Dalle linee sinuose degli abiti della Belle Époque a quelle scivolate e audaci dell'epoca Decò, dalla moda austera del periodo bellico alla rivoluzionaria minigonna degli anni Sessanta: racconta l’evoluzione dello stile italiano, nei primi decenni del Novecento, la mostra «Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960», ospitata fino al 4 novembre ad Arezzo, negli spazi della Basilica di San Francesco.
L’esposizione, per la curatela di Mariastella Margozzi e Laura Mancioli, allinea una ricca selezione di abiti d’epoca, accessori di moda, oggetti, dipinti, disegni, acquerelli e fotografie, che raccontano non solo la moda indossata in quegli anni, ma anche quella che si ammirava sulle riviste o che veniva rappresentata da artisti reporter come Ottorino Mancioli o da pittori come Fazi, Sobrero, Avenali, ritrattisti della «vita quotidiana».
A raccontare lo stile italiano nella rassegna sono anche oggetti che hanno segnato il Novecento come il grammofono, la radio, il telefono e la televisione.
Il ventesimo secolo ha visto cambiamenti incredibili in ogni campo e ha significato per tutte le classi sociali, ma soprattutto per quelle medio basse, una integrazione continua all'ambiente della vita, ai cambiamenti epocali delle modalità del lavoro, a quelli che inevitabilmente si registrano nei costumi, nelle abitudini, nelle mode e nei modi di rappresentarsi da parte della società a tutti i suoi livelli.
Le città si caratterizzano sempre più come luoghi della modernità, delle fabbriche che impiegano operai, degli alloggi collettivi nei palazzoni, delle ferrovie e della viabilità automobilistica. La vita è frenetica, i tempi dell’esistenza sono ritmati dagli orari di lavoro ancora troppo lunghi, la vita familiare risente moltissimo di questo cambiamento, soprattutto quando le donne lavorano e c'è ancora pochissimo a disposizione per organizzare la giornata dei bambini.
La moda, quella comune e di tutti i giorni, cambia per esigenze di praticità e molto del lavoro femminile ha come prodotto gli indumenti perché con la diffusione dei grandi magazzini destinati agli acquisti delle classi medie, nascono numerosi laboratori sartoriali, nei quali vengono confezionati a cottimo con taglie prestabilite i vari capi.
Non è una moda nel senso del lusso e dell'esclusività quella che si vuole raccontare ad Arezzo attraverso abiti, accessori, dipinti e fotografie; è il gusto condiviso dalla maggioranza delle persone, che non disdegnano di vestire e comportarsi come gli altri, anzi cercano di appartenere a un gruppo, a una categoria, omologandosi nella scelta dei capi d'abbigliamento, nell’arredo della casa, nei comportamenti sociali, nei modi di essere. È la moda della musica ascoltata al grammofono e dei balli sfrenati come il charleston, delle comunicazioni attraverso il telefono, delle trasmissioni della radio e poi della televisione.
Tutti gli oggetti che vengono presentati hanno accompagnato nei sei decenni in esame soprattutto la vita delle donne e hanno fatto parte del loro mondo: borsette e cappelli, abiti per ogni ora importante della giornata, accessori frivoli, ma anche oggetti essenziali per il loro tempo libero: ricami, letture, giochi. E ci sono anche quelli legati ai loro affetti: ai bambini e al loro piccolo universo di abiti e giochi; agli uomini, che pure si rappresentano con i loro cappelli e smoking, con i loro sport, descritti negli anni '30 da Ottorino Mancioli, artista attento a rappresentare la società a lui contemporanea anche nei divertimenti come il ballo o le chiacchiere in spiaggia, mentre Emilio Sobrero restituisce l’intimismo del ritratto degli anni ’30. Nei più problematici e difficili anni '40 la moda e i modi di differenti femminilità sono raccontate da Rolando Monti e da Marcello Avenali, capaci di leggere il profondo legame con il mondo che li circonda attraverso l'immagine di una casalinga o di una donna alla moda.
Le fotografie dell’album di famiglia dai ritratti in posa dei primi decenni del secolo, singoli o di gruppo, teatrini dell'apparire, sorta di biglietto da visita da lasciare come testimonianza di avvenimenti particolari e per essere ricordati, si arricchiscono negli anni ’50 e ’60 di immagini estemporanee, di pose spontanee, di espressioni non convenzionali. Sempre di memoria tuttavia si tratta, di quel senso del tempo, del qui e ora, che solo la fotografia può restituire, con quel suo essere immagine apparentemente immota, eppure generatrice della riappropriazione di un attimo, del recupero di un ricordo. E proprio perché i ricordi siano più reali, negli anni ’60 essi si affidano anche alla cinepresa, oggetto divenuto in quegli anni un must, come il suo uso è divenuto uno degli hobby più praticati dagli uomini.
La «vita come racconto» attraverso i ricordi è l’idea che percorre questa mostra; ogni oggetto evoca non solo momenti che un tempo sono stati personali, ne sottolinea oggi il comune sentire delle epoche, l’appartenenza di mode e modi a intere generazioni che in essi si sono identificate.
La rassegna è arricchita da una sezione speciale con tre abiti riproducono le vesti della Vergine nell’Annunciazione, della Regina di Saba nell’episodio dell’incontro con Re Salomone e di un’ancella nella scena dell’Adorazione del Sacro Legno, raffigurati negli affreschi di Piero della Francesca. Le opere, realizzate dagli studenti della sezione di Design della moda e del costume teatrale del Liceo artistico, coreutico e scientifico Internazionale «Piero della Francesca», annesso al Convitto nazionale «Vittorio Emanuele II» di Arezzo, consentono un suggestivo confronto tra le rappresentazioni pittoriche rinascimentali e le ricostruzioni, realizzate quasi 600 anni dopo, di quegli stessi abiti, tessuti, decorazioni e ornamenti.
Informazioni utili
«Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960».Basilica di San Francesco / Affreschi di Piero della Francesca, piazza S. Francesco – Arezzo. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9:00 alle ore 19:00, sabato dalle ore 9:00 alle ore 18:00 e la domenica dalle ore 13:00 alle ore 18:00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00, scuole gratuito. Informazioni: tel. 0575 352727. Sito internet: www.pierodellafrancesca-ticketoffice.it; www.munus.com. Fino al 4 novembre 2018.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
lunedì 11 giugno 2018
sabato 9 giugno 2018
La collezione Magnani-Rocca tra le pagine di un libro
È un punto fermo nel panorama dell'arte internazionale e una meta imprescindibile per chi non può fare a meno della bellezza. Stiamo parlando della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma, al cui interno sono ospitati capolavori di celeberrimi maestri antichi e contemporanei, testimoni della grande storia d’Europa.
Ora quella raffinata collezione ideata da Luigi Magnani come un Pantheon dell'arte prima per il godimento della propria anima poi per tutti, per sempre, rivive nelle pagine di un libro appena pubblicato per i tipi di Silvana editoriale.
Un dipinto da solo varrebbe il viaggio verso questa magica villa, immersa nel verde: è il grande quadro «La famiglia dell'infante don Luis» (1783-1784) di Francisco Goya, uno dei ritratti di corte più affascinanti di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer e Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra. La collezione ospita, poi, altre opere imperdibili del Carpaccio, del Ghirlandaio, di Rubens, dei Van Dyck, dei Tiepolo e di Füssli. Ma unici sono lavori come «Stimmate di San Francesco» di Gentile da Fabriano, opera rarissima, e l’indimenticabile «Sacra conversazione» di Tiziano (1513), col predominio della costruzione cromatica, tipicamente veneta, rispetto ai valori disegnativi. L’eccellenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura con «Tersicore» di Antonio Canova, due figure femminili di Lorenzo Bartolini e i più recenti Leoncillo e Manzù.
Il nucleo contemporaneo è dominato dalle cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani, che illustrano, al massimo livello qualitativo, tutta l’attività del grande artista bolognese. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti della maturità, intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani una «Danseuse» futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico e alcuni lavori di Renato Guttuso. Importantissimo è anche il «Sacco» di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, Cézanne è rappresentato da un olio con «Bagnanti» e da cinque acquarelli contraddistinti da un'incredibile trasparenza dei colori; splendide poi sono le opere di Renoir, Matisse, de Staël, Fautrier, Hartung, oltre a un incantevole Monet raffigurante un paesaggio marino della Normandia, emblematico della sperimentazione degli impressionisti sulle infinite variazioni dei colori sottoposti ai mutamenti della luce.
Si tratta di capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza.
Della capacità dell’arte di conchiudere significati assoluti Magnani era convinto, come pure del suo afflato metafisico; per questo, dopo un lungo soggiorno romano dedicato all’insegnamento, si era ritirato nella sua Villa di Mamiano di Traversetolo, in quiete operosissima, fra non molti amici e le amate opere d’arte, tutte scelte con lenta e infallibile cura. Resta fra esse, come fu per Magnani e come ora per noi tutti, la gioia silenziosa del vedere e del capire, del posare lo sguardo, così spesso affaticato da inezie quotidiane, su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984, a settantotto anni.
Il percorso della fondazione, ora presieduta da Giancarlo Forestieri, era stato avviato con l’istituzione da parte di Magnani nel 1977, nell’esplicito disegno di destinare i suoi tesori d’arte al godimento di tutti, nel ricordo dei propri genitori. Proseguì nel 1978 con il riconoscimento da parte dello Stato italiano e con l’apertura al pubblico della Villa divenuta sede museale nell’aprile 1990; venivano così definitivamente svelate le opere di una raccolta quasi leggendaria appartenuta a una delle più eclettiche personalità culturali del XX secolo: Magnani fu, infatti, scrittore, saggista, storico dell’arte, compositore, critico musicale e, con le sue ricerche e i suoi scritti su Beethoven, Proust, Stendhal e Morandi, seppe, come pochi, ricongiungere le ragioni del sentimento e quelle dell’intelletto.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nella trasformazione museale, quella che fu la Corte di Mamiano, conserva ancora il ricordo del raffinato studioso e collezionista che «amava spostare le opere per creare dialoghi inediti tra artisti e forme, luce e materia, spazio e idee».
A quarant’anni dall’istituzione e dal riconoscimento della fondazione viene pubblicato il volume «Fondazione Magnani-Rocca. La Villa dei Capolavori» (Silvana Editoriale), a cura di Stefano Roffi, direttore scientifico della fondazione stessa. Molte delle schede delle opere sono quelle elaborate dal giovanissimo Vittorio Sgarbi per Magnani nel 1984, altre derivano dall’edizione del catalogo generale del 2001.
Nel nuovo volume numerosi sono gli aggiornamenti per novità di studi, in particolare per il grande dipinto di Goya, e le aggiunte di schede di nuove opere, dallo stesso Goya a Matisse fino a Manzù. Finalmente la collezione di Luigi Magnani viene così presentata nella sua interezza. A dipinti, sculture e lavori grafici si uniscono arredi e oggetti, prevalentemente di gusto Impero, che Magnani volle come contesto ideale della propria raccolta. I testi introduttivi di storici dell’arte – quali Lucia Fornari Schianchi, Andrea Emiliani e lo stesso Vittorio Sgarbi - che hanno conosciuto e frequentato Magnani, possono evocarne la figura non solo attraverso le opere che ha raccolto ma anche attraverso ricordi di brani di vita; a questi contributi si affianca quello di Stefano Roffi, che ragiona sulla ricerca e sul lascito del fondatore. Insieme agli interventi di Carlo Mambriani sulla storia della dimora e del giardino, e di Mauro Carrera sulla preziosa biblioteca di Magnani, al racconto biografico, frutto di accurati studi d’archivio, e a un ricco apparato iconografico, si viene così a realizzare un vero e proprio libro della Fondazione Magnani-Rocca, che intende principalmente e doverosamente rendere onore alla grande impresa culturale e filantropica di Luigi Magnani.
Informazioni utili
www.magnanirocca.it
Ora quella raffinata collezione ideata da Luigi Magnani come un Pantheon dell'arte prima per il godimento della propria anima poi per tutti, per sempre, rivive nelle pagine di un libro appena pubblicato per i tipi di Silvana editoriale.
Un dipinto da solo varrebbe il viaggio verso questa magica villa, immersa nel verde: è il grande quadro «La famiglia dell'infante don Luis» (1783-1784) di Francisco Goya, uno dei ritratti di corte più affascinanti di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer e Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra. La collezione ospita, poi, altre opere imperdibili del Carpaccio, del Ghirlandaio, di Rubens, dei Van Dyck, dei Tiepolo e di Füssli. Ma unici sono lavori come «Stimmate di San Francesco» di Gentile da Fabriano, opera rarissima, e l’indimenticabile «Sacra conversazione» di Tiziano (1513), col predominio della costruzione cromatica, tipicamente veneta, rispetto ai valori disegnativi. L’eccellenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura con «Tersicore» di Antonio Canova, due figure femminili di Lorenzo Bartolini e i più recenti Leoncillo e Manzù.
Il nucleo contemporaneo è dominato dalle cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani, che illustrano, al massimo livello qualitativo, tutta l’attività del grande artista bolognese. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti della maturità, intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani una «Danseuse» futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico e alcuni lavori di Renato Guttuso. Importantissimo è anche il «Sacco» di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, Cézanne è rappresentato da un olio con «Bagnanti» e da cinque acquarelli contraddistinti da un'incredibile trasparenza dei colori; splendide poi sono le opere di Renoir, Matisse, de Staël, Fautrier, Hartung, oltre a un incantevole Monet raffigurante un paesaggio marino della Normandia, emblematico della sperimentazione degli impressionisti sulle infinite variazioni dei colori sottoposti ai mutamenti della luce.
Si tratta di capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza.
Della capacità dell’arte di conchiudere significati assoluti Magnani era convinto, come pure del suo afflato metafisico; per questo, dopo un lungo soggiorno romano dedicato all’insegnamento, si era ritirato nella sua Villa di Mamiano di Traversetolo, in quiete operosissima, fra non molti amici e le amate opere d’arte, tutte scelte con lenta e infallibile cura. Resta fra esse, come fu per Magnani e come ora per noi tutti, la gioia silenziosa del vedere e del capire, del posare lo sguardo, così spesso affaticato da inezie quotidiane, su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984, a settantotto anni.
Il percorso della fondazione, ora presieduta da Giancarlo Forestieri, era stato avviato con l’istituzione da parte di Magnani nel 1977, nell’esplicito disegno di destinare i suoi tesori d’arte al godimento di tutti, nel ricordo dei propri genitori. Proseguì nel 1978 con il riconoscimento da parte dello Stato italiano e con l’apertura al pubblico della Villa divenuta sede museale nell’aprile 1990; venivano così definitivamente svelate le opere di una raccolta quasi leggendaria appartenuta a una delle più eclettiche personalità culturali del XX secolo: Magnani fu, infatti, scrittore, saggista, storico dell’arte, compositore, critico musicale e, con le sue ricerche e i suoi scritti su Beethoven, Proust, Stendhal e Morandi, seppe, come pochi, ricongiungere le ragioni del sentimento e quelle dell’intelletto.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nella trasformazione museale, quella che fu la Corte di Mamiano, conserva ancora il ricordo del raffinato studioso e collezionista che «amava spostare le opere per creare dialoghi inediti tra artisti e forme, luce e materia, spazio e idee».
A quarant’anni dall’istituzione e dal riconoscimento della fondazione viene pubblicato il volume «Fondazione Magnani-Rocca. La Villa dei Capolavori» (Silvana Editoriale), a cura di Stefano Roffi, direttore scientifico della fondazione stessa. Molte delle schede delle opere sono quelle elaborate dal giovanissimo Vittorio Sgarbi per Magnani nel 1984, altre derivano dall’edizione del catalogo generale del 2001.
Nel nuovo volume numerosi sono gli aggiornamenti per novità di studi, in particolare per il grande dipinto di Goya, e le aggiunte di schede di nuove opere, dallo stesso Goya a Matisse fino a Manzù. Finalmente la collezione di Luigi Magnani viene così presentata nella sua interezza. A dipinti, sculture e lavori grafici si uniscono arredi e oggetti, prevalentemente di gusto Impero, che Magnani volle come contesto ideale della propria raccolta. I testi introduttivi di storici dell’arte – quali Lucia Fornari Schianchi, Andrea Emiliani e lo stesso Vittorio Sgarbi - che hanno conosciuto e frequentato Magnani, possono evocarne la figura non solo attraverso le opere che ha raccolto ma anche attraverso ricordi di brani di vita; a questi contributi si affianca quello di Stefano Roffi, che ragiona sulla ricerca e sul lascito del fondatore. Insieme agli interventi di Carlo Mambriani sulla storia della dimora e del giardino, e di Mauro Carrera sulla preziosa biblioteca di Magnani, al racconto biografico, frutto di accurati studi d’archivio, e a un ricco apparato iconografico, si viene così a realizzare un vero e proprio libro della Fondazione Magnani-Rocca, che intende principalmente e doverosamente rendere onore alla grande impresa culturale e filantropica di Luigi Magnani.
Informazioni utili
www.magnanirocca.it
giovedì 7 giugno 2018
Giorgio Morandi attraverso gli occhi di Giancarlo Fabbi
Leggere il lavoro di Giorgio Morandi attraverso pochi semplici oggetti, un pennello, un bulino, un tubetto di colore: è quanto fa Giancarlo Fabbi, autore modenese in mostra in questi giorni a Bologna, negli spazi di Casa Morandi, l’originale dimora del maestro, al cui interno è ricostruito il suo studio, con gli oggetti e i materiali che hanno accompagnato il suo percorso artistico.
L’esposizione, per la curatela di Massimo Recalcati, allinea dieci scatti dell’artista afferenti alla sua ricerca morandiana, iniziata nel 2014.
Giancarlo Fabbi -che ha mosso i suoi passi nel mondo della fotografia da autodidattica, all’inizio per passione e poi sempre più per necessità, facendone una vera e propria ragione di vita- si è concentrato su alcuni oggetti appartenuti a Giorgio Morandi, esposti in mostra insieme alle fotografie.
Nella sua ricerca l’artista evita volutamente di utilizzare le componenti più celebri delle composizioni morandiane come le bottiglie, le conchiglie, i fiori per offrire una visione asciutta ed essenziale degli elementi primari e più umili riferibili alla pittura e all’incisione.
La sua indagine fotografica, nella serie in mostra che sarà poi dedicata all’Istituzione Bologna Musei, viene condotta eccezionalmente a colori e in digitale, contrariamente agli altri suoi progetti tutti rigorosamente in bianco e nero, per i quali si avvale sempre dell’utilizzo dell’analogico e della luce naturale per dare realtà a quello che si fa.
Attraverso un ragionato processo di astrazione compiuto da Fabbi, scrive Massimo Recalcati, «l’ascesi che ispira la pittura di Morandi si trova riflessa perfettamente e con toni per nulla freddi o anaffettivi, ma al limite di un vero e proprio struggimento, in questo ciclo di fotografie. Antipsicologismo di fondo, soppressione dell’inessenziale, monachesimo formale, rigore geometrico, insistenza degli stessi oggetti. In queste fotografie suona e risuona forte il passo più vero di Morandi: accogliere il segreto della pittura, dipingere l’invisibile nel visibile, elevare il visibile alla dignità eterna dell’invisibile».
La serie di dieci fotografie -di cui rimarrà documentazione in un catalogo con testi di Lorenzo Balbi, Francesca Interlenghi e Massimo Recalcati, edito da NFC di Amedeo Bartolini & C. sas di Rimini- vuole, infatti, incoraggiare una meta-riflessione su alcuni aspetti fondamentali della pittura di Morandi: composizione e ricomposizione geometrica, insistenza su pochi temi, silenzio, solitudine, assenza di retorica e di qualsiasi narrazione.
La scelta del colore dello sfondo che fa da quinta alle composizioni di Fabbi, un bianco luminoso da cui emergono gli oggetti nella loro fisicità come forme che si allineano, si intersecano o campeggiano al centro della foto in un voluto isolamento estetico, mette in risalto l’atteggiamento con cui il fotografo modenese intende la pratica artistica: esperienza sulla luce e sull’ombra, ricerca quasi mistica dell’essenziale, riduzione estrema delle immagini, intese come frammenti di realtà capaci di custodire momenti di eterna poesia, proprio come la pittura di Morandi.
Informazioni utili
«Giancarlo Fabbi. Il silenzio della pittura». Casa Morandi, via Fondazza, 36 – Bologna. Orari: venerdì e sabato, ore 17.00 – 19.00; domenica, ore 11.00 – 13.00. Biglietti: ingresso libero. Informazioni: tel. 051.6496611. Sito web: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Fino al 1° luglio 2018.
L’esposizione, per la curatela di Massimo Recalcati, allinea dieci scatti dell’artista afferenti alla sua ricerca morandiana, iniziata nel 2014.
Giancarlo Fabbi -che ha mosso i suoi passi nel mondo della fotografia da autodidattica, all’inizio per passione e poi sempre più per necessità, facendone una vera e propria ragione di vita- si è concentrato su alcuni oggetti appartenuti a Giorgio Morandi, esposti in mostra insieme alle fotografie.
Nella sua ricerca l’artista evita volutamente di utilizzare le componenti più celebri delle composizioni morandiane come le bottiglie, le conchiglie, i fiori per offrire una visione asciutta ed essenziale degli elementi primari e più umili riferibili alla pittura e all’incisione.
La sua indagine fotografica, nella serie in mostra che sarà poi dedicata all’Istituzione Bologna Musei, viene condotta eccezionalmente a colori e in digitale, contrariamente agli altri suoi progetti tutti rigorosamente in bianco e nero, per i quali si avvale sempre dell’utilizzo dell’analogico e della luce naturale per dare realtà a quello che si fa.
Attraverso un ragionato processo di astrazione compiuto da Fabbi, scrive Massimo Recalcati, «l’ascesi che ispira la pittura di Morandi si trova riflessa perfettamente e con toni per nulla freddi o anaffettivi, ma al limite di un vero e proprio struggimento, in questo ciclo di fotografie. Antipsicologismo di fondo, soppressione dell’inessenziale, monachesimo formale, rigore geometrico, insistenza degli stessi oggetti. In queste fotografie suona e risuona forte il passo più vero di Morandi: accogliere il segreto della pittura, dipingere l’invisibile nel visibile, elevare il visibile alla dignità eterna dell’invisibile».
La serie di dieci fotografie -di cui rimarrà documentazione in un catalogo con testi di Lorenzo Balbi, Francesca Interlenghi e Massimo Recalcati, edito da NFC di Amedeo Bartolini & C. sas di Rimini- vuole, infatti, incoraggiare una meta-riflessione su alcuni aspetti fondamentali della pittura di Morandi: composizione e ricomposizione geometrica, insistenza su pochi temi, silenzio, solitudine, assenza di retorica e di qualsiasi narrazione.
La scelta del colore dello sfondo che fa da quinta alle composizioni di Fabbi, un bianco luminoso da cui emergono gli oggetti nella loro fisicità come forme che si allineano, si intersecano o campeggiano al centro della foto in un voluto isolamento estetico, mette in risalto l’atteggiamento con cui il fotografo modenese intende la pratica artistica: esperienza sulla luce e sull’ombra, ricerca quasi mistica dell’essenziale, riduzione estrema delle immagini, intese come frammenti di realtà capaci di custodire momenti di eterna poesia, proprio come la pittura di Morandi.
Informazioni utili
«Giancarlo Fabbi. Il silenzio della pittura». Casa Morandi, via Fondazza, 36 – Bologna. Orari: venerdì e sabato, ore 17.00 – 19.00; domenica, ore 11.00 – 13.00. Biglietti: ingresso libero. Informazioni: tel. 051.6496611. Sito web: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Fino al 1° luglio 2018.
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