è possibile vedere un’installazione di grande suggestione, nella quale diciotto vessilli policromi collocati sulle mura -«Bandiere», opera del 2003 in alluminio- sembrano segnalare un antico trofeo lasciato sul selciato: «Elmo», una delle opere più note dell’artista, un bronzo del 1998, esposto nei maggiori musei del mondo, che qui, imbelle, accoglie i visitatori in arrivo o in partenza ricordando i fasti di un passato non ancora remoto. Mentre nella chiesa sconsacrata di Sant’Ignazio è possibile ammirare l’istallazione «Dormienti», tra le opere più note e amate di Mimmo Paladino, realizzata con Brian Eno nel 1999 per la Roundhouse di Londra e qui riproposta in un nuovo allestimento.
L’istallazione rimanda a diverse fonti indirette di suggestione, dai calchi di Pompei ad alcune figure etrusche, ma è soprattutto ispirata ai disegni realizzati da Henry Moore nei rifugi anti-aerei di Londra, nei quali sono rappresentate figure rannicchiate e indifese, intente a proteggersi dal terrore dei bombardamenti tedeschi.
Una citazione a parte merita, infine, «Suonno. Da Piero della Francesca» (nell'ultima foto) del 1983, opera esposta nella Galleria comunale d’arte contemporanea. Si tratta di un omaggio alle «Storie della Vera Croce», nella cappella Maggiore della Basilica di San Francesco. Qui prende forma la «Regola di Piero», a cui ha voluto rendere omaggio Mimmo Paladino. Qui -ricorda Luigi Maria Di Corato- l’artista toscano «ha cercato di fondere in un’unica visione punti di vista apparentemente lontani tra loro: la solidità concreta di Massaccio e la luce diafana dell’Angelico, l’astratta geometricità di Brunelleschi e il virtuosismo prospettico di Paolo Uccello, la rarefazione di Domenico Veneziano e la precisione ottica dei fiamminghi».
Qui il maestro beneventano ha preso ispirazione per creare il suo linguaggio figurativo in bilico tra presente e passato, geometria e plasticità, concettuale e corporeo. Perché -come dice Franco Battiato nel suo ultimo brano, «Torneremo ancora» - «nulla si crea, tutto si trasforma».
Informazioni utili
«Mimmo Paladino. La regola di Piero». Sedi espositive: Fortezza Medicea - Galleria Comunale d'Arte Contemporanea - Ex-Chiesa di Sant’Ignazio - Basilica di San Francesco - Chiesa di San Domenico - Porta Stufi, Arezzo. Orari: dal martedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; giorno di chiusura il lunedì. Biglietti: 5,00 euro (ridotto 3,00 euro per gli over 65); ingresso gratuito per i minori di 14 anni | i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive della Galleria comunale d’arte contemporanea e della Fortezza Medicea. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.fondazioneguidodarezzo.com | www.laregoladipiero.wordpress.com. Fino al 31 gennaio 2020. Prorogata al 30 giugno 2020.
Per Mimmo Paladino le opere dell’artista rinascimentale sono state fonte di ispirazione non solo a livello estetico, ma anche metodologico e teorico. Piero della Francesca è stata, infatti, una delle figure del passato che più hanno contato nella formazione del maestro di Benevento e con la quale lui ha intrattenuto un dialogo costante in tutta la sua ricerca artistica.
Ad approfondire il rapporto tra i due artisti, in un elegante gioco di rimandi tra antico e contemporaneo, è la mostra diffusa «La regola di Pietro», allestita ad Arezzo, per la curatela di Luigi Maria Di Corato. Sono oltre cinquanta le opere selezionate per questo omaggio, che si articola in ben sei sedi espositive: la Galleria comunale d’arte contemporanea, la Fortezza medicea, la Basilica di San Francesco, la sala di Sant’Ignazio, la chiesa di San Domenico e Porta Stufi.
L'omaggio, pur svolgendosi e dipanandosi per tutta la città, non chiama mai direttamente in causa il maestro a livello formale, ma si risolve nel manifestare una condivisione di valori, come l’incontro tra tradizione e modernità, tra razionalità ed emozione, tra luce, forma e colore, tra idealizzazione, astrazione, simbolo e realtà.
L’arte di Paladino fonda le sue radici nella grande tradizione figurativa e filosofica italiana. Questa passione lo ha spesso portato a riscoprire le culture più diverse, alla ricerca di un confronto con gli archetipi, le matrici iconiche, le tradizioni fondanti che, dalle civiltà pre-romane al Rinascimento, hanno costellato il pensiero mediterraneo.
I due nuclei centrali della rassegna - che vede protagonista proprio la pittura e che presenta opere tridimensionali nella loro naturale vocazione pittorica - sono la Galleria comunale d’arte contemporanea e la Fortezza Medicea.
Nella Galleria è accolta una selezione di trentaquattro dipinti, tra cui opere celebri come due grandi quadri della serie «Il principio della prospettiva» (1999) e il lavoro «Senza titolo» (2018), un polittico inedito di sei elementi.
Si trovano, inoltre, in mostra una serie di cinque sculture del nucleo «Architettura», realizzate in materiali vari dal 2000 al 2002, e «Stele», una fusione in alluminio del 2000.
Al centro del percorso, che si chiude con una sala video nella quale viene ripercorso l’impegno di Mimmo Paladino in ambito cinematografico, si segnala la spettacolare istallazione «Scarpette», del 2007, realizzata con ben più di centoottanta scarpe e uccellini in ghisa che si trasformano in un basso-rilevo di ben sessantaquattro metri quadri.
Nella piazza antistante la Galleria -sulla quale si affaccia la basilica di San Francesco, che conserva al suo interno le «Storie della Vera Croce»- campeggia un grande obelisco votivo. L’opera, alta oltre venti metri, è intitolata «De Mathematica» e si ispira ai Gigli di Nola, macchine processionali a spalla, oggi patrimonio Unesco. Formata da numeri assemblati tra loro, quest'opera è un «monumento temporaneo» alla matematica, ma anche alla vocazione proto-scientifica dell’Umanesimo per la ricerca dell’esattezza, di cui i trattati di Piero della Francesca sono un celebre manifesto.
Per la Fortezza sono state selezionate, invece, un nucleo di opere monumentali capaci di innescare una tensione drammatica non comune con la scabra natura degli spazi. Il percorso comincia con la recentissima «Senza titolo», del 2018, composta da bronzo ed acqua, opera che il pubblico ha potuto vedere esposta solo a Napoli nel mese di dicembre 2018. La mostra prosegue, quindi, con «Zenith», dodecaedro stellato in alluminio del 2001, per poi continuare con un’opera degli anni Ottanta. Si tratta di «Senza titolo», un carro di bronzo del 1988, che trasporta venti teste, preziosi trofei di un corteo apotropaico che conducono all’interno della fortificazione.
Tra le altre sculture-pittoriche monumentali, spiccano i nove elementi di «Vento d’acqua», opera in bronzo del 2005, già esposta al Museo di Capodimonte di Napoli. Ci sono, inoltre, lungo il percorso espositivo anche i giganteschi «Specchi ustori» del 2017, un grande tavolo che ospita ben cinquanta piccoli bronzi e tre nuovissime sculture a figura intera sempre «Senza titolo», annidate nelle segrete della fortezza.
Completano il percorso altre tre tappe fondamentali. Nella chiesa di San Domenico c’è la grande croce in foglia d’oro «Senza titolo» del 2016. A Porta Stufi è possibile vedere un’installazione di grande suggestione, nella quale diciotto vessilli policromi collocati sulle mura -«Bandiere», opera del 2003 in alluminio- sembrano segnalare un antico trofeo lasciato sul selciato: «Elmo», una delle opere più note dell’artista, un bronzo del 1998, esposto nei maggiori musei del mondo, che qui, imbelle, accoglie i visitatori in arrivo o in partenza ricordando i fasti di un passato non ancora remoto. Mentre nella chiesa sconsacrata di Sant’Ignazio è possibile ammirare l’istallazione «Dormienti», tra le opere più note e amate di Mimmo Paladino, realizzata con Brian Eno nel 1999 per la Roundhouse di Londra e qui riproposta in un nuovo allestimento.
L’istallazione rimanda a diverse fonti indirette di suggestione, dai calchi di Pompei ad alcune figure etrusche, ma è soprattutto ispirata ai disegni realizzati da Henry Moore nei rifugi anti-aerei di Londra, nei quali sono rappresentate figure rannicchiate e indifese, intente a proteggersi dal terrore dei bombardamenti tedeschi.
Una citazione a parte merita, infine, «Suonno. Da Piero della Francesca» (nell'ultima foto) del 1983, opera esposta nella Galleria comunale d’arte contemporanea. Si tratta di un omaggio alle «Storie della Vera Croce», nella cappella Maggiore della Basilica di San Francesco. Qui prende forma la «Regola di Piero», a cui ha voluto rendere omaggio Mimmo Paladino. Qui -ricorda Luigi Maria Di Corato- l’artista toscano «ha cercato di fondere in un’unica visione punti di vista apparentemente lontani tra loro: la solidità concreta di Massaccio e la luce diafana dell’Angelico, l’astratta geometricità di Brunelleschi e il virtuosismo prospettico di Paolo Uccello, la rarefazione di Domenico Veneziano e la precisione ottica dei fiamminghi».
Qui il maestro beneventano ha preso ispirazione per creare il suo linguaggio figurativo in bilico tra presente e passato, geometria e plasticità, concettuale e corporeo. Perché -come dice Franco Battiato nel suo ultimo brano, «Torneremo ancora» - «nulla si crea, tutto si trasforma».
Informazioni utili
«Mimmo Paladino. La regola di Piero». Sedi espositive: Fortezza Medicea - Galleria Comunale d'Arte Contemporanea - Ex-Chiesa di Sant’Ignazio - Basilica di San Francesco - Chiesa di San Domenico - Porta Stufi, Arezzo. Orari: dal martedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; giorno di chiusura il lunedì. Biglietti: 5,00 euro (ridotto 3,00 euro per gli over 65); ingresso gratuito per i minori di 14 anni | i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive della Galleria comunale d’arte contemporanea e della Fortezza Medicea. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.fondazioneguidodarezzo.com | www.laregoladipiero.wordpress.com. Fino al 31 gennaio 2020. Prorogata al 30 giugno 2020.
giovedì 17 ottobre 2019
David LaChapelle firma il calendario 2020 di Lavazza
È una lunga storia d’amore quella tra Lavazza e la fotografia. Tutto ha inizio nel 1993 con la prima edizione del calendario, progetto internazionale nato per raccontare in maniera innovativa il mondo del caffè e i valori del brand.
Il primo a legare il suo nome all’azienda è Helmut Newton con il suo stile in bilico tra eleganza formale e gusto provocatorio. Il testimone passa, poi, a Ellen Von Unwerth, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Marino Parisotto, Elliott Erwitt, i fotografi della Magnum Photos, Martin Franck e Richard Kalvar.
Fino agli anni Duemila è il bianco e nero, più elegante e intimo, a tradurre in immagini il mondo di Lavazza.
Dal 2002, con l'arrivo di David LaChapelle, il calendario si apre al colore: il fotografo costruisce un racconto visivo tutto incentrato sui cromatismi accesi e vibranti dell'indaco e del fucsia, animato da un erotismo giocoso che unisce la seduzione intrinseca al rituale del caffè a una personale rivisitazione dell'immaginario della West Coast.
Ed ecco, poi, JeanBaptiste Mondino, Thierry Le Gouès, Eugenio Recuenco -ricordano dagli uffici di Lavazza- che «creano scatti all’insegna dell'immaginazione, ricchi di visioni fantastiche e popolati da creature immaginifiche».
La pubblicazione dei calendari continua negli anni successivi: «Finlay MacKay si tuffa nell'opulenza del gusto. Erwin Olaf si diverte con i cromatismi del rosso e del bianco mettendo in scena l'eterno gioco delle coppie. Anne Leibovitz e Mark Selinger raccontano con humor e leggerezza l'italianità. Martin Schoeller coinvolge alcuni tra gli chef stellati più famosi del mondo».
Il 2015 è l’anno di una nuova svolta. La fotografia, arte per eccellenza del racconto del reale e dei cambiamenti della società, è il linguaggio migliore per raccontare l’impegno del brand nei confronti della sostenibilità ambientale.
Il calendario è il modo migliore per pubblicizzare, attraverso la poesia e l’artisticità della fotografia d’autore, come Lavazza intenda operare per il futuro del pianeta. Nasce un progetto triennale: «Earth Defenders». Lo inaugura Steve McCurry con «¡Tierra!», un viaggio alla scoperta delle comunità produttrici di caffè. È, poi, la volta di Joey Lawrence, con la serie «From Father to Son», e di Denis Rouvre, che firma «We Are What We Live». La trilogia dei «guardiani della Terra» -questa la traduzione italiana del titolo dei progetti- dà così voce alle storie dei piccoli produttori e dei contadini, giovani e anziani, accomunati dall'amore e dalla salvaguardia del pianeta, il bene più prezioso.
L’impegno di Lavazza prosegue nel 2018 con Platon, che racconta in dodici scatti le storie di chi ha scelto di abbracciare uno degli obietti di sviluppo sostenibile che l'Onu indica come target da raggiungere entro il 2030.
L’ultimo calendario del decennio porta, invece, la firma di Ami Vitale, che documenta con i suoi scatti sei suggestive opere di nature art realizzate in Thailandia, Marocco, Svizzera, Colombia, Kenya e Belgio.
Sostenibilità ambientale e protezione del pianeta sono i temi al centro anche della nuova edizione del calendario Lavazza, recentemente presentato a Venezia.
«Earth CelebrAction» è il titolo scelto per questo nuovo progetto, che vede come sempre alla direzione artistica l’agenzia di comunicazione Armando Testa.
«L’intento -raccontano ancora da Lavazza- è quello di celebrare il potere della bellezza unita all'idea dell'azione e di invitare ogni essere umano a prendersi cura della terra e di chi la abita».
A firmare i dodici scatti del 2020 è lo statunitense David LaChapelle, allievo di Andy Warhol e cantore barocco e sfrontato del glamour scintillante degli anni Novanta, alla sua terza volta a fianco di Lavazza.
Il fotografo ha interpretato il tema scelto per questa edizione mettendo in scena un racconto simbolico, dove gli elementi primari del fuoco, dell'acqua, della terra e dell'aria si combinano alla presenza dell'uomo, inserito in scenari naturali emozionanti.
I dodici mesi dell’anno sono un canto dedicato alla vita e al potere trasformativo della bellezza, capace di risvegliare l'attenzione delle persone nei confronti dei bisogni della terra e del suo delicato equilibrio.
Gli scatti di David LaChapelle sono realizzati alle Hawaii, dove l'artista vive da alcuni anni in una farm eco-sostenibile, nella quale ha sviluppato l'interesse per la fotografia di paesaggio e una peculiare attenzione nei confronti dell'ambiente.
Per il suo calendario il fotografo americano ha scelto dodici parole guida, una per mese: «Celebrate», «Listen», «Realize», «Defend», «Care», «Sustain», «Honor», «Nourish», «Reconnet», «Breathe», «Respect», «Change». Il messaggio, però, è solo uno ed è molto chiaro: «Noi celebriamo la Terra, perché grazie a lei esistiamo. La ascoltiamo, per intervenire in suo aiuto. Realizziamo quanto è importante, per essere importanti per lei. La difendiamo, soprattutto da noi stessi. La curiamo, perché la sua salute è la nostra. La sosteniamo, lavorando per ridurre ogni impatto. La onoriamo, perché ci ha dato tutto senza chiedere niente. La nutriamo, per vederla crescere ancora. Ci riconnettiamo con lei, per provare ciò che prova. La respiriamo, perché è vita. La rispettiamo, perché è nostra Madre. Noi la cambiamo, se cambieremo noi».
Non basta, dunque, per David LaChapelle celebrare la bellezza della terra, ma bisogna anche agire per tutelarla e darle un futuro.
Per saperne di più
calendar.lavazza.com
Il primo a legare il suo nome all’azienda è Helmut Newton con il suo stile in bilico tra eleganza formale e gusto provocatorio. Il testimone passa, poi, a Ellen Von Unwerth, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Marino Parisotto, Elliott Erwitt, i fotografi della Magnum Photos, Martin Franck e Richard Kalvar.
Fino agli anni Duemila è il bianco e nero, più elegante e intimo, a tradurre in immagini il mondo di Lavazza.
Dal 2002, con l'arrivo di David LaChapelle, il calendario si apre al colore: il fotografo costruisce un racconto visivo tutto incentrato sui cromatismi accesi e vibranti dell'indaco e del fucsia, animato da un erotismo giocoso che unisce la seduzione intrinseca al rituale del caffè a una personale rivisitazione dell'immaginario della West Coast.
Ed ecco, poi, JeanBaptiste Mondino, Thierry Le Gouès, Eugenio Recuenco -ricordano dagli uffici di Lavazza- che «creano scatti all’insegna dell'immaginazione, ricchi di visioni fantastiche e popolati da creature immaginifiche».
La pubblicazione dei calendari continua negli anni successivi: «Finlay MacKay si tuffa nell'opulenza del gusto. Erwin Olaf si diverte con i cromatismi del rosso e del bianco mettendo in scena l'eterno gioco delle coppie. Anne Leibovitz e Mark Selinger raccontano con humor e leggerezza l'italianità. Martin Schoeller coinvolge alcuni tra gli chef stellati più famosi del mondo».
Il 2015 è l’anno di una nuova svolta. La fotografia, arte per eccellenza del racconto del reale e dei cambiamenti della società, è il linguaggio migliore per raccontare l’impegno del brand nei confronti della sostenibilità ambientale.
Il calendario è il modo migliore per pubblicizzare, attraverso la poesia e l’artisticità della fotografia d’autore, come Lavazza intenda operare per il futuro del pianeta. Nasce un progetto triennale: «Earth Defenders». Lo inaugura Steve McCurry con «¡Tierra!», un viaggio alla scoperta delle comunità produttrici di caffè. È, poi, la volta di Joey Lawrence, con la serie «From Father to Son», e di Denis Rouvre, che firma «We Are What We Live». La trilogia dei «guardiani della Terra» -questa la traduzione italiana del titolo dei progetti- dà così voce alle storie dei piccoli produttori e dei contadini, giovani e anziani, accomunati dall'amore e dalla salvaguardia del pianeta, il bene più prezioso.
L’impegno di Lavazza prosegue nel 2018 con Platon, che racconta in dodici scatti le storie di chi ha scelto di abbracciare uno degli obietti di sviluppo sostenibile che l'Onu indica come target da raggiungere entro il 2030.
L’ultimo calendario del decennio porta, invece, la firma di Ami Vitale, che documenta con i suoi scatti sei suggestive opere di nature art realizzate in Thailandia, Marocco, Svizzera, Colombia, Kenya e Belgio.
Sostenibilità ambientale e protezione del pianeta sono i temi al centro anche della nuova edizione del calendario Lavazza, recentemente presentato a Venezia.
«Earth CelebrAction» è il titolo scelto per questo nuovo progetto, che vede come sempre alla direzione artistica l’agenzia di comunicazione Armando Testa.
«L’intento -raccontano ancora da Lavazza- è quello di celebrare il potere della bellezza unita all'idea dell'azione e di invitare ogni essere umano a prendersi cura della terra e di chi la abita».
A firmare i dodici scatti del 2020 è lo statunitense David LaChapelle, allievo di Andy Warhol e cantore barocco e sfrontato del glamour scintillante degli anni Novanta, alla sua terza volta a fianco di Lavazza.
Il fotografo ha interpretato il tema scelto per questa edizione mettendo in scena un racconto simbolico, dove gli elementi primari del fuoco, dell'acqua, della terra e dell'aria si combinano alla presenza dell'uomo, inserito in scenari naturali emozionanti.
I dodici mesi dell’anno sono un canto dedicato alla vita e al potere trasformativo della bellezza, capace di risvegliare l'attenzione delle persone nei confronti dei bisogni della terra e del suo delicato equilibrio.
Gli scatti di David LaChapelle sono realizzati alle Hawaii, dove l'artista vive da alcuni anni in una farm eco-sostenibile, nella quale ha sviluppato l'interesse per la fotografia di paesaggio e una peculiare attenzione nei confronti dell'ambiente.
Per il suo calendario il fotografo americano ha scelto dodici parole guida, una per mese: «Celebrate», «Listen», «Realize», «Defend», «Care», «Sustain», «Honor», «Nourish», «Reconnet», «Breathe», «Respect», «Change». Il messaggio, però, è solo uno ed è molto chiaro: «Noi celebriamo la Terra, perché grazie a lei esistiamo. La ascoltiamo, per intervenire in suo aiuto. Realizziamo quanto è importante, per essere importanti per lei. La difendiamo, soprattutto da noi stessi. La curiamo, perché la sua salute è la nostra. La sosteniamo, lavorando per ridurre ogni impatto. La onoriamo, perché ci ha dato tutto senza chiedere niente. La nutriamo, per vederla crescere ancora. Ci riconnettiamo con lei, per provare ciò che prova. La respiriamo, perché è vita. La rispettiamo, perché è nostra Madre. Noi la cambiamo, se cambieremo noi».
Non basta, dunque, per David LaChapelle celebrare la bellezza della terra, ma bisogna anche agire per tutelarla e darle un futuro.
Per saperne di più
calendar.lavazza.com
mercoledì 16 ottobre 2019
Busto Arsizio, al ridotto Luigi Pirandello va in scena la poesia
«La letteratura è stata davvero per me, da un certo momento, la vita stessa»: è racchiuso in questa frase che lo scrittore e studioso ligure Carlo Bo vergò nel suo Diario aperto e chiuso, pubblicato dalla milanese Edizioni di Uomo nel 1945, il senso della rassegna Perché tu mi dici: poeta?, in cartellone da ottobre 2009 a maggio 2010 presso gli spazi del ridotto Luigi Pirandello, piccola sala consacrata al «teatro di parola e di ricerca» del Sociale di Busto Arsizio.
A dare il titolo all’iniziativa, promossa dall’associazione culturale Educarte, è un verso dello scrittore crepuscolare Sergio Corazzini, tratto dalla lirica Desolazione di un povero poeta sentimentale, pubblicata nella raccolta Piccolo libro inutile del 1906. Una poesia, questa, che sarà possibile risentire, giovedì 25 febbraio 2010, in un appuntamento dal titolo Tra crepuscolarismo e sperimentalismo futurista, incentrato anche sulle produzioni poetiche di Guido Gozzano, Corrado Govoni, Filippo Tommaso Marinetti e Aldo Palazzeschi.
Da Foscolo a Quasimodo
Undici gli incontri complessivamente in cartellone, rivolti principalmente a un pubblico giovane, che consentiranno di ricostruire alcune delle più significative esperienze poetiche dell’Ottocento e del Novecento. Si inizierà con il carme Dei Sepolcri del pre-romantico Ugo Foscolo, i cui 295 endecasillabi sciolti sul senso del vivere e del perire verranno rievocati giovedì 12 novembre 2009, e si terminerà, nella serata di giovedì 6 maggio 2010, con la poesia socio-filosofica dell’ermetico Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura nel 1959, il quale cantò la condizione dell’uomo moderno, sospeso tra sofferenza e solitudine, e la difficile condizione degli sconfitti dalla guerra e «dal piede straniero sopra il cuore».
A fare da prologo a questi appuntamenti sarà, nella serata di giovedì 29 ottobre 2009, una conferenza-spettacolo sull’avventura in versi del più grande scrittore e drammaturgo di tutti i tempi, l’inglese William Shakespeare, i cui intimi e intensi sonetti («struggente romanzo di un amore senza speranza, che si nutre della propria ambiguità e si sublima nella dignità del dolore», come ebbe a scrivere Gabriele Baldini) videro cimentarsi nella traduzione, dall’inglese all’italiano, due tra i principali poeti del nostro Novecento, entrambi premi Nobel per la letteratura: Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale.
Dalle atmosfere seicentesche del «grande Bardo», cantore dell’amore quale unione indissolubile tra due anime, si passerà, dunque, alla cosiddetta «letteratura contemporanea italiana», della quale gli Attori del teatro Sociale, con la guida della regista Delia Cajelli, ripercorreranno, secondo un itinerario cronologico, i profili di suoi undici protagonisti illustri, i più studiati nelle scuole italiane, chiarendone i motivi generali della produzione, ma anche fornendone notizie biografiche e un percorso per exempla tra le poesie più conosciute.
Unica voce fuori dai confini nazionali sarà quella di Federico Garcìa Lorca, del quale, nell’incontro A las cinco de la tarde./Eran las cinco en punto de la tarde… di venerdì 2 aprile 2010, verranno analizzate le atmosfere spagnole della sua poesia, innervata di musica flamenca, lirica gitana e tradizioni arabo-andaluse.
Letteratura come vita
Fil rouge tra le varie conferenze-spettacolo sarà il tema della «letteratura come vita», secondo una felice espressione coniata da Carlo Bo nel 1938, sulla rivista fiorentina Frontespizio, per presentare la corrente ermetica.
Gran parte della poesia otto-novecentesca è, infatti, intrisa di autobiografismo. Racconta, per usare le parole di Umberto Saba, la «vita di un uomo», diventandone specchio dei suoi sentimenti e delle circostanze della sua vita, come ben delineano le storie letterarie di Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti e dello stesso Umberto Saba.
Il sentimento civile e la contemplazione della storia che anima le liriche degli ottocenteschi Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni (del quale giovedì 26 novembre 2009 verrà narrata la genesi delle sue due più note odi civili, Marzo 1921 e Cinque maggio) lasciano, dunque, spazio a una poesia che è cammino introspettivo e che è, per usare le parole di Salvatore Quasimodo, la «rivelazione di un sentimento che il poeta crede sia personale e interiore» e «che il lettore riconosce come proprio».
La quotidianità, la «calda vita» dei luoghi natale, il «male di vivere» di montaliana memoria, la precarietà del destino umano, l’orrore della guerra, il clima di inquietudine e di ricerca che anima il post-positivismo sono solo alcuni degli argomenti al centro della rassegna Perché tu mi dici: poeta?. Ecco così che il 14 gennaio 2010 si analizzeranno i «canti pisano-recanatesi» di Giacomo Leopardi, «storia di un’anima» grondante di delusione e amarezza. Giovedì 4 febbraio 2010 si parlerà di Giosuè Carducci e della sua amata terra natia: la verde e selvaggia Toscana. Due settimane dopo, il 18 febbraio 2010, si farà luce sulla «poetica delle piccole cose» di Giovanni Pascoli, della quale massimi esempi si hanno nelle raccolte Mirycae, Primi poemetti e Canti di Castelvecchio. E ancora, l’11 marzo 2010 si tratterà della «triestinità» del Canzoniere di Umberto Saba. Pochi giorni dopo, il 25 marzo 2010, si focalizzerà l’attenzione sulla raccolta Porto sepolto di Giuseppe Ungaretti, dove viene narrata l’esperienza del primo conflitto bellico, vissuta dallo stesso poeta come soldato semplice presso il XIX Battiglione di fanteria, sulle montagne del Carso. Mentre il 22 aprile 2010 si illustrerà la «cultura del negativo» che emana dai volumi Ossi di seppia e Occasioni, La bufera e l’altro, Satura e Quaderno di quattro anni di Eugenio Montale.
I motivi della rassegna
«Gli incontri –spiega Delia Cajelli- saranno intimi e interattivi, anche per la dimensione quasi domestica del Ridotto, che stimola la partecipazione del pubblico e il suo contatto fisico con gli attori», grazie alla platea mobile e all’esiguità del numero di posti a sedere (una settantina in tutto)». «Lo scopo di questa rassegna –prosegue la direttrice artistica del teatro Sociale di Busto Arsizio- è quello di conquistare l’animo dei più giovani alla poesia, non con lezioni scolastiche, ma con l’emozione della recitazione in teatro».
La poesia, dunque, con Perché tu mi dici: poeta? scende dalla cattedra e va in mezzo alla gente, forse realizzando uno dei sogni del futurista Aldo Palazzeschi, che scrisse «il vero poeta dovrebbe scrivere sui muri, per le vie, le proprie sensazioni e impressioni, fra l'indifferenza o l'attenzione dei passanti».
Tutte le conferenze-spettacolo avranno inizio alle 21.00.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Immagine promozionale della rassegna Perché tu mi dici: poeta?. Foto: Silvia Consolmagno. [fig. 2, fig. 3 e fig. 5] Serata di poesia al teatro Sociale di Busto Arsizio. Foto: Silvia Consolmagno; [ fig. 5] Delia Cajelli con l'attore Gerry Franceschini. Foto: Silvia Consolmagno.
Informazioni utili
Perché tu mi dici: poeta?. Teatro Sociale / ridotto Luigi Pirandello, piazza Plebiscito 8 - 21052 Busto Arsizio (Varese). Biglietti: intero € 8.00, ridotto € 6.00 (riservato a giovani fino ai 21 anni, ultra 65enni, militari, Cral, biblioteche, dopolavoro e associazioni con minimo dieci persone). Botteghino: il botteghino del teatro Sociale, ubicato in piazza Plebiscito 8, presso gli uffici del primo piano, è aperto nelle giornate mercoledì e venerdì, dalle 16.00 alle 18.00, e sabato, dalle 10.00 alle 12.00. E’ possibile prenotare telefonicamente, al numero 0331.679000, tutti i giorni feriali, secondo il seguente orario: dal lunedì al venerdì, dalle 16.00 alle 18.00; il sabato, dalle 10.00 alle 12.00. Informazioni utili: tel. 0331. 679000, e-mail: info@teatrosociale.it. Web site: www.teatrosociale.it.
A Venezia i «piccoli oggetti» del conte Giuseppe Panza
«Essere collezionisti ha significato per noi raccogliere con passione opere disperse, per dar loro unità in un insieme in cui ognuna avesse il suo posto». Così Giuseppe Panza (Milano, 23 marzo 1923 – Milano, 24 aprile 2010) parlava della sua raccolta, creata con la moglie Giovanna, all'interno della quale, in effetti, si possono ritrovare dei fili conduttori: dall'amore per la light art a quello per le installazioni ambientali, senza dimenticare l'attenzione per l'informale europeo.
In occasione della cinquantottesima edizione della Biennale di Venezia, il Fai - Fondo per l'ambiente italiano indaga l'interesse del collezionista milanese per i piccoli oggetti, un’autentica inversione di tendenza rispetto al suo noto interesse collezionistico degli anni Sessanta e Settanta.
Al negozio Olivetti in piazza San Marco, progettato nel 1958 da Carlo Scarpa e riaperto all’inizio di questo decennio grazie all’ente presieduto da Andrea Carandini, è allestita la mostra «Wunderkammer Panza di Biumo», per la curatela di Anna Bernardini e Pietro Caccia Dominioni.
L’esposizione, che si avvale di un elegante allestimento dello Studio Scandurra di Milano, mette in relazione le perfette geometrie, la spasmodica attenzione al dettaglio, i gentili giochi di luce di marmo e vetro di Murano dell’architettura scarpiana con le opere di piccole dimensioni che il conte milanese collezionò o ricevette in dono dai suoi amici artisti in un arco di tempo che va dal 1966 al 1992.
I quaranta lavori selezionati per la rassegna, che spaziano da una seggiolina in ferro di Joel Shapiro (New York, 1941-1975) alla musicassetta «Monologo, 9 maggio 1973» di Vincenzo Agnetti (Milano 1926-1981), sono disposti sui supporti progettati per esporre le macchine da scrivere Olivetti e appaiono agli occhi del visitatore come discrete e preziose apparizioni. L’impressione è quella di trovarsi proprio all’interno di una vera e propria «stanza delle meraviglie» o «gabinetto delle curiosità», tanto in voga tra il Cinquecento e la seconda metà del Settecento.
Maquettes, invenzioni meccaniche, studi, progetti e modelli di installazioni e creazioni artistiche interpretabili come i «primi originali» -un insieme di oggetti realizzati da quattordici artisti- ammaliano così il visitatore, che lungo il percorso scopre o riscopre l’attenzione del collezionista per le tendenze artistiche novecentesche volte a porre al centro della pratica il concetto di idea.
«L’opera per Panza -raccontano dal Fai -Fondo per l’ambiente italiano- rappresenta, infatti, l’espressione e la visualizzazione della facoltà più alta dell’uomo, il pensiero, e la geometria è il mezzo utilizzato da quest’arte che riflette la capacità della mente di ordinare la realtà. Sono, poi, infiniti i modi in cui l’ordine viene realizzato: linee curve, angoli, volumi che si possono usare in un numero illimitato di variazioni dove fantasia e creatività hanno libertà di manifestarsi».
I lavori in mostra, provenienti dalla Collezione Panza di Mendrisio, appartengono, per la maggior parte, ai principali esponenti del Minimalismo e dell’Arte concettuale: da Walter De Maria a Carl Andre, da Robert Morris a Richard Nonas, da Dan Flavin a Joseph Beuys, fino a Robert Barry, Ian Wilson, Jene Highstein, Piero Fogliati, Douglas Davis e Eric Orr.
Lungo il percorso espositivo è possibile approcciarsi, nello specifico, con le ricerche legate al colore di Dan Flavin (Jamaica, New York 1933 - Riverhead, New York City 1996), in mostra con la «Print Series (Blue/Dark 17/25, Yellow/Purple 17/25, Green/Red 4/25)», e con le sperimentazioni di Piero Fogliati (Canelli, 1930 – Torino, 2016) incentrate sulle nuove tecnologie, ben documentate dall’opera «Anemofono» (1970-1973). Non mancheranno nella rassegna veneta una riflessione sui rapporti tra arte e scrittura, con i telegrammi di Pier Paolo Calzolari (Bologna, 1943), e un suggestivo lavoro di Carl Andre (Quincy, Massachusetts, 1935), emblema della sua indagine sulla purezza della luce e della materia. Si tratta di «Brass Square Piece» (1962), un elegante insieme di quadrati in ottone dalle consuete tonalità dorate.
Un bel percorso, dunque, quello della mostra veneziana al negozio Olivetti per dire, con Giuseppe Panza, che «l’idea è l’inizio di tutto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dan Flavin, Print Series, 1996. Ph Alessandro Zambianchi. Courtesy Panza Collection; [fig. 2] Carl Andre, Brass Aquare Piece, 1972. Ph Alessandro Zambianchi. Courtesy Panza Collection; [fig. 3] Pier Paolo Calzolari, Telegramma no.349, 26 aprile 1976. Ph Alessandro Zambianchi. Courtesy Panza Collection
Informazioni utili
«Wunderkammer Panza di Biumo. L’arte dei piccoli oggetti 1966-1992». Negozio Olivetti, piazza San Marco 101 – Venezia. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 18.30; ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura. Biglietti: intero € 8,00, ridotto (bambini 6-18 anni) € 5,00; famiglia € 22,00; Iscritti FAI e National Trust gratuito, studenti universitari (fino ai 25 anni) e residenti nel Comune di Venezia € 5,00. Informazioni: tel. 041.5228387, fainegoziolivetti@fondoambiente.it. Fino al 27 ottobre 2019.
In occasione della cinquantottesima edizione della Biennale di Venezia, il Fai - Fondo per l'ambiente italiano indaga l'interesse del collezionista milanese per i piccoli oggetti, un’autentica inversione di tendenza rispetto al suo noto interesse collezionistico degli anni Sessanta e Settanta.
Al negozio Olivetti in piazza San Marco, progettato nel 1958 da Carlo Scarpa e riaperto all’inizio di questo decennio grazie all’ente presieduto da Andrea Carandini, è allestita la mostra «Wunderkammer Panza di Biumo», per la curatela di Anna Bernardini e Pietro Caccia Dominioni.
L’esposizione, che si avvale di un elegante allestimento dello Studio Scandurra di Milano, mette in relazione le perfette geometrie, la spasmodica attenzione al dettaglio, i gentili giochi di luce di marmo e vetro di Murano dell’architettura scarpiana con le opere di piccole dimensioni che il conte milanese collezionò o ricevette in dono dai suoi amici artisti in un arco di tempo che va dal 1966 al 1992.
I quaranta lavori selezionati per la rassegna, che spaziano da una seggiolina in ferro di Joel Shapiro (New York, 1941-1975) alla musicassetta «Monologo, 9 maggio 1973» di Vincenzo Agnetti (Milano 1926-1981), sono disposti sui supporti progettati per esporre le macchine da scrivere Olivetti e appaiono agli occhi del visitatore come discrete e preziose apparizioni. L’impressione è quella di trovarsi proprio all’interno di una vera e propria «stanza delle meraviglie» o «gabinetto delle curiosità», tanto in voga tra il Cinquecento e la seconda metà del Settecento.
Maquettes, invenzioni meccaniche, studi, progetti e modelli di installazioni e creazioni artistiche interpretabili come i «primi originali» -un insieme di oggetti realizzati da quattordici artisti- ammaliano così il visitatore, che lungo il percorso scopre o riscopre l’attenzione del collezionista per le tendenze artistiche novecentesche volte a porre al centro della pratica il concetto di idea.
«L’opera per Panza -raccontano dal Fai -Fondo per l’ambiente italiano- rappresenta, infatti, l’espressione e la visualizzazione della facoltà più alta dell’uomo, il pensiero, e la geometria è il mezzo utilizzato da quest’arte che riflette la capacità della mente di ordinare la realtà. Sono, poi, infiniti i modi in cui l’ordine viene realizzato: linee curve, angoli, volumi che si possono usare in un numero illimitato di variazioni dove fantasia e creatività hanno libertà di manifestarsi».
I lavori in mostra, provenienti dalla Collezione Panza di Mendrisio, appartengono, per la maggior parte, ai principali esponenti del Minimalismo e dell’Arte concettuale: da Walter De Maria a Carl Andre, da Robert Morris a Richard Nonas, da Dan Flavin a Joseph Beuys, fino a Robert Barry, Ian Wilson, Jene Highstein, Piero Fogliati, Douglas Davis e Eric Orr.
Lungo il percorso espositivo è possibile approcciarsi, nello specifico, con le ricerche legate al colore di Dan Flavin (Jamaica, New York 1933 - Riverhead, New York City 1996), in mostra con la «Print Series (Blue/Dark 17/25, Yellow/Purple 17/25, Green/Red 4/25)», e con le sperimentazioni di Piero Fogliati (Canelli, 1930 – Torino, 2016) incentrate sulle nuove tecnologie, ben documentate dall’opera «Anemofono» (1970-1973). Non mancheranno nella rassegna veneta una riflessione sui rapporti tra arte e scrittura, con i telegrammi di Pier Paolo Calzolari (Bologna, 1943), e un suggestivo lavoro di Carl Andre (Quincy, Massachusetts, 1935), emblema della sua indagine sulla purezza della luce e della materia. Si tratta di «Brass Square Piece» (1962), un elegante insieme di quadrati in ottone dalle consuete tonalità dorate.
Un bel percorso, dunque, quello della mostra veneziana al negozio Olivetti per dire, con Giuseppe Panza, che «l’idea è l’inizio di tutto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dan Flavin, Print Series, 1996. Ph Alessandro Zambianchi. Courtesy Panza Collection; [fig. 2] Carl Andre, Brass Aquare Piece, 1972. Ph Alessandro Zambianchi. Courtesy Panza Collection; [fig. 3] Pier Paolo Calzolari, Telegramma no.349, 26 aprile 1976. Ph Alessandro Zambianchi. Courtesy Panza Collection
Informazioni utili
«Wunderkammer Panza di Biumo. L’arte dei piccoli oggetti 1966-1992». Negozio Olivetti, piazza San Marco 101 – Venezia. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 18.30; ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura. Biglietti: intero € 8,00, ridotto (bambini 6-18 anni) € 5,00; famiglia € 22,00; Iscritti FAI e National Trust gratuito, studenti universitari (fino ai 25 anni) e residenti nel Comune di Venezia € 5,00. Informazioni: tel. 041.5228387, fainegoziolivetti@fondoambiente.it. Fino al 27 ottobre 2019.
martedì 15 ottobre 2019
Obiettivi puntati sul Siena International Photography Awards
È la sfida a colpi di click più partecipata al mondo. Solo l’anno scorso sono arrivate in Toscana da centocinquantasei Paesi oltre quarantottomila immagini di fotografi professionisti, dilettanti e amatoriali. La cerimonia di premiazione della nuova edizione, che ha visto ampliarsi i confini con l’invio di fotografie da ben centosessantuno Stati, è ormai alle porte. E on-line è già stato pubblicato il bando per il 2020, la cui macchina organizzativa prenderà il via da domenica 27 ottobre. Ma il giorno prima, sabato 26, si farà un riassunto dell’anno appena trascorso con la cerimonia di premiazione dell’edizione 2019, la quinta dalla sua nascita. Stiamo parlando del «Siena International Photography Awards», che vanta una prestigiosa e qualificata giuria internazionale, nella quale figurano firme di spicco del «National Geographic», ma anche fotografi e picture editor di fama mondiale. Sul palco del teatro dei Rinnovati saliranno, oltre al «SIPA Photographer of the Year», i vincitori delle dieci categorie in concorso: «Creative & Still Life», «Fotogiornalismo», «Viaggi & avventure», «Persone & volti accattivanti», «La bellezza della natura», «Wildlife», «Architettura & spazi urbani», «Sport in azione», «Portfolio Story-Telling» e «Short Documentary Film».
Prenderà così il via nella «città del Palio» un mese dedicato alla fotografia con workshop, photo tour, eventi e nove mostre da non perdere, ospitate nelle location più esclusive della città per lasciarsi ammaliare non solo dalla bellezza degli scatti esposti, ma anche dal fascino di un territorio che ha pochi eguali al mondo.
Cuore pulsante della manifestazione, in programma fino al 1° dicembre, sarà la rassegna «Imagine All The People Sharing All The World», che allineerà negli spazi dell’ex distilleria «Lo Stellino», struttura dei primi del Novecento dal forte carattere industriale, centoquattordici fotografie di novantanove fotografi di trentanove nazionalità diverse, che hanno partecipato alla quinta edizione del contest promosso da SIPA.
La mostra, che permetterà anche di vedere le opere di alcuni premi Pulitzer e dei vincitori più noti del World Press Photo, sarà, inoltre, accompagnata dalle immagini video di alcuni dei reportage più apprezzati degli autori del «National Geographic».
Sempre all’ ex distilleria «Lo Stellino» sarà esposta «Afghanistan Desert Patrol», con le immagini che Philip Coburn ha scattato, nel gennaio del 2010, quando era aggregato all’esercito dei Marines statunitensi a Helmand.
Il fotografo racconta di avere avuto l’impressione di essere quasi dentro un film, tanto tutto sembrava assurdo e surreale: «mangiavamo cibo in scatola e ci lavavano con una bottiglia d’acqua ogni tre giorni, ma l’essenziale era riuscire a rimanere vivi». Il gruppo si spostava su automezzi attraverso il deserto e le pianure afghane, origliando le «chiacchiere» dei Talebani e scoprendo che avevano soprannominato la loro unità i «Guerrieri che Dio protegge» perché consideravano i loro blindati un segno di invincibilità.
Altro appuntamento da non perdere sarà «Above Us Only Sky» alla Basilica di San Domenico, attuale sede del Liceo artistico «Duccio Buoninsegna» di Siena. L’esposizione, che allinea le immagini più belle del concorso «Drone Awards», è la prima collettiva italiana dedicata alla fotografia aerea.
Dalle valli montane scolpite dai ghiacciai alle coste frastagliate circondate da acque luccicanti, fino ai villaggi abbandonati e alle reti di trasporto tentacolari sono numerosi gli scenari con cui i visitatori si potranno confrontare, comprendendo così come gli artisti possano estendere i confini della fotografia tradizionale alla percezione ambientale del nostro tempo.
«Gli scatti esposti -raccontano gli organizzatori- rasentano il confine dell’astratto, sovvertendo le relazioni spaziali e il fattore di scala, creando un’esperienza simultaneamente seducente e disorientante per chi guarda».
A San Domenico sarà visibile anche «Planet vs Plastic», mostra di Randy Olson, uno dei più importanti e storici collaboratori del «National Geographic», che racconta la sfida ambientalista mettendo in scena l’autorevole rigore, la maestosa armonia, il delicato equilibrio e la straordinaria bellezza del nostro pianeta, impegnato nell’ardua lotta di resistenza contro l’inquinamento.
Sempre a San Domenico, nel chiostro, sarà allestita «Life Force: What Love Can Save», personale dell’argentina Constanza Portnoy, che racconta la straordinaria storia di Jorge e Vero, coppia con malformazioni genetiche, che ha dato alla luce la piccola Ángeles. «Il progetto fotografico -spiegano gli organizzatori del festival- cerca di rompere con i preconcetti e gli sguardi di disapprovazione di molti ambienti della società definiti «normali», cercando di illuminare la semplicità e l’autenticità dei rapporti umani». L’obiettivo si è così posato sulla vita quotidiana della famiglia, per raccontare il legame d’amore, il sostegno incondizionato, l’accettazione reciproca e la tolleranza tra i tre, che riescono ad andare avanti, nonostante la condizione di povertà e il ridotto sostegno economico che ricevono.
A San Domenico sarà possibile vedere anche la mostra «Prisoners of War: Male on Male Sexual Assault in America’s Military», che allinea le fotografie di Mary F. Calvert dedicate alla sua ricerca sugli abusi e sulle violenze sessuali perpetrate all’interno dell’esercito americano.
L’Area Verde Camollia aprirà, invece, le porte alla rassegna «Grandma Divers», nella quale il foto-giornalista Alain Schroeder racconta l'affascinante e poco conosciuta storia della comunità di pescatrici coreane, definite anche come le ultime sirene, dedite già dal 434 D.C. alla tradizionale attività dell’immersione subacquea in apnea in cerca di alghe, frutti di mare di vario genere e di polpi.
Le Haenyeo (letteralmente «donne di mare») rappresentano l’esempio positivo di pesca sostenibile grazie all’estrema conoscenza della vita marina che si tramanda attraverso questo mestiere che recentemente è diventato patrimonio culturale immateriale dell’Unesco.
La pratica di pesca sostenibile si fonda sul rispetto dell’oceano e sul desiderio di condividere armoniosamente con la ricca fauna e l’intensa attività marina. Così attraverso gli scatti di Alain Schroeder conosciamo le immersioni senza bombole di ossigeno e attrezzature tecnologicamente avanzate che hanno permesso alle Haenyeo di sviluppare metodi per navigare nelle profonde acque del mare, partendo da una tecnica di respirazione che permette loro di trattenere il respiro sott’acqua fino a due minuti. Fisicamente impegnative e pericolose, le immersioni in apnea non sono per i deboli di cuore. I pericoli comprendono anche le avversità delle estreme condizioni meteorologiche in cui possono imbattesti quando si immergono per raccogliere alghe, frutti di mare, crostacei e molto altro ancora.
Schroeder le ha volute fotografare con le loro tute di gomma sottile e con i loro vecchi occhiali, con la consapevolezza che le Haenyeo rischiano di diventare una professione del passato perché si tratta di una tradizione che sta lentamente svanendo. Un mestiere che, come racconta il fotografo, promuove uno stile di vita ecologico e sostenibile e che grazie agli sforzi delle comunità locali e del governo, sta portando un rinnovato interesse anche nei giovani, delusi dalla vita urbana e desiderosi di ritornare alle loro radici.
Al mondo del mare -con le meraviglie dei suoi abissi, sempre più messe a rischio dal difficile e contrastante rapporto con l’uomo- guarda anche la mostra «Karma Blu» di Filippo Borghi a Palazzo Sergardi Biringucci.
Tra gli eventi in programma si segnala anche a Palazzo Sergardi l’esposizione fotografica di Antonello Palazzolo, ideatore di «Spazi Sonori», istallazione permanente, laboratorio multimediale e salotto aperto dove suono, immagine e architettura si mescolano naturalmente, contribuendo a una magica percezione multi-sensoriale, nella quale le note di Chopin “incontrano” gli storici pianoforti conservati nella dimora senese, tutti costruiti dalla storica prestigiosa firma Pleyel di Parigi.
Siena International Photography Awards prevede anche workshop e photo tour con escursioni inedite alla scoperta di uno dei territori più fotografati e visitati al mondo con il Chianti.
Da non perdere è, poi, anche l’appuntamento con l’incontro «One Shot Together», quando tutti i partecipanti del concorso si daranno appuntamento in piazza del Campo per una foto ricordo.
Sono, inoltre, previsti appuntamenti di approfondimento con Randy Olson e Melissa Farlow, grandi firme del foto-giornalismo internazionale e storici obiettivi del National Geographic, che daranno vita a un laboratorio di narrazione visiva che documenta la storica città del Palio e la sua gente. Altro momento di approfondimento sarà il workshop con Oliviero Rossi sull’utilizzo della fotografia in ambito psicologico.
Un cartellone, dunque, ricco quello del Siena International Photography Awards, che offrirà l’occasione per guardare al mondo con occhi nuovi, ricordandoci che «una fotografia vale più di mille parole».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Mauro De Bettio, «Chasing spirits» ; [fig. 2] Thomas Vijayan,«Krill View» ; [fig. 3] Ignacio Medem, «Natural recycling» ; [fig. 4] SE_Ming, «Li_Colourful mountain 1» ; [fig. 5] Philip Coburn, «Afghanistan Desert Patrol» ; [fig. 6] Constanza Portnoy, «Life Force: What Love Can Save»; [figg.7 e 8] Filippo Borghi, «Karma Blu»
Informazioni utili
www.festival.sienawards.com
Prenderà così il via nella «città del Palio» un mese dedicato alla fotografia con workshop, photo tour, eventi e nove mostre da non perdere, ospitate nelle location più esclusive della città per lasciarsi ammaliare non solo dalla bellezza degli scatti esposti, ma anche dal fascino di un territorio che ha pochi eguali al mondo.
Cuore pulsante della manifestazione, in programma fino al 1° dicembre, sarà la rassegna «Imagine All The People Sharing All The World», che allineerà negli spazi dell’ex distilleria «Lo Stellino», struttura dei primi del Novecento dal forte carattere industriale, centoquattordici fotografie di novantanove fotografi di trentanove nazionalità diverse, che hanno partecipato alla quinta edizione del contest promosso da SIPA.
La mostra, che permetterà anche di vedere le opere di alcuni premi Pulitzer e dei vincitori più noti del World Press Photo, sarà, inoltre, accompagnata dalle immagini video di alcuni dei reportage più apprezzati degli autori del «National Geographic».
Sempre all’ ex distilleria «Lo Stellino» sarà esposta «Afghanistan Desert Patrol», con le immagini che Philip Coburn ha scattato, nel gennaio del 2010, quando era aggregato all’esercito dei Marines statunitensi a Helmand.
Il fotografo racconta di avere avuto l’impressione di essere quasi dentro un film, tanto tutto sembrava assurdo e surreale: «mangiavamo cibo in scatola e ci lavavano con una bottiglia d’acqua ogni tre giorni, ma l’essenziale era riuscire a rimanere vivi». Il gruppo si spostava su automezzi attraverso il deserto e le pianure afghane, origliando le «chiacchiere» dei Talebani e scoprendo che avevano soprannominato la loro unità i «Guerrieri che Dio protegge» perché consideravano i loro blindati un segno di invincibilità.
Altro appuntamento da non perdere sarà «Above Us Only Sky» alla Basilica di San Domenico, attuale sede del Liceo artistico «Duccio Buoninsegna» di Siena. L’esposizione, che allinea le immagini più belle del concorso «Drone Awards», è la prima collettiva italiana dedicata alla fotografia aerea.
Dalle valli montane scolpite dai ghiacciai alle coste frastagliate circondate da acque luccicanti, fino ai villaggi abbandonati e alle reti di trasporto tentacolari sono numerosi gli scenari con cui i visitatori si potranno confrontare, comprendendo così come gli artisti possano estendere i confini della fotografia tradizionale alla percezione ambientale del nostro tempo.
«Gli scatti esposti -raccontano gli organizzatori- rasentano il confine dell’astratto, sovvertendo le relazioni spaziali e il fattore di scala, creando un’esperienza simultaneamente seducente e disorientante per chi guarda».
A San Domenico sarà visibile anche «Planet vs Plastic», mostra di Randy Olson, uno dei più importanti e storici collaboratori del «National Geographic», che racconta la sfida ambientalista mettendo in scena l’autorevole rigore, la maestosa armonia, il delicato equilibrio e la straordinaria bellezza del nostro pianeta, impegnato nell’ardua lotta di resistenza contro l’inquinamento.
Sempre a San Domenico, nel chiostro, sarà allestita «Life Force: What Love Can Save», personale dell’argentina Constanza Portnoy, che racconta la straordinaria storia di Jorge e Vero, coppia con malformazioni genetiche, che ha dato alla luce la piccola Ángeles. «Il progetto fotografico -spiegano gli organizzatori del festival- cerca di rompere con i preconcetti e gli sguardi di disapprovazione di molti ambienti della società definiti «normali», cercando di illuminare la semplicità e l’autenticità dei rapporti umani». L’obiettivo si è così posato sulla vita quotidiana della famiglia, per raccontare il legame d’amore, il sostegno incondizionato, l’accettazione reciproca e la tolleranza tra i tre, che riescono ad andare avanti, nonostante la condizione di povertà e il ridotto sostegno economico che ricevono.
A San Domenico sarà possibile vedere anche la mostra «Prisoners of War: Male on Male Sexual Assault in America’s Military», che allinea le fotografie di Mary F. Calvert dedicate alla sua ricerca sugli abusi e sulle violenze sessuali perpetrate all’interno dell’esercito americano.
L’Area Verde Camollia aprirà, invece, le porte alla rassegna «Grandma Divers», nella quale il foto-giornalista Alain Schroeder racconta l'affascinante e poco conosciuta storia della comunità di pescatrici coreane, definite anche come le ultime sirene, dedite già dal 434 D.C. alla tradizionale attività dell’immersione subacquea in apnea in cerca di alghe, frutti di mare di vario genere e di polpi.
Le Haenyeo (letteralmente «donne di mare») rappresentano l’esempio positivo di pesca sostenibile grazie all’estrema conoscenza della vita marina che si tramanda attraverso questo mestiere che recentemente è diventato patrimonio culturale immateriale dell’Unesco.
La pratica di pesca sostenibile si fonda sul rispetto dell’oceano e sul desiderio di condividere armoniosamente con la ricca fauna e l’intensa attività marina. Così attraverso gli scatti di Alain Schroeder conosciamo le immersioni senza bombole di ossigeno e attrezzature tecnologicamente avanzate che hanno permesso alle Haenyeo di sviluppare metodi per navigare nelle profonde acque del mare, partendo da una tecnica di respirazione che permette loro di trattenere il respiro sott’acqua fino a due minuti. Fisicamente impegnative e pericolose, le immersioni in apnea non sono per i deboli di cuore. I pericoli comprendono anche le avversità delle estreme condizioni meteorologiche in cui possono imbattesti quando si immergono per raccogliere alghe, frutti di mare, crostacei e molto altro ancora.
Schroeder le ha volute fotografare con le loro tute di gomma sottile e con i loro vecchi occhiali, con la consapevolezza che le Haenyeo rischiano di diventare una professione del passato perché si tratta di una tradizione che sta lentamente svanendo. Un mestiere che, come racconta il fotografo, promuove uno stile di vita ecologico e sostenibile e che grazie agli sforzi delle comunità locali e del governo, sta portando un rinnovato interesse anche nei giovani, delusi dalla vita urbana e desiderosi di ritornare alle loro radici.
Al mondo del mare -con le meraviglie dei suoi abissi, sempre più messe a rischio dal difficile e contrastante rapporto con l’uomo- guarda anche la mostra «Karma Blu» di Filippo Borghi a Palazzo Sergardi Biringucci.
Tra gli eventi in programma si segnala anche a Palazzo Sergardi l’esposizione fotografica di Antonello Palazzolo, ideatore di «Spazi Sonori», istallazione permanente, laboratorio multimediale e salotto aperto dove suono, immagine e architettura si mescolano naturalmente, contribuendo a una magica percezione multi-sensoriale, nella quale le note di Chopin “incontrano” gli storici pianoforti conservati nella dimora senese, tutti costruiti dalla storica prestigiosa firma Pleyel di Parigi.
Siena International Photography Awards prevede anche workshop e photo tour con escursioni inedite alla scoperta di uno dei territori più fotografati e visitati al mondo con il Chianti.
Da non perdere è, poi, anche l’appuntamento con l’incontro «One Shot Together», quando tutti i partecipanti del concorso si daranno appuntamento in piazza del Campo per una foto ricordo.
Sono, inoltre, previsti appuntamenti di approfondimento con Randy Olson e Melissa Farlow, grandi firme del foto-giornalismo internazionale e storici obiettivi del National Geographic, che daranno vita a un laboratorio di narrazione visiva che documenta la storica città del Palio e la sua gente. Altro momento di approfondimento sarà il workshop con Oliviero Rossi sull’utilizzo della fotografia in ambito psicologico.
Un cartellone, dunque, ricco quello del Siena International Photography Awards, che offrirà l’occasione per guardare al mondo con occhi nuovi, ricordandoci che «una fotografia vale più di mille parole».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Mauro De Bettio, «Chasing spirits» ; [fig. 2] Thomas Vijayan,«Krill View» ; [fig. 3] Ignacio Medem, «Natural recycling» ; [fig. 4] SE_Ming, «Li_Colourful mountain 1» ; [fig. 5] Philip Coburn, «Afghanistan Desert Patrol» ; [fig. 6] Constanza Portnoy, «Life Force: What Love Can Save»; [figg.7 e 8] Filippo Borghi, «Karma Blu»
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lunedì 14 ottobre 2019
Teatro, donato alla Fondazione Cini l'archivio di Paolo Poli
È stato il rappresentante di un teatro al contempo graffiante e lieve, raffinato e dissacrante, che ha preso le mosse dall’operetta, dalla rivista, dal vaudeville, dall’avanspettacolo e dal varietà, dando vita a qualcosa di nuovo, difficilmente inquadrabile in definizioni di genere e contenuto. Stiamo parlando di Paolo Poli (Firenze, 23 maggio 1929 – Roma, 25 marzo 2016), attore, cantante, regista e autore, ovvero uomo di spettacolo a tutto tondo, il cui archivio è stato di recente donato dalla sorella Lucia Poli e dal nipote Andrea Farri all’Istituto per il teatro e il melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, diretto da Maria Ida Biggi.
La donazione si compone di documenti eterogenei afferenti all’attività dell’artista fiorentino, che spaziano dagli spettacoli realizzati con la Compagnia dell’Alberello negli anni Cinquanta fino alle celebri produzioni dei primi anni Duemila.
L’acquisizione del fondo si inserisce a pieno titolo nella recente tradizione di ricerca della Fondazione Cini, volta a ricostruire la scena teatrale italiana del secondo Novecento. Diversi sono, infatti, ormai gli uomini e le donne di teatro dei quali si conservano, sull’isola di San Giorgio Maggiore, gli archivi e le biblioteche personali, da Luigi Squarzina a Pierluigi Samaritani, da Mischa Scandella ad Arnaldo Momo.
L’archivio stabilisce, inoltre, un dialogo virtuoso con altri fondi presenti alla Cini, in particolare con quelli di Santuzza Calì e di Maurizio Scaparro, con i quali l’artista fiorentino ha collaborato nel corso della sua carriera.
Nei faldoni del fondo Poli sono reperibili copioni autografi e annotati, fotografie, corrispondenza, locandine e programmi di sala, recensioni e appunti preparatori per la messa in scena degli spettacoli.
Una sottolineatura particolare, per la sua straordinaria ricchezza, merita la collezione fotografica, che permette di ricostruire con grande accuratezza tutti i principali titoli del ricco repertorio poliano.
Le immagini raccolte in tanti anni di lavoro sono perlopiù foto di scena, ma non mancano «dietro le quinte» e ritratti di Paolo Poli, dei suoi attori e dei suoi principali collaboratori.
Il fondo è completato da una raccolta di circa diecimila spartiti musicali di canzonette popolari collezionati dallo stesso Paolo Poli nell’arco della sua carriera.
Gli spartiti, alcuni dei quali molto rari, sono afferenti alla tradizione novecentesca italiana e internazionale di musica popolare e leggera, e sono stati materiali di studio fondamentali per la creazione e la messa in scena di alcuni dei suoi più celebri titoli.
Di grande valore documentale è, poi, anche la corposa rassegna stampa. Recensioni, interviste e approfondimenti culturali apparsi sulle più importanti testate giornalistiche nazionali, a firma di alcune tra le migliori penne del giornalismo italiano, sono, infatti, in grado di documentare la straordinaria popolarità dell’artista e l’impatto sociale e culturale della sua opera.
Tra gli articoli se ne trova anche uno di Camilla Cederna che, sulle pagine del settimanale «L’Espresso», dà a Paolo Poli uno dei suoi soprannomi più conosciuti: «il professorino che canta».
Per un breve periodo l’artista fiorentino, laureatosi a pieni voti nel 1959 con una tesi su Henry Becque, insegna, infatti, letteratura francese in un liceo e nel contempo recita con la compagnia genovese «La borsa di Arlecchino» di Aldo Trionfo.
La notorietà arriva nel 1961 quando Paoli Poli presenta, in televisione, «Canzonissima» con Sandra Mondaini.
Negli stessi anni l’attore fa il suo esordio nel ruolo di capocomico a Milano con lo spettacolo «Il novellino» (1960): un excursus tra canzonette della tradizione orale, laudi medievali e inni di propaganda fascista. Il successo è immediato e da lì è un susseguirsi di applausi a scena aperta, ma anche di interventi della censura.
Emblematico è il caso di «Rita da Cascia», che debutta con grande successo nel 1967 a Milano e Roma e che, dopo molto repliche, viene bloccato per accusa di vilipendio alla religione e offesa delle dignità civile del popolo italiano.
Tra gli spettacoli di maggior successo c’è, invece, «La vispa Teresa», un’antologia di pezzi ottocenteschi per l’infanzia, di cui così si parla sulle colonne dell’«Avanti»: «la deliziosa fanciullina della poesia è lui, in abitino di organdis bianco con un gran fiocco di velluto verde e una biondissima parrucchetta di boccoli; vedere Poli in questa tenuta non provoca alcuna sensazione di travestimento o di equivoco».
«La vispa Teresa» è una delle prime prove dell’attore fiorentino nel teatro en travesti, un genere che gli deve molto e a cui lui dona, nel 1969, una versione indimenticabile de «La nemica» di Dario Nicodemi, dando vita a una scatenata mamma duchessa, tutta vezzi e gesti ad effetto, che mordicchia il boa di struzzo e che si sventola le ascelle con il ventaglio.
L’elenco delle opere che Paolo Poli ha interpretato come primo attore o che ha diretto è lungo. Si spazia da «Aldino mi cali un filino» a «Caterina De Medici», da «L'asino d'oro» a «I viaggi di Gulliver», da «La leggenda di San Gregorio» a «Il coturno e la ciabatta», senza dimenticare «Sei brillanti giornaliste Novecento» (2006), un omaggio a Natalia Aspesi, Elena Giannini Belotti, Irene Brin, Camilla Cederna, Paola Masino e Mura.
Forieri di successo sono anche gli ultimi anni di attività dell'artista. Il 2009 vede in scena i «Sillabari», da Goffredo Parise; nel 2010 e nel 2012, al teatro dell’Elfo di Milano, debuttano «Il mare», da Anna Maria Ortese, e «Aquiloni», da Giovanni Pascoli: ultime fatiche di un uomo di teatro a tutto tondo, che, per dirla con le parole di Natalia Ginzburg, è «un soave, beneducato e diabolico genio del male: è un lupo in pelli d’agnello, e nelle sue farse sono parodiati insieme gli agnelli e i lupi, la crudeltà efferata e la casta e savia innocenza».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paolo Poli in «Aldino mi cali un filino?», 2000; [fig. 2] Paolo Poli in «Magnificat», 1983; [fig. 3] Andrea Farri e Lucia Poli, ph Matteo De Fina; [fig. 4] Vista dell’installazione per la presentazione del fondo Poli alla Cini. Biblioteca del Longhena, ph Matteo De Fina
Informazioni utili
Istituto per il Teatro e il Melodramma, tel. 041.2710236, e-mail: teatromelodramma@cini.it. Sito web: www.cini.it.
La donazione si compone di documenti eterogenei afferenti all’attività dell’artista fiorentino, che spaziano dagli spettacoli realizzati con la Compagnia dell’Alberello negli anni Cinquanta fino alle celebri produzioni dei primi anni Duemila.
L’acquisizione del fondo si inserisce a pieno titolo nella recente tradizione di ricerca della Fondazione Cini, volta a ricostruire la scena teatrale italiana del secondo Novecento. Diversi sono, infatti, ormai gli uomini e le donne di teatro dei quali si conservano, sull’isola di San Giorgio Maggiore, gli archivi e le biblioteche personali, da Luigi Squarzina a Pierluigi Samaritani, da Mischa Scandella ad Arnaldo Momo.
L’archivio stabilisce, inoltre, un dialogo virtuoso con altri fondi presenti alla Cini, in particolare con quelli di Santuzza Calì e di Maurizio Scaparro, con i quali l’artista fiorentino ha collaborato nel corso della sua carriera.
Nei faldoni del fondo Poli sono reperibili copioni autografi e annotati, fotografie, corrispondenza, locandine e programmi di sala, recensioni e appunti preparatori per la messa in scena degli spettacoli.
Una sottolineatura particolare, per la sua straordinaria ricchezza, merita la collezione fotografica, che permette di ricostruire con grande accuratezza tutti i principali titoli del ricco repertorio poliano.
Le immagini raccolte in tanti anni di lavoro sono perlopiù foto di scena, ma non mancano «dietro le quinte» e ritratti di Paolo Poli, dei suoi attori e dei suoi principali collaboratori.
Il fondo è completato da una raccolta di circa diecimila spartiti musicali di canzonette popolari collezionati dallo stesso Paolo Poli nell’arco della sua carriera.
Gli spartiti, alcuni dei quali molto rari, sono afferenti alla tradizione novecentesca italiana e internazionale di musica popolare e leggera, e sono stati materiali di studio fondamentali per la creazione e la messa in scena di alcuni dei suoi più celebri titoli.
Di grande valore documentale è, poi, anche la corposa rassegna stampa. Recensioni, interviste e approfondimenti culturali apparsi sulle più importanti testate giornalistiche nazionali, a firma di alcune tra le migliori penne del giornalismo italiano, sono, infatti, in grado di documentare la straordinaria popolarità dell’artista e l’impatto sociale e culturale della sua opera.
Tra gli articoli se ne trova anche uno di Camilla Cederna che, sulle pagine del settimanale «L’Espresso», dà a Paolo Poli uno dei suoi soprannomi più conosciuti: «il professorino che canta».
Per un breve periodo l’artista fiorentino, laureatosi a pieni voti nel 1959 con una tesi su Henry Becque, insegna, infatti, letteratura francese in un liceo e nel contempo recita con la compagnia genovese «La borsa di Arlecchino» di Aldo Trionfo.
La notorietà arriva nel 1961 quando Paoli Poli presenta, in televisione, «Canzonissima» con Sandra Mondaini.
Negli stessi anni l’attore fa il suo esordio nel ruolo di capocomico a Milano con lo spettacolo «Il novellino» (1960): un excursus tra canzonette della tradizione orale, laudi medievali e inni di propaganda fascista. Il successo è immediato e da lì è un susseguirsi di applausi a scena aperta, ma anche di interventi della censura.
Emblematico è il caso di «Rita da Cascia», che debutta con grande successo nel 1967 a Milano e Roma e che, dopo molto repliche, viene bloccato per accusa di vilipendio alla religione e offesa delle dignità civile del popolo italiano.
Tra gli spettacoli di maggior successo c’è, invece, «La vispa Teresa», un’antologia di pezzi ottocenteschi per l’infanzia, di cui così si parla sulle colonne dell’«Avanti»: «la deliziosa fanciullina della poesia è lui, in abitino di organdis bianco con un gran fiocco di velluto verde e una biondissima parrucchetta di boccoli; vedere Poli in questa tenuta non provoca alcuna sensazione di travestimento o di equivoco».
«La vispa Teresa» è una delle prime prove dell’attore fiorentino nel teatro en travesti, un genere che gli deve molto e a cui lui dona, nel 1969, una versione indimenticabile de «La nemica» di Dario Nicodemi, dando vita a una scatenata mamma duchessa, tutta vezzi e gesti ad effetto, che mordicchia il boa di struzzo e che si sventola le ascelle con il ventaglio.
L’elenco delle opere che Paolo Poli ha interpretato come primo attore o che ha diretto è lungo. Si spazia da «Aldino mi cali un filino» a «Caterina De Medici», da «L'asino d'oro» a «I viaggi di Gulliver», da «La leggenda di San Gregorio» a «Il coturno e la ciabatta», senza dimenticare «Sei brillanti giornaliste Novecento» (2006), un omaggio a Natalia Aspesi, Elena Giannini Belotti, Irene Brin, Camilla Cederna, Paola Masino e Mura.
Forieri di successo sono anche gli ultimi anni di attività dell'artista. Il 2009 vede in scena i «Sillabari», da Goffredo Parise; nel 2010 e nel 2012, al teatro dell’Elfo di Milano, debuttano «Il mare», da Anna Maria Ortese, e «Aquiloni», da Giovanni Pascoli: ultime fatiche di un uomo di teatro a tutto tondo, che, per dirla con le parole di Natalia Ginzburg, è «un soave, beneducato e diabolico genio del male: è un lupo in pelli d’agnello, e nelle sue farse sono parodiati insieme gli agnelli e i lupi, la crudeltà efferata e la casta e savia innocenza».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paolo Poli in «Aldino mi cali un filino?», 2000; [fig. 2] Paolo Poli in «Magnificat», 1983; [fig. 3] Andrea Farri e Lucia Poli, ph Matteo De Fina; [fig. 4] Vista dell’installazione per la presentazione del fondo Poli alla Cini. Biblioteca del Longhena, ph Matteo De Fina
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Istituto per il Teatro e il Melodramma, tel. 041.2710236, e-mail: teatromelodramma@cini.it. Sito web: www.cini.it.
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