ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 17 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo, il «caso Moro» e il cinema

Sono passati quarantacinque anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), giurista e politico italiano tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, più volte ministro della Repubblica e presidente del Consiglio, passato alla storia quale fautore, nei suoi anni da segretario e presidente della Dc, di una «strategia dell’attenzione» nei confronti del Partito comunista - le cosiddette «convergenze parallele» -, per la quale è stato definito «l’uomo del compromesso storico».

L’«Affaire Moro» in breve

Ricostruzione dell'attentato di via Fani in
un frame del film «Piazza delle Cinque Lune»
di Renzo Martinell
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È il 16 marzo 1978 - giorno di presentazione di un nuovo Governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti – quando, intorno alle 9 del mattino, all’angolo fra via Stresa e via Fani, nel quartiere romano della Camilluccia, un commando delle Brigate rosse intercetta le due automobili, una Fiat 130 berlina blu e un’Alfetta bianca, che stanno portando Aldo Moro e i cinque uomini della sua scorta alla Camera dei deputati per il voto di fiducia al nuovo esecutivo.

Una 128 bianca, con targa diplomatica, frena davanti all'auto del presidente democristiano; un’altra blocca il veicolo della scorta. Aldo Moro e le sue guardie del corpo sono in trappola quando, da dietro le siepi, sbucano quattro uomini vestiti con uniformi dell'Alitalia. Il commando brigatista, composto da un numero ancora oggi imprecisato di persone, spara più di novanta colpi in poco meno di tre minuti. Quattro uomini della scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino – muoiono all’istante; il quinto, Francesco Zizzi, arriverà ferito all’ospedale e spirerà in tarda mattinata.
 
Un frame del film «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, 
con Gian Maria Volonté. Scena sul sequestro di via Fani 



Il presidente della Dc viene prelevato e sistemato su una Fiat 132 blu; la vettura parte verso via Trionfale, preceduta e seguita da altre due automobili con uomini del commando brigatista a bordo. Il politico pugliese viene rinchiuso in quella che le Br chiamano la «prigione del popolo» per essere processato.

Nove comunicati delle Br, due fotografie del prigioniero e una serie di lettere indirizzate da Aldo Moro ai familiari e ai colleghi di partito scandiscono i cinquantacinque giorni più bui della storia della Repubblica. Mentre in Parlamento il partito della fermezza e quello della trattativa si interrogano: pietas o polis? Ragione di Stato o salvataggio di un’esistenza umana?

Il 9 maggio 1978 il corpo senza vita del politico democristiano viene fatto trovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani, dietro Botteghe Oscure, sede del Partito comunista, e poco distante da piazza del Gesù, dove c'è il «quartier generale» della Democrazia cristiana.

Luigi Lo Cascio è il brigatista Mariano nel film 
«Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio

Dopo decenni di indagini, cinque processi e varie commissioni di inchiesta, quello che Leonardo Sciascia definì l'«affaire Moro» è ancora oggi uno dei casi più controversi della nostra storia recente. «Sulla vicenda – scrive l’attore Fabrizio Gifuni nel libretto «Con il vostro irridente silenzio» (Feltrinelli, Milano 2022) - è stato scritto un numero sterminato di pagine che continuano ad andare in stampa – impossibile per chiunque riassumerle -, cui si sommano infinite proliferazioni documentali: atti di processi, commissioni parlamentari, documenti riservati desecretati, in differenti momenti, nel corso degli ultimi decenni. (…) Un poderoso archivio storico, in continuo aggiornamento, oggi reperibile con maggior facilità rispetto al passato grazie alle nuove tecnologie e soprattutto alla rete».

Consultando l’elenco dei libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni di Oriolo Romano, nel Viterbese, si contano, infatti, oltre duemila volumi sulla vicenda e si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella. Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. 

Gian Maria Volontè interprete di Aldo Moro
Un frame del film «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, 
con Gian Maria Volonté

La storia del crudele «attacco al cuore dello Stato» e dei cinquantacinque giorni che ne seguirono, l’atto più violento degli «anni di piombo» (quella stagione tra il 1969 e il 1982 caratterizzata dall’eversione armata e dal terrorismo di matrice sia rossa che nera), ha animato non solo la saggistica e la narrativa, ma anche il grande schermo e le sale teatrali. Il racconto cinematografico del sequestro e dell’uccisione del leader democristiano prende avvio nel 1986 con «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, un film-cronaca ispirato al libro «I giorni dell’ira» di Robert Katz (Adnkronos, Roma 1982), che ripercorre cronologicamente, quasi minuto per minuto, l’intera vicenda del rapimento del politico democristiano. Il registra tratteggia la figura di un uomo solo, quasi un alter ego dello Stato, vittima di due schieramenti accecati dai loro miopi obiettivi: da un lato ci sono la Br con i loro ideali rivoluzionari; dall’altro i vertici Dc con una gestione spregiudicata del potere, che le fa anteporre le ragioni di Stato, o meglio la convenienza politica del momento, al diritto alla vita.

A vestire i panni dello statista democristiano nel film - accolto positivamente dalla critica, ma aspramente attaccato dalla politica – è Gian Maria Volonté, che per questa sua interpretazione, capace di rendere potentemente plastica la sofferenza di Aldo Moro dentro il «carcere del popolo», viene premiato con l’Orso d’argento al Festival di Berlino come migliore attore protagonista maschile.

Locandina del film «Todo Modo» di Elio Petri

L’interprete milanese si era già confrontato con la figura di Aldo Moro nel 1976 con «Todo modo» di Elio Petri, un film dal taglio profetico, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia (1974): una parodia, amara e realistica, della classe politico-dirigenziale che deteneva il potere in Italia dal secondo Dopoguerra, la Democrazia cristiana, colpevole di aver sacrificato l’adesione di facciata ai valori cattolici sull’altare della conquista e conservazione del potere con ogni mezzo necessario. Ne scaturisce il ritratto di un ceto politico immorale che, mentre il paese precipita in una misteriosa epidemia, si rifugia nell’eremo fortilizio di Zafer per un percorso di esercizi spirituali sul modello della pratica religiosa ideata da Sant'Ignazio di Loyola. Le meditazioni si alternano a incontri segreti di partito; tra continui litigi e violente accuse reciproche si sviluppa una catena di misteriosi delitti. Della carneficina è vittima anche il personaggio del presidente, denominato semplicemente M., figura apertamente ispirata al politico pugliese nella mimica facciale e corporale, nell’inflessione della voce, nella vena conciliatrice.

Un frame del film «Todo Modo» di Elio Petri

Il film, che presenta una caricatura eccessiva del politico democristiano, visto come una figura «evanescente» ed elusiva, simbolica maschera dello sfascio politico italiano, viene bandito dalle sale dopo nemmeno un mese dall’uscita e per lungo tempo non è più visibile. Ritorna fruibile dal pubblico nel 2015 in una versione restaurata in Dvd dalla Cineteca di Bologna, edita da Mustang e distribuita da CG Entertainment, grazie alla quale è anche possibile rivedere le splendide scenografie realizzate da Dante Ferretti e riascoltare le inquietanti e psicologiche musiche composte per l’occasione da Ennio Morricone.



Il cinema nel Memoriale di Aldo Moro

Locandina di «Forza Italia» di Roberto Faenza

La stessa sorte tocca a «Forza Italia» di Roberto Faenza, un film documentario sulla politica italiana del secondo Dopoguerra, uscito nelle sale nel gennaio del 1978, che offre un ritratto irriverente e spietato della Democrazia cristiana, dal viaggio di Alcide De Gasperi in America, nel 1947, fino al Congresso di Roma del 1976, chiusosi con la promessa, non mantenuta, di rinnovare il partito. Curiosamente, la pellicola, fatta ritirare dalle sale da Francesco Cossiga e ritornata fruibile nel 2016 grazie a Rizzoli, è citata dal politico pugliese, che ne fu anche involontario attore, nel suo Memoriale: «Kissinger, come dicevo innanzi, - scrive Aldo Moro - lo faceva con estremo semplicismo ed una certa dose di rozzezza. Ma la direttiva è quella, mettere fuori uomini vecchi e inutili, anche se possono avere delle benemerenze, e mandare avanti uomini nuovi. (..) Non è detto che tutti siano migliori: sono però nuovi e diversi e portano più modernità, più spregiudicatezza, più laicismo. Infatti il legame con la Chiesa è afflosciato. E per chi abbia visto «Forza Italia», fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l'altro all'On. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili».

2003: l’«Affaire Moro» diventa una spy story


Nel 2003, nel venticinquennale della morte dello statista pugliese, arrivano nelle sale cinematografiche addirittura due film dedicati al rapimento e alla morte di Aldo Moro. Si inizia con «Piazza delle Cinque Lune» di Renzo Martinelli, un giallo che sposa le teorie complottistiche per affrontare i tanti misteri che ancora circondano la vicenda. Protagonista della pellicola – interpretata da Donald Sutherland, Stefania Rocca e Giancarlo Giannini - è il giudice Rosario Saracini, che, nel suo ultimo giorno di lavoro prima della pensione, riceve un film in super 8 girato, in via Fani, la mattina del rapimento del politico democristiano. Le immagini sono state mandate da un colonnello del Sismi, che faceva parte dell’operazione Gladio, promossa dalla Cia, e che si proclama essere il passeggero della fantomatica Honda vista in via Fani appena prima del rapimento di Aldo Moro. La scoperta di questo dettaglio fa partire un'indagine ad alto rischio che arriva a mettere in luce le mille volte sospettate ingerenze dei servizi segreti e della P2 nella morte dello statista democristiano, pedina sacrificabile sulla scacchiera internazionale, intimorita dalla sua apertura nei confronti del Partito comunista.

Ricostruzione dell'attentato di via Fani in
un frame del film «Piazza delle Cinque Lune»
di Renzo Martinell
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«La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi»: un famoso aforisma di Solone chiude il film; mentre, sui titoli di coda, Luca Moro, il nipote di Aldo, suona alla chitarra la canzone «Maledetti voi (signori del potere)».

Marco Bellocchio e il «caso Moro»


Nello stesso anno sul grande schermo si proietta «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio, con Luigi Lo Cascio, Maya Sansa, Giulio Bosetti e Roberto Herlitzka (nei panni di Aldo Moro). Il film è presentato in concorso alla 60° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e, successivamente, vince numerosi David di Donatello e Nastri d’argento. La trama è liberamente ispirata al libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), scritto dalla brigatista Anna Laura Braghetti (intestataria dell’appartamento di via Montalcini, dove fu probabilmente detenuto il presidente della Dc), con la giornalista Paola Tavella.

Fabrizio Gifuni è Aldo Moro in «Esterno notte» di Marco Bellocchio

Attraverso un resoconto che mescola i fatti raccontati nel volume con documenti televisivi originali dell'epoca, viene rievocato il dramma umano del politico democristiano, ma viene anche narrato il dubbio di una delle brigatiste sulla rigidità ideologica dei suoi compagni (Germano Maccari, Prospero Gallinari e Mario Moretti, nel film rispettivamente Primo, Ernesto e Mariano). Si tratta di Chiara, una giovane donna chiamata a prendere parte al sequestro dello statista che, nel contempo, cerca di vivere un’esistenza «normale» fatta di lavoro, amici, quotidianità.

Fabrizio Gifuni è Aldo Moro in «Esterno notte» di Marco Bellocchio

Il regista piacentino, che adotta la prospettiva dei brigatisti per raccontare i cinquantacinque giorni del «caso Moro», restituisce le sfumature più emozionali che storiche della vicenda e mette lo spettatore di fronte a una suggestione poetica, un sogno che è una non verità dal punto di vista storico: alle fine della pellicola Aldo Moro appare libero, mentre, alle prime luci di una mattinata piovosa, cammina per le strade di una Roma indifferente. Ma, come sa bene Chiara, «l'immaginazione non ha mai salvato nessuno» e, nella realtà, Aldo Moro è morto. Sulle note dei Pink Floyd, prima dei titoli di coda, partono le immagini di repertorio dei funerali pubblici, quelli senza il feretro dello statista democristiano e con l’intera classe politica italiana che si inginocchia davanti al vuoto.

MArgherita Buj è la moglie di Aldo Moro
in «Esterno notte» 
di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio ritorna sul «caso Moro» con il recente «Esterno notte», presentato con successo al festival di Cannes nel 2022 e, recentemente, premiato con quattro David di Donatello per la regia, l’attore protagonista, il montaggio e il trucco. Una croce di rose e uno scudo di spine, moderna rivisitazione del simbolo della Democrazia cristiana, campeggiano sulla locandina di questa mini-serie in sei episodi, che è stato proiettata al cinema nel maggio 2022 e che la Rai ha trasmesso per la prima volta sul piccolo schermo nel novembre dello stesso anno.

Il rapimento e il sequestro di Aldo Moro vengono raccontati da più punti di vista: quello sin troppo consapevole dello statista pugliese (Fabrizio Gifuni), quello pieno di dubbi di papa Paolo VI (Toni Servillo), quello tragicamente lacerato di Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), quello fanatico di due brigatisti (Valerio Morucci e Adriana Faranda, interpretati da Gabriel Montesi e Daniela Marra) e quello riluttante di Eleonora Chiavarelli (Margherita Buy), una donna coraggiosa che, quasi da sola e inascoltata, prova a lottare per riavere il marito.


Il risultato è «un dramma shakespeariano», come ha scritto «Le Monde», che è un atto di accusa nei confronti di un certo tipo di potere, quello ipocrita e opportunista, ma che è anche il racconto di una parabola cristologica. In una delle scene più potenti del film, Aldo Moro è, infatti, visto come un uomo costretto a portare la croce sulle proprie spalle, mentre tutti i notabili della Dc, in preghiera, lo osservano sulle note del «Dies irae» di Giuseppe Verdi.


In un intreccio di verità e finzione, Marco Bellocchio non rinuncia, anche in questo suo progetto, al sogno di un finale diverso per i cinquantacinque giorni che colpirono il cuore dello Stato. L’inizio del film è, infatti, visionario. Aldo Moro è stato liberato dai brigatisti e si trova in un letto d’ospedale: al suo capezzale accorrono Francesco Cossiga, Giulio Andreotti e Benigno Zaccagnini. Una voce fuori campo, quella di Fabrizio Gifuni (che ha interpretato lo statista pugliese anche in «Romanzo di una strage» di Marco Tullio Giordana, sull’attentato di piazza Fontana a Milano), recita un passo delle sue lettere: «Alla luce dei recenti fatti, ogni mia futura carica, ogni mio incarico nel partito non sarà più possibile… Mi dimetto dalla Dc». La realtà, purtroppo, è un’altra: il corpo ritrovato il 9 maggio 1978 dentro il bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a Roma, è senza vita.

Maya Sansa è la brigatista Chiara in «Buongiorno, notte» 
di Marco Bellocchio

Sul piccolo schermo l’Aldo Moro di Michele Placido e Sergio Castellitto

Sul piccolo schermo lo statista democristiano è stato impersonato anche da Michele Placido e Sergio Castellitto. Il primo ha interpretato la fiction «Aldo Moro il presidente» di Salvatore Marcarelli e Francesco Piccolo, per la regia di Gianluca Maria Tavarelli, prodotta da Tao Due Film e andata in onda per la prima volta su Canale 5 nel maggio 2008, in occasione del trentennale della scomparsa del politico democristiano. La narrazione si apre con un excursus sull'escalation del terrorismo negli anni Settanta, partendo dai primi attentati delle Brigate rosse a Genova, Milano e Torino per arrivare al rapimento dell’armatore Pietro Costa, per il quale i brigatisti chiedono ben dieci miliardi di lire, cifra assai considerevole per quegli anni. Quei soldi serviranno per la «grande impresa»: il sequestro di un esponente di spicco della Dc. Quel bersaglio sarà Aldo Moro.

Michele Placido è Aldo Moro in «Aldo Moro, il presidente»

La lotta dello Stato contro il terrorismo e le battaglie sul «compromesso storico» fanno da filo conduttore alle due puntate, che si concludono con il dibattito, ancora aperto, sulla possibilità o meno di salvare il politico democristiano.

Dieci anni dopo, nel 2018, la Rai trasmette la pregevole fiction «Aldo Moro il professore», per la regia di Francesco Miccichè, con Sergio Castellitto nella parte del protagonista. Il docu-film, tratto dall’omonimo libro del giornalista Giorgio Balzoni (che fu allievo del politico pugliese), offre un inedito punto di vista sulla vicenda, quello di quattro studenti di Procedura penale alla facoltà di Scienze politiche dell’Università «La Sapienza» di Roma, tenuto proprio dallo statista democristiano.

Sergio Castellitto è Aldo Moro in«Aldo Moro, il professore»

Grazie a immagini di repertorio e interviste ai protagonisti di quella stagione politica, intrecciate alla voce degli studenti di Aldo Moro (Saverio Fortuna, Valter Mainetti, Fiammetta Rossi e Giuliana Duchini) e alla ricostruzione cinematografica del rapimento e della morte dello statista vista attraverso i loro occhi, si dà forma alla storia di un uomo pacato e di un qualificato interprete del diritto e soprattutto della Costituzione italiana, che egli stesso contribuì a scrivere, capace di instaurare un rapporto intimo e privato, fatto di dialogo e confronto, con i suoi allievi.

Il «caso Moro» ritornerà protagonista sul piccolo schermo, nel 2023, con il film «Tina Anselmi - Una vita per la democrazia», diretto da Luciano Manuzzi e con Sarah Felberbaum nel ruolo della politica di Castelfranco Veneto, partigiana a sedici anni, sindacalista in difesa delle operaie, prima donna ad aver ricoperto la carica di Ministro in Italia nel 1976 e presidente della Commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2. Aldo Moro (interpretato da Gaetano Aronica) è il primo, nella Democrazia cristiana, a credere nel valore della coraggiosa e leale Tina Anselmi. La donna vivrà con angoscia i tragici giorni del rapimento del suo mentore e il suo successivo assassinio per mano delle Brigate rosse.

Il «caso Moro» e le teorie complottistiche al cinema

Un frame di «Se sarà luce, sarà bellissimo» di Aurelio Grimaldi

Porta, invece, la data del 2003, l’anno del venticinquesimo anniversario della morte dello statista pugliese, la lavorazione del film «Se sarà luce, sarà bellissimo» di Aurelio Grimaldi, un corposo progetto, mai totalmente realizzato per problemi produttivi, uscito nel 2008 in Dvd. Il film, che si propone di raccontare «un’altra storia» e che sui titoli di coda vede la presenza di alcuni attivisti di sinistra, è politicamente scorretto, provocatoriamente fuori linea, aspro, disturbante e anti-statalista. «Nel realizzarlo - racconta l’autore - avevo due obiettivi: mostrare come la 'santificazione' di Aldo Moro abbia messo in ombra le responsabilità politiche sue e del suo partito, cosa che ho sempre vissuto come un'ingiustizia storica, e una forma di riverenza che ho sempre avuto verso chi è capace di morire per delle idee, chiarendo che a farlo davvero sono i magistrati, i poliziotti e i giornalisti che combattono contro la mafia, ma non una persona come Moro, che non è un martire perché non voleva morire».


Nel 2012 esce, invece, nelle sale «A risentirci più tardi», un documentario di Alex Infascelli che mette l’una di fronte all’altra le due fazioni che nel 1978 si contesero la vita di Aldo Moro: da un lato, l’ex brigatista Adriana Faranda, che abbandonò la lotta armata dopo l’uccisione del leader Dc, dall’altro, Francesco Cossiga, bersaglio di forti contestazioni negli anni Settanta per le misure particolarmente repressive da lui promosse in qualità di ministro dell’Interno.


Il «caso Moro» compare, inoltre, nel film L’anno del terrore» di John Frankenheimer (1991), storia di un giornalista americano che nella primavera del 1978 è a Roma per scrivere un libro sugli «anni di piombo», e ne «Il divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti)» di Paolo Sorrentino (2008). Il regista trasforma Aldo Moro in uno spettro vendicativo, sciolto pirandellianamente dalla maschera del potere. Il fantasma, interpretato da Paolo Graziosi, tormenta, perseguita e non lascia dormire il compagno di partito, che nella primavera del 1978 era presidente del Consiglio. Le sferzanti lettere uscite dal «carcere del popolo», quelle che gli «amici» democristiani consideravano scritte sotto dettatura, sono un macigno difficile da sopportare. Giulio Andreotti è perseguitato dalle parole a lui rivolte, così riassunte da Paolo Sorrentino: «Che cosa ricordare di lei? Non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera, non è questa una colpa. Che cosa ricordare di lei? Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti. Senza un momento di pietà umana. Che cosa ricordare di lei?».

Un frame del film «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, 
con Gian Maria Volonté. Scena sul sequestro di via Fani

Completa la carrellata dei film dedicati al sequestro e all’uccisione del politico democristiano il docu-film «Non è un caso, Moro» di Tommaso Minniti, uscito on-line nel 2021 e in cartellone per la serata del 23 maggio al teatro Caboto di Milano. Il progetto cinematografico trae ispirazione dai libri inchiesta di Paolo Cucchiarelli e si avvale delle musiche originali di Johannes Bickler. Lo statista pugliese viene visto come «una pietra d’inciampo di un tempo che doveva cambiare passo» (Aldo Moro stava cercando un dialogo con il Partito comunista negli anni della «guerra fredda», il periodo di tensione tra gli Usa e l'Unione sovietica intercorso tra il 1947 e il 1991).

«O tu cessi la tua linea politica oppure pagherai a caro prezzo per questo» è la non molto velata minaccia che Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, avrebbe fatto al politico democristiano, ai tempi ministro degli Esteri, il 25 settembre 1974, durante un viaggio negli Stati Uniti. Da questa informazione – riportata in una testimonianza giurata di Corrado Guerzoni in uno dei processi sul «caso Moro» - parte una ricostruzione inedita di ciò che avvenne in Italia nella primavera del 1978: «in via Fani – racconta Tommaso Minniti - c'era l'intelligence americana, lo Stato italiano seppe fin da subito il luogo della prigione e l'uccisione fu decisa proprio mentre il presidente stava per essere liberato».

Un frame del film «Todo Modo» di Elio Petri

La storia è completamente differente da quella che ci è stata raccontata dai protagonisti della vicenda e da svariati processi a dimostrazione di come il «caso Moro» sia ancora oggi – raccontava Marco Baliani in occasione del suo spettacolo «Corpo di Stato» del 1998 - «una materia pulsante e non dipanata dalla lontananza» temporale. I cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, con i coni d’ombra delle varie inchieste giudiziarie, hanno, infatti, finito per far romanzare la figura di Aldo Moro, ridotto a «un santino della Repubblica» e quasi privato del suo lascito umano e politico, di quel pensiero - complesso e attuale – che l’Università di Bologna sta cercando di far riscoprire grazie alla digitalizzazione di tutti gli scritti morotei sulla piattaforma https://aldomorodigitale.unibo.it. Un’occasione, questa, per confrontarsi con il Moro dalla fede granitica che riflette sull’impegno dei laici nella Chiesa, il Moro giurista contrario all’ergastolo punitivo, il Moro che, da ministro degli Esteri, anticipò, con la firma degli accordi di Helsinki (1975), la caduta del muro di Berlino, il Moro pacato politico della parola.


I principali interpreti di Aldo Moro al cinema e in televisione: Paolo Graziosi ne «Il divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti)» di Paolo Sorrentino; Fabrizio Gifuni in «Romanzo di una strage» di Marco Tullio Giordana; Gian Maria Volonté in «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, Roberto Herlitzka in «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio; Sergio Castellitto in «Aldo Moro il professore», con la regia di Francesco Miccichè; Michele Placido in «Aldo Moro il presidente» di Salvatore Marcarelli e Francesco Piccolo, Fabrizio Gifuni in «Esterno notte» di Marco Bellocchio  

Nell'immagine di copertinaDaniela Marra in un frame del film «Esterno notte» di Marco Bellocchio. Foto di Anna Camerlingo

Bibliografia e sitografia essenziale
Corrado Guerzoni, «Aldo Moro», Sellerio, Palermo 2008
Francesco Ventura, «Il cinema e il caso Moro» (prefazione di Maria Fida Moro), Le Mani, Recco (Genova) 2008
Armenia Balducci, Giuseppe Ferrara e Robert Katz, «Il Caso Moro» (intervista con Gian Maria Volonté e note di Eleonora Moro al trattamento cinematografico) Pironti, Napoli 1987
Marco Bellocchio, «Buongiorno, notte», Marsilio, Venezia Mestre 2003
Giancarlo Lombardi, «La passione secondo Marco Bellocchio. Gli ultimi giorni di Aldo Moro» in «Annali d’italianistica», 2007, n. 25, pp. 397-408 (anche su https://www.academia.edu/4843000)
Rosario Giovanni Scalia, «Il caso Moro e il cinema: l’elaborazione collettiva di una tragedia nazionale?» in «Luci e ombre» (rivista trimestrale), 2019, a. VII, n. 2, pp. 44-98 (anche su https://www.academia.edu/41387188)
Maurizio Zinni, «’Cattivo, peggiore, pessimo: democristiano!’. Aldo Moro e la Dc in ‘Todo modo’ di Elio Petri», in «Una vita, un Paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento», a cura di Renato Moro e Daniele Mezzana, Soveria Mannelli, Rubbettino, Catanzaro 2014, pp. 801-827 (anche su https://www.academia.edu/22436984)
Renzo Martinelli, «Piazza delle cinque lune. Il thriller del caso Moro», (sceneggiatura di Renzo Martinelli e Fabio Campus), Gremese, Roma 2003
Fabrizio Cilento, «Il caso Moro nei film di Gian Maria Volonté» in «Il caso Moro: memorie e narrazioni», a cura di Leonardo Casalino, Andrea Cedola, Ugo Perolino, Transeuropa, Massa 2016, pp. 163-180 (anche su https://www.academia.edu/14472028)
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022
Marco Baliani, «Corpo di stato. Il delitto Moro», Rizzoli, Milano 2003
Il sito del film «Non è un caso, Moro» (https://www.noneuncasomoro.com)


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martedì 9 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo: il «caso Moro», la letteratura e «Il dio disarmato» di Pomella

Sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), uomo politico tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, è stato scritto un numero consistente di libri, a partire dalle preziose edizioni critiche delle lettere e del Memoriale che lo statista pugliese, fautore del «compromesso storico» con il Pci di Enrico Berlinguer, redasse nei cinquantacinque giorni della sua prigionia (gli ultimi volumi sono stati pubblicati rispettivamente nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo).
 
Consultando l’elenco degli oltre duemila libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni, si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella, e liberamente ripreso anche da Marco Bellocchio nel film «Buongiorno, notte» (2003). Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. Tuttora, per esempio, non si sa chi fossero i due uomini sulla moto Honda presente in via Fani durante l’agguato e chi, il 18 aprile 1978, diffuse il falso comunicato n. 7 sull’avvenuta esecuzione del presidente della Dc.
 
In questa «montagna di carta ingiallita», per usare una suggestiva espressione di Ivan Carozzi sulla rivista «Esquire», ciò che resta dal punto di vista letterario, o meglio ciò che è stato scritto da narratori di professione, è ben poca cosa.
 
Nel settembre 1978, appena quattro mesi dopo il 9 maggio, il giorno del ritrovamento del corpo senza vita dello statista pugliese all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma (quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista), Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) dava alle stampe, per l’editore palermitano Sellerio, «L’affaire Moro», «una – scrisse Marco Belpoliti, nel 2002 - delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni».
 
Il testo, che nelle ultime edizioni è corredato dalla relazione di minoranza che lo scrittore siciliano firmò, da deputato radicale, al termine della prima Commissione parlamentare di inchiesta, è di difficile catalogazione. In bilico tra il pamphlet di invettiva pubblica e lo studio dei documenti allora a disposizione (il Memoriale dello statista democristiano fu ritrovato solo nel 1990 durante dei lavori di ristrutturazione nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano), «L’affaire Moro» offre uno sguardo profondo e deciso sull’Italia degli anni Settanta e sul lato oscuro della politica nostrana. Ma, soprattutto, racconta - attraverso continui rimandi letterari a Pier Paolo Pasolini, Luigi Pirandello e Jorge Louis Borges, ma non solo - la dimensione più antropica che politica di un prigioniero inerme, privato di ogni forma di autorità, tradito dalla classe politica del tempo, considerato «pazzo» dai suoi stessi «amici» e, secondo un copione che sembrava già scritto nelle ore successive al rapimento, condannato a morte.

La letteratura ha incontrato i cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia - «la più grande frattura emotiva, politica e sociale» dell’Italia repubblicana - anche in romanzi quali «Il tempo materiale» (minimum fax, Roma 2008) di Giorgio Vasta (Palermo, 1970), «Come imparare a essere niente. Moro, Pasolini, Lady D» (Guanda, Parma 2010) di Alessandro Banda (Bolzano, 1963), l’autobiografico «L’estate del ‘78» (Sellerio, Palermo 2018) di Roberto Alajmo (Palermo, 1959), «La seduta spiritica» (minimum fax, Roma 2021) di Antonio Iovane (Roma, 1974) e il fantascientifico «Ufo 78» (Einaudi, Torino 2022) del collettivo bolognese Wu Ming. La storia di ciò che avvenne in Italia tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 viene ripercorsa anche nel libro «55 giorni» (Il Mulino, Bologna 2018) dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini (Firenze, 1975), nel quale si ricostruisce il ritratto di un Paese che, mentre sui giornali abbondano editoriali e articoli sulla follia sanguinaria dei brigatisti, guarda «Portobello» in televisione, va al cinema per «Ecce bombo» di Nanni Moretti, canta con Raffaella Carrà «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Vive, seppur con sgomento, i suoi riti quotidiani.
 
Ci sono, poi, in questo elenco anche testi tratti da spettacoli teatrali come «Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa» (Rizzoli, Milano 2003) di Marco Baliani (Verbania, 1950), che rilegge la storia degli anni Settanta attraverso gli occhi di un ragazzo del tempo, e il recente «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro» (Feltrinelli, Milano 2022) di Fabrizio Gifuni (Roma, 1966).

In questo filone letterario si innesta «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022) di Andrea Pomella (Roma, 1973), uno dei tentativi più riusciti dal punto di vista narrativo. Lo scrittore romano focalizza la propria attenzione sui tre minuti che trasformano una tranquilla via del quartiere Trionfale di Roma nel palcoscenico di una storia che ancora oggi interroga la nostra coscienza, quelli tra le 9:02 e le 9:05 del 16 marzo 1978. 

Seguendo la lezione di Javier Cercas in «Anatomia di un istante» (Guanda, Parma 2009), Andrea Pomella riavvolge più volte il nastro, dilata il tempo e racconta il sequestro di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - da più punti di vista. «Il metodo – si legge nella quarta di copertina – «è quello del realismo traumatico, lo stesso che usava Andy Warhol nelle sue immagini seriali: mettere in scena e replicare per sfiorare la verità. Non la verità storica, ma quella più sfuggente della percezione individuale e collettiva». Ci sono così i tre minuti dei testimoni oculari, quelli degli uomini della scorta, quelli dei brigatisti, quelli di Aldo Moro e dei suoi familiari, quelli di Andrea Pomella, quelli di noi che leggiamo.
 
Sequestro di Aldo Moro. Via Fani, Roma. 16 marzo 1978.
Autore: AP Foto. Immagine di dominio pubblico
Grazie alle testimonianze dei familiari dello statista pugliese, lo scrittore romano prova anche a immaginare le otto ore di vita dello statista pugliese prima del sequestro, consegnandoci il ritratto intimo e privato di un uomo che, smessi i panni del politico, si occupa dell’amata moglie Noretta, del nipotino Luca e dei figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Prega e legge. Pensa e ricorda. Fa colazione e si sbarba. Medita sul destino, suo e degli altri, animato da una sorta di inquietudine che ha del profetico. In quelle otto ore Aldo Moro è «Il dio disarmato», non il politico noto per «l’abilità del tessitore e il talento dell’equilibrista», ma l’uomo privato che «depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità», perché – scrive ancora Andrea Pomella – per lo statista pugliese «la famiglia è da sempre il luogo in cui può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie» (p. 118). Fuori da quelle mura domestiche c’è un nuovo Governo a cui votare la fiducia, il primo monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Partito comunista. Fuori da quelle mura, sulla strada verso Montecitorio, Aldo Moro conosce la solitudine del potere e un «vento d’acciaio»: centoottanta secondi di «stridio di gomme sull’asfalto», «proiettili che fendono l’aria», violenza, sangue, paura e, infine, un silenzio irreale. «Siamo appena all’inizio – scrive Andrea Pomella (p. 198) – ed è già la fine». 

Bibliografia essenziale
Giovanni Bianconi, «16 marzo 1978», Economica Laterza, Roma 2021
Filippo Bona, «Gli eroi di Via Fani. I cinque agenti della scorta di Aldo Moro», Longanesi, Milano 2018
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2003
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà»,Rizzoli, Milano 1985
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982

giovedì 6 aprile 2023

Tra arte e letteratura, Elisabetta Rasy racconta Etty Hillesum

«Una cosa, tuttavia, è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all'odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile». Con il suo Diario e le sue Lettere, pubblicate in Italia da Adelphi dopo la prima metà degli anni Ottanta, Etty Hillesum, ebrea olandese scomparsa poco prima di compiere trent’anni nel campo di sterminio di Auschwitz, ha illuminato una delle pagine più buie della storia del Novecento – la Shoah -, diventando «un simbolo della Resistenza spirituale di fronte al Male».
La figura di questa giovane donna, alla tenace ricerca di Dio e alla costante scoperta del senso dell’esistenza umana, è al centro del nuovo libro, pubblicato nel gennaio di quest’anno, dalla giornalista e scrittrice Elisabetta Rasy: «Dio ci vuole felici – Etty Hillesum o della giovinezza».

Il volume, che inaugura la collana «Scrittrici /Scrittori» di HarperCollins, in cui narratori dei nostri giorni dialogano con l’opera e la vita di autori del passato, non è una biografia, ma il racconto di un incontro singolare, quello con le pagine di un libro che si imprimono in maniera indelebile dentro di noi, dando forma - scrive la stessa Elisabetta Rasy – ai nostri «pensieri non pensati, quelli che stanno acquattati in fondo all’anima senza riuscire a venire fuori». Etty Hillesum diventa così per la giornalista e scrittrice romana, premio Campiello nel 1997 con «Posillipo» e firma dell’inserto domenicale del quotidiano «Il Sole 24Ore», «una perfetta maestra della giovinezza», «una di quelle amiche» con cui, durante l’adolescenza, «si passano ore e ore a parlare in una comunione di sentimenti – vera o illusoria non importa – che nell’età adulta difficilmente ritorna».

Pagina dopo pagina, la storia di Etty Hillesum si intreccia con quella di Elisabetta Rasy da giovane, delineandone anche la sua passione per il mondo dei libri, in un gioco di rimandi e rispecchiamenti, riflessioni e ricordi, che ci fa incontrare molti altri personaggi del Novecento, alcuni dei quali - come Anna Frank, Primo Levi, Edith Stein e Simone Weil - sono finiti nel labirinto infernale della follia nazista.
Nel libro si "parla", poi, anche degli amori difficili di Katherine Mansfield e Edith Wharton, della scrittura diaristica di Virginia Woolf e Margherite Duras, di un personaggio di fantasia come la Micol Finzi-Contini di Giorgio Bassani e della pittrice berlinese Charlotte Salomon, altro talento perduto nella Shoah, che ci ha lasciato «Vita? o Teatro?», «un grande libro di parole e più di mille disegni a tempera in cui racconta la sua giovinezza e l’epoca feroce in cui l’ha vissuta».

Elisabetta Rasy, laureata in Storia dell’arte alla Sapienza di Roma, ci regala, inoltre, in queste pagine altri riferimenti al mondo dei colori e della creatività, raccontando brevemente al lettore le storie del pittore olandese Gabriël Metsu (1629–1667), noto per le sue immagini di interni domestici con figure femminili, e del maestro Gustave Courbet (1819 - 1877), che ha dato forma alla realtà che aveva davanti ai suoi occhi e ha firmato un dipinto controverso come «L’origine del mondo». Intense sono, poi, le due pagine dedicate al progetto «Archivi del cuore», un’immensa collezione di battiti cardiaci raccolta dal francese Christian Boltanski, padre di una ricerca artistica che ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria e del trascorrere del tempo inteso come ineluttabile passaggio tra la vita e la morte, ricostruendo, con un linguaggio al contempo potente e delicato, tracce di vita per fugare il timore dell’oblio.

Il Diario di Etty Hillesum, che va dal marzo 1941 all’ottobre 1942, e le Lettere, inviate da Amsterdam e dal campo di transito di Westerbork tra l’agosto 1941 e il 7 settembre 1943, diventano, dunque, un espediente letterario per dare voce a quei molti «frammenti di un discorso pronunciato per iscritto tanti anni prima, o in un posto lontano da noi», che «illuminano come un faro» la nostra vita, dando voce a ciò che di noi stessi non conosciamo. «Frammenti», brani letterari, diversi per ognuno di noi e per ogni stagione della nostra vita, ma sempre preziosi e suggestivi, da fissare come una bussola sul nostro taccuino. La storia di questa «ragazza dai capelli e dall’anima arruffata», che voleva essere «il cuore pulsante della baracca», emerge comunque con intensità da ogni pagina.

Prima della decisione che le cambierà per sempre la vita – «Voglio seguire il destino del mio popolo» -, Etty Hillesum è una giovane donna alle prese con gli studi in Giurisprudenza e in Lingue slave, i rapporti non idilliaci con la famiglia, il desiderio di emancipazione o meglio di «un modo diverso di stare al mondo», la lettura di autori amati come Rainer Maria Rilke, Sant’Agostino, Fëdor Dostoevskij, Aleksandr Sergeevič Puškin, Lev Tolstòj, Thomas Mann, ma anche della Bibbia e del Vangelo di Matteo. Corre, libera, in bicicletta per le strade di Amsterdam con il vento che le soffia tra i capelli. Va in «locali pieni di fumo e discussioni» a divertirsi con gli amici e ad ascoltare la musica di Franz Schubert. Sperimenta «i complicati arabeschi dell’amore», che la vedono avere una tormentata relazione con lo psicologo e chiromante Julius Spier, morto poco prima che la scure della Storia si abbattesse anche su di lui.

Etty Hillesum è, dunque, una ragazza che respira a pieni polmoni la vita ed è proprio per questo motivo che non può soccombere all’orrore nazista. «Odiare non è nel mio carattere», «l'odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia», «Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quell'unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe diritto di riversare il proprio odio si un popolo intero» scrive, nel suo Diario, con tutta la fermezza che le circostanze impongono. «Mentre – racconta Elisabetta Rasy con uno stile in bilico tra il romanzo e il saggio - tutto va in pezzi e lo spazio vitale si restringe come in un cubicoli strozzato - per gli ebrei neanche più le panchine per sostare un minuto: proibite; neanche i giardini o i boschi per respirare: proibiti; neanche i tram per spostarsi da una strada all'altra: proibiti» -, Etty Hillesum ne è sempre più convinta: «l'odio è una malattia dell'anima». Ecco, dunque, che la giovane olandese trova la strada per essere «fedele al suo sentire, al suo stile umano»: «non la fuga, non l’odio, ma l’amicizia, l’amore, la preghiera», un colloquio intimo, profondo e diretto con Dio. Un Dio che ha bisogno dell’uomo, delle sue azioni giuste e piene di coraggio, per incarnarsi nella storia. Ne è pienamente convinta Etty Hillesum quando nel suo Diario scrive, imprevedibilmente e indimenticabilmente: «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa. […] Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio».

Vedi anche

Informazioni utili
Elisabetta Rasy, «Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza», HarperCollins Italia, Milano 2023. In commercio dal: 17 gennaio 2023. Pagine: 160 pp., rilegato. EAN: 9791259851376

domenica 12 giugno 2022

#notizieinpillole, cronache d'arte della settimana dal 6 al 12 giugno 2022

Al Mao di Torino «La stagione delle gru», il nuovo allestimento della galleria giapponese
La gru è un uccello dalla forte valenza simbolica in Asia orientale e, per la sua bellezza e le sue movenze aggraziate, è considerato un generico emblema di buon augurio. Per la sua capacità di compiere lunghe migrazioni, che creano l’illusione di un perpetuo ritorno da luoghi lontani, in Cina le gru sono anche state associate agli immortali taoisti, per i quali, secondo l’iconografia tradizionale, costituiscono spesso il mezzo di trasporto prediletto. Queste messaggere delle divinità sono quindi, prima di tutto, una metafora di longevità.
In occasione di una delle periodiche rotazioni a scopo conservativo che interessano la galleria giapponese, il Mao di Torino espone, a partire da martedì 7 giugno, la raffinata coppia di paraventi «Gru (tsuru)» del XVII secolo: quindici gru di varie specie sono raffigurate in un ambiente palustre, avvolto in una nebbia dorata. Il baluginio e la luminosità dei paraventi, che quasi rischiarano la sala, sono dovuti al prezioso sfondo in foglia d’oro (kinpaku), riportato al suo antico splendore grazie a un restauro finanziato nel 2011 dall’associazione Amici della Fondazione Torino Musei. Lo stile naturalistico è caratterizzato dalla pienezza dei colori, da un'attenta ricerca di pose differenziate ed eleganti e dall’armonia dell’insieme.
Nella stessa sala sarà collocata un’altra coppia di paraventi a sei ante risalenti al XVII secolo che raffigurano una ricca composizione di crisantemi in fiore. Il soggetto è di origine cinese; richiama la stagione autunnale ed è simbolo della vita appartata del letterato lontano dagli incarichi ufficiali. In Giappone conobbe un grandissimo successo, tanto da essere adottato anche come stemma dalla famiglia imperiale: una corolla di crisantemo dorata a 16 petali, che evoca lo splendore del sole.
La rotazione conservativa prosegue al secondo piano della galleria giapponese con l’esposizione di otto kakemono, i delicati dipinti su rotolo verticale, e una selezione di lacche, tra cui emerge una scatola per la cerimonia del tè (chabako) con fondo rosso e fini tralci vegetali decorati con foglie e fiori in rilievo in ceramiche di vari colori, metalli dorati e madreperla. Lo stile evocato è chiamato «Haritsu», dal nome del poliedrico artista Ogawa Haritsu (1663-1747), apprezzato decoratore di lacche polimateriche, pittore e poeta di haiku.
Per maggiori informazioni: www.maotorino.it

Didascalie delle immagini: 1. Titolo: inro con uccello e ciliegio in fiore Oggetto: scatolina a cinque compartimenti Soggetto: decorazione di uccello su posatoio e ciliegio in fiore Cronologia specifica: 1750 ca. Dinastie: Edo (Tokugawa) Materia e Tecnica: Legno laccato; decorazione in oro, argento e pigmenti; 2. Titolo: chabako con rilievi vegetali Oggetto: scatola per cerimonia del tè Soggetto: decorazione vegetale in rilievo Cronologia specifica: 1800 ca. Dinastie: Edo (Tokugawa) Materia e Tecnica: Legno con laccatura rossastra superficiale; decorazione in oro e ceramica, madreperla, metalli, pigmenti

Forte dei Marmi: «un incontro inaspettato» a Villa Bertelli tra Catarsini e Treccani
L’arte rende possibile ciò che, forse, non è mai accaduto. A Forte dei Marmi, sul mare toscano, la pittura di Alfredo Catarsini incontra quella di Ernesto Treccani. Avviene a Villa Bertelli, dove fino al 31 luglio va in scena la mostra «Un incontro inaspettato. Catarsini e Treccani allo specchio», per la curatela di Rodolfo Bona.
Ventuno anni di differenza d’età e una generazione separavano i due artisti, la cui pittura è stata caratterizzata dal comune amore per uomini e cose in una concreta adesione ai fatti dell’esistenza. Il milanese era spesso lontano dal suo studio, intento in abituali soggiorni creativi che, negli anni Novanta, lo portarono a Macugnaga, Gropparello, Nizza e Forte dei Marmi, cittadina della Versilia tanto vicino a Viareggio, luogo dal quale Alfredo Catarsini esitava a staccarsi e al quale era quasi visceralmente legato.
Malgrado questa vicinanza tra le due località toscane, fino a oggi non è documentato un incontro tra i due artisti, accomunati, però, dall’amore per la Versilia e da alcune frequentazioni come quelle con Carlo Carrà, Raffaele De Grada e altri.
L’incontro virtuale tra Alfredo Catarsini e il maestro di Corrente avviene, questa estate, in Sala Treccani, dove sono custodite permanentemente sette opere dell’artista milanese, realizzate fra gli anni Settanta e Ottanta, che rappresentano soggetti dal naturalismo liricamente trasfigurato, caratterizzati da «forme espanse, – scrisse Raffaele De Grada - senza controllo lineare e tantomeno geometrico, che tuttavia creano contrasti e dissonanze che non suggeriscono piacevolezza informale ma sono il sintomo di un dramma che si sfoga nel colore». Qui, fino a fine luglio, saranno visibili anche otto lavori di Alfredo Catarsini che si riflettono, da una parete all’altra della sala, come in uno specchio, con quelli di Ernesto Treccani in un confronto ideale sulla forma e la sua strutturazione o destrutturazione, dove i protagonisti sono l’uomo, la natura e il colore.
In questo ultimo scorcio di primavera, l’artista viareggino è al centro anche di una mostra a Massa Carrara, a cura di Marilena Cheli Tomei, che, dal 10 al 18 giugno, presenta alla Biblioteca civica di piazza Mercurio diciassette opere (dipinti, disegni a china, bozzetti di affreschi) di epoche differenti, riunite sotto il titolo «I paesaggi dell’anima».
Per maggiori informazioni: www.fondazionecatarsini.com | www.villabertelli.it.

Alla Galleria Nuages «La Milano di Luciano Francesconi»
Rimarrà aperta fino al prossimo 25 giugno a Milano, negli spazi della Galleria Nuages, la mostra «La Milano di Luciano Francesconi (1934-2011)» (orari: 14-19, sabato 10-13 e 14-19; chiuso festivi e lunedì | ingresso libero), curata da Cristina Taverna e Margherita Zanoletti. L’esposizione presenta per la prima volta una selezione esclusiva di opere grafiche su carta, con cui il maestro vignettista spezzino, storica firma del «Corriere della Sera» e amico di Dino Buzzati, ritrae episodi, luoghi e personaggi della città di Milano, raccontando uno spaccato della storia recente della città.
Dopo la rassegna allestita alla Triennale di Milano nel 2014 e la retrospettiva del 2016 ai Musei civici di La Spezia, la mostra in via del Lauro segue un importante fil rouge del lavoro di Luciano Francesconi: Milano. La viabilità, il commercio, le aree verdi, episodi di cronaca e politica, la gestione amministrativa, l’ambiente sono solo alcuni dei temi che, con levità e arguzia, il vignettista ritrasse nei suoi disegni.
I materiali in mostra alla Galleria Nuages risalgono agli ultimi anni della carriera dell’artista. Si tratta di disegni a china su carta Fabriano: vignette in bianco e nero su semplici fogli A4. «Ciascun disegno – raccontano i curatori - è l’istantanea di un momento storico: un flashback essenziale che fa rituffare l’osservatore nel passato recente di Milano. È lo specchio di una visione delle cose e del mondo, è il racconto pulito e divertito di un occhio sensibile, capace di sintetizzare la complessità in pochi tratti grafici di immediato impatto comunicativo. Con leggerezza, umorismo e talvolta cinismo».
Per maggiori informazioni: tel. 02.72004482 | nuages@nuages.net | www.nuages.net.

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