Innamorati, giramondo e di successo. Stiamo parlando della coppia di pinguini Gus & Waldo, nata nel 2005 dalla matita di Massimo Fenati (Genova, 1944), architetto genovese trapiantato a Londra dal 1995, dove ha lavorato come pubblicitario per Nokia, Alessi e Cappellini e come designer negli studi di Jasper Morrison, Pentagram e David Chipperfield Architects, prima di dedicarsi al fumetto e all’animazione per ditte di produzione televisiva.
Con le loro oltre settantamila copie vendute con traduzioni in sei lingue (dal finlandese al tedesco), i due pinguini innamorati, che hanno conquistato anche i giornalisti di due importanti quotidiani britannici come «The Times» e «The Guardian», sono diventati, negli anni, dei veri e propri influencer, puntuali e graffianti, sui temi sempreverdi dell’amore e del sesso.
Gus & Waldo appaiono, infatti, come due perfetti esperti dell’argomento. Appartengono alla specie dei pinguini, una delle più fedeli nel mondo animale. Sono estremamente felici della loro vita insieme, iniziata con uno sguardo complice sulle scale di un centro commerciale. E sono disposti a tutto per riaccendere la scintilla del desiderio quando la quotidianità li mette a dura prova: fanno shopping insieme, vanno al ristorante, si scambiano regali griffati, viaggiano per il mondo e soprattutto accettano le diversità dei loro caratteri.
«Gus, quello col becco a punta, -raccontava nel 2011 Massimo Fenati a Raffaella Serini sulle pagine di «Vanity Fair»- è un maniaco del pulito, un po' nervosetto, legge romanzoni da seicento pagine e veste con stile. Waldo ha il becco arrotondato, un carattere più docile, è trasandato e incasinato. Divora riviste di gossip e ascolta musica pop».
I due teneri pinguini dal tratto morbido e leggero, diversi nei gusti e simili nella capacità di investire tempo ed energie sul loro legame, sono, dunque, una coppia fissa e inossidabile come tante altre e che siano etero o omosessuali poco importa perché -raccontava qualche anno fa, sempre a «Vanity Fair,» il fumettista genovese- «se Waldo si chiamasse Wanda e avesse lunghe ciglia da femme fatale, la loro storia non cambierebbe».
Ideati quasi per caso, quando da un piccolo scarabocchio su un post-it nasce in Massimo Fenati l’idea di realizzare un libro per festeggiare il primo anniversario con il compagno Walter, Gus & Waldo sono ora un vero e proprio brand, al centro di poster, magliette, libri di successo e anche cortometraggi animati, che hanno vinto premi al festival di animazione IRIS di Rio de Janeiro, al Queersicht Film Festival di Berna e al concorso Sub-It alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2009.
In Italia i due simpatici pinguini sono arrivati nel 2008, quando Tea ha pubblicato il volume «Il libro dell’amore di Gus & Waldo»; mentre le ultime strisce edite sono quelle di «Arte pinguina», un libro che ha visto la luce nel nostro Paese nel 2015. Si tratta di un omaggio, in chiave divertita e divertente, ai più grandi capolavori della nostra cultura visiva, simboli iconici di varie epoche, tutti conservati nell’immaginifico e inimitabile MoPa – Museum of Penguin Art.
Dalla Venere di Sandro Botticelli alle ballerine di Edgar Degas, dalla Gioconda di Leonardo da Vinci all’autoritratto di Vincent Van Gogh, senza tralasciare il Bacco di Caravaggio, Massimo Fenati non si dimentica proprio di nessuno nelle sue tavole. Dal 14 giugno al 31 ottobre i suoi lavori saranno in mostra a Milano, negli spazi del NYX Hotel Milan, albergo della catena Leonardo Hotels Group che si distingue per la sua attenzione alla street art e alla video art, con mostre curate, tra gli altri, da Iris Barak, curatrice della Dubi Shiff Art Collection di Tel Aviv.
L’esposizione di Massimo Fenati si avvale dell’organizzazione della galleria di arte diffusa Question Mark Milano di Daniele Decia e Stefania Sarri, che ha recentemente presentato le opere del fumettista genovese nella sua sede di via Briosi.
Le incursioni di Gus & Waldo nell’arte egizia e in quella bizantina, nelle tele del Rinascimento o in quelle degli impressionisti, nelle opere di contemporanei come Hopper e Magritte sono al tempo stesso pop, fumettistiche, poetiche e comunicano in modo leggero capitoli fondamentali della nostra cultura visiva.
Fa sorridere, per esempio, il pinguino impacchettato alla Christo e non intimorisce l’improbabile naufragio di Gus & Waldo su un gommone in mezzo al mare e con un piccolo ombrello a protezione degli schizzi d’acqua, timorosi per l’arrivo della grande onda di Katsushika Hokusai.
Diverte la rivisitazione del celebre «Pomeriggio alla Grande Jatte» di Georges Seurat, in cui tutti i personaggi sullo sfondo si tramutano in oche, pappagalli e struzzi. Stessa sorte tocca alle donne de «Le déjeuner sur l'herbe» di Édouard Manet, trasformate in due bianchi volatili, totalmente disinteressati alla conversazione tra i due pinguini in abiti ottocenteschi.
Ma le sorprese non finiscono qui. Lungo il percorso espositivo, Waldo finisce con il travestirsi da Monna Walda e da sposa dei Coniugi Arnolfini di Van Eyck. Gus sfoggia lunghi riccioli rossi come Venere botticelliana e diventa anche un’icona pop di Andy Warhol. Entrambi fluttuano nell’immaginifico universo segnico di Mirò in «Due innamorati che guardano alla luna».
Una bella occasione, dunque, quella proposta dal NYX Hotel Milan per ripassare la storia dell’arte con il sorriso sulle labbra e dire «ah ma questo l’ho già visto!».
Informazioni utili
Arte pinguina. Una mostra di Massimo Fenati. NYX Hotel Milan, piazza Quattro Novembre, 3 – Milano. Orari: 9.00 – 21.00. Ingresso libero. Inaugurazione: giovedì 13 giugno, ore 18.30, su invito. Catalogo: Tea edizioni (€ 13 - ISBN 8850241585). Dal 14 giugno al 31 ottobre 2019
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
martedì 4 giugno 2019
Jean François Migno a Bologna: una danza di colori al Museo civico medioevale
Passato e presente si incontrano quest’estate al Museo civico medioevale di Bologna. Palazzo Ghisilbardi, una delle espressioni più significanti del Rinascimento nel capoluogo emiliano, apre le porte alla mostra «La forza del colore», prima personale in Italia dell’artista francese Jean François Migno. L’esposizione, a cura di Graziano Campanini e Riccardo Betti, prosegue il percorso di indagine sulle dinamiche di interazione tra le opere e i reperti di epoca medievale appartenenti al patrimonio museale della città felsinea e le espressioni della creazione artistica attuale. Dopo le rassegne di Gianni del Bue (estate 2018) e Bruno Ruspanti (estate 2017), è, dunque, la volta di Jean François Migno (Chatou, 1955), artista dalla formazione eterogenea -con alle spalle studi all’École des Beaux Arts di Parigi e all’École du Louvre in architettura, disegno e serigrafia-, interessato all’uso dei colori primari sulla tela e debitore nei confronti delle teorie dell’Espressionismo astratto americano, dagli Action Painting di Jackson Pollock ai Color Field di Sam Francis, e dell’Informale.
Il nucleo principale della mostra si trova racchiuso nella sala del Lapidario per, poi, espandersi all’interno di altre sale del museo: la sette, dominata dall’austera statua di papa Bonifacio VIII in lastre di rame dorato, la quattro, con le arche monumentali dedicate ai Dottori dello Studio bolognese, e la tredici, nel piano interrato, con le lastre di arte funeraria.
L’intera vicenda dell’artista francese, contrassegnata da una continua sperimentazione su diversi mezzi e materiali che rifiuta una piena e concreta definizione della sostanza in favore di un’astrazione dall’aspetto figurativo, viene ripercorsa attraverso una selezione di circa quaranta lavori, comprensiva dei principali cicli della sua produzione, come «Palissade», realizzato negli anni Novanta, e il più recente «Passages» degli anni Duemila.
Questi lavori testimoniano una pratica della pittura vissuta come confronto totalizzante con la tela, un corpo a corpo frontale -fisico, emotivo, intellettuale- in cui il gesto esplora nuove possibilità formali ed espressive di materie e incontri coloristici in convulse partiture spaziali cadenzate da spazi bianchi. Sulle superfici delle tele si scontrano forze e segni da cui si generano grovigli di pasta pittorica che attestano un profondo processo di assimilazione e superamento di alcune delle esperienze figurative più intense del Novecento: l’Informale, l’Espressionismo Astratto d’oltreoceano e la poetica di Henri Matisse, dichiarata fonte di ispirazione di Jean François Migno per la sensuale fisicità del colore e la creazione di una «pittura volumetrica», una sorta di scultura sulla tela, secondo la definizione del co-curatore Riccardo Betti, in cui l’acrilico si unisce alla caseina.
Ed è attraverso l’elemento cromatico, lavorato fino alla perdita percettiva dei suoi confini e movimenti sulla superficie, che la materia si accumula in aggètti grumosi attuando una vocazione alla terza dimensione e alla occupazione dello spazio reale in una sorta di corrida, in un’intensa «danza del colore», insieme «rituale e primitiva», come ricorda Thomas Michael Gunther nel suo testo critico per il catalogo pubblicato dalla Tipografia Bagnoli di Pieve di Cento.
«Il risultato finale -raccontano al Museo civico medioevale- è un'armonia impossibile, imperfetta come la vita stessa che, anche al di là delle contraddizioni, tende verso l'essenziale. Un vibrante inno alla pittura di cui Migno è il gioioso celebrante».
Particolarmente interessante nel lavoro dell’artista è la serie «Portovenere», dedicata al piccolo borgo ligure a picco sul mare, un tempo abitato da soli pescatori e fonte d’ispirazione per grandi poeti come Eugenio Montale e George Byron. Migno riesce a rendere sulla tela la bellezza insita nel luogo, caratterizzato da un'abbagliante luce mediterranea e da mare cristallino in cui ai giorni sereni estivi, con il tranquillo sciabordio delle acque contro gli scogli, se ne alternano altri, in cui la violenza e l’irrequietezza della tempesta la fa da padrona.
«I suoni, i colori e i profumi -scrive, a tal proposito, Riccardo Betti in catalogo- si corrispondono e si confondono, diventando una sola cosa; così come i suoni, i colori e i profumi di Portovenere si fondono sulla superficie bianca dello spazio. Nascono quindi immagini non convenzionali, che non soddisfano appieno le nostre aspettative, il cui disordine però è in grado di attivare in noi percorsi autentici e inaspettati capaci di riportare la nostra mente agli strilli e alle grida dei gabbiani, ai vivaci colori delle case del litorale e ai nostalgici profumi del mare ligure».
Interessante è anche la riflessione scritta da Graziano Campanini per il catalogo, nella quale si va alla ricerca dei debiti di Migno nei confronti della grande arte del Novecento: «Personalmente -scrive il curatore-, i suoi lavori mi ricordano opere di Emilio Vedova, come «Premier Passage», «Apesanteur» del 1990, «Palissa-des» del 1993 o «Collage» del 2009, per le tracce diagonali che sa mettere nelle sue tele, ma anche un altro grande pittore italiano come Giuseppe Santomaso, per l’uso sapiente dei colori, vedi «Avant l’apesanteur» del 1990, «Collage» del 1996 oppure «Passages» del 2014. Altre opere, in cui sono presenti in preponderanza bianchi e neri, riportano immediatamente alla mente Alberto Burri, come «Palissades» del 1991 e del 1997 e «Cercle, Apesanteur» del 1990».
Una mostra, dunque, interessante quella del Museo civico medioevale di Bologna che porta il visitatore a tu per tu con il colore, strumento principe nella ricerca di Migno, tanto che sembra impossibile non pensare a una frase di Paul Klee guardando le sue opere: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jean François Migno, Grand rouge, 2016. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 130 x 194; [fig. 2] Jean François Migno, Senza titolo, 2017. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 3] Jean François Migno, Passages, 2015. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 4] Jean François Migno, Colonnes, 2014. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 114 x 193
Informazioni utili
Jean François Migno. La forza del colore. Museo civico medievale, via Manzoni, 4 – Bologna.Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso i lunedì feriali. Ingresso: intero € 6,00 | ridot-to € 3,00 | gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e il giovedì nelle ultime due ore di apertura del museo. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito web: www.museibologna.it/arteantica. Fino all’8 settembre 2019.
Il nucleo principale della mostra si trova racchiuso nella sala del Lapidario per, poi, espandersi all’interno di altre sale del museo: la sette, dominata dall’austera statua di papa Bonifacio VIII in lastre di rame dorato, la quattro, con le arche monumentali dedicate ai Dottori dello Studio bolognese, e la tredici, nel piano interrato, con le lastre di arte funeraria.
L’intera vicenda dell’artista francese, contrassegnata da una continua sperimentazione su diversi mezzi e materiali che rifiuta una piena e concreta definizione della sostanza in favore di un’astrazione dall’aspetto figurativo, viene ripercorsa attraverso una selezione di circa quaranta lavori, comprensiva dei principali cicli della sua produzione, come «Palissade», realizzato negli anni Novanta, e il più recente «Passages» degli anni Duemila.
Questi lavori testimoniano una pratica della pittura vissuta come confronto totalizzante con la tela, un corpo a corpo frontale -fisico, emotivo, intellettuale- in cui il gesto esplora nuove possibilità formali ed espressive di materie e incontri coloristici in convulse partiture spaziali cadenzate da spazi bianchi. Sulle superfici delle tele si scontrano forze e segni da cui si generano grovigli di pasta pittorica che attestano un profondo processo di assimilazione e superamento di alcune delle esperienze figurative più intense del Novecento: l’Informale, l’Espressionismo Astratto d’oltreoceano e la poetica di Henri Matisse, dichiarata fonte di ispirazione di Jean François Migno per la sensuale fisicità del colore e la creazione di una «pittura volumetrica», una sorta di scultura sulla tela, secondo la definizione del co-curatore Riccardo Betti, in cui l’acrilico si unisce alla caseina.
Ed è attraverso l’elemento cromatico, lavorato fino alla perdita percettiva dei suoi confini e movimenti sulla superficie, che la materia si accumula in aggètti grumosi attuando una vocazione alla terza dimensione e alla occupazione dello spazio reale in una sorta di corrida, in un’intensa «danza del colore», insieme «rituale e primitiva», come ricorda Thomas Michael Gunther nel suo testo critico per il catalogo pubblicato dalla Tipografia Bagnoli di Pieve di Cento.
«Il risultato finale -raccontano al Museo civico medioevale- è un'armonia impossibile, imperfetta come la vita stessa che, anche al di là delle contraddizioni, tende verso l'essenziale. Un vibrante inno alla pittura di cui Migno è il gioioso celebrante».
Particolarmente interessante nel lavoro dell’artista è la serie «Portovenere», dedicata al piccolo borgo ligure a picco sul mare, un tempo abitato da soli pescatori e fonte d’ispirazione per grandi poeti come Eugenio Montale e George Byron. Migno riesce a rendere sulla tela la bellezza insita nel luogo, caratterizzato da un'abbagliante luce mediterranea e da mare cristallino in cui ai giorni sereni estivi, con il tranquillo sciabordio delle acque contro gli scogli, se ne alternano altri, in cui la violenza e l’irrequietezza della tempesta la fa da padrona.
«I suoni, i colori e i profumi -scrive, a tal proposito, Riccardo Betti in catalogo- si corrispondono e si confondono, diventando una sola cosa; così come i suoni, i colori e i profumi di Portovenere si fondono sulla superficie bianca dello spazio. Nascono quindi immagini non convenzionali, che non soddisfano appieno le nostre aspettative, il cui disordine però è in grado di attivare in noi percorsi autentici e inaspettati capaci di riportare la nostra mente agli strilli e alle grida dei gabbiani, ai vivaci colori delle case del litorale e ai nostalgici profumi del mare ligure».
Interessante è anche la riflessione scritta da Graziano Campanini per il catalogo, nella quale si va alla ricerca dei debiti di Migno nei confronti della grande arte del Novecento: «Personalmente -scrive il curatore-, i suoi lavori mi ricordano opere di Emilio Vedova, come «Premier Passage», «Apesanteur» del 1990, «Palissa-des» del 1993 o «Collage» del 2009, per le tracce diagonali che sa mettere nelle sue tele, ma anche un altro grande pittore italiano come Giuseppe Santomaso, per l’uso sapiente dei colori, vedi «Avant l’apesanteur» del 1990, «Collage» del 1996 oppure «Passages» del 2014. Altre opere, in cui sono presenti in preponderanza bianchi e neri, riportano immediatamente alla mente Alberto Burri, come «Palissades» del 1991 e del 1997 e «Cercle, Apesanteur» del 1990».
Una mostra, dunque, interessante quella del Museo civico medioevale di Bologna che porta il visitatore a tu per tu con il colore, strumento principe nella ricerca di Migno, tanto che sembra impossibile non pensare a una frase di Paul Klee guardando le sue opere: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jean François Migno, Grand rouge, 2016. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 130 x 194; [fig. 2] Jean François Migno, Senza titolo, 2017. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 3] Jean François Migno, Passages, 2015. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 4] Jean François Migno, Colonnes, 2014. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 114 x 193
Informazioni utili
Jean François Migno. La forza del colore. Museo civico medievale, via Manzoni, 4 – Bologna.Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso i lunedì feriali. Ingresso: intero € 6,00 | ridot-to € 3,00 | gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e il giovedì nelle ultime due ore di apertura del museo. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito web: www.museibologna.it/arteantica. Fino all’8 settembre 2019.
martedì 21 maggio 2019
Da Merano a Fontanellato, otto labirinti da vedere
Il più leggendario è senz’altro quello di Cnosso, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal re Minosse, sull'isola di Creta, per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall'unione di sua moglie Pasifae con un toro.
L’ultimo nato in termini di tempo è quello ricreato da Milovan Farronato per il Padiglione Italia dell’attuale edizione della Biennale internazionale d’arte di Venezia, all’interno del quale si trovano le opere di Enrico David (Ancona, 1966), Liliana Moro (Milano, 1961) e della compianta Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017), scomparsa lo scorso anno.
Il labirinto è da sempre un luogo affascinante, carico di mistero e di simbologia, un viaggio del quale si conosce la meta, ma non la strada per raggiungerla.
Virail, la piattaforma che compara i diversi mezzi di trasporto per trovare la soluzione migliore per ogni esigenza, ha da poco proposto ai suoi utenti un percorso su e giù per l'Italia, nel quale perdersi e ritrovarsi, in mezzo alla natura, tra i dedali più belli del nostro Paese.
Il viaggio può partire da Kränzelhof, una delle cantine che puntellano l’area di Merano e che producono vini nella zona di Cermes, tra le montagne dell’Alto Adige.
La tenuta ha una storia antichissima, pare risalga addirittura al 1182, e oggi è famosa non solo per le bottiglie che vengono prodotte, ma anche per i suoi sette giardini. Uno di questi ospita un labirinto vinicolo, un’opera più unica che rara in Italia, realizzata con oltre dieci specie diverse di vitigni. Il percorso di 1500 metri fu voluto dal proprietario, il conte Franz Graf Pfeil, e, ogni anno, seguendo un tema specifico, viene decorato con opere d’arte diverse per arricchire la visita dei curiosi che vogliono perdersi e giocare tra le viti.
Rimanendo nel Nord-est merita una segnalazione il labirinto situato sull’isola di San Giorgio, a Venezia, raggiungibile in pochi minuti di vaporetto da piazza San Marco. Tra le mete più gettonate dagli amanti dell’arte, che in questi mesi potranno ammirare una bella retrospettiva di Alberto Burri alla Fondazione Cini e una raffinata personale di Sean Scully in Basilica, l'isola permette di avventurarsi, all'interno dell’antico convento, nel Labirinto Borges, costruito nel 2011 in omaggio allo scrittore argentino Jorge Luis Borges e alla sua opera «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Il percorso è creato con oltre tremila piante di bosco e si snoda per circa mille e centocinquanta metri, ma la vera sorpresa la si può scoprire solo guardando il dedalo dal campanile della chiesa di San Giorgio Maggiore: i sentieri, tra spirali e linee rette, danno vita ad innumerevoli parole e simboli da individuare, tra cui anche la parola Borges.
Rimanendo in provincia di Venezia un altro labirinto da visitare è quello di Stra, a Villa Pisani, una delle più famose residenze della Riviera del Brenta, punto di riferimento architettonico e artistico importante, ma anche meta perfetta anche per gli amanti dei giardini. Il suo dedalo in siepi di bosso, realizzato nel diciottesimo secolo come luogo di divertimento e corteggiamento, è un piccolo capolavoro: nella torretta centrale, ai tempi, una dama mascherata era solita aspettare il cavaliere alle prese con il complesso percorso, pronta per rivelarsi una volta raggiunta.
In Veneto ci sono altri tre labirinti da non perdere: due in provincia di Padova, uno nel Veronese. Quest'ultimo si trova a Valeggio sul Mincio, nel parco di Sigurtà, che dal 1978 ospita al suo interno specchi d’acqua, decine e decine di specie diverse di piante, un elegante castelletto, aree didattiche e un grande labirinto, composto da oltre mille e cinquecento piante di tasso che superano i due metri.
Ci sono voluti ben due anni per progettare questo dedalo e il doppio di tempo perché le piante raggiungessero l’altezza ottimale. La torretta al centro, meta finale di chiunque provi a risolvere il suo enigma, è ispirata a quella francese del parco Bois de Boulogne di Parigi: un dettaglio molto elegante che si sposa perfettamente con l’atmosfera del parco.
Nel Padovano merita, invece, una visita Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel cui giardino, ricco di alberi secolari da tutto il mondo, di fontane e di statue ospita c'è un grande labirinto in bosso: un dedalo quadrato che oggi è tra i più grandi realizzati nel XVII secolo e giunti fino a noi.
La maggior parte delle piante fu posizionata tra il 1664 e il 1669 e ha, quindi, oltre quattrocento anni: un dettaglio che rende l’esperienza ancora più autentica.
Il percorso, voluto dal cardinale San Gregorio Barbarigo, raggiunge in totale i 1500 metri e fu realizzato con un forte significato simbolico: il complesso cammino verso la perfezione e la salvezza.
I sei vicoli ciechi e il circolo vizioso rappresentano i vizi capitali e costringono i visitatori a tornare sui propri passi, una metafora che invita a riflettere sui propri errori per raggiungere la salvezza, ossia il centro del labirinto e il suo punto più alto.
Il giardino venne realizzato dalla famiglia Barbarigo come voto a Dio per sconfiggere la peste del 1631, l’epidemia che segnò anni molto difficili e dolorosi per Venezia.
Il labirinto, in particolare, intendeva trasmettere un messaggio positivo: la vita può essere complicata, ma tutto si risolve poiché c’è sempre una via d’uscita.
Dal 1929 il giardino è di proprietà della famiglia Pizzoni Ardemani, oggi giunti alla terza generazione, che come i proprietari precedenti si impegno ad essere custodi attenti e scrupolosi di questo luogo unico al mondo per varietà botanica e per la sua simbologia.
Sempre nel Padovano ci sono i labirinti del Castello di San Pelagio, nome con cui è conosciuta Villa Zaborra, al cui interno è conservato il Museo del volo, uno spazio espositivo dedicato alla storia dell’uomo e dell’aria, dai primi studi ai mezzi spaziali, passando per mongolfiere e personaggi che hanno compiuto imprese straordinarie.
La villa accoglie tre ben dedali, ognuno con un proprio tema: il Labirinto del Minotauro, di ispirazione mitologica, il Labirinto africano, arricchito con animali e maschere rituali, e il Labirinto del «Forse che sì forse che no», ispirato a un’opera di Gabriele D’Annunzio.
Nel Nord-ovest è, invece, immancabile una visita al dedalo del Castello di Masino a Caravino, una delle tante residenze aristocratiche del Piemonte. Un tempo dimora dei conti Valperga, l'affascinante edificio è oggi proprietà del Fai - Fondo ambiente italiano. Il suo dedalo si trova all’interno del parco e rappresenta il secondo labirinto botanico più grande della nostra penisola. È un percorso ricco di svolte e vicoli ciechi ricostruito secondo l’antico progetto settecentesco, quando il castello si trasformò da massiccia fortezza a elegante dimora nobile.
Chiede il percorso tra i labirinti italiani Fontanellato, in provincia di Parma, con il Labirinto della Masone, aperto ai visitatori nel 2015. Interamente realizzato con oltre duecentomila piante di bambù, l'intero percorso supera i tre chilometri e permette al pubblico di camminare affiancato da canne alte anche quindici metri. Quello voluto da Franco Maria Ricci non è, però, solo un dedalo nel quale vagare, ma anche un luogo dedicato all’arte e alla musica, agli eventi e agli incontri: un vero e proprio punto di riferimento culturale nel territorio.
Sono tante, dunque, le occasione che l’Italia offre per una giornata in mezzo alla natura, giocando a perdersi e a ritrovarsi cullati dalle suggestioni di un elemento come il labirinto di cui è in debito molta arte e letteratura.
Informazioni utili
[Fig. 1] Labirinto del Masone a Fontanellato, Parma; [fig. 2] Labirinto di Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia; [fig. 3] Labirinto di Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel Padovano; [fig. 4] Labirinto Borges all'Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Ph Agenzia Vision. Courtesy Fondazione Giorgio Cini; [figg. 5 e 6] Labirinto Sigurtà a Valeggio sul Mincio; [fig. 7] Labirinto della Kränzelhof in Alto Adige
L’ultimo nato in termini di tempo è quello ricreato da Milovan Farronato per il Padiglione Italia dell’attuale edizione della Biennale internazionale d’arte di Venezia, all’interno del quale si trovano le opere di Enrico David (Ancona, 1966), Liliana Moro (Milano, 1961) e della compianta Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017), scomparsa lo scorso anno.
Il labirinto è da sempre un luogo affascinante, carico di mistero e di simbologia, un viaggio del quale si conosce la meta, ma non la strada per raggiungerla.
Virail, la piattaforma che compara i diversi mezzi di trasporto per trovare la soluzione migliore per ogni esigenza, ha da poco proposto ai suoi utenti un percorso su e giù per l'Italia, nel quale perdersi e ritrovarsi, in mezzo alla natura, tra i dedali più belli del nostro Paese.
Il viaggio può partire da Kränzelhof, una delle cantine che puntellano l’area di Merano e che producono vini nella zona di Cermes, tra le montagne dell’Alto Adige.
La tenuta ha una storia antichissima, pare risalga addirittura al 1182, e oggi è famosa non solo per le bottiglie che vengono prodotte, ma anche per i suoi sette giardini. Uno di questi ospita un labirinto vinicolo, un’opera più unica che rara in Italia, realizzata con oltre dieci specie diverse di vitigni. Il percorso di 1500 metri fu voluto dal proprietario, il conte Franz Graf Pfeil, e, ogni anno, seguendo un tema specifico, viene decorato con opere d’arte diverse per arricchire la visita dei curiosi che vogliono perdersi e giocare tra le viti.
Rimanendo nel Nord-est merita una segnalazione il labirinto situato sull’isola di San Giorgio, a Venezia, raggiungibile in pochi minuti di vaporetto da piazza San Marco. Tra le mete più gettonate dagli amanti dell’arte, che in questi mesi potranno ammirare una bella retrospettiva di Alberto Burri alla Fondazione Cini e una raffinata personale di Sean Scully in Basilica, l'isola permette di avventurarsi, all'interno dell’antico convento, nel Labirinto Borges, costruito nel 2011 in omaggio allo scrittore argentino Jorge Luis Borges e alla sua opera «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Il percorso è creato con oltre tremila piante di bosco e si snoda per circa mille e centocinquanta metri, ma la vera sorpresa la si può scoprire solo guardando il dedalo dal campanile della chiesa di San Giorgio Maggiore: i sentieri, tra spirali e linee rette, danno vita ad innumerevoli parole e simboli da individuare, tra cui anche la parola Borges.
In Veneto ci sono altri tre labirinti da non perdere: due in provincia di Padova, uno nel Veronese. Quest'ultimo si trova a Valeggio sul Mincio, nel parco di Sigurtà, che dal 1978 ospita al suo interno specchi d’acqua, decine e decine di specie diverse di piante, un elegante castelletto, aree didattiche e un grande labirinto, composto da oltre mille e cinquecento piante di tasso che superano i due metri.
Ci sono voluti ben due anni per progettare questo dedalo e il doppio di tempo perché le piante raggiungessero l’altezza ottimale. La torretta al centro, meta finale di chiunque provi a risolvere il suo enigma, è ispirata a quella francese del parco Bois de Boulogne di Parigi: un dettaglio molto elegante che si sposa perfettamente con l’atmosfera del parco.
Nel Padovano merita, invece, una visita Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel cui giardino, ricco di alberi secolari da tutto il mondo, di fontane e di statue ospita c'è un grande labirinto in bosso: un dedalo quadrato che oggi è tra i più grandi realizzati nel XVII secolo e giunti fino a noi.
La maggior parte delle piante fu posizionata tra il 1664 e il 1669 e ha, quindi, oltre quattrocento anni: un dettaglio che rende l’esperienza ancora più autentica.
Il percorso, voluto dal cardinale San Gregorio Barbarigo, raggiunge in totale i 1500 metri e fu realizzato con un forte significato simbolico: il complesso cammino verso la perfezione e la salvezza.
I sei vicoli ciechi e il circolo vizioso rappresentano i vizi capitali e costringono i visitatori a tornare sui propri passi, una metafora che invita a riflettere sui propri errori per raggiungere la salvezza, ossia il centro del labirinto e il suo punto più alto.
Il giardino venne realizzato dalla famiglia Barbarigo come voto a Dio per sconfiggere la peste del 1631, l’epidemia che segnò anni molto difficili e dolorosi per Venezia.
Il labirinto, in particolare, intendeva trasmettere un messaggio positivo: la vita può essere complicata, ma tutto si risolve poiché c’è sempre una via d’uscita.
Dal 1929 il giardino è di proprietà della famiglia Pizzoni Ardemani, oggi giunti alla terza generazione, che come i proprietari precedenti si impegno ad essere custodi attenti e scrupolosi di questo luogo unico al mondo per varietà botanica e per la sua simbologia.
Sempre nel Padovano ci sono i labirinti del Castello di San Pelagio, nome con cui è conosciuta Villa Zaborra, al cui interno è conservato il Museo del volo, uno spazio espositivo dedicato alla storia dell’uomo e dell’aria, dai primi studi ai mezzi spaziali, passando per mongolfiere e personaggi che hanno compiuto imprese straordinarie.
La villa accoglie tre ben dedali, ognuno con un proprio tema: il Labirinto del Minotauro, di ispirazione mitologica, il Labirinto africano, arricchito con animali e maschere rituali, e il Labirinto del «Forse che sì forse che no», ispirato a un’opera di Gabriele D’Annunzio.
Nel Nord-ovest è, invece, immancabile una visita al dedalo del Castello di Masino a Caravino, una delle tante residenze aristocratiche del Piemonte. Un tempo dimora dei conti Valperga, l'affascinante edificio è oggi proprietà del Fai - Fondo ambiente italiano. Il suo dedalo si trova all’interno del parco e rappresenta il secondo labirinto botanico più grande della nostra penisola. È un percorso ricco di svolte e vicoli ciechi ricostruito secondo l’antico progetto settecentesco, quando il castello si trasformò da massiccia fortezza a elegante dimora nobile.
Chiede il percorso tra i labirinti italiani Fontanellato, in provincia di Parma, con il Labirinto della Masone, aperto ai visitatori nel 2015. Interamente realizzato con oltre duecentomila piante di bambù, l'intero percorso supera i tre chilometri e permette al pubblico di camminare affiancato da canne alte anche quindici metri. Quello voluto da Franco Maria Ricci non è, però, solo un dedalo nel quale vagare, ma anche un luogo dedicato all’arte e alla musica, agli eventi e agli incontri: un vero e proprio punto di riferimento culturale nel territorio.
Sono tante, dunque, le occasione che l’Italia offre per una giornata in mezzo alla natura, giocando a perdersi e a ritrovarsi cullati dalle suggestioni di un elemento come il labirinto di cui è in debito molta arte e letteratura.
Informazioni utili
[Fig. 1] Labirinto del Masone a Fontanellato, Parma; [fig. 2] Labirinto di Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia; [fig. 3] Labirinto di Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel Padovano; [fig. 4] Labirinto Borges all'Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Ph Agenzia Vision. Courtesy Fondazione Giorgio Cini; [figg. 5 e 6] Labirinto Sigurtà a Valeggio sul Mincio; [fig. 7] Labirinto della Kränzelhof in Alto Adige
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