Danza, balli della tradizione, teatro, circo, ma anche meditazione, cinema, arti visive, musica e letteratura: il Teatro della Tosse di Genova, nei suoi spazi storici in centro e in quelli nuovi a Voltri, diventa, per dodici giorni, scenario di «Resistere e creare», rassegna internazionale di danza con la direzione artistica di Michela Lucenti e Marina Petrillo.
La quinta edizione, in programma dal 27 novembre all’8 dicembre, ha come sottotitolo «Materiale umano», a sottolineare l’importanza data alle tematiche sociali da parte di alcuni spettacoli in cartellone, a partire dall’atteso «Versus nel nome del padre del figlio e della libertà» della compagnia «Balletto civile», che sarà presentato in forma di primo studio nelle serate di sabato 30 novembre e domenica 1° dicembre.
A tenere a battesimo la rassegna, che si propone di gettare «uno sguardo femminile non remissivo e non compassionevole sul mondo», sarà, nella serata di mercoledì 27 novembre, l’inaugurazione, nel foyer del Teatro della Tosse, della mostra «Sorelle» di Marta Moretto, fotografa genovese che firma anche l’immagine guida di questa edizione di «Resistere e creare». «Rinascita» è il titolo dello scatto selezionato, «emblematico -spiegano gli organizzatori- non solo del femminile e delle relazioni che il femminile porta con sé, ma anche di un tema di urgente attualità: la relazione tra Europa e Africa».
Nella stessa giornata, quella di mercoledì 27 novembre, il festival ospiterà anche il concerto di strumenti ad arco «La pienezza del vuoto», con Corinna Canzian (violino), Riccardo Pes (violoncello) e Valentina Messa (pianoforte).
Il giorno successivo il cartellone si aprirà, invece, con la prima delle tre «Pillole Performative» di Vallebona/Blanchut, in programma anche nelle serate del 30 novembre e del 1° dicembre. Si tratta -raccontano gli organizzatori- di «format brevi di personaggi in movimento ispirati a caratteri della società contemporanea», intitolati «Kris e le conseguenze della Brexit», «Barbie & Ken. Uno spaccato sull’amore di plastica» e «Barbara una bestia vergine».
A seguire è prevista la prima regionale di «Carnet erotico», progetto di Francesca Zaccaria che, con ironia a tratti sottile, a tratti ferina e dissacrante, ci invita a riflettere sull’erotismo attraverso una serie di quadri icastici contraddistinti da connotazioni comiche, grottesche o persino conturbanti.
Il 29 novembre sarà, invece, la volta di una prima nazionale: al teatro di Ponente andrà in scena «Le Marin Perdu» di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut, spettacolo selezionato nell’ambito del progetto di residenza artistica «Essere Creativo 2019». La pièce -ispirata al capitolo «Il marinaio perduto», tratto dal libro «L’uomo che scambiò la sua moglie per un cappello» di Oliver Sacks- mette in scena il presente di un uomo perso che fluttua tra i pezzi sparsi del puzzle della sua memoria. Alternando momenti di lucidità ad altri di oblio, il protagonista viaggia senza conoscere né la sua destinazione né il punto di partenza.
Nella stessa giornata si terrà anche una masterclass per under 20 dal titolo «Danza e meditazione studio con i movimenti di Gurdjeff».
Mentre il giorno seguente andrà in scena un appuntamento per i più piccoli: «Granelli», che affronta con il giovane pubblico il tema dell’inquinamento e dell’ecosostenibilità. Si tratta di «una fiaba di circo contemporaneo -si legge nella sinossi- che attraverso l’uso di giocoleria, acrobatica, equilibrismi e clownerie racconta la storia di un bambino, Martino, che scava nel suo immaginario e porta alla luce un castello di sabbia meraviglioso».
La seconda settimana di festival si aprirà con la presentazione del volume «Altri corpi/Nuove Danze» del critico Andrea Porcheddu.
Nella stessa giornata, quella del 2 dicembre, Emanuela Serra sarà in scena con l’anteprima nazionale di «Loose dogs» (repliche in cartellone il 4 e il 6 dicembre): un atto poetico dedicato a chi dissente, che unisce scrittura e parola a una ricerca quotidiana sull’azione danzata e la scomposizione fisica.
Il sipario si aprirà, quindi, nella stessa giornata su Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, protagonisti dello spettacolo «La morte e la fanciulla», che si concentra su tre differenti quadri scenici che raccontano di giovani figure femminili sul crinale di un confine oscuro tra sessualità e fine: «uno musicale – l’omonimo quartetto in re minore di Schubert-, uno fisico -l'essere umano nell'eccellenza delle sue dinamiche-, e uno spirituale-filosofico -il mistero della fine e il suo continuo sguardo su di noi-».
A chiudere la serata del 2 dicembre sarà, in Sala Agorà, la prima nazionale di «Chibani» di Aziz El Youssoufi.
Martedì 3 dicembre «Resistere e creare» si sposterà, quindi, a Casa Paganini con il laboratorio «Body Perfomance Variations». Mentre in Sala Agorà si terrà l’anteprima nazionale dello spettacolo «Frammenti Liquidi», ideato e coreografato da Paolo Rosini, in collaborazione con Chiara Tosti. A seguire, nella stessa giornata, è previsto l’incontro «Materiale Umano», una conversazione condotta da Andrea Porcheddu con Roberto Castello e Michela Lucenti. Chiuderà la programmazione del 3 dicembre la messa in scena, in Sala Aldo Trionfo, di «Mbira», spettacolo di Roberto Castello: un concerto per due danzatrici, due musicisti e un regista che -utilizzando musica, danza e parola- tenta di fare il punto sul complesso rapporto fra la nostra cultura e quella africana.
Mercoledì 4 dicembre ci sarà la prima nazionale di «Her-on l’inizio di qualcosa avviene sempre dopo la morte di qualcos’altro», spettacolo di Giulia Spattini, che si configura come un dialogo solitario tra quello che siamo e quello che potremmo diventare, una lotta alla scoperta della forma nuova.
Il giorno successivo la programmazione prevede gli spettacoli «Impronte» (in replica anche sabato 7 e domenica 8 dicembre) e «Concerto fisico», un solo di Michela Lucenti che racconta la storia di Balletto Civile, compagnia nata all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di Udine.
Nel pomeriggio del 6 dicembre inizierà la selezione per la «Call Resistere e Creare», che continuerà anche nei due giorni successivi. Dei quarantuno progetti arrivati da tutta Italia sono quattordici quelli che verranno presentati nel corso delle tre giornate di lavoro. Tre verranno selezionati per la prossima edizione del festival e riceveranno un sostegno alla produzione di 2000 euro e due settimane di residenza creativa negli spazi del Teatro della Tosse. A valutare i lavori saranno Michela Lucenti, Marina Petrillo e Ivana Folle della Bogliasco Foundation.
Sempre il 6 dicembre ci sarà una masterclass di danza contemporanea over 50 e la proiezione del film «Una gioia segreta», per la regia di Jérôme Cassou, sulla coreografa e danzatrice Nadia Vadori Gauthier.
Sabato 7 dicembre sarà possibile assistere a «Uroboro», di e con Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez. Lo spettacolo racconta la frenesia nel continuare a correre inseguendo una verità che abbiamo davanti piuttosto che allungare semplicemente la mano, ma anche la nostra testardaggine e il nostro coraggio, il prezioso momento in cui riusciamo finalmente a fermarci.
Seguirà la prima nazionale di «Flow», spettacolo vincitore del Swiss Dance Award 2019. In questo lavoro la compagnia elvetica Linga -fondata a Losanna nel 1992 da Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo– si ispira alla natura selvaggia, al movimento degli stormi di uccelli, degli sciami di insetti, dei banchi di pesci: formazioni flessibili e fluide in grado di modificare istantaneamente la velocità e la direzione senza perdere coerenza.
A chiudere il programma sarà nella serata di domenica 8 dicembre «Tutto ricomincia, sempre», omaggio all’opera di Vitaliano Marchetto. Tre diversi linguaggi -la danza, l’arte visiva e l’Aikido- si fondono in un parlare comune, in una rappresentazione che prende spunto dalle opere create dallo scultore milanese. Non cambia, dunque, il filo rosso che unisce i vari spettacoli in agenda al festival internazionale genovese: «resistere» per non farsi sedurre dalle pieghe più scontate del contemporaneo e «creare» per tornare all'atto puro, alla dinamica sociale e autentica. La danza racconta così il «materiale umano», l'uomo in relazione con gli altri uomini.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Immagine guida di «Resistere e creare»; [fig. 2] «Flow», spettacolo vincitore del Swiss Dance Award 2019; [fig. 3] «Uroboro», di e con Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez; [fig. 4] «Granelli»; [fig. 5] «Mbira», spettacolo di Roberto Castello; [fig. 6] «Flow», spettacolo vincitore del Swiss Dance Award 2019; [fig. 7] «Concerto fisico», con Balletto civile
Informazioni utili
Resistere e creare – V edizione. Genova, sedi varie. Ingresso: abbonamento € 60,00, costo dei biglietti singoli e programma su http://www.teatrodellatosse.it/. Informazioni: promozione@teatrodellatosse.it, tel 010.2470793. Ufficio stampa: Davide Bressanin - ufficiostampa@teatrodellatosse.it, resisterecreare@teatrodellatosse.it, elisasirianni@gmail.com. Dal 27 novembre all’8 dicembre 2019
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
martedì 26 novembre 2019
lunedì 25 novembre 2019
«Similiter in pictura», Leonardo e l’arte contemporanea a Mantova
Isabella d’Este era testarda. Voleva a tutti i costi un quadro di Leonardo da Vinci e voleva che quel quadro battesse in bellezza quello di Cecilia Gallerani, «La dama con l’ermellino».
L’occasione arrivò. Stava per nascere un nuovo secolo, il Cinquecento. L’artista fu costretto a fuggire da Milano, appena conquistata dal re di Francia Luigi XII. Mantova gli aprì le porte e la carismatica e acculturata moglie di Francesco II Gonzaga realizzò, in parte, il suo sogno. Posò per il maestro, di profilo e quindi all’antica, nel suo Studiolo.
Di quei giorni rimane uno schizzo preparatorio, un bel disegno a carboncino, sanguigna e pastello giallo, conservato oggi al Louvre di Parigi. È questa l’opera più importante firmata da Leonardo nei suoi soli tre mesi a Mantova, tra il dicembre 1499 e il febbraio o marzo 1500.
Appena poté, infatti, il maestro scappò dalle rive del Mincio alla volta di Venezia, dove era stato invitato per progettare una struttura difensiva contro la minaccia turca.
Quel disegno non si trasformò mai in un ritratto finito, malgrado le continue richieste di Isabella d’Este che inseguì l'artista per tutta Italia con lettere ed emissari.
Lei, la primadonna del Rinascimento, non voleva sentirsi dire di no. Lui era uno spirito troppo libero, perso tra calcoli matematici, pigmenti e invenzioni ingegnose. Non avrebbe mai accettato ordini da quella donna «equalmente et in ogni parte bella», la cui effige è stata consegnata a futura memoria da Andrea Mantegna, Tiziano e molti altri artisti.
Questa storia, degna di un romanzo, è rimasta senza lieto fine, ma è ancora un vanto per Mantova.
A quei tre mesi di Leonardo sul Mincio guarda il programma ideato dalla città lombarda in occasione dei cinquecento anni dalla morte dell’artista toscano.
L'omaggio trova, in questi giorni, forma concreta nella mostra «Similiter in pictura» alla Casa del Mantegna. Il percorso espositivo -progettato da Container Lab Association, con la collaborazione e il coordinamento di Cristina Renso- presenta, attraverso sessanta lavori, la riflessione, l’approfondimento e la rilettura in chiave contemporanea della poliedrica figura del genio vinciano da parte degli artisti Luca Bonfanti, Enzo Rizzo e Togo, rispettivamente accompagnati dalla lettura critica di Matteo Galbiati, Alberto Moioli ed Elena Pontiggia.
Accanto alle opere pittoriche sono esposte trenta riproduzioni di macchine vinciane, realizzate da Giorgio Mascheroni, e installazioni video e touch screen che integrano l’osservazione con contenuti didattici, tra cui merita una segnalazione il filmato «Leonardo racconta ‘Il Cenacolo’», firmato da Maurizio Sangalli con Massimiliano Loizzi, Marco Ballerini, Alberto Patrucco e Alfredo Colina.
Di Leonardo i tre artisti in mostra colgono ciascuno una sfumatura differente e propria.
Luca Bonfanti ne condivide, come sottolinea Matteo Galbiati, la sete di scoperta, un’infaticabile voglia di sperimentazione e ricerca, «una costante curiosità di dover scoprire il ‘funzionare’ del mondo». Nascono così universi surreali e onirici, nei quali il colore si fa «voce narrante» e «il continuo rimpasto delle cromie» diventa «metafora del nostro sentire».
Emblematica in tal senso è l’imponente opera «L’ultima cena» (2015, tecnica mista, acrilico su tela, cm 165x300), che attraverso la croce, il germoglio-spermatozoo, la luce divina, la stanza prospettica svela svariate fonti e suggestioni indagate dall’artista: dalla Bibbia ai Vangeli apocrifi, dai misteri templari alla massoneria, dalla teoria degli Anunnaki fino alla celebre opera leonardesca.
Astratto è anche il linguaggio di Enzo Rizzo, che mette al centro del suo lavoro i temi dell’unità degli opposti, della trasformazione della materia e del divenire dell’essere, oltre a simbologie legate alla vita e alla morte, come ben documenta l’olio «In principio era l’Uno» (2015, olio e resina su tavola, cm 160x100). L’opera, tutta giocata sull’uso del colore blu in una tonalità scelta per la sua forte vibrazione spirituale, è incentrata sul tema dell’unità degli opposti e dell’Uno, il principio primo della manifestazione, in riferimento esplicito al neoplatonismo che influenzò anche Leonardo.
Togo omaggia, invece, il genio vinciano attraverso i temi del volo e dell’acqua, entrambi rielaborati con un segno personalissimo. L’artista sembra così ricercare l’ordine nello spettacolo della natura, lontano dal caos primigenio, restituendolo con colori accesi, propri di un espressionismo mediterraneo che comunica la violenza dei sentimenti, dove il blu fa a gara con il rosso per catturare la luce e il nero diventa il più brillante dei colori. In Togo, come sostiene Pontiggia, «il fantasma vinciano non è altro che un nobile pretesto per un esercizio alto, intenso, e soprattutto autonomo, di pittura».
Per scoprire nel dettaglio tutti i lavori in mostra è stata ideata un’applicazione smartphone interattiva, che permette anche di condividere i contenuti sui social network nell’ottica di promuovere e incentivare la 'viralizzazione' della cultura. Leonardo diventa così nostro contemporaneo, facendoci rileggere con occhi nuovi la sua curiosità, la sua versatilità nei diversi campi del sapere, le sue invenzioni modernissime, le sue visioni utopiche che, nel corso dei secoli, sono diventate realtà.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giorgio Mascheroni, Barca a pale (propulsione a pedali); [fig. 2] Giorgio Mascheroni, Cinque poliedri platonici; [fig. 3] Luca Bonfanti, L'ultima cena, 2015. Tecnica mista, acrilico su tela, cm 165x300; [fig. 4] Enzo Rizzo, In principio era l'Uno, 2015. Olio e resina su tavola, cm 160x100; [fig. 5] Togo, Il sogno si avvera (Per Leonardo), 2016. Olio e acrilico su tela, cm 60x80
Informazioni utili
«Similiter in pictura». Casa del Mantegna, via Acerbi, 47 – Mantova. Orari: mercoledì-sabato, ore 10-12.30 e ore 14-18.30 | domenica, ore 10-12.30 e ore 14-19 | chiuso il lunedì e il martedì, il 24 e il 25 dicembre 2019, il 1° gennaio 2020 | aperture straordinarie: l’8, il 26, il 31 dicembre 2019 e il 6 gennaio 2020. Ingresso: € 5,00 adulti | € 3,00 ridotto (docenti, militari e forze dell’ordine non in servizio, gruppi di almeno 15 adulti, possessori Mantova Card, gruppi di scolaresche di ogni ordine e grado e possessori della Mantova card junior) | gratuito (under 6, accompagnatori e/o famigliari, membri I.C.O.M., guide turistiche, 1 accompagnatore per gruppo di adulti, max 2 accompagnatori per gruppi scolaresche, giornalisti). Informazioni: Casa del Mantegna, tel. 0376.360506, info@casadelmantegna.it. Sito web: www.casadelmantegna.it. Fino al 6 gennaio 2020
L’occasione arrivò. Stava per nascere un nuovo secolo, il Cinquecento. L’artista fu costretto a fuggire da Milano, appena conquistata dal re di Francia Luigi XII. Mantova gli aprì le porte e la carismatica e acculturata moglie di Francesco II Gonzaga realizzò, in parte, il suo sogno. Posò per il maestro, di profilo e quindi all’antica, nel suo Studiolo.
Di quei giorni rimane uno schizzo preparatorio, un bel disegno a carboncino, sanguigna e pastello giallo, conservato oggi al Louvre di Parigi. È questa l’opera più importante firmata da Leonardo nei suoi soli tre mesi a Mantova, tra il dicembre 1499 e il febbraio o marzo 1500.
Appena poté, infatti, il maestro scappò dalle rive del Mincio alla volta di Venezia, dove era stato invitato per progettare una struttura difensiva contro la minaccia turca.
Quel disegno non si trasformò mai in un ritratto finito, malgrado le continue richieste di Isabella d’Este che inseguì l'artista per tutta Italia con lettere ed emissari.
Lei, la primadonna del Rinascimento, non voleva sentirsi dire di no. Lui era uno spirito troppo libero, perso tra calcoli matematici, pigmenti e invenzioni ingegnose. Non avrebbe mai accettato ordini da quella donna «equalmente et in ogni parte bella», la cui effige è stata consegnata a futura memoria da Andrea Mantegna, Tiziano e molti altri artisti.
Questa storia, degna di un romanzo, è rimasta senza lieto fine, ma è ancora un vanto per Mantova.
A quei tre mesi di Leonardo sul Mincio guarda il programma ideato dalla città lombarda in occasione dei cinquecento anni dalla morte dell’artista toscano.
L'omaggio trova, in questi giorni, forma concreta nella mostra «Similiter in pictura» alla Casa del Mantegna. Il percorso espositivo -progettato da Container Lab Association, con la collaborazione e il coordinamento di Cristina Renso- presenta, attraverso sessanta lavori, la riflessione, l’approfondimento e la rilettura in chiave contemporanea della poliedrica figura del genio vinciano da parte degli artisti Luca Bonfanti, Enzo Rizzo e Togo, rispettivamente accompagnati dalla lettura critica di Matteo Galbiati, Alberto Moioli ed Elena Pontiggia.
Accanto alle opere pittoriche sono esposte trenta riproduzioni di macchine vinciane, realizzate da Giorgio Mascheroni, e installazioni video e touch screen che integrano l’osservazione con contenuti didattici, tra cui merita una segnalazione il filmato «Leonardo racconta ‘Il Cenacolo’», firmato da Maurizio Sangalli con Massimiliano Loizzi, Marco Ballerini, Alberto Patrucco e Alfredo Colina.
Di Leonardo i tre artisti in mostra colgono ciascuno una sfumatura differente e propria.
Luca Bonfanti ne condivide, come sottolinea Matteo Galbiati, la sete di scoperta, un’infaticabile voglia di sperimentazione e ricerca, «una costante curiosità di dover scoprire il ‘funzionare’ del mondo». Nascono così universi surreali e onirici, nei quali il colore si fa «voce narrante» e «il continuo rimpasto delle cromie» diventa «metafora del nostro sentire».
Emblematica in tal senso è l’imponente opera «L’ultima cena» (2015, tecnica mista, acrilico su tela, cm 165x300), che attraverso la croce, il germoglio-spermatozoo, la luce divina, la stanza prospettica svela svariate fonti e suggestioni indagate dall’artista: dalla Bibbia ai Vangeli apocrifi, dai misteri templari alla massoneria, dalla teoria degli Anunnaki fino alla celebre opera leonardesca.
Astratto è anche il linguaggio di Enzo Rizzo, che mette al centro del suo lavoro i temi dell’unità degli opposti, della trasformazione della materia e del divenire dell’essere, oltre a simbologie legate alla vita e alla morte, come ben documenta l’olio «In principio era l’Uno» (2015, olio e resina su tavola, cm 160x100). L’opera, tutta giocata sull’uso del colore blu in una tonalità scelta per la sua forte vibrazione spirituale, è incentrata sul tema dell’unità degli opposti e dell’Uno, il principio primo della manifestazione, in riferimento esplicito al neoplatonismo che influenzò anche Leonardo.
Togo omaggia, invece, il genio vinciano attraverso i temi del volo e dell’acqua, entrambi rielaborati con un segno personalissimo. L’artista sembra così ricercare l’ordine nello spettacolo della natura, lontano dal caos primigenio, restituendolo con colori accesi, propri di un espressionismo mediterraneo che comunica la violenza dei sentimenti, dove il blu fa a gara con il rosso per catturare la luce e il nero diventa il più brillante dei colori. In Togo, come sostiene Pontiggia, «il fantasma vinciano non è altro che un nobile pretesto per un esercizio alto, intenso, e soprattutto autonomo, di pittura».
Per scoprire nel dettaglio tutti i lavori in mostra è stata ideata un’applicazione smartphone interattiva, che permette anche di condividere i contenuti sui social network nell’ottica di promuovere e incentivare la 'viralizzazione' della cultura. Leonardo diventa così nostro contemporaneo, facendoci rileggere con occhi nuovi la sua curiosità, la sua versatilità nei diversi campi del sapere, le sue invenzioni modernissime, le sue visioni utopiche che, nel corso dei secoli, sono diventate realtà.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giorgio Mascheroni, Barca a pale (propulsione a pedali); [fig. 2] Giorgio Mascheroni, Cinque poliedri platonici; [fig. 3] Luca Bonfanti, L'ultima cena, 2015. Tecnica mista, acrilico su tela, cm 165x300; [fig. 4] Enzo Rizzo, In principio era l'Uno, 2015. Olio e resina su tavola, cm 160x100; [fig. 5] Togo, Il sogno si avvera (Per Leonardo), 2016. Olio e acrilico su tela, cm 60x80
Informazioni utili
«Similiter in pictura». Casa del Mantegna, via Acerbi, 47 – Mantova. Orari: mercoledì-sabato, ore 10-12.30 e ore 14-18.30 | domenica, ore 10-12.30 e ore 14-19 | chiuso il lunedì e il martedì, il 24 e il 25 dicembre 2019, il 1° gennaio 2020 | aperture straordinarie: l’8, il 26, il 31 dicembre 2019 e il 6 gennaio 2020. Ingresso: € 5,00 adulti | € 3,00 ridotto (docenti, militari e forze dell’ordine non in servizio, gruppi di almeno 15 adulti, possessori Mantova Card, gruppi di scolaresche di ogni ordine e grado e possessori della Mantova card junior) | gratuito (under 6, accompagnatori e/o famigliari, membri I.C.O.M., guide turistiche, 1 accompagnatore per gruppo di adulti, max 2 accompagnatori per gruppi scolaresche, giornalisti). Informazioni: Casa del Mantegna, tel. 0376.360506, info@casadelmantegna.it. Sito web: www.casadelmantegna.it. Fino al 6 gennaio 2020
venerdì 22 novembre 2019
Dall'India al Perù, a Lucca i grandi reportage di Werner Bischof
Ha raccontato la bellezza degli angoli più lontani del mondo: dall’India al Giappone, dalla Corea all’Indocina, fino ad arrivare a Panama, in Cile e in Perù. Lo svizzero Werner Bischof (Zurigo, 26 aprile 1916 – Trujillo, 16 maggio 1954), il cui nome è legato alla fondazione dell'agenzia internazionale Magnum Photos, è stato uno dei più importanti fotoreporter del Novecento, un vero e proprio maestro del reportage per tanti giovani che, dopo di lui, hanno voluto raccontare il mondo e le persone che lo abitano, il rapporto dell’uomo con la natura e con se stesso.
Centocinque scatti, con immagini che vanno dal 1934 al 1954, ripercorrono la sua parabola creativa nella mostra «Werner Bischof. Classics», allestita negli spazi del Lu.C.C.A. - Lucca Center of Contemporary Art, per la curatela di Maurizio Vanni e Alessandro Luigi Perna.
Otto sono le sezioni espositive in cui si articola la rassegna toscana, aperta fino al prossimo 7 gennaio, grazie alla quale è possibile ripercorrere la storia di un uomo e di un fotografo, che è stato instancabile «ricercatore di verità», raffinato «archeologo dei sentimenti umani», attento «narratore dello straordinario quotidiano», «appassionato di vita profonda e vera», esperita e raccontata con grande empatia fino all’incidente mortale in Perù.
La mostra offre anche la possibilità di vedere alcune immagini «scartate» perché ritenute allora prevedibili e prive di originalità –di fatto perché non esaltano la «cronaca di guerra» e sono meno sensazionalistiche–, ma che, poi, aprono all’artista svizzero la porta a riconoscimenti, mostre e pubblicazioni.
Nudi femminili, studi di luce, indagini sulla natura e sulla spirale dei gusci della lumaca, ritratti che mostrano un primordiale interesse per i temi del sociale come «Bambini sordomuti» del 1944 sono i soggetti dei primi scatti, documenti di quanto sia stata fondamentale nella formazione di Werner Bischof l’incontro con Hans Finsler e Alfred Willimann, docenti alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, oggi Zürcher Hochschule der Künste, che gli trasmettono un approccio al mestiere legato alla consapevolezza tecnica, alla continua ricerca, a un atteggiamento etico unito a una disciplinata impostazione professionale.
Nel 1945 la rivista «Du» mette a disposizione del fotografo svizzero un’automobile per girare nei Paesi d’Europa deflagrati dalla Seconda guerra mondiale. Ha inizio così un viaggio che dura tutta la vita: «Da quel momento in poi -racconta l’artista- la mia attenzione si concentrò sul volto dell'essere umano che soffre. Volevo comprendere quale fosse il volto vero del mondo».
Del post-conflitto bellico Werner Bischof racconta i segni di ripresa e ciò che dà speranza all’uomo: il volto sorridente dei bambini, la preghiera e la fede (di cui sono una bella testimonianza le foto «Ex voto di Castel di Sangro» o «L’ultimo libro» della Biblioteca di Montecassino), il tentativo di riprendere una parvenza di vita sociale (come documentano le immagini «Contadini nei pressi di Debracen» o «Locanda nella Puszta»).
Nel 1949 arriva la collaborazione con Magnum Photos. Il primo incarico ufficiale è nel 1951 come inviato in India per documentare la terribile carestia in corso. La sensibilità, il desiderio di aiutare gli altri, la predisposizione a documentare i problemi sociali portano il fotografo a ritrarre la difficile situazione che ha di fronte a sé per informare e sensibilizzare i politici occidentali a fornire aiuti concreti.
Quelle immagini, con madri alla disperata ricerca di cibo e corpi scheletrici riversi sul terreno, arrivano dirette al cuore delle persone e gli valgono importanti riconoscimenti internazionali.
Da questo momento in poi, Bischof non si sente più un reporter, ma -racconta Maurizio Vanni- «un traduttore di coloro che non potevano parlare, che non avevano possibilità di trasmettere la propria condizione e i propri stati d'animo, dando loro voce con immagini che avrebbero sensibilizzato il mondo».
È, poi, la volta del Giappone, dove il fotografo si reca tra il 1951 e il 1952. Nel Sol Levante rimane colpito dalla filosofia di vita dei nipponici, dal loro legame con la natura, dal loro senso di equilibrio dell'immagine, dal rapporto con le iconografie dell'universo. Templi, giardini zen, monaci diventano protagonisti dei suoi scatti, riuniti in uno splendido libro, che gli vale, seppur postumo, il premio Nadar del 1955.
Dello stesso biennio sono le fotografie che raccontano la guerra in Corea e quella in Indocina. Il fotografo si discosta dal concetto di «documentazione sensazionalistica». È più interessato a mostrare le conseguenze emotive, psicologiche e pratiche del conflitto sulla popolazione civile. Vuole essere «un divulgatore di valori e di umanità». Nascono così servizi come quello nel villaggio di pescatori sull'isola giapponese di Kau Sai o quello a Barau, un piccolo villaggio dell’Indocina fuori mano, abitato dalla popolazione Moi, o ancora quello nell’isola di Koje-Do, in Corea del Sud, per documentare il campo di rieducazione delle Nazioni Unite per prigionieri comunisti nordcoreani e cinesi.
Il 1954 è il suo ultimo anno di vita. Werner Bischof è in Sud America. Visita il Messico, Lima, il Cile e il Perù. A Cuzco, il fotografo svizzero produce una serie di «immagini che evidenziano -racconta ancora Maurizio Vanni- la grande sintonia tra uomo e natura, quella sostenibile leggerezza dell'essere che permette di vivere con disinvoltura, di arrivare all'anima delle cose senza pesi sul cuore, di essere veloci, delicati, ma non superficiali».Tra queste immagini c’è lo «scatto perfetto»: «Sulla strada per Cuzco», in cui è ritratto un bambino peruviano che cammina con un grande sacco sulle spalle, mentre suona un flauto.
Poco tempo dopo, il 16 maggio del 1954, l’auto di Werner Bischof, diretta verso una miniera a quattro mila metri sul livello del mare, perde il controllo e precipita nel vuoto. Il fotografo muore. Ma le sue immagini lo rendono eterno. Perché lì dentro c’è tutto e il contrario di tutto: estetica e profondità di pensiero, ricerca e valori etici e morali, stupore e disagio, finito e infinito, bianco e nero, vita e morte. Luce.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Werner Bischof, On the road to Cuzco, near Pisac, Peru, May 1954. © Werner Bischof / Magnum Photos; [fig. 2] Werner Bischof, Nude, Zurich, Switzerland, 1942. © Werner Bischof / Magnum Photos; [fig. 3] Werner Bischof, Courtyard of the Meiji shrine, Tokyo, Japan, 1951. © Werner Bischof / Magnum Photos
Informazioni utili
Werner Bischof. Classics. Lucca Center of Contemporary Art, via della Fratta, 36 – Lucca. Orari: dal martedì alla domenica, ore 10.00-19.00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 0583.492180, info@luccamuseum.com. Sito internet: www.luccamuseum.com. Ufficio stampa: Ufficio Stampa: simonettacarbone@simocarbone.it - francescadapisa@gmail.com - m.cicchine@luccamuseum.com. Fino al 7 gennaio 2020
Centocinque scatti, con immagini che vanno dal 1934 al 1954, ripercorrono la sua parabola creativa nella mostra «Werner Bischof. Classics», allestita negli spazi del Lu.C.C.A. - Lucca Center of Contemporary Art, per la curatela di Maurizio Vanni e Alessandro Luigi Perna.
Otto sono le sezioni espositive in cui si articola la rassegna toscana, aperta fino al prossimo 7 gennaio, grazie alla quale è possibile ripercorrere la storia di un uomo e di un fotografo, che è stato instancabile «ricercatore di verità», raffinato «archeologo dei sentimenti umani», attento «narratore dello straordinario quotidiano», «appassionato di vita profonda e vera», esperita e raccontata con grande empatia fino all’incidente mortale in Perù.
La mostra offre anche la possibilità di vedere alcune immagini «scartate» perché ritenute allora prevedibili e prive di originalità –di fatto perché non esaltano la «cronaca di guerra» e sono meno sensazionalistiche–, ma che, poi, aprono all’artista svizzero la porta a riconoscimenti, mostre e pubblicazioni.
Nudi femminili, studi di luce, indagini sulla natura e sulla spirale dei gusci della lumaca, ritratti che mostrano un primordiale interesse per i temi del sociale come «Bambini sordomuti» del 1944 sono i soggetti dei primi scatti, documenti di quanto sia stata fondamentale nella formazione di Werner Bischof l’incontro con Hans Finsler e Alfred Willimann, docenti alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, oggi Zürcher Hochschule der Künste, che gli trasmettono un approccio al mestiere legato alla consapevolezza tecnica, alla continua ricerca, a un atteggiamento etico unito a una disciplinata impostazione professionale.
Nel 1945 la rivista «Du» mette a disposizione del fotografo svizzero un’automobile per girare nei Paesi d’Europa deflagrati dalla Seconda guerra mondiale. Ha inizio così un viaggio che dura tutta la vita: «Da quel momento in poi -racconta l’artista- la mia attenzione si concentrò sul volto dell'essere umano che soffre. Volevo comprendere quale fosse il volto vero del mondo».
Del post-conflitto bellico Werner Bischof racconta i segni di ripresa e ciò che dà speranza all’uomo: il volto sorridente dei bambini, la preghiera e la fede (di cui sono una bella testimonianza le foto «Ex voto di Castel di Sangro» o «L’ultimo libro» della Biblioteca di Montecassino), il tentativo di riprendere una parvenza di vita sociale (come documentano le immagini «Contadini nei pressi di Debracen» o «Locanda nella Puszta»).
Nel 1949 arriva la collaborazione con Magnum Photos. Il primo incarico ufficiale è nel 1951 come inviato in India per documentare la terribile carestia in corso. La sensibilità, il desiderio di aiutare gli altri, la predisposizione a documentare i problemi sociali portano il fotografo a ritrarre la difficile situazione che ha di fronte a sé per informare e sensibilizzare i politici occidentali a fornire aiuti concreti.
Quelle immagini, con madri alla disperata ricerca di cibo e corpi scheletrici riversi sul terreno, arrivano dirette al cuore delle persone e gli valgono importanti riconoscimenti internazionali.
Da questo momento in poi, Bischof non si sente più un reporter, ma -racconta Maurizio Vanni- «un traduttore di coloro che non potevano parlare, che non avevano possibilità di trasmettere la propria condizione e i propri stati d'animo, dando loro voce con immagini che avrebbero sensibilizzato il mondo».
È, poi, la volta del Giappone, dove il fotografo si reca tra il 1951 e il 1952. Nel Sol Levante rimane colpito dalla filosofia di vita dei nipponici, dal loro legame con la natura, dal loro senso di equilibrio dell'immagine, dal rapporto con le iconografie dell'universo. Templi, giardini zen, monaci diventano protagonisti dei suoi scatti, riuniti in uno splendido libro, che gli vale, seppur postumo, il premio Nadar del 1955.
Dello stesso biennio sono le fotografie che raccontano la guerra in Corea e quella in Indocina. Il fotografo si discosta dal concetto di «documentazione sensazionalistica». È più interessato a mostrare le conseguenze emotive, psicologiche e pratiche del conflitto sulla popolazione civile. Vuole essere «un divulgatore di valori e di umanità». Nascono così servizi come quello nel villaggio di pescatori sull'isola giapponese di Kau Sai o quello a Barau, un piccolo villaggio dell’Indocina fuori mano, abitato dalla popolazione Moi, o ancora quello nell’isola di Koje-Do, in Corea del Sud, per documentare il campo di rieducazione delle Nazioni Unite per prigionieri comunisti nordcoreani e cinesi.
Il 1954 è il suo ultimo anno di vita. Werner Bischof è in Sud America. Visita il Messico, Lima, il Cile e il Perù. A Cuzco, il fotografo svizzero produce una serie di «immagini che evidenziano -racconta ancora Maurizio Vanni- la grande sintonia tra uomo e natura, quella sostenibile leggerezza dell'essere che permette di vivere con disinvoltura, di arrivare all'anima delle cose senza pesi sul cuore, di essere veloci, delicati, ma non superficiali».Tra queste immagini c’è lo «scatto perfetto»: «Sulla strada per Cuzco», in cui è ritratto un bambino peruviano che cammina con un grande sacco sulle spalle, mentre suona un flauto.
Poco tempo dopo, il 16 maggio del 1954, l’auto di Werner Bischof, diretta verso una miniera a quattro mila metri sul livello del mare, perde il controllo e precipita nel vuoto. Il fotografo muore. Ma le sue immagini lo rendono eterno. Perché lì dentro c’è tutto e il contrario di tutto: estetica e profondità di pensiero, ricerca e valori etici e morali, stupore e disagio, finito e infinito, bianco e nero, vita e morte. Luce.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Werner Bischof, On the road to Cuzco, near Pisac, Peru, May 1954. © Werner Bischof / Magnum Photos; [fig. 2] Werner Bischof, Nude, Zurich, Switzerland, 1942. © Werner Bischof / Magnum Photos; [fig. 3] Werner Bischof, Courtyard of the Meiji shrine, Tokyo, Japan, 1951. © Werner Bischof / Magnum Photos
Informazioni utili
Werner Bischof. Classics. Lucca Center of Contemporary Art, via della Fratta, 36 – Lucca. Orari: dal martedì alla domenica, ore 10.00-19.00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 0583.492180, info@luccamuseum.com. Sito internet: www.luccamuseum.com. Ufficio stampa: Ufficio Stampa: simonettacarbone@simocarbone.it - francescadapisa@gmail.com - m.cicchine@luccamuseum.com. Fino al 7 gennaio 2020
giovedì 21 novembre 2019
«Looking for Monna Lisa», a Pavia quattro progetti espositivi per Leonardo
A distanza di cinquecento anni continua ad affascinare pubblico e critica. Il merito è senza dubbio del mistero che la circonda. «La Gioconda», forse il ritratto più celebre al mondo, ci mette, infatti, di fronte a numerosi enigmi. Ma chi è la dama dipinta da Leonardo da Vinci sullo sfondo di un paesaggio enigmatico? Dove siamo? E soprattutto, in che anni è stato realizzato il quadro? Tempo, luogo e soggetto sono ancora incerti, ma le ipotesi non mancano.
Soggiogato dai continui interrogativi sulla Gioconda lo studio milanese di multimedia design Karmachina ha ideato il progetto «Monna Lisa who?», in programma dal prossimo 24 novembre nel suggestivo spazio della chiesa sconsacrata di Santa Maria Gualtieri a Pavia.
L’ambiente narrativo, per la drammaturgia e sceneggiatura di Giuliano Corti e con la colonna sonora di Alberto Modignani, sposa l’ipotesi che l’opera ritragga Isabella D’Aragona, duchessa di Milano alla fine del Quattrocento, che, relegata a Pavia in un esilio dorato quanto infelice, incontrò Leonardo durante il suo soggiorno nella città, datato tra il 1490 e il 1513, dando vita a un sodalizio spirituale fra due anime inquiete.
Le proiezioni, i suoni e la narrazione, uniti all’allestimento progettato da Studio Dune, sono tante componenti di un racconto immersivo, suggestivo e ammaliante, che rielabora digitalmente l’immagine della Gioconda del Louvre, le altre versioni della Monna Lisa sparse per il mondo, nonché i disegni e le opere pittoriche di Leonardo, conservati ai Musei civici di Pavia, spiegando come mai dietro a quel dipinto si possa celare Isabella d’Aragona. La somiglianza del volto con i ritratti della donna, lo sfondo che ricorda altri paesaggi dipinti dell’artista in terra di Lombardia, i simboli degli Sforza, ricamati sull’orlo della scollatura, la foggia della zimarra, che rimanda a un periodo di lutto, sono i tanti indizi che avvalorano questa tesi.
«Monna Lisa who?» è uno dei quattro progetti con cui Pavia celebra, dal 24 novembre al 29 marzo, il quinto centenario dalla morte del genio fiorentino. La città lombarda ha, infatti, ideato una mostra diffusa, che interessa altre tre realtà del territorio: lo Spazio arti contemporanee del Broletto, il Castello visconteo, la piazza del Municipio.
L’articolato progetto espositivo, intitolato «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», porta la firma del critico Valerio Dehò, docente di estetica all’Accademia di belle arti di Bologna, e offre un percorso tra vari generi, dalla pittura alla scultura, dall’installazione ai lavori multimediali, con alcune opere della collezione Carlo Palli e lavori creati per l’occasione.
Dal Concettuale al Fluxus, dalla Poesia visiva alla Neopittura, senza dimenticare la Pop art e il Dadaismo con Marcel Duchamp, sono molte le correnti artistiche contemporanee che hanno guardato alla Gioconda e alla sua riproducibilità. Lo Spazio arti contemporanee del Broletto e il Castello visconteo propongono una selezione di queste riletture: oltre quaranta lavori di trentanove artisti che hanno reinterpretato in chiave contemporanea il capolavoro della Monna Lisa, chi con l’intento di creare continuità, chi rottura.
Il panorama iconografico è, dunque, variegato. Giuseppe Veneziano, per esempio, ha vestito la dama leonardesca con i panni di Frida Kahlo. Gianni Cella l’ha trasformata in una Batwoman in terracotta policroma, con uno splendido abito dalle tonalità oltremare. Stefano Bressani l’ha abbigliata con stoffe di tutti i colori, tramutandola in una sorta di regina di cuori. L’artista concettuale Virginio Rospigliosi, poi, ha creato un corto circuito tra lo spazio interno ed esterno del quadro con l’acrilico su tavola «Frammento del paesaggio retrostante». Gian Marco Montesano si è, invece, concentrato con il suo lavoro sullo storico furto della Gioconda del 1911.
A queste opere, realizzate per l'occasione, se ne affiancano altre, ormai storicizzate, di grande interesse. È il caso del collage «Bijoconde» (1963-1983) di Jean Margat o della «Monna Lisa» (2015) di Fabio de Poli, che presenta una figura oscurata, luttuosa, con richiami espliciti all’opera di Leonardo. Mentre Jiri Kolar, esponente della poesia visuale mitteleuropea, ha inserito l’icona del genio vinciano su una fattura contabile, rivelandone il lato mercantile e lo sfruttamento dell’immagine.
La tecnica del collage è usata anche da Lucia Marcucci, fondatrice del Gruppo 70, che in «Lisa» (1997) ha affiancato ritagli di testi a immagini di donne musulmane e a simboli di fecondità, quasi a volerne riscattare un ruolo. Significativi, poi, sono i due lavori di Vettor Pisani in mostra: «Concerto invisibile di Gino De Dominicis» (2007), in cui la Gioconda diviene una sorta di paradigma del capolavoro che salva dalla mortalità, e «Il ventre della Gioconda» (2007), in cui la dama leonardesca è rappresentata come una mamma con un bambino, una moderna Madonna.
Al Castello visconteo la mostra prosegue con «La visione di Leonardo a Pavia», progetto sviluppato dalla start-up milanese Way Experience, che porta il visitatore nella città rinascimentale, quella vissuta dall'artista tra il 1490 e il 1513. Grazie ai visori Oculus e alla narrazione del giornalista e scrittore Massimo Polidoro, il pubblico è proiettato nelle strade, nei paesaggi e nei luoghi che il maestro vinciano ha visto e vissuto, in quell’ambiente che fu per lui fonte di riflessioni per i suoi studi di anatomia umana, matematica e architettura, ma soprattutto per l'ideazione della Gioconda.
Il percorso si chiude idealmente in piazza Municipio, dove è esposta la giant sculpture in idroresina e marmo (di cinque metri di altezza e quattro di diametro) realizzata dagli artisti Eleonora Francioni e Antonio Mastromarino, raffigurante il genio vinciano in età senile.
Un progetto, dunque, interessante e ben articolato quello proposto da Pavia per i cinquecento anni dalla morte di Leonardo, che focalizza l’attenzione su quella che è forse la sua opera più celebre: la Gioconda. Un’opera capace ancora oggi di affascinare con il suo sorriso misterioso ed enigmatico. Un’opera di cui Giorgio Vasari scrisse: «era una cosa più divina che umana a guardare».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] «Monna Lisa who?». Progetto di karmachina per «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», Pavia, novembre 2019. Frame del video; [fig. 2] «Monna Lisa who?». Progetto di karmachina per «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», Pavia, novembre 2019. Frame del video; [fig. 3] «Monna Lisa who?». Progetto di karmachina per «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», Pavia, novembre 2019. Render del progetto; [fig. 4] Stefano Bressani, Giokonda, 2019. Sculture vestite-scultura e stoffe di abbigliamento, cm 135x115x15; [fig. 5] Fabio De Poli, Monnalisa, 2015. Acrilici su legno sagomato in cassetta di legno, cm 36x28x10, collezione Carlo Palli, Prato; [fig. 6] Gianni Cella, Bat Lisa, 2019. Terracotta policroma, cm 45x25x25, Proprietà dell'artista; [fig. 7]Eleonora Francioni e Antonio Mastromarino, Leonardo, 2012. Idroresina e marmo, cm 580x400x380
Informazioni utili
«Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop». Sedi Castello Visconteo (piazza Castello), Spazio arti contemporanee del Broletto (piazza della Vittoria), Santa Maria Gualtieri (piazza della Vittoria), piazza del Municipio. Ingresso: intero € 15,00 |ridotto (under 26, over 65 e gruppi di minimo 15 massimo 30 persone) € 10,00 | ridotto scuole e under 18 € 5,00 |gratuito under 6, possessori Abbonamento Musei Lombardia Milano, soci ICOM, guide turistiche e giornalisti dotati di tesserino professionale, disabili con un accompagnatore | La biglietteria unica è ubicata allo Spazio SaperePavia del Broletto in Piazza della Vittoria, aperto tutti i giorni di apertura della mostra fino alle ore 16.45. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo. Informazioni: leonardopavia@comune.pv.it – mob. +39.331.6422303. Sito internet: www.vivipavia.it. Ufficio stampa: info@irmabianchi.it | francescamasci@andstudio.it | andreapilastro@andstudio.it. Dal 24 novembre 2019 al 29 marzo 2020.
Soggiogato dai continui interrogativi sulla Gioconda lo studio milanese di multimedia design Karmachina ha ideato il progetto «Monna Lisa who?», in programma dal prossimo 24 novembre nel suggestivo spazio della chiesa sconsacrata di Santa Maria Gualtieri a Pavia.
L’ambiente narrativo, per la drammaturgia e sceneggiatura di Giuliano Corti e con la colonna sonora di Alberto Modignani, sposa l’ipotesi che l’opera ritragga Isabella D’Aragona, duchessa di Milano alla fine del Quattrocento, che, relegata a Pavia in un esilio dorato quanto infelice, incontrò Leonardo durante il suo soggiorno nella città, datato tra il 1490 e il 1513, dando vita a un sodalizio spirituale fra due anime inquiete.
Le proiezioni, i suoni e la narrazione, uniti all’allestimento progettato da Studio Dune, sono tante componenti di un racconto immersivo, suggestivo e ammaliante, che rielabora digitalmente l’immagine della Gioconda del Louvre, le altre versioni della Monna Lisa sparse per il mondo, nonché i disegni e le opere pittoriche di Leonardo, conservati ai Musei civici di Pavia, spiegando come mai dietro a quel dipinto si possa celare Isabella d’Aragona. La somiglianza del volto con i ritratti della donna, lo sfondo che ricorda altri paesaggi dipinti dell’artista in terra di Lombardia, i simboli degli Sforza, ricamati sull’orlo della scollatura, la foggia della zimarra, che rimanda a un periodo di lutto, sono i tanti indizi che avvalorano questa tesi.
«Monna Lisa who?» è uno dei quattro progetti con cui Pavia celebra, dal 24 novembre al 29 marzo, il quinto centenario dalla morte del genio fiorentino. La città lombarda ha, infatti, ideato una mostra diffusa, che interessa altre tre realtà del territorio: lo Spazio arti contemporanee del Broletto, il Castello visconteo, la piazza del Municipio.
L’articolato progetto espositivo, intitolato «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», porta la firma del critico Valerio Dehò, docente di estetica all’Accademia di belle arti di Bologna, e offre un percorso tra vari generi, dalla pittura alla scultura, dall’installazione ai lavori multimediali, con alcune opere della collezione Carlo Palli e lavori creati per l’occasione.
Dal Concettuale al Fluxus, dalla Poesia visiva alla Neopittura, senza dimenticare la Pop art e il Dadaismo con Marcel Duchamp, sono molte le correnti artistiche contemporanee che hanno guardato alla Gioconda e alla sua riproducibilità. Lo Spazio arti contemporanee del Broletto e il Castello visconteo propongono una selezione di queste riletture: oltre quaranta lavori di trentanove artisti che hanno reinterpretato in chiave contemporanea il capolavoro della Monna Lisa, chi con l’intento di creare continuità, chi rottura.
Il panorama iconografico è, dunque, variegato. Giuseppe Veneziano, per esempio, ha vestito la dama leonardesca con i panni di Frida Kahlo. Gianni Cella l’ha trasformata in una Batwoman in terracotta policroma, con uno splendido abito dalle tonalità oltremare. Stefano Bressani l’ha abbigliata con stoffe di tutti i colori, tramutandola in una sorta di regina di cuori. L’artista concettuale Virginio Rospigliosi, poi, ha creato un corto circuito tra lo spazio interno ed esterno del quadro con l’acrilico su tavola «Frammento del paesaggio retrostante». Gian Marco Montesano si è, invece, concentrato con il suo lavoro sullo storico furto della Gioconda del 1911.
A queste opere, realizzate per l'occasione, se ne affiancano altre, ormai storicizzate, di grande interesse. È il caso del collage «Bijoconde» (1963-1983) di Jean Margat o della «Monna Lisa» (2015) di Fabio de Poli, che presenta una figura oscurata, luttuosa, con richiami espliciti all’opera di Leonardo. Mentre Jiri Kolar, esponente della poesia visuale mitteleuropea, ha inserito l’icona del genio vinciano su una fattura contabile, rivelandone il lato mercantile e lo sfruttamento dell’immagine.
La tecnica del collage è usata anche da Lucia Marcucci, fondatrice del Gruppo 70, che in «Lisa» (1997) ha affiancato ritagli di testi a immagini di donne musulmane e a simboli di fecondità, quasi a volerne riscattare un ruolo. Significativi, poi, sono i due lavori di Vettor Pisani in mostra: «Concerto invisibile di Gino De Dominicis» (2007), in cui la Gioconda diviene una sorta di paradigma del capolavoro che salva dalla mortalità, e «Il ventre della Gioconda» (2007), in cui la dama leonardesca è rappresentata come una mamma con un bambino, una moderna Madonna.
Al Castello visconteo la mostra prosegue con «La visione di Leonardo a Pavia», progetto sviluppato dalla start-up milanese Way Experience, che porta il visitatore nella città rinascimentale, quella vissuta dall'artista tra il 1490 e il 1513. Grazie ai visori Oculus e alla narrazione del giornalista e scrittore Massimo Polidoro, il pubblico è proiettato nelle strade, nei paesaggi e nei luoghi che il maestro vinciano ha visto e vissuto, in quell’ambiente che fu per lui fonte di riflessioni per i suoi studi di anatomia umana, matematica e architettura, ma soprattutto per l'ideazione della Gioconda.
Il percorso si chiude idealmente in piazza Municipio, dove è esposta la giant sculpture in idroresina e marmo (di cinque metri di altezza e quattro di diametro) realizzata dagli artisti Eleonora Francioni e Antonio Mastromarino, raffigurante il genio vinciano in età senile.
Un progetto, dunque, interessante e ben articolato quello proposto da Pavia per i cinquecento anni dalla morte di Leonardo, che focalizza l’attenzione su quella che è forse la sua opera più celebre: la Gioconda. Un’opera capace ancora oggi di affascinare con il suo sorriso misterioso ed enigmatico. Un’opera di cui Giorgio Vasari scrisse: «era una cosa più divina che umana a guardare».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] «Monna Lisa who?». Progetto di karmachina per «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», Pavia, novembre 2019. Frame del video; [fig. 2] «Monna Lisa who?». Progetto di karmachina per «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», Pavia, novembre 2019. Frame del video; [fig. 3] «Monna Lisa who?». Progetto di karmachina per «Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop», Pavia, novembre 2019. Render del progetto; [fig. 4] Stefano Bressani, Giokonda, 2019. Sculture vestite-scultura e stoffe di abbigliamento, cm 135x115x15; [fig. 5] Fabio De Poli, Monnalisa, 2015. Acrilici su legno sagomato in cassetta di legno, cm 36x28x10, collezione Carlo Palli, Prato; [fig. 6] Gianni Cella, Bat Lisa, 2019. Terracotta policroma, cm 45x25x25, Proprietà dell'artista; [fig. 7]Eleonora Francioni e Antonio Mastromarino, Leonardo, 2012. Idroresina e marmo, cm 580x400x380
Informazioni utili
«Looking for Monna Lisa. Misteri e ironie attorno alla più celebre icona Pop». Sedi Castello Visconteo (piazza Castello), Spazio arti contemporanee del Broletto (piazza della Vittoria), Santa Maria Gualtieri (piazza della Vittoria), piazza del Municipio. Ingresso: intero € 15,00 |ridotto (under 26, over 65 e gruppi di minimo 15 massimo 30 persone) € 10,00 | ridotto scuole e under 18 € 5,00 |gratuito under 6, possessori Abbonamento Musei Lombardia Milano, soci ICOM, guide turistiche e giornalisti dotati di tesserino professionale, disabili con un accompagnatore | La biglietteria unica è ubicata allo Spazio SaperePavia del Broletto in Piazza della Vittoria, aperto tutti i giorni di apertura della mostra fino alle ore 16.45. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo. Informazioni: leonardopavia@comune.pv.it – mob. +39.331.6422303. Sito internet: www.vivipavia.it. Ufficio stampa: info@irmabianchi.it | francescamasci@andstudio.it | andreapilastro@andstudio.it. Dal 24 novembre 2019 al 29 marzo 2020.
Location:
27100 Pavia PV, Italia
mercoledì 20 novembre 2019
Dai maestri del Trecento a Lucio Fontana, quando l’arte incontra l’oro
L’oro è considerato da sempre uno dei metalli più preziosi. Emana luce e trasmette calore. Per questo motivo è stato utilizzato sin dall’antichità, e più precisamente dall’epoca degli antichi egizi, nel mondo dell’arte ora come simbolo di regalità ora come metafora di una dimensione sacra e ultraterrena, priva di tempo.
Con il Medioevo si diffonde l’utilizzo della foglia oro, secondo quella che era la tecnica del «gold ground», per illuminare di luce solare il cielo dei dipinti sacri e per esaltare l’effetto visivo delle aureole dei santi. A questa stagione guarda anche l’incipit della mostra «Oro, 1320 – 2020. Dai maestri del Trecento al contemporaneo», in programma dal 22 novembre al 31 gennaio a Milano, nei prestigiosi spazi di Palazzo Cicogna, per iniziativa di Matteo Salamon.
È Cennino Cennini, verso la fine del XIV secolo, a mettere nero su bianco le tecniche di doratura delle tavole in dodici capitoli del suo «Libro dell’arte», un documento storico essenziale nel quale si parla organicamente del funzionamento della bottega di un pittore, dilungandosi sulla centralità del disegno, sulle ricette per la preparazione dei pigmenti, sulle varietà dei pennelli e sui differenti supporti.
A questo modello di lavoro sono riconducibili tutte le opere antiche presenti in mostra, che documentano un arco di tempo che spazia dalla tradizione giottesca al Gotico internazionale a Firenze e in Italia centrale. Si rifanno alla lezione di Cennino Cennini le tavole di Giovanni Gaddi – maestro di scuola giottesca attivo insieme al padre Taddeo nella prima metà del Trecento –, di Andrea di Bonaiuto, di Antonio Veneziano e dell’anonimo pittore noto come Maestro dell’Incoronazione della Christ Church Gallery di Oxford. Mentre i dipinti quattrocenteschi di Mariotto di Nardo (nella mostra è esposta la «Madonna col Bambino e quattro santi», ritenuta uno dei capolavori della sua tarda attività), di Ventura di Moro e del marchigiano Giovanni Antonio da Pesaro attestano la continuità e la vitalità di questa tradizione –e non solo a Firenze– fino al 1430 circa.
La lettura di Cennino Cennini, e in generale lo studio delle tecniche usate dagli antichi maestri, è fondamentale anche per approcciarsi alla sezione espositiva dedicata all’arte contemporanea, nella quale sono esposti artisti degli ultimi cinquant’anni come Lucio Fontana, Paolo Londero e Maurizio Bottoni.
Un filo rosso unisce, dunque, due momenti distanti della storia culturale del nostro Paese, accomunati dai segni tangibili di una unica tradizione che guarda all’uso dell’oro come un pigmento che allude a qualcosa di altro, irraggiungibile e distante. È il caso del lavoro di Lucio Fontana esposto, un «Concetto spaziale in oro» del 1960.
Paolo Londero, artista eclettico la cui formazione da restauratore tradisce la centralità della materia nella sua arte, ci fa, invece, sorridere con la sua «Gallina dalle uova d’oro», opera in realtà non puramente giocosa, ma densa di significato. «A essere d’oro -spiegano, infatti, dalla galleria di Matteo Salamon- è la gallina stessa e il pulcino che schiude un uovo di lacca bianca, segno che la preziosità sta nella vita e non nel guscio, in un gioco di tesi ed antitesi dal sapore hegeliano, ma con rimandi di forme e contenuti addirittura al neoplatonismo michelangiolesco».
L’utilizzo simbolico dei materiali si ripete in un'altra opera di Londero in mostra: la «Verza d’oro». In questo lavoro alcune formiche di lacca nera sono pronte a nutrirsi delle foglie dorate dell’ortaggio, emblema delle illusioni, senza tuttavia giungere al cuore della brassica (che è reale e difatti non è d’oro), vero nocciolo tematico della composizione.
Portavoce del recupero di tecniche antiche, dalla preparazione delle tavole e delle tele a quella dei colori, è anche Maurizio Bottoni, artista lombardo definito da Federico Zeri, nel 1997, «uno dei pochi maestri della penisola che sanno dare ancora vita alle cose». Sua l’espressione «Tutto ciò che è creato è divino», che ben «presuppone -spiegano sempre dalla galleria di Matteo Salomon- l’uso del fondo oro, forma visibile e simbolica della divinità stessa, e di conseguenza contesto esemplare per uno sguardo commosso verso gli aspetti minuti del mondo naturale».
La mostra milanese presenta una sua preziosa tavola dallo spirito surrealista: «Oggi riposo», digressione al tempo stesso ammirata e divertita sul tema della Vanitas.
Su fondo oro sono trasposte anche le «Rose di Volpedo», sentito omaggio al naturalismo sincero e appassionato della poetica di Giuseppe Pellizza.
Nel loro studio meticoloso di materiali e tecniche, risposta coraggiosa all’odierno proliferare di mezzi tecnologici e multimediali nell’arte, Bottoni e Londero guardano, dunque, al passato e a quell’idea già espressa quattro secoli fa da Annibale Carracci che «i pittori abbiano a parlar con le mani». L’uso della foglia d’oro diventa così una tradizione che si rinnova, rendendo la pittura (ma anche la scultura) più preziosa, per trasformarla in un linguaggio che parla di metafisica ed eternità, di splendore ultraterreno e di spiritualità divina.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paolo Londero, La gallina dalle uova d'oro , Papier machè; [fig. 2] Maurizio Bottoni, Oggi riposo, olio e tempera su tavola, fondo oro, cm 12 x 28; [fig. 3] Antonio Veneziano, Angelo Annunciante, tempera su tavola, fondo oro, cm 40,5 x 23,2; [fig.4] Giovanni Antonio da Pesaro: Crocifissione, tempera su tavola, fondo oro, cm 42 x 28,5; [fig. 5] Giovanni Bottoni, Col tempo, olio e tempera su tavola, fondo oro, cm 32 x 27
Informazioni utili
«Oro, 1320 – 2020. Dai maestri del Trecento al contemporaneo». Galleria Salamon - Palazzo Cicogna, I° piano, via San Damiano 2, Milano. Orario: dal lunedì al venerdì, ore 10.00–13.00 e ore 14.00–19.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.76024638; info@salamongallery.com. Dal 22 novembre al 31 gennaio 2020.
Con il Medioevo si diffonde l’utilizzo della foglia oro, secondo quella che era la tecnica del «gold ground», per illuminare di luce solare il cielo dei dipinti sacri e per esaltare l’effetto visivo delle aureole dei santi. A questa stagione guarda anche l’incipit della mostra «Oro, 1320 – 2020. Dai maestri del Trecento al contemporaneo», in programma dal 22 novembre al 31 gennaio a Milano, nei prestigiosi spazi di Palazzo Cicogna, per iniziativa di Matteo Salamon.
È Cennino Cennini, verso la fine del XIV secolo, a mettere nero su bianco le tecniche di doratura delle tavole in dodici capitoli del suo «Libro dell’arte», un documento storico essenziale nel quale si parla organicamente del funzionamento della bottega di un pittore, dilungandosi sulla centralità del disegno, sulle ricette per la preparazione dei pigmenti, sulle varietà dei pennelli e sui differenti supporti.
A questo modello di lavoro sono riconducibili tutte le opere antiche presenti in mostra, che documentano un arco di tempo che spazia dalla tradizione giottesca al Gotico internazionale a Firenze e in Italia centrale. Si rifanno alla lezione di Cennino Cennini le tavole di Giovanni Gaddi – maestro di scuola giottesca attivo insieme al padre Taddeo nella prima metà del Trecento –, di Andrea di Bonaiuto, di Antonio Veneziano e dell’anonimo pittore noto come Maestro dell’Incoronazione della Christ Church Gallery di Oxford. Mentre i dipinti quattrocenteschi di Mariotto di Nardo (nella mostra è esposta la «Madonna col Bambino e quattro santi», ritenuta uno dei capolavori della sua tarda attività), di Ventura di Moro e del marchigiano Giovanni Antonio da Pesaro attestano la continuità e la vitalità di questa tradizione –e non solo a Firenze– fino al 1430 circa.
La lettura di Cennino Cennini, e in generale lo studio delle tecniche usate dagli antichi maestri, è fondamentale anche per approcciarsi alla sezione espositiva dedicata all’arte contemporanea, nella quale sono esposti artisti degli ultimi cinquant’anni come Lucio Fontana, Paolo Londero e Maurizio Bottoni.
Un filo rosso unisce, dunque, due momenti distanti della storia culturale del nostro Paese, accomunati dai segni tangibili di una unica tradizione che guarda all’uso dell’oro come un pigmento che allude a qualcosa di altro, irraggiungibile e distante. È il caso del lavoro di Lucio Fontana esposto, un «Concetto spaziale in oro» del 1960.
Paolo Londero, artista eclettico la cui formazione da restauratore tradisce la centralità della materia nella sua arte, ci fa, invece, sorridere con la sua «Gallina dalle uova d’oro», opera in realtà non puramente giocosa, ma densa di significato. «A essere d’oro -spiegano, infatti, dalla galleria di Matteo Salamon- è la gallina stessa e il pulcino che schiude un uovo di lacca bianca, segno che la preziosità sta nella vita e non nel guscio, in un gioco di tesi ed antitesi dal sapore hegeliano, ma con rimandi di forme e contenuti addirittura al neoplatonismo michelangiolesco».
L’utilizzo simbolico dei materiali si ripete in un'altra opera di Londero in mostra: la «Verza d’oro». In questo lavoro alcune formiche di lacca nera sono pronte a nutrirsi delle foglie dorate dell’ortaggio, emblema delle illusioni, senza tuttavia giungere al cuore della brassica (che è reale e difatti non è d’oro), vero nocciolo tematico della composizione.
Portavoce del recupero di tecniche antiche, dalla preparazione delle tavole e delle tele a quella dei colori, è anche Maurizio Bottoni, artista lombardo definito da Federico Zeri, nel 1997, «uno dei pochi maestri della penisola che sanno dare ancora vita alle cose». Sua l’espressione «Tutto ciò che è creato è divino», che ben «presuppone -spiegano sempre dalla galleria di Matteo Salomon- l’uso del fondo oro, forma visibile e simbolica della divinità stessa, e di conseguenza contesto esemplare per uno sguardo commosso verso gli aspetti minuti del mondo naturale».
La mostra milanese presenta una sua preziosa tavola dallo spirito surrealista: «Oggi riposo», digressione al tempo stesso ammirata e divertita sul tema della Vanitas.
Su fondo oro sono trasposte anche le «Rose di Volpedo», sentito omaggio al naturalismo sincero e appassionato della poetica di Giuseppe Pellizza.
Nel loro studio meticoloso di materiali e tecniche, risposta coraggiosa all’odierno proliferare di mezzi tecnologici e multimediali nell’arte, Bottoni e Londero guardano, dunque, al passato e a quell’idea già espressa quattro secoli fa da Annibale Carracci che «i pittori abbiano a parlar con le mani». L’uso della foglia d’oro diventa così una tradizione che si rinnova, rendendo la pittura (ma anche la scultura) più preziosa, per trasformarla in un linguaggio che parla di metafisica ed eternità, di splendore ultraterreno e di spiritualità divina.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paolo Londero, La gallina dalle uova d'oro , Papier machè; [fig. 2] Maurizio Bottoni, Oggi riposo, olio e tempera su tavola, fondo oro, cm 12 x 28; [fig. 3] Antonio Veneziano, Angelo Annunciante, tempera su tavola, fondo oro, cm 40,5 x 23,2; [fig.4] Giovanni Antonio da Pesaro: Crocifissione, tempera su tavola, fondo oro, cm 42 x 28,5; [fig. 5] Giovanni Bottoni, Col tempo, olio e tempera su tavola, fondo oro, cm 32 x 27
Informazioni utili
«Oro, 1320 – 2020. Dai maestri del Trecento al contemporaneo». Galleria Salamon - Palazzo Cicogna, I° piano, via San Damiano 2, Milano. Orario: dal lunedì al venerdì, ore 10.00–13.00 e ore 14.00–19.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.76024638; info@salamongallery.com. Dal 22 novembre al 31 gennaio 2020.
martedì 19 novembre 2019
«Dodici storie sul cibo», quando la buona tavola incontra l’arte
Compie sei anni «Far da mangiare», festival di cucina che sabato 23 e domenica 24 novembre, in concomitanza con la Settimana della cucina italiana nel mondo, animerà lo Spazio MIL, centro multifunzionale di circa tremila metri quadrati ubicato nel Comune milanese di Sesto San Giovanni, all’interno del parco archeologico industriale dell’ex fabbrica Breda.
Tema della manifestazione sarà la convivialità, quale elemento comune a tutte le culture del mondo in ogni epoca e in ogni luogo. Da sempre, infatti, il riunirsi intorno al cibo è momento di ritrovo e di condivisione, che ogni popolazione ha arricchito con le proprie usanze e tradizioni, con le proprie materie prime e tecniche di preparazione. Asia e Sud America sono i due Paesi al centro di questa edizione del festival, che proporrà una serie di attività gratuite come workshop di cucina, degustazioni, cooking show, incontri con i produttori, laboratori per bambini, il tutto con l’obiettivo di far conoscere profumi speziati e sapori esotici di un linguaggio universale, quello della buona tavola, capace di creare un ponte tra le varie culture.
A «Far da mangiare» -il cui cartellone sarà arricchito dal sempre gradito Spazio Meal, area dedicata allo street food italiano e internazionale- la cucina incontra anche il mondo dell’arte. In occasione della fiera sarà, infatti, possibile vedere la mostra «Dodici storie sul cibo. Dal cavallo al carrello», a cura di Andrea Tomasetig. L’esposizione, la cui inaugurazione è programmata per la sera del 21 novembre (ore 18.30), propone una selezione di carte e documenti d’epoca, databili dal 1865 a oggi e provenienti dalla vasta collezione dello studioso milanese Michele Rapisarda.
L’allestimento presenta sia i materiali originali sia la loro riproduzione ingrandita a parete, corredati da brevi testi per approfondirne il contesto storico e sociale.
Di particolare interesse sono le copertine di varie riviste illustrate, dalla storica «Domenica del Corriere», disegnate da Achille Beltrame e Walter Molino, alle attuali pagine d’autore di «Toiletpaper», il magazine bolognese creato da Maurizio Cattelan e dal fotografo Pierpaolo Ferrari, oltre a pagine pubblicitarie con grafiche firmate da Leonetto Cappiello, Antonio Rubino e Benito Jacovitti. Ci sono, inoltre, in mostra cartoline, calendari, ricevute di pasti all’osteria, gadget e pieghevoli.
La rassegna prende le mosse dal periodo in cui la ricca borghesia lombarda andava a mangiare fuori porta in carrozza, provvedendo anche al pasto per il cocchiere e il cavallo, come documentano due ricevute: una dell’Osteria del Giardino di Cassano d’Adda (1865), l’altra della Trattoria del Risorgimento di Fino Mornasco (1900 ca.), che si chiude con le voci «biada, fieno e stallazzo».
Tra le carte in mostra è possibile, poi, imbattersi in una illustrazione di Achille Beltrame dedicata al pranzo di Ferragosto del 1904 sotto le guglie del Duomo di Milano e negli scugnizzi napoletani «mangiamaccheroni», sempre del primo Novecento, immortalati in una cartolina a uso dei turisti italiani e stranieri.
Si toccano, quindi, gli anni Trenta con la pubblicità del modernissimo frigorifero Algidus, firmata da Antonio Rubino, e con quella dell’innovativo Caffè Cirio sottovuoto, il cui manifesto porta la firma di Leonetto Cappiello.
Si assiste, quindi, all’avvento della televisione nel 1954, raccontato da una copertina della rivista «Il Vittorioso» a cura di Benito Jacovitti. Tre anni dopo, nel 1957, con «Carosello», trasmissione che prosegue fino al 1977, la reclame arriva in televisione. L’azienda Invernizzi, produttrice di latticini e salumi, inventa due dei più famosi pupazzi pubblicitari: la Mucca Carolina e Susanna Tutta Panna, della quale è in mostra un giocattolo con stampato datato 1970.
La mostra si chiude, quindi, con un omaggio a Gualtiero Marchesi, del quale è esposto l’opuscolo stampato da Giorgio Lucini nel 2010 per i suoi ottant’anni.
Grande spazio viene, inoltre, dato alla stagione che vede la nascita e l’affermarsi dei supermercati e del carrello della spesa. Nel 1956 la Standa apre a Napoli il primo reparto self-service di generi alimentari. Il 27 novembre 1957 la Supermarkets Italiani -sorta per iniziativa di Nelson Rockefeller, Bernardo Caprotti e Marco Brunelli- inaugura a Milano il primo supermercato di una catena poi nota come Esselunga. Di quest’ultima è esposto il catalogo del novembre-dicembre 1967 con una sorridente Raffaella Carrà che augura buon Natale ai clienti. Un viaggio, dunque, interessante quello proposto alla Spazio MIL, che permette al visitatore di scoprire come il cibo sia cultura, pane non solo per il corpo ma anche per la mente.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Cartolina napoletana illustrata, Mangiamaccheroni, inizio 900; [fig, 2] Achille Beltrame, Controcopertina de La Domenica del Corriere, 21.8.1904, Millano; [fig. 3] Benito Jacovitti, Copertina Il vittorioso, 25.9.1955, Roma; [fig. 4] Copertina catalogo "Esse Lunga", Milano, novembre-dicembre 1967
Informazioni utili
«Dodici storie sul cibo. Dal cavallo al carrello. Carte dalla collezione Rapisarda». Spazio MIL, via Luigi Granelli, 1 - Sesto San Giovanni (Milano). Inaugurazione: giovedì 21 novembre, ore 18.30. Orari giovedì, ore 14.00-22.00 | venerdì, ore 14.00-19.00 | sabato, ore 11.00-23.00 | domenica, ore 11.00-21.00. Ingresso: gratuito. Informazioni: tel. 02.36682271, info@spaziomil.org. Come arrivare: M1 Sesto Marelli/Sesto Rondò, M5 Bignami, tram 31 Parco Nord/viale Fulvio Testi, autobus 727 viale Sarca/via Milanese. Dal 21 al 24 novembre 2019.
Tema della manifestazione sarà la convivialità, quale elemento comune a tutte le culture del mondo in ogni epoca e in ogni luogo. Da sempre, infatti, il riunirsi intorno al cibo è momento di ritrovo e di condivisione, che ogni popolazione ha arricchito con le proprie usanze e tradizioni, con le proprie materie prime e tecniche di preparazione. Asia e Sud America sono i due Paesi al centro di questa edizione del festival, che proporrà una serie di attività gratuite come workshop di cucina, degustazioni, cooking show, incontri con i produttori, laboratori per bambini, il tutto con l’obiettivo di far conoscere profumi speziati e sapori esotici di un linguaggio universale, quello della buona tavola, capace di creare un ponte tra le varie culture.
A «Far da mangiare» -il cui cartellone sarà arricchito dal sempre gradito Spazio Meal, area dedicata allo street food italiano e internazionale- la cucina incontra anche il mondo dell’arte. In occasione della fiera sarà, infatti, possibile vedere la mostra «Dodici storie sul cibo. Dal cavallo al carrello», a cura di Andrea Tomasetig. L’esposizione, la cui inaugurazione è programmata per la sera del 21 novembre (ore 18.30), propone una selezione di carte e documenti d’epoca, databili dal 1865 a oggi e provenienti dalla vasta collezione dello studioso milanese Michele Rapisarda.
L’allestimento presenta sia i materiali originali sia la loro riproduzione ingrandita a parete, corredati da brevi testi per approfondirne il contesto storico e sociale.
Di particolare interesse sono le copertine di varie riviste illustrate, dalla storica «Domenica del Corriere», disegnate da Achille Beltrame e Walter Molino, alle attuali pagine d’autore di «Toiletpaper», il magazine bolognese creato da Maurizio Cattelan e dal fotografo Pierpaolo Ferrari, oltre a pagine pubblicitarie con grafiche firmate da Leonetto Cappiello, Antonio Rubino e Benito Jacovitti. Ci sono, inoltre, in mostra cartoline, calendari, ricevute di pasti all’osteria, gadget e pieghevoli.
La rassegna prende le mosse dal periodo in cui la ricca borghesia lombarda andava a mangiare fuori porta in carrozza, provvedendo anche al pasto per il cocchiere e il cavallo, come documentano due ricevute: una dell’Osteria del Giardino di Cassano d’Adda (1865), l’altra della Trattoria del Risorgimento di Fino Mornasco (1900 ca.), che si chiude con le voci «biada, fieno e stallazzo».
Tra le carte in mostra è possibile, poi, imbattersi in una illustrazione di Achille Beltrame dedicata al pranzo di Ferragosto del 1904 sotto le guglie del Duomo di Milano e negli scugnizzi napoletani «mangiamaccheroni», sempre del primo Novecento, immortalati in una cartolina a uso dei turisti italiani e stranieri.
Si toccano, quindi, gli anni Trenta con la pubblicità del modernissimo frigorifero Algidus, firmata da Antonio Rubino, e con quella dell’innovativo Caffè Cirio sottovuoto, il cui manifesto porta la firma di Leonetto Cappiello.
Si assiste, quindi, all’avvento della televisione nel 1954, raccontato da una copertina della rivista «Il Vittorioso» a cura di Benito Jacovitti. Tre anni dopo, nel 1957, con «Carosello», trasmissione che prosegue fino al 1977, la reclame arriva in televisione. L’azienda Invernizzi, produttrice di latticini e salumi, inventa due dei più famosi pupazzi pubblicitari: la Mucca Carolina e Susanna Tutta Panna, della quale è in mostra un giocattolo con stampato datato 1970.
La mostra si chiude, quindi, con un omaggio a Gualtiero Marchesi, del quale è esposto l’opuscolo stampato da Giorgio Lucini nel 2010 per i suoi ottant’anni.
Grande spazio viene, inoltre, dato alla stagione che vede la nascita e l’affermarsi dei supermercati e del carrello della spesa. Nel 1956 la Standa apre a Napoli il primo reparto self-service di generi alimentari. Il 27 novembre 1957 la Supermarkets Italiani -sorta per iniziativa di Nelson Rockefeller, Bernardo Caprotti e Marco Brunelli- inaugura a Milano il primo supermercato di una catena poi nota come Esselunga. Di quest’ultima è esposto il catalogo del novembre-dicembre 1967 con una sorridente Raffaella Carrà che augura buon Natale ai clienti. Un viaggio, dunque, interessante quello proposto alla Spazio MIL, che permette al visitatore di scoprire come il cibo sia cultura, pane non solo per il corpo ma anche per la mente.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Cartolina napoletana illustrata, Mangiamaccheroni, inizio 900; [fig, 2] Achille Beltrame, Controcopertina de La Domenica del Corriere, 21.8.1904, Millano; [fig. 3] Benito Jacovitti, Copertina Il vittorioso, 25.9.1955, Roma; [fig. 4] Copertina catalogo "Esse Lunga", Milano, novembre-dicembre 1967
Informazioni utili
«Dodici storie sul cibo. Dal cavallo al carrello. Carte dalla collezione Rapisarda». Spazio MIL, via Luigi Granelli, 1 - Sesto San Giovanni (Milano). Inaugurazione: giovedì 21 novembre, ore 18.30. Orari giovedì, ore 14.00-22.00 | venerdì, ore 14.00-19.00 | sabato, ore 11.00-23.00 | domenica, ore 11.00-21.00. Ingresso: gratuito. Informazioni: tel. 02.36682271, info@spaziomil.org. Come arrivare: M1 Sesto Marelli/Sesto Rondò, M5 Bignami, tram 31 Parco Nord/viale Fulvio Testi, autobus 727 viale Sarca/via Milanese. Dal 21 al 24 novembre 2019.
lunedì 18 novembre 2019
Leopardi e Milano: alla Biblioteca Sormani una mostra per i duecento anni de «L’infinito»
L’altura solitaria del Monte Tabor, il borgo di Recanati alle sue pendici, sullo sfondo i monti Sibillini e il mar Adriatico, in primo piano una siepe e le piante di un parco con le foglie mosse dal vento. È questa la geografia del cuore, intessuta di «profondissima quiete» e di «infinito silenzio», che ci restituisce Giacomo Leopardi con una delle opere poetiche più alte della letteratura di tutti i tempi: «L’Infinito».
È il 1819. Lo scrittore recanatese ha appena ventun anni, ma sente già viva in lui l’urgenza di riflettere sull’«eterno» e sulle «morte stagioni», ovvero sul tempo che scorre, sulla storia -nostra e di chi ci ha preceduto-, sul destino che ci attende.
Sei anni dopo quei quindici versi indimenticabili, di cui si celebrano quest’anno i duecento anni dalla composizione, trovano la loro prima veste tipografica: alla fine del 1825 vengono pubblicati sulla rivista «Il Nuovo Ricoglitore», edita dal tipografo ed editore veneziano Antonio Fortunato Stella, che nel 1810 ha trasferito la propria attività a Milano.
La storia della poesia «L’Infinito» si intreccia, dunque, con quella del capoluogo lombardo, dove lo scrittore trascorre un breve periodo di tempo, proprio nel 1825, tra il 27 luglio e il 26 settembre, in seguito all’incarico di redigere l’edizione completa delle opere di Cicerone.
Non potevano, dunque, non arrivare anche all’ombra della Madonnina i festeggiamenti per i duecento anni dalla composizione del noto idillio leopardiano, che hanno avuto quest’anno il loro cuore pulsante nel borgo di Recanati, dove è attualmente in programma la rassegna fotografica «Paesaggio italiano. L’infinito tra incanto e sfregio», tesa a raccontare il rapporto dell’uomo con la natura.
Sede scelta per l’omaggio milanese è la Biblioteca Sormani, dove fino al prossimo 8 febbraio, vanno in scena una mostra e un ciclo di incontri, per la curatela di William Spaggiari, professore ordinario di Letteratura italiana dell’Università degli studi di Milano.
Grazie a questo evento sarà possibile ripercorrere, nello specifico, l’importanza del capoluogo lombardo nel percorso leopardiano e le considerazioni del poeta recanatese sulla società, sulla fisionomia e i caratteri del cittadino civilmente consapevole e sul vivere nella grande città, argomento, questo, al centro di carteggi con i familiari e gli amici e di pagine segrete del suo «Zibaldone».
Come è noto Giacomo Leopardi verso i vent’anni sente il bisogno di lasciare Recanati, il natio borgo «selvaggio», ormai vissuto come prigione, per poter frequentare gli ambienti culturali più prestigiosi del suo tempo.
Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Roma e Napoli accolgono il poeta e diventano scenario di importanti incontri nonché fonte di ispirazione della sua produzione letterario-filosofica.
L’impatto con la vita di città, tuttavia, si rivela per lo scrittore difficoltoso sia per i noti problemi di salute sia per il suo scarso spirito di adattamento, ma anche e soprattutto per il suo carattere schivo, incline alla solitudine e allo studio, insofferente nei confronti della vita di società.
Non semplice è anche il rapporto con la città lombarda. «Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, -scrive, infatti, il poeta in una lettera del 20 agosto 1825 a Carlo Antici- perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario».
Dell’allora capitale del Regno Lombardo-veneto Giacomo Leopardi non ama «l'aria, i cibi e le bevande», definiti -in una lettera del 24 agosto 1825 al padre Monaldo- «forse i peggiori del mondo». Ne disprezza la troppa venerazione, nei circoli culturali, per l’austero Vincenzo Monti, una delle figure egemoni del tempo. Ne avverte, soprattutto, la diffidenza nei suoi confronti, respira cioè -si legge in una lettera allo Stella del marzo 1826- «la disgrazia di essere profondamente disprezzato nella dotta e grassa Lombardia». Ma è ben consapevole che Milano è il posto ideale per realizzare il sogno di gloria letteraria tramite la stampa e la diffusione dei suoi scritti nei circuiti di alto livello culturale. E sarà, infatti, nella città lombarda che vedranno la luce molte delle sue opere: articoli, traduzioni, le «Operette morali», la doppia «Crestomazia», le «Rime» di Petrarca con ampio commento.
La rassegna nella Sala del Grechetto, di cui rimarrà documentazione in un bel catalogo di Silvana editoriale, permette di ammirare un importante corpus di documenti, alcuni rari e mai esposti prima, facenti parte del «Fondo leopardiano», all’interno del quale si trovano trascrizioni manoscritte, edizioni originali a stampa di opere del poeta recanatese e la saggistica più autorevole uscita nell’arco di due secoli.
Oltre a questi pezzi, Walter Spaggiari ha selezionato un ricco apparato documentale e iconografico: lettere autografe di Giacomo Leopardi all’editore Antonio Fortunato Stella, provenienti dalla Biblioteca nazionale Braidense, una lettera di Pietro Brighenti, corrispondente bolognese del poeta e confidente segreto della Polizia austriaca con il nome in codice di Luigi Morandini, di proprietà dall’Archivio di Stato di Milano, nonché dipinti e stampe che ritraggono luoghi, personaggi e momenti della Milano ottocentesca, di solito conservati alla Civica raccolta delle stampe «Achille Bertarelli» del Castello sforzesco, a Palazzo Morando, al Museo del Risorgimento e alla Casa del Manzoni.
Curiosa è, poi, la sezione espositiva curata dall’Associazione culturale Biblioteca Famiglia meneghina Società del Giardino, che propone una serie di traduzioni in milanese del celebre idillio al centro dell’omaggio.
«Giacomo Leopardi. Infinito incanto», questo il titolo del progetto, prevede, inoltre, un ciclo di sette incontri che analizzeranno vari aspetti della poetica dello scrittore recanatese. Patrizia Landi parlerà dello «Zibaldone» (22 novembre), Walter Spaggiari della luna (25 novembre), Angelo Colombo dei rapporti dello scrittore con Milano (2 dicembre). Sarà, poi, la volta di Anna Maria Salvadè con l’incontro «Solitudini leopardiane» (13 dicembre), di Christian Genetelli con «Leopardi e i giornali milanesi» (16 dicembre) e di Gianmarco Gaspari con «Leopardi e il carattere degli italiani» (23 gennaio). A chiudere il cartellone sarà, infine, un appuntamento sulle relazioni tra lo scrittore recanatese e Alessandro Manzoni, a cura di Angelo Stella (30 gennaio).
Un bell’omaggio, dunque, quello di Milano a Giacomo Leopardi, uno dei suoi ospiti illustri insieme con Stendhal, Byron, Shelley, Balzac, Listz e molti altri, che «ha illuminato del suo pensiero -raccontano gli organizzatori- l’ambiente vivace della “capitale morale” di primo Ottocento, pronta ad accogliere e a far propri i fermenti portati dal vento innovatore che spirava in Europa».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Anonimo, Giacomo Leopardi, 1898. Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli. Milano, Castello Sforzesco; [fig. 2] Johann Jakob Falkeisen, Piazza Duomo, 1835-1840. Acquatinta acquarellata a mano. Civiche raccolte storiche. Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento; [fig. 3] Salvatore Corvaya, Piazza della Scala avanti il 1857, 1920. Olio su tela. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 4] Anonimo, Velocifero, 1835 - 1840. Acquaforte e acquatinta colorata a mano. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 5] Giovanni Migliara, Ponte e trofeo di Porta Ticinese, metà XIX secolo. Acquerello su carta. Civiche Raccolte Storiche - Palazzo Morando
Informazioni utili
Giacomo Leopardi. Infinito Incanto. Biblioteca Sormani - Scalone d'onore, via Francesco Sforza, 7 - Milano. Orari: lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00, sabato, ore 9.00-12.30, chiuso domenica e festivi. Ingresso libero. Informazioni: Ufficio Conservazione e Valorizzazione Raccolte Storiche, tel. 0288463372, c.salagrechetto@comune.milano.it. Fino all'8 febbraio 2020
È il 1819. Lo scrittore recanatese ha appena ventun anni, ma sente già viva in lui l’urgenza di riflettere sull’«eterno» e sulle «morte stagioni», ovvero sul tempo che scorre, sulla storia -nostra e di chi ci ha preceduto-, sul destino che ci attende.
Sei anni dopo quei quindici versi indimenticabili, di cui si celebrano quest’anno i duecento anni dalla composizione, trovano la loro prima veste tipografica: alla fine del 1825 vengono pubblicati sulla rivista «Il Nuovo Ricoglitore», edita dal tipografo ed editore veneziano Antonio Fortunato Stella, che nel 1810 ha trasferito la propria attività a Milano.
La storia della poesia «L’Infinito» si intreccia, dunque, con quella del capoluogo lombardo, dove lo scrittore trascorre un breve periodo di tempo, proprio nel 1825, tra il 27 luglio e il 26 settembre, in seguito all’incarico di redigere l’edizione completa delle opere di Cicerone.
Non potevano, dunque, non arrivare anche all’ombra della Madonnina i festeggiamenti per i duecento anni dalla composizione del noto idillio leopardiano, che hanno avuto quest’anno il loro cuore pulsante nel borgo di Recanati, dove è attualmente in programma la rassegna fotografica «Paesaggio italiano. L’infinito tra incanto e sfregio», tesa a raccontare il rapporto dell’uomo con la natura.
Sede scelta per l’omaggio milanese è la Biblioteca Sormani, dove fino al prossimo 8 febbraio, vanno in scena una mostra e un ciclo di incontri, per la curatela di William Spaggiari, professore ordinario di Letteratura italiana dell’Università degli studi di Milano.
Grazie a questo evento sarà possibile ripercorrere, nello specifico, l’importanza del capoluogo lombardo nel percorso leopardiano e le considerazioni del poeta recanatese sulla società, sulla fisionomia e i caratteri del cittadino civilmente consapevole e sul vivere nella grande città, argomento, questo, al centro di carteggi con i familiari e gli amici e di pagine segrete del suo «Zibaldone».
Come è noto Giacomo Leopardi verso i vent’anni sente il bisogno di lasciare Recanati, il natio borgo «selvaggio», ormai vissuto come prigione, per poter frequentare gli ambienti culturali più prestigiosi del suo tempo.
Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Roma e Napoli accolgono il poeta e diventano scenario di importanti incontri nonché fonte di ispirazione della sua produzione letterario-filosofica.
L’impatto con la vita di città, tuttavia, si rivela per lo scrittore difficoltoso sia per i noti problemi di salute sia per il suo scarso spirito di adattamento, ma anche e soprattutto per il suo carattere schivo, incline alla solitudine e allo studio, insofferente nei confronti della vita di società.
Non semplice è anche il rapporto con la città lombarda. «Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, -scrive, infatti, il poeta in una lettera del 20 agosto 1825 a Carlo Antici- perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario».
Dell’allora capitale del Regno Lombardo-veneto Giacomo Leopardi non ama «l'aria, i cibi e le bevande», definiti -in una lettera del 24 agosto 1825 al padre Monaldo- «forse i peggiori del mondo». Ne disprezza la troppa venerazione, nei circoli culturali, per l’austero Vincenzo Monti, una delle figure egemoni del tempo. Ne avverte, soprattutto, la diffidenza nei suoi confronti, respira cioè -si legge in una lettera allo Stella del marzo 1826- «la disgrazia di essere profondamente disprezzato nella dotta e grassa Lombardia». Ma è ben consapevole che Milano è il posto ideale per realizzare il sogno di gloria letteraria tramite la stampa e la diffusione dei suoi scritti nei circuiti di alto livello culturale. E sarà, infatti, nella città lombarda che vedranno la luce molte delle sue opere: articoli, traduzioni, le «Operette morali», la doppia «Crestomazia», le «Rime» di Petrarca con ampio commento.
La rassegna nella Sala del Grechetto, di cui rimarrà documentazione in un bel catalogo di Silvana editoriale, permette di ammirare un importante corpus di documenti, alcuni rari e mai esposti prima, facenti parte del «Fondo leopardiano», all’interno del quale si trovano trascrizioni manoscritte, edizioni originali a stampa di opere del poeta recanatese e la saggistica più autorevole uscita nell’arco di due secoli.
Oltre a questi pezzi, Walter Spaggiari ha selezionato un ricco apparato documentale e iconografico: lettere autografe di Giacomo Leopardi all’editore Antonio Fortunato Stella, provenienti dalla Biblioteca nazionale Braidense, una lettera di Pietro Brighenti, corrispondente bolognese del poeta e confidente segreto della Polizia austriaca con il nome in codice di Luigi Morandini, di proprietà dall’Archivio di Stato di Milano, nonché dipinti e stampe che ritraggono luoghi, personaggi e momenti della Milano ottocentesca, di solito conservati alla Civica raccolta delle stampe «Achille Bertarelli» del Castello sforzesco, a Palazzo Morando, al Museo del Risorgimento e alla Casa del Manzoni.
Curiosa è, poi, la sezione espositiva curata dall’Associazione culturale Biblioteca Famiglia meneghina Società del Giardino, che propone una serie di traduzioni in milanese del celebre idillio al centro dell’omaggio.
«Giacomo Leopardi. Infinito incanto», questo il titolo del progetto, prevede, inoltre, un ciclo di sette incontri che analizzeranno vari aspetti della poetica dello scrittore recanatese. Patrizia Landi parlerà dello «Zibaldone» (22 novembre), Walter Spaggiari della luna (25 novembre), Angelo Colombo dei rapporti dello scrittore con Milano (2 dicembre). Sarà, poi, la volta di Anna Maria Salvadè con l’incontro «Solitudini leopardiane» (13 dicembre), di Christian Genetelli con «Leopardi e i giornali milanesi» (16 dicembre) e di Gianmarco Gaspari con «Leopardi e il carattere degli italiani» (23 gennaio). A chiudere il cartellone sarà, infine, un appuntamento sulle relazioni tra lo scrittore recanatese e Alessandro Manzoni, a cura di Angelo Stella (30 gennaio).
Un bell’omaggio, dunque, quello di Milano a Giacomo Leopardi, uno dei suoi ospiti illustri insieme con Stendhal, Byron, Shelley, Balzac, Listz e molti altri, che «ha illuminato del suo pensiero -raccontano gli organizzatori- l’ambiente vivace della “capitale morale” di primo Ottocento, pronta ad accogliere e a far propri i fermenti portati dal vento innovatore che spirava in Europa».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Anonimo, Giacomo Leopardi, 1898. Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli. Milano, Castello Sforzesco; [fig. 2] Johann Jakob Falkeisen, Piazza Duomo, 1835-1840. Acquatinta acquarellata a mano. Civiche raccolte storiche. Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento; [fig. 3] Salvatore Corvaya, Piazza della Scala avanti il 1857, 1920. Olio su tela. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 4] Anonimo, Velocifero, 1835 - 1840. Acquaforte e acquatinta colorata a mano. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 5] Giovanni Migliara, Ponte e trofeo di Porta Ticinese, metà XIX secolo. Acquerello su carta. Civiche Raccolte Storiche - Palazzo Morando
Informazioni utili
Giacomo Leopardi. Infinito Incanto. Biblioteca Sormani - Scalone d'onore, via Francesco Sforza, 7 - Milano. Orari: lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00, sabato, ore 9.00-12.30, chiuso domenica e festivi. Ingresso libero. Informazioni: Ufficio Conservazione e Valorizzazione Raccolte Storiche, tel. 0288463372, c.salagrechetto@comune.milano.it. Fino all'8 febbraio 2020
venerdì 15 novembre 2019
Man Ray e le sue donne: duecento scatti in mostra a Torino
È il 1924. Man Ray (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), artista di spicco prima della stagione dadaista e poi di quella surrealista, rimane sedotto da «La Grande Baigneuse di di Valpinçon», opera realizzata nel 1808 da Jean-Auguste-Dominique Ingres, oggi conservata al Louvre. Con quella tela in testa, mette in posa la sua modella Kiki de Montparnasse, nome d’arte della cantante e cabarettista Alice Prin, una delle figure più affascinanti della ruggente Parigi degli anni Venti. La veste con un grande turbante e trasforma, idealmente, la sua schiena nuda in uno strumento musicale, disegnandole sopra le due F che simboleggiano la viola e il violoncello. Poi scatta e quella fotografia, dall’elegante bianco e nero, finisce per diventare una delle immagini più iconiche del Novecento.
L’opera, intitolata «Le violon d'Ingres», è una delle duecento immagini che compongono il percorso espositivo della mostra «wo/MAN RAY», allestita fino al prossimo 19 gennaio a Torino, negli spazi di Camera – Centro italiano per la fotografia.
La rassegna, per la curatela di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, ripercorre il rapporto dell’artista con l’universo femminile, fonte di ispirazione primaria dell’intera sua poetica, proprio nella sua declinazione fotografica.
Tra le immagini selezionate, realizzate a partire dagli anni Venti fino alla morte dell’artista (avvenuta nel 1976), ci sono altre icone del Novecento come «Lacrime di vetro» del 1932, con il primo piano degli occhi di un’anonima ballerina di can-can bagnati da gocce rotondamente perfette, «Noire et Blanche» del 1926, con il volto di una donna dai capelli neri appoggiato sul tavolo, mentre con una mano sorregge una scultura africana dalle forme stilizzate, e la «Prière» (1930), con in primo piano le mani e il fondoschiena di Kiki de Montparnasse.
Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo chicche come il portfolio capolavoro «Electricitè» (1931) e il rarissimo «Les mannequins. Résurrection des mannequins» (1938), testimonianza unica di uno degli eventi cruciali della storia del Surrealismo e delle pratiche espositive del XX secolo, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi del 1938.
Appare evidente dalla mostra, resa possibile grazie alla collaborazione di istituzioni quali lo Csac di Parma e il Mast di Bologna (solo per fare due esempi), come Man Ray sia stato capace di reinventare non solo il linguaggio fotografico, ma anche la rappresentazione del corpo e del volto, i generi stessi del nudo e del ritratto.
Attraverso i suoi rayographs, le solarizzazioni, le doppie esposizioni, il corpo femminile è, infatti, stato sottoposto a una continua metamorfosi di forme e significati, divenendo di volta in volta forma astratta, oggetto di seduzione, memoria classica, ritratto realista, in una straordinaria -giocosa e raffinatissima– riflessione sul tempo e sui modi della rappresentazione, fotografica e non solo.
Assistenti, muse ispiratrici, compagne di vita e di avventure intellettuali, le donne protagoniste della mostra allestita a Torino sono figure centrali nella storia di quegli anni come Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse e Nusch Eluard, e artiste di straordinario talento come Lee Miller, Berenice Abbott e Dora Maar. Accanto a loro c’è anche Juliet Browner, l’inseparabile compagna di una vita, a cui Man Ray dedica lo strepitoso portfolio «The Fifty Faces of Juliet» (1943-1944), cinquanta immagini in bianco e nero, spesso ritoccate a mano con pastelli colorati o stampate con innovative tecniche fotografiche, in cui si assiste alla straordinaria trasformazione della donna in tante figure diverse, in un gioco di affetti e seduzioni, citazioni e provocazioni.
In mostra a Camera sfilano anche le istantanee di alcune di queste donne che sono state prima modelle e poi allieve dell’artista. È così possibile ammirare un corpus di opere, riferite in particolare agli anni Trenta e Quaranta, vale a dire quelli della loro più diretta frequentazione con l’ambiente dell’avanguardia dada e surrealista parigina. Ecco così gli splendidi ritratti dei protagonisti di quella stagione storica, tra cui Eugene Atget o James Joyce, scattati da Berenice Abbott tra il 1926 e il 1938 a Parigi e a New York, capitali dell’arte di avanguardia della prima metà del XX secolo. Dora Maar è, invece, presente in mostra con opere riconducibili a un linguaggio di street photography e di paesaggio come ben documenta l’opera «Gamin aux Chaussures Dépareillés» (1933). Mentre l’indagine sul corpo femminile è il fulcro del lavoro di Lee Miller, della quale sono esposti numerosi autoritratti e nudi di modelle e modelli che lavoravano con lei sia in ambito di ricerca che di fotografia di moda.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella proposta a Torino perché permette sia di vedere alcune immagini simbolo del Novecento sia di ricostruire una storia ancora poco conosciuta, quella dell’interesse dell’artista americano per i ritratti femminili. Un interesse che André Breton commentò con queste parole: «Solo da Man Ray potevamo attenderci la Ballata delle donne del tempo presente».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Man Ray, Violon d’Ingres (Kiki), 1924 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 2] Man Ray, Noire et blanche, 1926 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [Fig. 3] Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941/1943. Cm 39,5 x 34 x 2,7. Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 4] Man Ray, Electricité, 1931. Portfolio di 10 rayografie. Cm
Informazioni utili
«wo/MAN RAY». CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine, 18 – Torino. Orari: lunedì ore 11.00 – 19.00, martedì chiuso , mercoledì ore 11.00 – 19.00, giovedì ore 11.00 – 21.00, venerdì ore 11.00 – 19.00, sabato ore 11.00 – 19.00, domenica ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Ingresso: intero € 10,00, ridotto (fino a 26 anni, oltre 70 anni Soci Touring Club Italiano e associazioni aventi diritto) € 6,00, ingresso gratuito per bambini fino agli 11 anni. Informazioni utili: camera@camera.to. Sito internet: www.camera.to. Fino al 19 gennaio 2020.
L’opera, intitolata «Le violon d'Ingres», è una delle duecento immagini che compongono il percorso espositivo della mostra «wo/MAN RAY», allestita fino al prossimo 19 gennaio a Torino, negli spazi di Camera – Centro italiano per la fotografia.
La rassegna, per la curatela di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, ripercorre il rapporto dell’artista con l’universo femminile, fonte di ispirazione primaria dell’intera sua poetica, proprio nella sua declinazione fotografica.
Tra le immagini selezionate, realizzate a partire dagli anni Venti fino alla morte dell’artista (avvenuta nel 1976), ci sono altre icone del Novecento come «Lacrime di vetro» del 1932, con il primo piano degli occhi di un’anonima ballerina di can-can bagnati da gocce rotondamente perfette, «Noire et Blanche» del 1926, con il volto di una donna dai capelli neri appoggiato sul tavolo, mentre con una mano sorregge una scultura africana dalle forme stilizzate, e la «Prière» (1930), con in primo piano le mani e il fondoschiena di Kiki de Montparnasse.
Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo chicche come il portfolio capolavoro «Electricitè» (1931) e il rarissimo «Les mannequins. Résurrection des mannequins» (1938), testimonianza unica di uno degli eventi cruciali della storia del Surrealismo e delle pratiche espositive del XX secolo, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi del 1938.
Appare evidente dalla mostra, resa possibile grazie alla collaborazione di istituzioni quali lo Csac di Parma e il Mast di Bologna (solo per fare due esempi), come Man Ray sia stato capace di reinventare non solo il linguaggio fotografico, ma anche la rappresentazione del corpo e del volto, i generi stessi del nudo e del ritratto.
Attraverso i suoi rayographs, le solarizzazioni, le doppie esposizioni, il corpo femminile è, infatti, stato sottoposto a una continua metamorfosi di forme e significati, divenendo di volta in volta forma astratta, oggetto di seduzione, memoria classica, ritratto realista, in una straordinaria -giocosa e raffinatissima– riflessione sul tempo e sui modi della rappresentazione, fotografica e non solo.
Assistenti, muse ispiratrici, compagne di vita e di avventure intellettuali, le donne protagoniste della mostra allestita a Torino sono figure centrali nella storia di quegli anni come Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse e Nusch Eluard, e artiste di straordinario talento come Lee Miller, Berenice Abbott e Dora Maar. Accanto a loro c’è anche Juliet Browner, l’inseparabile compagna di una vita, a cui Man Ray dedica lo strepitoso portfolio «The Fifty Faces of Juliet» (1943-1944), cinquanta immagini in bianco e nero, spesso ritoccate a mano con pastelli colorati o stampate con innovative tecniche fotografiche, in cui si assiste alla straordinaria trasformazione della donna in tante figure diverse, in un gioco di affetti e seduzioni, citazioni e provocazioni.
In mostra a Camera sfilano anche le istantanee di alcune di queste donne che sono state prima modelle e poi allieve dell’artista. È così possibile ammirare un corpus di opere, riferite in particolare agli anni Trenta e Quaranta, vale a dire quelli della loro più diretta frequentazione con l’ambiente dell’avanguardia dada e surrealista parigina. Ecco così gli splendidi ritratti dei protagonisti di quella stagione storica, tra cui Eugene Atget o James Joyce, scattati da Berenice Abbott tra il 1926 e il 1938 a Parigi e a New York, capitali dell’arte di avanguardia della prima metà del XX secolo. Dora Maar è, invece, presente in mostra con opere riconducibili a un linguaggio di street photography e di paesaggio come ben documenta l’opera «Gamin aux Chaussures Dépareillés» (1933). Mentre l’indagine sul corpo femminile è il fulcro del lavoro di Lee Miller, della quale sono esposti numerosi autoritratti e nudi di modelle e modelli che lavoravano con lei sia in ambito di ricerca che di fotografia di moda.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella proposta a Torino perché permette sia di vedere alcune immagini simbolo del Novecento sia di ricostruire una storia ancora poco conosciuta, quella dell’interesse dell’artista americano per i ritratti femminili. Un interesse che André Breton commentò con queste parole: «Solo da Man Ray potevamo attenderci la Ballata delle donne del tempo presente».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Man Ray, Violon d’Ingres (Kiki), 1924 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 2] Man Ray, Noire et blanche, 1926 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [Fig. 3] Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941/1943. Cm 39,5 x 34 x 2,7. Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 4] Man Ray, Electricité, 1931. Portfolio di 10 rayografie. Cm
Informazioni utili
«wo/MAN RAY». CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine, 18 – Torino. Orari: lunedì ore 11.00 – 19.00, martedì chiuso , mercoledì ore 11.00 – 19.00, giovedì ore 11.00 – 21.00, venerdì ore 11.00 – 19.00, sabato ore 11.00 – 19.00, domenica ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Ingresso: intero € 10,00, ridotto (fino a 26 anni, oltre 70 anni Soci Touring Club Italiano e associazioni aventi diritto) € 6,00, ingresso gratuito per bambini fino agli 11 anni. Informazioni utili: camera@camera.to. Sito internet: www.camera.to. Fino al 19 gennaio 2020.
martedì 12 novembre 2019
«Pedigree», Rodrigo Hernández rilegge la storia del marchio Campari
Si respira il clima festoso e colorato del Messico alla Galleria Campari di Sesto San Giovanni. Lo spazio museale alle porte di Milano, centro di ricerca e produzione culturale nato nel 2010 in occasione dei centocinquant’anni dalla fondazione della nota azienda di beverage, ha da poco aperto le porte a una personale di Rodrigo Hernández (Città del Messico, 1983).
«Pedigree» -questo il titolo dell’esposizione, per la curatela di Ilaria Bonacossa- allinea otto sculture che l’artista sudamericano ha voluto mettere in dialogo con una speciale carta da parati optical realizzata in omaggio alla vicenda della famiglia Campari e alla sua storia imprenditoriale e creativa.
Si rinnova così il sodalizio tra il celebre marchio milanese e «Artissima», la fiera internazionale d’arte contemporanea di Torino, che dal 2017 ha dato vita al Campari Art Prize, riconoscimento riservato ad artisti under 35, selezionati in base alla «ricerca sul potere evocativo del racconto, sulla dimensione comunicativa e sulla capacità narrativa» della loro opera.
Rodrigo Hernández, presentato nell’ambito dell'edizione 2018 del prestigioso evento mercantile piemontese dalla galleria Madragoa di Lisbona, si è aggiudicato il riconoscimento dopo Sári Ember, vincitrice nel 2017, e prima di Julian Irlinger, premiata soto pochi giorni all'Oval del Lingotto.
A selezionare il lavoro dell'artista sudamericano è stata una giuria composta da Lorenzo Fusi, direttore di Piac - Fondation Prince Pierre di Monaco, da Abaseh Mirvali, direttrice e capo curatrice del Contemporary Art Museum Santa Barbara, e da Claire Tancons, co-curatrice della Sharjah Biennal 14.
Rodrigo Hernández -secondo la motivazione data per l'assegnazione del riconoscimento- «rivisita una storia e un'estetica che trae spunto dall'iconografia Meso-americana così come dal modernismo europeo e dalle avanguardie italiane, e li reinterpreta nuovamente puntando sugli elementi e le componenti più essenziali di questi linguaggi e tradizioni. In tal modo, crea un vocabolario nuovo e unico, ma allo stesso tempo ricorda le molte storie e i riferimenti da cui ha attinto».
Attraverso un vocabolario formale del tutto personale e unico, sospeso tra ironia e classicità, e per mezzo di installazioni, sculture e disegni, l’artista sudamericano ricorre per le sue opere a elementi tratti dall’iconografia antica, dalla storia dell’arte e dalla quotidianità.
Ispirato dall’ambiguità delle immagini, Rodrigo Hernández sviluppa i propri lavori lasciandosi guidare dall’immaginazione e dalle associazioni personali, legate spesso a suggestioni letterarie, come ad esempio i testi di Rovert Walser, Juan Rulfo e Patrick Modiano. Da quest’ultimo, in particolare da un suo scritto omonimo, prende le mosse il titolo «Pedigree» dato alla mostra: l’autore in questo volume parla di sé come «un cane che finge di avere un pedigree», stimolo accolto dall’artista per ragionare sull’importanza di un certificatore di qualità.
Rodrigo Hernández ha scelto di intrecciare il tono e la struttura di questa narrazione autobiografica con la sua lettura della storia di Campari. «Ispirato e affascinato dalla vita del fondatore Gaspare -ha raccontato l'artista, mi sono trovato a riflettere sul significato e le implicazioni che la creazione dell’identità di una marca potesse avere nell’Ottocento».
Fonte di ispirazione sono state le originali testimonianze d’arte e design custodite nel museo aziendale di Sesto San Giovanni.
L’artista ha, più precisamente, focalizzato la sua attenzione sull’ideazione e sulla registrazione di un pioneristico «logo» ottocentesco: uno stemma Campari, rappresentante uno scudo con la figura di due cani accoccolati e sormontato da un elmo con foglie ornamentali.
Da questo spunto sono nate le nuove sculture dell’artista, che uniscono elementi astratti e figurativi, come ad esempio cani, edifici, uomini e macchine, dando vita a figure totemiche apotropaiche dai colori vivaci che richiamano alla memoria lo stile di un altro grande artista che ha lavorato per Campari: Fortunato Depero.
La mostra, allestita al secondo piano del museo, offre anche l’occasione per scoprire o riscoprire la Galleria Campari, spazio dinamico, interattivo e multimediale, interamente dedicato al rapporto tra il noto marchio del bevarage e la sua comunicazione attraverso l’arte e il design, i cui spazi sono stati disegnati da Mario Botta tra i 2007 e il 2009.
Il museo di Sesto San Giovanni deve la propria forza all’unicità e alla ricchezza dell’Archivio storico, vero e proprio giacimento culturale trasversale, che raccoglie oltre tremila opere su carta, soprattutto affiche originali della Belle époque, ma anche manifesti e grafiche pubblicitarie dagli anni ‘30 agli anni ‘90, firmate da importanti artisti come Marcello Dudovich, Leonetto Cappiello, Fortunato Depero, Franz Marangolo, Guido Crepax e Ugo Nespolo. Negli spazi di viale Gramsci sono visibili anche caroselli e spot di noti registi come Federico Fellini e Singh Tarsem, ma anche oggetti firmati da affermati designer come Matteo Thun, Dodo Arslan, Markus Benesch e Matteo Ragni.
Le opere sono esposte sia in originale sia in versione multimediale, rielaborate da giovani Interaction Designer (Cogitanz) utilizzando modalità digitali quali un video-wall con quindici schermi dedicati ai caroselli dagli anni ‘50 agli anni ‘70, 8 proiettori in alta definizione che proiettano su una parete di trentadue metri manifesti d’epoca animati, video dedicati ad artisti, immagini tratte dai calendari Campari e spot pubblicitari dagli anni ‘80 a oggi. Infine, un tavolo interattivo con dodici schermi touch screen consente di fruire gran parte del vasto patrimonio artistico dell’azienda.
Quella di Campari si configura così come una storia fatta di brillanti intuizioni, di campagne pubblicitarie raffinate, di una strategia comunicativa all’avanguardia che ha vestito il prodotto di arte e design e ha saputo associarlo alla cultura e alla creatività italiane, traghettando il marchio verso il futuro. Un futuro di cui il Campari Art Prize è un piccolo, ma importante tassello.
Didascalie delle immagini
Installation views, Rodrigo Hernández, Pedigree, Galleria Campari, Ph Marco Curatolo
Informazioni utili
Rodrigo Hernández - Pedigree. HQs Gruppo Campari, Viale Gramsci, 161 - Sesto San Giovanni (Milano). Orari e biglietto: visite guidate gratuite su prenotazione dal martedì al venerdì, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00; ogni secondo sabato del mese, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00 |Aperture serali, alle ore 20.00, nelle giornate del 12 novembre e del 3 dicembre 2019. Opzione 1) Visita gratuita, su prenotazione. Opzione 2) Art&Mixology (per un pubblico maggiorenne): visita guidata condotta da uno storico dell'arte e da un bartender + cocktail experience. Su prenotazione fino a esaurimento posti, € 25,00 a persona. Informazioni e prenotazioni: galleria@campari.com, tel. 02.62251. Fino al 14 febbraio 2020.
«Pedigree» -questo il titolo dell’esposizione, per la curatela di Ilaria Bonacossa- allinea otto sculture che l’artista sudamericano ha voluto mettere in dialogo con una speciale carta da parati optical realizzata in omaggio alla vicenda della famiglia Campari e alla sua storia imprenditoriale e creativa.
Si rinnova così il sodalizio tra il celebre marchio milanese e «Artissima», la fiera internazionale d’arte contemporanea di Torino, che dal 2017 ha dato vita al Campari Art Prize, riconoscimento riservato ad artisti under 35, selezionati in base alla «ricerca sul potere evocativo del racconto, sulla dimensione comunicativa e sulla capacità narrativa» della loro opera.
Rodrigo Hernández, presentato nell’ambito dell'edizione 2018 del prestigioso evento mercantile piemontese dalla galleria Madragoa di Lisbona, si è aggiudicato il riconoscimento dopo Sári Ember, vincitrice nel 2017, e prima di Julian Irlinger, premiata soto pochi giorni all'Oval del Lingotto.
A selezionare il lavoro dell'artista sudamericano è stata una giuria composta da Lorenzo Fusi, direttore di Piac - Fondation Prince Pierre di Monaco, da Abaseh Mirvali, direttrice e capo curatrice del Contemporary Art Museum Santa Barbara, e da Claire Tancons, co-curatrice della Sharjah Biennal 14.
Rodrigo Hernández -secondo la motivazione data per l'assegnazione del riconoscimento- «rivisita una storia e un'estetica che trae spunto dall'iconografia Meso-americana così come dal modernismo europeo e dalle avanguardie italiane, e li reinterpreta nuovamente puntando sugli elementi e le componenti più essenziali di questi linguaggi e tradizioni. In tal modo, crea un vocabolario nuovo e unico, ma allo stesso tempo ricorda le molte storie e i riferimenti da cui ha attinto».
Attraverso un vocabolario formale del tutto personale e unico, sospeso tra ironia e classicità, e per mezzo di installazioni, sculture e disegni, l’artista sudamericano ricorre per le sue opere a elementi tratti dall’iconografia antica, dalla storia dell’arte e dalla quotidianità.
Ispirato dall’ambiguità delle immagini, Rodrigo Hernández sviluppa i propri lavori lasciandosi guidare dall’immaginazione e dalle associazioni personali, legate spesso a suggestioni letterarie, come ad esempio i testi di Rovert Walser, Juan Rulfo e Patrick Modiano. Da quest’ultimo, in particolare da un suo scritto omonimo, prende le mosse il titolo «Pedigree» dato alla mostra: l’autore in questo volume parla di sé come «un cane che finge di avere un pedigree», stimolo accolto dall’artista per ragionare sull’importanza di un certificatore di qualità.
Rodrigo Hernández ha scelto di intrecciare il tono e la struttura di questa narrazione autobiografica con la sua lettura della storia di Campari. «Ispirato e affascinato dalla vita del fondatore Gaspare -ha raccontato l'artista, mi sono trovato a riflettere sul significato e le implicazioni che la creazione dell’identità di una marca potesse avere nell’Ottocento».
Fonte di ispirazione sono state le originali testimonianze d’arte e design custodite nel museo aziendale di Sesto San Giovanni.
L’artista ha, più precisamente, focalizzato la sua attenzione sull’ideazione e sulla registrazione di un pioneristico «logo» ottocentesco: uno stemma Campari, rappresentante uno scudo con la figura di due cani accoccolati e sormontato da un elmo con foglie ornamentali.
Da questo spunto sono nate le nuove sculture dell’artista, che uniscono elementi astratti e figurativi, come ad esempio cani, edifici, uomini e macchine, dando vita a figure totemiche apotropaiche dai colori vivaci che richiamano alla memoria lo stile di un altro grande artista che ha lavorato per Campari: Fortunato Depero.
La mostra, allestita al secondo piano del museo, offre anche l’occasione per scoprire o riscoprire la Galleria Campari, spazio dinamico, interattivo e multimediale, interamente dedicato al rapporto tra il noto marchio del bevarage e la sua comunicazione attraverso l’arte e il design, i cui spazi sono stati disegnati da Mario Botta tra i 2007 e il 2009.
Il museo di Sesto San Giovanni deve la propria forza all’unicità e alla ricchezza dell’Archivio storico, vero e proprio giacimento culturale trasversale, che raccoglie oltre tremila opere su carta, soprattutto affiche originali della Belle époque, ma anche manifesti e grafiche pubblicitarie dagli anni ‘30 agli anni ‘90, firmate da importanti artisti come Marcello Dudovich, Leonetto Cappiello, Fortunato Depero, Franz Marangolo, Guido Crepax e Ugo Nespolo. Negli spazi di viale Gramsci sono visibili anche caroselli e spot di noti registi come Federico Fellini e Singh Tarsem, ma anche oggetti firmati da affermati designer come Matteo Thun, Dodo Arslan, Markus Benesch e Matteo Ragni.
Le opere sono esposte sia in originale sia in versione multimediale, rielaborate da giovani Interaction Designer (Cogitanz) utilizzando modalità digitali quali un video-wall con quindici schermi dedicati ai caroselli dagli anni ‘50 agli anni ‘70, 8 proiettori in alta definizione che proiettano su una parete di trentadue metri manifesti d’epoca animati, video dedicati ad artisti, immagini tratte dai calendari Campari e spot pubblicitari dagli anni ‘80 a oggi. Infine, un tavolo interattivo con dodici schermi touch screen consente di fruire gran parte del vasto patrimonio artistico dell’azienda.
Quella di Campari si configura così come una storia fatta di brillanti intuizioni, di campagne pubblicitarie raffinate, di una strategia comunicativa all’avanguardia che ha vestito il prodotto di arte e design e ha saputo associarlo alla cultura e alla creatività italiane, traghettando il marchio verso il futuro. Un futuro di cui il Campari Art Prize è un piccolo, ma importante tassello.
Didascalie delle immagini
Installation views, Rodrigo Hernández, Pedigree, Galleria Campari, Ph Marco Curatolo
Informazioni utili
Rodrigo Hernández - Pedigree. HQs Gruppo Campari, Viale Gramsci, 161 - Sesto San Giovanni (Milano). Orari e biglietto: visite guidate gratuite su prenotazione dal martedì al venerdì, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00; ogni secondo sabato del mese, alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30 e 17.00 |Aperture serali, alle ore 20.00, nelle giornate del 12 novembre e del 3 dicembre 2019. Opzione 1) Visita gratuita, su prenotazione. Opzione 2) Art&Mixology (per un pubblico maggiorenne): visita guidata condotta da uno storico dell'arte e da un bartender + cocktail experience. Su prenotazione fino a esaurimento posti, € 25,00 a persona. Informazioni e prenotazioni: galleria@campari.com, tel. 02.62251. Fino al 14 febbraio 2020.
lunedì 11 novembre 2019
«Luxardo e il cinema», a Roma trentadue «facce da film»
È stato il fotografo dei telefoni bianchi e del Ventennio fascista. Ha lasciato un’indimenticabile galleria di nudi dalla bellezza asciutta e suggestiva, con corpi maschili muscolosi e forme femminili dalle linee sinuose, capaci di evocare la grazia e l’armonia della scultura classica antica. Ha firmato campagne pubblicitarie innovative, ideando, tra l’altro, l’immagine della donnina Ferrania, sexy e ammiccante, sul modello delle pin-up americane. Ha messo in posa politici, nobili, scrittori, ma anche uomini e donne comuni. Ha prestato il suo sguardo iconico e metaforico agli anni d’oro del cinema italiano, quelli tra il 1930 e il 1960, regalandoci ritratti indimenticabili delle dive più importanti dell’epoca. Davanti al suo obiettivo, nello studio romano di via del Tritone 197 (e, dal 1944, in quello milanese di corso Vittorio Emanuele), sono passate star nostrane come Sophia Loren, Claudia Cardinale, Silvana Mangano, Lucia Bosè e Gina Lollobrigida. Stiamo parlando di Elio Luxardo (Sorocaba, 1º agosto 1908 – Milano, 27 novembre 1969), a cui la Casa del Cinema di Roma, spazio culturale gestito da Zetema e diretto da Giorgio Gosetti, dedica fino al prossimo 1° dicembre una mostra, per la curatela di Roberto Mutti, che racconta i rapporti dell'artista con la settima arte e con gli artisti di Cinecittà.
«Luxardo e il cinema», questo il titolo dell’esposizione, allinea nello specifico trentadue scatti, provenienti dalla Fondazione 3M, istituzione permanente di ricerca e formazione, proprietaria di uno storico archivio fotografico di circa centodiecimila immagini (lastre, cartoline fotografiche, negativi, stampe vintage e riproduzioni), provenienti dalla storica azienda fotografica italiana Ferrania e da una serie di donazioni e di acquisizioni avvenute nel tempo e recenti.
Sophia Loren, Claudia Cardinale, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Marisa Merlini e Gina Lollobrigida, ma anche Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Silvana Mangano, Sergio Tofano e Giorgio Albertazzi sono alcuni dei più noti protagonisti del cinema italiano, i cui ritratti sono visibili nella rassegna romana.
Elio Luxardo, nato da genitori di origini italiane in Brasile, si affermò inizialmente come atleta e come autore di documentari. Dal padre, fotografo di professione, imparò molto lavorando con i fratelli nello studio di famiglia. Nel 1932 si trasferì a Roma e si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia col sogno di diventare regista. Abbandonò, però, quasi subito la scuola per entrare nello studio del fotografo Sem Bosch e ne rilevò, poi, l’attività affermandosi rapidamente come ritrattista. Proprio in questa veste, il fotografo, che per anni ha immortalato anche le Miss Italia, è stato in particolar modo apprezzato dai divi di Cinecittà e dagli attori di teatro per la sua capacità di ricercare la bellezza nei volti e nei corpi, e di realizzare scatti mai ripetitivi.
Il fotografo, appassionato di cinema, aveva imparato sul set a utilizzare in maniera innovativa le luci per valorizzare i volti. Nei suoi scatti, rigorosamente in bianco e nero, emergono così le caratteristiche di ognuno dei soggetti raffigurati, di cui l’artista sottolinea l’ironia di uno sguardo e la forza seduttiva di un altro, le posture più classiche e quelle insolite. Le opere di Elio Luxardo trasmettono, inoltre, un senso di plasticità, grazie alla scelta delle riprese laterali, che vedono corpi e volti occupare lo spazio in diagonale.
Raffinatezza, eleganza e divismo sono, dunque, i protagonisti della mostra romana alla Casa del Cinema, che celebra una delle massime griffe fotografiche degli anni della Dolce Vita.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1]Marisa Merlini; [fig. 2] Gina Lollobrigida; [fig. 3] Silvana Mangano
Informazioni utili
Casa del cinema, Largo Marcello Mastroianni, 1 – Roma. Orari: lunedi – venerdì,ore16.00 – 20.00; sabato – Domenica, ore 10.00 – 13.00 / 16.00 – 20.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 060608. Sito internet: www.casadelcinema.it | www.060608.it. Fino al 1° dicembre 2019.
«Luxardo e il cinema», questo il titolo dell’esposizione, allinea nello specifico trentadue scatti, provenienti dalla Fondazione 3M, istituzione permanente di ricerca e formazione, proprietaria di uno storico archivio fotografico di circa centodiecimila immagini (lastre, cartoline fotografiche, negativi, stampe vintage e riproduzioni), provenienti dalla storica azienda fotografica italiana Ferrania e da una serie di donazioni e di acquisizioni avvenute nel tempo e recenti.
Sophia Loren, Claudia Cardinale, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Marisa Merlini e Gina Lollobrigida, ma anche Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Silvana Mangano, Sergio Tofano e Giorgio Albertazzi sono alcuni dei più noti protagonisti del cinema italiano, i cui ritratti sono visibili nella rassegna romana.
Elio Luxardo, nato da genitori di origini italiane in Brasile, si affermò inizialmente come atleta e come autore di documentari. Dal padre, fotografo di professione, imparò molto lavorando con i fratelli nello studio di famiglia. Nel 1932 si trasferì a Roma e si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia col sogno di diventare regista. Abbandonò, però, quasi subito la scuola per entrare nello studio del fotografo Sem Bosch e ne rilevò, poi, l’attività affermandosi rapidamente come ritrattista. Proprio in questa veste, il fotografo, che per anni ha immortalato anche le Miss Italia, è stato in particolar modo apprezzato dai divi di Cinecittà e dagli attori di teatro per la sua capacità di ricercare la bellezza nei volti e nei corpi, e di realizzare scatti mai ripetitivi.
Il fotografo, appassionato di cinema, aveva imparato sul set a utilizzare in maniera innovativa le luci per valorizzare i volti. Nei suoi scatti, rigorosamente in bianco e nero, emergono così le caratteristiche di ognuno dei soggetti raffigurati, di cui l’artista sottolinea l’ironia di uno sguardo e la forza seduttiva di un altro, le posture più classiche e quelle insolite. Le opere di Elio Luxardo trasmettono, inoltre, un senso di plasticità, grazie alla scelta delle riprese laterali, che vedono corpi e volti occupare lo spazio in diagonale.
Raffinatezza, eleganza e divismo sono, dunque, i protagonisti della mostra romana alla Casa del Cinema, che celebra una delle massime griffe fotografiche degli anni della Dolce Vita.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1]Marisa Merlini; [fig. 2] Gina Lollobrigida; [fig. 3] Silvana Mangano
Informazioni utili
Casa del cinema, Largo Marcello Mastroianni, 1 – Roma. Orari: lunedi – venerdì,ore16.00 – 20.00; sabato – Domenica, ore 10.00 – 13.00 / 16.00 – 20.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 060608. Sito internet: www.casadelcinema.it | www.060608.it. Fino al 1° dicembre 2019.
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