ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 5 maggio 2022

#notizieinpillole, dall'open call «Spazio libero» al Premio Nittardi: AAA artisti e curatori cercansi

Premio Nittardi, alla ricerca di sei artisti per le etichette e le carte veline del Chianti classico «Vigna Doghessa»
C’è un luogo nel cuore del Chianti Classico in cui, da secoli, il vino incontra l’arte. È la tenuta Nittardi, proprietà, nel Rinascimento, di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, Michelangelo Buonarroti, che, leggendo le carte antiche, la acquistò nel 1549, durante i lavori alla Cappella Sistina, mentre progettava anche alcune migliorie alle mura della Repubblica fiorentina, per offrire il suo vino come «dono genuino» a papa Giulio II.
Dal 1981 questa azienda sulle colline al confine tra le province di Firenze e Siena, situata tra Castellina in Chianti e la Maremma toscana, è di proprietà della storica veneziana Stefania Canali e del marito Peter Femfert, gallerista tedesco (Die Galerie) con una passione per le proposte contemporanee più promettenti e sfaccettate.
La vocazione artistica è, dunque, nel Dna di questa fattoria, che conta quaranta ettari vitati e che dal 2013 è gestita dal figlio Léon Femfert. Lo dimostra lo straordinario parco di sculture contemporanee: un sentiero abitato da quarantacinque opere di grandi artisti internazionali come Miguel Berrocal, Horst Antes, Victor Roman, Raymond Waydelich, Friedensreich Hundertwasser. Lo provano gli artisti d’eccezione che ogni anno, fin dal 1981, creano due opere – un’etichetta e una carta seta d’autore - dedicate allo storico Chianti classico. Emilio Tadini, Valerio Adami, Igor Mitoraj, Mimmo Paladino, Yoko Ono, il pittore Pierre Alechinsky, unico esponente in vita del famoso Gruppo CoBrA, Dario Fo e Fabrizio Plessi sono solo alcuni degli artisti che hanno collaborato al progetto, vestendo con i loro colori e i loro disegni le bottiglie dell’esclusivo Chianti prodotto dalla «Vigna Doghessa».
Per festeggiare l’annata 2020, la quarantesima che racconta la lunga storia d’amore tra vino e arte nella tenuta Nittardi, la famiglia Canali-Femfert ha deciso di scegliere non un solo artista ma ben sei per realizzare l’etichetta (dimensioni 30 cm di altezza x 39 cm di larghezza o 40 cm x 52 cm o 50 cm x 65 cm) e la carta velina (dimensioni 40 cm di altezza x 57 cm di larghezza o 50 cm x 71 cm o 60 cm x 85 cm) che avvolge le bottiglie Chianti Classico «Vigna Doghessa» 2020. Per coinvolgere anche i più giovani è stato così indetto il Premio Nittardi.
Gli interessati potranno presentare le proprie proposte entro il 3 luglio. Il motivo e la tecnica artistica (olio o acrilico su tela, pastello, gouache, collage, matita colorata o acquerello su cartone, fotografia o altre tecniche) sono a libera scelta dell'artista. I vincitori verranno premiati con una settimana di soggiorno per due persone durante l’autunno 2022 e con ventiquattro bottiglie di Chianti classico. Le loro opere d'arte saranno esposte, insieme a tutte le etichette e le veline delle 39 annate precedenti, il prossimo autunno a Firenze e nel 2023 alla Die Galerie di Francoforte (Germania).
Maggiori informazioni sono reperibili sul sito www.nittardi.com

Venezia, da Ca’ Select una open call per artisti e visual designer under 35
Era il 1920 quando i giovani Fratelli Pilla, grazie alla loro esperienza liquoristica, davano vita a Venezia, nel sestiere di Castello, al Select. Cento anni dopo l’azienda e il suo inconfondibile aperitivo ritornano nella città lagunare e, dal prossimo autunno, avranno una nuova sede nel sestiere di Cannaregio.
Il progetto di Ca’ Select, firmato dallo studio Marcante-Testa, prevede il recupero di un antico fabbricato industriale che, oltre ad ospitare il cuore del processo produttivo dell’aperitivo veneziano, sarà uno spazio esperienziale aperto alla città, con un’area degustazione, un’area eventi per iniziative sociali e culturali e un’area espositiva che racconterà in maniera multimediale e interattiva la storia di Select, così profondamente intrecciata a quella di Venezia.
Per l’occasione è stato lanciato un contest rivolto ad artisti e visual designer under 35 per la realizzazione di un’opera site specific, della larghezza di circa cinque metri, che reinterpreti l’immaginario e della tradizione veneziana attraverso il linguaggio della grafica. L’ intervento artistico sarà posizionato su una parete dell’area Bar&Mixology di Ca’ Select e vi rimarrà in esposizione per dodici mesi a partire dall’inaugurazione dello spazio.
Per aderire alla open call, le cui iscrizioni rimarranno aperte fino al 29 maggio, ogni partecipante dovrà prima di tutto motivare la propria personale connessione con la città di Venezia per esperienza diretta o per affinità ideale. 
I candidati saranno, poi, liberi di interpretare gli elementi della tradizione veneziana creando un’opera con una «connotazione grafica» nelle forme. Per la sua realizzazione, l’artista potrà scegliere tecniche diverse fra loro come pittura, collage, tessuto, wallpaper o poster, lavorando sull’astrazione o sulla figurazione. 
Al vincitore verrà, infine, richiesto di consegnare a Select una linear version dell’opera come testimonianza dell’intervento artistico realizzato nello spazio.
Le proposte artistiche saranno valutate da Aurora Fonda, curatrice del progetto e fondatrice della School for Curatorial Studies Venice, e da Federica Sala, curatrice e design advisor
Il bando è scaricabile dal sito www.caselectarte.it.

Ritorna la Nomadic School in alpeggio, aperta la open call di Oht – Office for a Human Theatre
Negli anni Sessanta l’architetto Cedric Price e la regista teatrale Joan Littlewood davano vita al progetto «Fun Palace» con l’intento di realizzare un’Università della strada, un laboratorio del divertimento. A questa esperienza guarda Oht [Office for a Human Theatre], studio di ricerca del regista teatrale e curatore Filippo Andreatta. Nasce così «Little Fun Palace», una piccola roulotte che si trasforma in luogo effimero di aggregazione, ospitando incontri, dialoghi, balli e ogni forma di spontaneità possibile.
Qui, dal 25 giugno al 3 luglio, si terrà anche la Scuola nomadica (Nomadic School) di Oht, progetto che sperimenta diverse possibilità di apprendimento e condivisione del sapere attorno alle arti performative. Con workshop, esperimenti, incontri, camminate e micro performance, i partecipanti sono incoraggiati a riconsiderare la propria centralità e perifericità all’interno di uno spazio condiviso come quello scenico.
Questa edizione della Scuola nomadica si terrà alle Torri del Vajolet, sulle Dolomiti, a 2.300 metri sul livello del mare. Dodici partecipanti – ospitati in un rifugio di montagna – saranno completamente immersi nel paesaggio alpino dove vita e studio diverranno un tutt’uno.
Per partecipare è necessario rispondere a un’open call aperta a chiunque abbia interesse nella produzione e percezione dello spazio e dello studio del paesaggio. I partecipanti dovranno provenire da discipline quali teatro, danza, architettura, geografia, antropologia, filosofia, scienze naturali, letteratura, musica, arti visive e design e avere conoscenza della lingua inglese. Per partecipare bisogna inviare, entro il 15 maggio, la propria candidatura, con un curriculum e un testo motivazionale, a info@oht.tn.it.
La Scuola nomadica – che sabato 2 e domenica 3 luglio accoglierà anche il pubblico generico – vede la partecipazione di alcuni mentori che, nel rispetto delle loro pratiche, affrontano il ruolo dello spazio e di come produce realtà. Per questa edizione sono stati coinvolti Enrico Malatesta (percussionista e sound-researcher), Chiara Pagano (artista ed ex Nomadica), Christian Casarotto (glaciologo e collaboratore del Muse), Industria Indipendente (collettivo di arti performative e visive), Gabriella Mastrangelo (spatial designer ed ex Nomadica), Annibale Salsa (antropologo), Stefania Tansini (danzatrice e coreografa), Daniel Blanga Gubbay (curatore e ricercatore), Rugilė Barzdžiukaitė (film-maker e regista teatrale), Davide Tomat (musicista e sound designer).
Per maggiori informazioni: http://www.oht.art/it/lfp-nomadic-school-2022.html.

«Spazio libero», a Milano una doppia open call per artisti e curatori
Un luogo in cui sperimentare i linguaggi della creatività e confrontare il proprio lavoro con gli altri: è questo l’obiettivo di «Spazio libero», la doppia open call lanciata dalla Casa degli artisti di Milano, luogo storico al centro del quartiere Garibaldi-Brera, con oltre cento anni di vita alle spalle, che ha riaperto le porte nel febbraio 2020, configurandosi da subito come centro di residenza, produzione e fruizione pubblica.
Il concorso si inserisce in «Human Nature», il programma ideato per il 2022 che sottende i tanti interrogativi su cosa significhi essere umani oggi nelle relazioni dell’uomo con sé stesso, con gli altri, con l’altro, con gli spazi che abita, con gli altri esseri viventi, con la natura.
Milovan Farronato - tutor della open call, le cui iscrizioni sono aperte fino all’8 maggio per i curatori e fino al 15 maggio per gli artisti - parla di «Spazio libero» come di «una pagina bianca»; «una casa aperta a nuovi fantasmi»; «terra fresca che chiama spore per complicarsi»; «un luogo che disconosce la neutralità»; «uno spazio in cui le coincidenze si dispongono a complicare la visione d’insieme». «Spazio libero» vuole, dunque, farsi cassa di risonanza delle domande, delle inquietudini, dell’incertezza e dei pericoli che tutti stiamo sentendo e lo fa con l’idea che l’arte possa offrire nuove possibilità alla nostra vita.
Il progetto coinvolgerà, nello specifico, due curatori e sei artisti, che nell’ultima settimana di giugno entreranno nelle sale di corso Garibaldi e lavoreranno insieme per stabilire come iniziare a muoversi nell’ambiente. Successivamente i prescelti, ai quali verrà assegnato un contributo spese di mille euro, prenderanno possesso degli atelier che saranno messi loro a disposizione per la residenza e la realizzazione dei progetti, lasciando emergere la circolarità della produzione artistica.
I risultati della residenza, qualsiasi forma conquisteranno, saranno presentati al pubblico in una open house nel mese di novembre, occupando integralmente ogni spazio disponibile di Casa degli artisti.
Le candidature devono pervenire alla mail: opencall@casadegliartisti.org. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.casadegliartisti.org.

Al via la terza edizione del Torino Social Impact Art Award, residenza per due giovani artisti con background multiculturale
È partita la macchina organizzativa per la terza edizione del «Torino Social Impact Art Award», open call ideata nell’ambito di «Artissima», che offre a due giovani talenti con una formazione nel mondo dell’arte contemporanea e un background multiculturale e migratorio una residenza d’artista per la creazione di un’opera fotografica o video.
Ogni edizione del concorso è caratterizzata da un bando rivolto a giovani under 35, diffuso nelle principali Accademie di belle arti e università italiane. Ai vincitori verranno offerti un contributo forfettario di 3mila euro e l’alloggio per trenta giorni all’hospitality partner Combo, un innovativo concept di ospitalità nel cuore di Porta Palazzo a Torino, quartiere storico e multiculturale.
Dopo «Quante Italie?» e «Zoom in/Zoom out», il bando del 2022 si intitola «Ribellioni e rinascite: il potenziale creativo del confronto» e invita gli artisti a riflettere sul tema del conflitto sociale nelle sue diverse manifestazioni e forme latenti. «Contestazione e dissenso – spiegano gli organizzatori - possono diventare uno strumento generativo e creativo se il confronto non sfocia in atteggiamenti e comportamenti distruttivi, ma viene mediato al fine di suscitare lo sviluppo di nuove visioni e trasformazioni sociali. Il conflitto sociale, infatti, oltre a mettere in luce questioni di giustizia sociale e spaziale, è generativo di nuove rappresentazioni, idee, esercizi di negoziazione e contaminazione, resistenza e mutuo-aiuto, che portano alla nascita di pratiche innovative e linguaggi inediti. All’interno della complessità del confronto sociale, l’arte non può che essere un alleato in questa sfida di ricomposizione e rigenerazione».
All’inizio della residenza è prevista un’intera giornata di workshop, con l’obiettivo di promuovere una relazione e uno scambio tra artisti e territorio. La città sarà attraversata da un capo all’altro con la linea 4 del tram, famoso a Torino per il suo tragitto che la ripercorre dal quartiere Mirafiori Sud al quartiere di Falchera, a Nord. Il percorso sarà inframezzato da incontri e visite a luoghi significativi, come gli Orti Generali o le Case dei quartieri, che, spesso in totale rottura con la propria storia passata, lavorano per affermare un certo immaginario di città, basato su valori quali la prossimità, le relazioni, le reti, le esperienze di collaborazione, la cura e il mutuo-aiuto, il rispetto per l’ambiente. Gli artisti potranno, inoltre, avvalersi di un servizio di tutoring a cura di Matteo Mottin e Ramona Ponzini, fondatori dell’art project Treti Galaxie.
I video o le fotografie prodotte nel periodo di residenza - lavori che diffondano messaggi capaci di trasformare positivamente la percezione di ciò che può comunemente apparire come lontano, estraneo o diverso - verranno presentati ad Artissima 2022 (3-6 novembre).
La scadenza per partecipare è il 23 maggio. Per maggiori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo segreteria@artissima.it. Il sito di riferimento è www.torinosocialimpact.it.

Nelle fotografie: 1. Monia Ben Hamouda, winner of the second Torino Social Impact Art Award. © Giorgio Perottino. Courtesy Torino Social Impact and Artissima; 2. Caterina Shanta (winner of the first Torino Social Impact Art Award) at Combo Torino, working on the project “Talking about visibility”. © Giorgio Perottino; 3. Artissima 2021, stand Torino Social Impact Art Award, Oval Lingotto, Torino Crediti fotografici: Perottino-Piva / Courtesy Artissima

domenica 1 maggio 2022

#notizieinpillole, le mostre da vedere a Venezia durante la Biennale d'arte # 1

La città di Venezia si veste a festa per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte. Mentre all’Arsenale e ai Giardini vanno in scena oltre quattromila opere di duecento e tredici artisti provenienti da cinquantotto Paesi di tutto il mondo, la città regala, per la primavera e l’estate, un ricco cartellone di eventi collaterali o di appuntamenti ideati per l’occasione da musei e gallerie. Oltre alle mostre imperdibili - Anish Kapoor alle Gallerie dell’Accademia, Anselm Kiefer a Palazzo Ducale, Marlene Dumas a Palazzo Grassi, Joseph Beuys a Palazzo Cini a San Vio e i Surrealisti alla Peggy Guggenheim Collection – Venezia offre ai visitatori internazionali tanti altri progetti espositivi che meritano una visita. Da Hermann Nischt a Louise Nevelson, da Mary Weatherford a Danh Vo, vi proponiamo qualche suggerimento per un itinerario lagunare all’insegna dell’arte contemporanea. 

In mostra a Venezia la «20. malaktion» di Hermann Nitsch
«Volevo mostrare come le colature, gli spruzzi, le sbavature e gli schizzi di liquido di colore rosso possono evocare un’eccitazione intensa nello spettatore, portandolo a provare sensazioni molto forti». Così Hermann Nitsch (Vienna, 29 agosto 1938 – Mistelbach, 18 aprile 2022), padre dell’Azionismo viennese, protagonista di performance acclamate e discusse, con corpi nudi, animali sgozzati, sangue e interiora, parlava di «20. malaktion», la ventesima azione pittorica originariamente creata e presentata al Wiener Secession di Vienna nel 1987. Il lavoro è in mostra fino al 20 luglio a Venezia, negli spazi delle Oficine 800, sull'isola della Giudecca, in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Presentata da Zuecca Projects e promossa dalla Helmut Essl’s Private Collection, in collaborazione con la Galerie Kandlhofer, l’esposizione, per la curatela di Roman Grabner, si articola in un’opera di grande formato (5x20 metri) realizzata con la tecnica del pouring (colatura), collocata sulla parete frontale, un grande quadro splatter (10x10 metri), steso sul pavimento, e numerosi quadri più piccoli, per un totale di cinquantadue lavori dalla pittura gestuale e immediata.
Le opere della «20. malaktion», che fanno tutte parte della medesima collezione, quella di Hulumt Essl, rivelano come la loro genesi abbia avuto luogo tra «scoppi di furia scatenata e gesti delicati». Le tele sono allestite negli spazi delle Oficine 800 con l’intento di ricreare quella disposizione sacra, rituale, che l’artista organizzò più di trenta anni fa. L’installazione, che pervade l’intero spazio espositivo, è, infatti, completata da vesti imbrattate, fiori e un altare a significare come questo progetto estremo e cruento, dall’alta valenza teatrale, volesse condurre il pubblico a una riflessione sulla sua vita e a una conseguente catarsi e purificazione, liberandolo da tabù religiosi, morali e sessuali. Un’energia mistica e un’ebbrezza visionaria colgono, in effetti, chiunque entri nello spazio espositivo della Giudecca per vedere quella che è a oggi la più grande retrospettiva mai realizzata in Italia sul padre dell’Azionismo viennese.
Per maggiori informazioni: http://www.zueccaprojects.org/.

Nelle immagini: «Hermann Nitsch - 20. malaktion». Venezia, Oficine Ottocento. Fino al 20 luglio 2022. Vista della mostra. Foto di Marcin Gierat 


«Vivere nel vetro»: a Venezia quattro designer del XX secolo e le loro creazioni per FontanaArte
Ci sono alcuni elementi d’arredo iconici come i vasi «Cartoccio» degli anni Trenta, il lampadario a sospensione «Dahlia», che riproduce un grande fiore con i petali di cristallo colorato sorretti da una struttura in ottone zapponato e nichelato, o la lampada da tavolo «Giova», che all’occorrenza si trasforma in un portafiori, nella mostra «FontanaArte. Vivere nel vetro», allestita fino al 31 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore.
Ottantacinque pezzi tra i più significativi della produzione centenaria dell’azienda milanese sono esposti ne «Le stanze del vetro», progetto culturale nato nel 2012 dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e la Pentagram Stiftung, che si avvale per l’occasione della curatela di Christian Larsen e dell’allestimento di Massimiliano Locatelli. Si tratta di vasi, lampade, portaritratti, scatole, posacenere e set da tavolo dall’eleganza raffinata e lineare, oltre a rari tavoli in cristallo con sostegni in legno, realizzati tra il 1932 e il 1996, sotto la guida di quattro affermati designer del XX secolo: Gio Ponti (1932-1933), Pietro Chiesa (1933-1948), Max Ingrand (1954-1967) e Gae Aulenti (1979-1996).
La mostra veneziana si concentra, dunque, sulle possibilità poetiche del vetro in lastre, un materiale industriale che la FontanaArte porta nel mondo del design d’autore, facendolo incontrare ora con la logica razionale del Modernismo ora la giocosità del Postmodernismo.
Il percorso espositivo, nel quale è presente una sala per ognuno dei quattro designer che furono a capo della direzione creativa dell’azienda milanese, culmina in una suite arredata con l’intento di rievocare una dimora fatta di interni in vetro, dando così forma al sogno degli architetti modernisti diventato realtà per la prima volta con Gio Ponti e Luigi Fontana.
Sull’isola di San Giorgio Maggiore, dove fino al primo maggio, è stata visitabile anche la seconda edizione di «Homo Faber», maestoso evento dedicato ai mestieri dell’alto artigianato artistico internazionale, che propone anche un focus sui maestri del Giappone e il loro ancestrale savoir-faire.
Fino al 24 luglio la Fondazione Cini presenta, inoltre, due mostre di arte contemporanea. In collaborazione con la galleria Tornabuoni, si tiene la rassegna «On Fire», a cura di Bruno Corà, con ventisei opere elaborate mediante il fuoco da artistiche delle Avanguardie novecentesche come Alberto Burri, Yves Klein, Arman, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis e Claudio Parmiggiani. Mentre, con la galleria Templon di Parigi, viene proposta una personale dell’americano Kehinde Wiley, a cura di Christophe Leribault, presidente del Musée d'Orsay e del Musée de l'Orangerie. «An Archaeology of Silence», questo il titolo dell’esposizione, include una serie di dipinti e sculture monumentali inediti, nei quali l’artista mette in luce la brutalità del passato coloniale, americano e globale, usando il linguaggio figurativo dell'eroe caduto. I nuovi ritratti mostrano giovani uomini e donne neri in posizioni di vulnerabilità che raccontano una storia di sopravvivenza e resilienza.
Per maggiori informazioni: www.cini.it

Didascalie delle immagini:FontanaArte. Vivere nel vetro, installation view, ph. Enrico Fiorese


Emilio Vedova e Arnulf Rainer, due artisti e i mali del mondo

«Un artista non può accettare la guerra. Non può accettare la sopraffazione. Voi direte: cosa centra questo con la pittura? Io vi dico: questa è la mia pittura». Suonano attuali le parole del partigiano e pittore Emilio Vedova (Venezia, 1919-2016), diffuse attraverso un video, all’interno della mostra allestita fino al 30 ottobre a Venezia, nello studio dell’artista alle Zattere, oggi spazio espositivo.
Curata da Fabrizio Gazzarri, la rassegna allinea una selezione di ventiquattro lavori, realizzati tra il 1949 e il 1993, che documentano come la pratica artistica del pittore veneziano, uno degli esponenti di spicco dell’Informale italiano, abbia tratto linfa vitale dalle vicende politiche e sociali del suo tempo e abbia sempre costruito una relazione responsabile con l’altro e con il mondo.
Con la sua pittura viscerale, fisica e violenta, Emilio Vedova, figlio di una stagione definita dal potenziale di malvagità e spargimento di sangue della Seconda guerra mondiale e dai rischi della passività di fronte al totalitarismo, ha dato, per esempio, voce al dolore per il bombardamento della biblioteca di Sarajevo («Chi brucia un libro, brucia un uomo», 1993) o per la rivoluzione in Romania dell’89 («Per uno spazio», 1989), ma ha anche raccontato la Berlino del muro («Plurimo», 1964 e «Berlin ’64», 1964).
A dare conferma di questo interesse dell’artista per le criticità del nostro tempo e la fragilità della nostra esistenza sono i titoli delle varie sezioni espositive che compongono la mostra, parole ricorrenti nei suoi scritti e discorsi: «Contro», «No», «Venezia muore», «Allarme», «Umano», «Confine», «Plurimo», «Per».
La rassegna veneziana, intitolata «Ora», si completa nel vicino Magazzino del sale con una sezione dedicata ad Arnulf Rainer (Baden bei Wien, 1929), amico dell’artista, mosso da un comune interesse per le vicende dell’uomo.
Del pittore tedesco, influenzato principalmente dal Surrealismo e dall’Espressionismo astratto americano, sono esposte una ventina di opere, scelte tra le «Croci» degli anni ’80 e i «Kosmos» dei primi anni ’90. Questi ultimi lavori, dalla forma circolare, rappresentano l’universo e sono metafora dell’infinito. Mentre le Croci, che per l’artista sono «abbreviazioni» del volto umano, rimandano inevitabilmente al tema della sofferenza, che, nel confronto con le pareti in mattone impregnate di sale dello spazio espositivo, «difficilmente – racconta il curatore Helmut Friedel - potrebbe essere percepita in modo più straziante».
Per maggiori informazioni: www.fondazionevedova.org.

Didascalie delle immagini: Particolare di allestimento della mostra “Rainer - Vedova: Ora.”, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia, 23 aprile 2022 - 30 ottobre 2022. © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio, Siena

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Danh Vo, Isamu Noguchi e Park Seo-Bo: sperimentazioni contemporanee alla Querini Stampalia di Venezia
Come si può infondere nuova vita a un palazzo storico che racchiude in sé storie differenti? Cosa si può aggiungere a un percorso espositivo già completo, che spazia tra stili ed epoche differenti, dal Cinquecento veneto al Modernismo novecentesco, in un raffinato collage di decorazioni, arredi, libri, oggetti pregiati e opere d’arte di Bellini, Tiepolo, Longhi e Credi? Sono queste le domande che si è posto il danese-vietnamita Danh Vo (Bà Rịa – Vietnam, 1975) per la mostra che la Fondazione Querini Stampalia ospita, in collaborazione con White Cube, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia.
L’artista - che cura anche il progetto espositivo con Chiara Bertola, responsabile del programma pluriennale «Conservare il futuro» - espone insieme all’architetto e scultore statunitense di origini giapponesi Isamu Noguchi (Los Angeles, 1904 – New York, 1988), e al pittore coreano Park Seo-Bo (Yecheon – Gyeongbuk, 1931), riconosciuto come il padre del movimento Dansaekhwa.
Le opere dei tre artisti, appartenenti a generazioni differenti e con stili narrativi dissimili, instaurano un dialogo raffinato con il palazzo veneziano, la cui struttura è stata rivisitata, per l’occasione, con luci e pareti temporanee, agili configurazioni che indicano una strada e al contempo mostrano l’evoluzione dello spazio.
A segnare il percorso sono una serie di ritratti fotografici, dedicati al tema del giardinaggio e scattati con lo smartphone, che raffigurano i fiori del giardino di Danh Vo a Güldenhof - il suo studio e fattoria a nord di Berlino – e nei parchi di Pantelleria, della Danimarca, del Friuli e di Siviglia. Le immagini sono stampate a colori con i nomi latini scritti in bella calligrafia a matita dal padre dell'artista, Phung Vo.
Di Park Seo-Bo è, invece, esposto un insieme di dipinti monocromi della serie «Écriture», che si legano profondamente alle nozioni di tempo, spazio e materia. Mentre di Isamu Noguchi sono visibili le iconiche lampade «Akari» (ovvero «luce»), strutture in carta, ricavate dall’albero di gelso, concepite nel 1951 nel corso di un viaggio a Hiroshima, che richiamano le lanterne chochin giapponesi e sono influenzate dall’estetica del design americano.
«Ospiti e intrusi» del palazzo veneziano, Vo, Noguchi e Park Seo-Bo alterano così la nostra percezione di oggetti e opere, portando una nuova luce nel percorso espositivo. Il tutto all’insegna di una vitale sperimentazione.
Per maggiori informazioni: https://www.querinistampalia.org

Didascalie delle immagini: 1.Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Francesco Allegretto); 2 . e 3. Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Ollie Hammick) 

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Venezia, a Palazzo Grimani Mary Weatherford reinterpreta Tiziano
È una delle opere più potenti, crude e sconvolgenti di Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 27 agosto 1576) la fonte di ispirazione del ciclo pittorico che Mary Weatherford (Ojai, 1963) presenta a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, all’interno di uno dei più incantevoli scrigni rinascimentali della città: il Museo di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa.
«La punizione di Marsia», un’opera di soggetto mitologico dipinta dal maestro veneto in tarda età, tra il 1570 e il 1576, e oggi conservata al Museo arcivescovile di Kroměříž nella Repubblica Ceca, è, infatti, lo spunto che ha dato vita a una dozzina di lavori, realizzati dall’artista californiana tra il gennaio e il marzo 2021 e riuniti sotto il titolo «The Flaying of Marsyas».
Ispirandosi alla tavolozza del pittore rinascimentale e rendendo omaggio alla caratteristica luce di Venezia, Mary Weatherford ha utilizzato la vernice Flashe e luci al neon - materiali che fanno parte della sua pratica artistica dal 2012 - per restituire l’effetto della tela antica. Macchie di colore dalle tonalità cupe e terrose danno così forma alla violenza della scena tizianesca, che raffigura il dio Apollo mentre scuoia il satiro Marsia, dopo aver vinto una sfida di canto e musica. Mentre i neon, con i loro tubi e cavi dell’alimentazione, simili a tante linee disegnate a mano, feriscono e illuminano le tele, con cui l’artista vuole proporre una riflessione sul destino, l'alterigia e il rapporto tra l'umano e il divino.
La mostra completa l’attuale programma espositivo del museo veneziano, che in questi giorni ospita anche le rassegne «Domus Grimani», sulla statuaria classica che faceva parte della collezione del patriarca Giovanni Grimani, e «Archinto», con dodici tele di Georg Baselitz, realizzate appositamente per la Sala del Portego e collocate in cornici settecentesche a stucco, dove fino alla fine del XIX secolo campeggiavano i ritratti della famiglia Grimani.
Per maggiori informazioni: https://polomusealeveneto.beniculturali.it/musei/museo-di-palazzo-grimani

Didascalie delle immagini: Mary Weatherford, The Flaying of Marsyas – 4500 Triphosphor, 2021-22. Flashe e neon su lino, 236,2 x 200,7 cm. © Mary Weatherford. Foto: Frederik Nilsen Studio. Courtesy: Gagosian

Al Fondaco dei Tedeschi le «Storie invisibili» di Leila Alaoui
«Era un’artista che brillava. E lottava per i dimenticati della società, i senzatetto, i migranti. Usando una sola arma, la fotografia». Così il 19 gennaio 2016, sulle pagine del «New York Times», Dan Bilefsky ricordava Leila Alaoui (Parigi, 10 luglio 1982- Ouagadougou, 18 gennaio 2016), giovane fotografa e videoartista franco-marocchina, morta in seguito a un attentato di terroristi jihadisti a Ouagadougou, mentre lavorava per una commissione di Amnesty International sui diritti delle donne in Burkina Faso.
Il suo impegno umanitario, che l’ha portata più volte a raccontare le diversità culturali e le migrazioni nell’area del Mediterraneo, ha dato vita a una fondazione, che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, porta a Venezia, con la complicità della Galleria Continua, la mostra «Storie invisibili/Unseen stories».
Al Fondaco dei Tedeschi, centro dello shopping deluxe nei pressi del ponte di Rialto, sono esposti, fino al 27 novembre, due progetti documentari della fotografa.
La corte interna dell’edificio è abitata una serie di gigantografie, di grande impatto visivo e in parte inedite, tratte da «Les Marocains», un ritratto corale del Paese d’origine di Leila Alaoui, realizzato con uno studio fotografico portatile, che documenta le popolazioni marocchine e le loro tradizioni, a rischio di estinzione.
Al quarto piano si trova, invece, un estratto di «Crossing», racconto attraverso immagini e video del viaggio intrapreso dai migranti subsahariani per raggiungere il Marocco e le coste dell’Europa. Frammenti di realtà si uniscono a immagini fittizie e a effetti sonori derivati dalla registrazione di narrazioni vere per un percorso di grande impatto emotivo.
Per maggiori informazioni: https://www.dfs.com/it/venice/art-and-culture/leila-alaoui-unseen-stories.

Nella fotografia: Leila Alaoui, Souk de Boumia - Moyen-Atlas (Les Marocains), 2011. Stampa Lambda, 180 x 120 cm Courtesy: Galleria Continua & Fondation Leila Alaoui


Venezia: Heinz Mack, Lucio Fontana, Antony Gormley e Huong Dodinh, quattro artisti in piazza San Marco
È «Der Garten Eden (Il giardino dell'Eden)», travolgente, multicolore e monumentale (6 x 3,5 metri) quadro a campi di colore, dall'indiscusso effetto ipnotico, l’opera più simbolica della mostra «Vibration of Light / Vibrazione della luce», in programma fino al 17 luglio alla Biblioteca nazionale marciana di Venezia, nello storico Salone monumentale del Sansovino. Curata da Manfred Möller, l’esposizione presenta una selezione di dipinti di grande formato di Heinz Mack (Lollar, Germania, 1931), uno dei più importanti esponenti dell'arte cinetica a livello mondiale, accanto a un insieme di stele di luce parzialmente rotanti e a una scultura a specchio alta quattro metri, creata appositamente per l’occasione ed esposta nel cortile interno di Palazzo reale.
I lavori proposti – tra cui spiccano delle tele nei toni del nero, grigio e bianco, in cui centrale è il tema della struttura - sono collocati in un dialogo di grande effetto storico-artistico con i dipinti a parete e i tondi del soffitto che ornano il Salone monumentale del Sansovino, opere che portano la firma dei più importanti artisti rinascimentali, dal Tintoretto a Tiziano.
Si accede alla mostra, che fa parte degli Eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, attraverso il Museo Correr, dove espone, nell’ambito di «Muve contemporaneo», l’artista franco-vietnamita Huong Dodinh (Soc Trang, 1935). «Ascension» è il titolo della sua esposizione, pensata appositamente per la Sala delle Quattro Porte.
L’installazione comprende quattordici dipinti, ciascuno alto tre metri, sostenuti da altrettanti pannelli alti e affusolati, collocati secondo uno schema triangolare attorno alla scultura lignea della «Madonna della Misericordia», che risale al XV secolo. Su una superficie pittorica dai colori neutri, ogni tela presenta sottili e quasi impercettibili linee curve e verticali, dipinte dell’artista durante la sua pratica meditativa. Il tutto crea un’atmosfera mistica e spirituale, scandita da una sorta di ascensione verso la luce.
Chiude il percorso tra le proposte espositive visitabili in piazza San Marco, dove è aperta anche «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce» di Anselm Kiefer, la mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley», a cura di Luca Massimo Barbero, che presenta opere su carta, disegni e sculture dei due artisti. Scenario dell’esposizione, aperta fino al 27 novembre, è il Negozio Olivetti, gioiello architettonico progettato da Carlo Scarpa e affidato in gestione al Fai – Fondo per l’ambiente italiano. Per informazioni: https://bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it/ | https://www.visitmuve.it/ | https://fondoambiente.it.

Didascalie delle immagini: 1. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack; 2. Mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley» al Negozio Olivetti di Venezia. ©photo: Ela Bialkowska OKNO studio; 3. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack

Biennale Arte 2022, una mostra di Louise Nevelson per la riapertura della Procuratie Vecchie
Cinquanta archi e cento finestre affacciate sulla piazza più bella del mondo: si presentano così le Procuratie Vecchie, uno dei monumenti più iconici di Venezia, antica sede dei Procuratori della Serenissima Repubblica, collocata sul lato sinistro di piazza San Marco, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr.
Dopo cinquecento anni, il prestigioso edificio lagunare - progettato all’inizio del XVI secolo dall’architetto Bartolomeo Bon e completato una ventina di anni dopo, nel 1538, da Jacopo Sansovino - ha riaperto al pubblico per iniziativa delle Agenzie Generali, che ne hanno fatto la casa della Fondazione «The Uman Safety Net», un hub dedicato alle iniziative sociali, per il sostegno e la valorizzazione delle potenzialità delle persone più fragili e più vulnerabili, a cominciare dai bambini e dai rifugiati.
Il restauro, durato cinque anni, è stato affidato allo studio David Chipperfield Architects Milan, che ha restituito al pubblico i 12.400 metri quadrati dei tre piani dell’edificio creando un ambiente moderno, ma fedele alla sua originaria struttura.
Nell’ambito degli eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, le Procuratie Vecchie ospitano, fino all’11 settembre, una monografica di Louise Nevelson (vicino a Kiev, Ucraina, 1899 – New York, 1988), figura rivoluzionaria dell’astrazione americana, in mostra anche all’Arsenale con il potente assemblage «Homage to the Huniverse» (1968).
«Persistence», questo il titolo della rassegna in piazza San Marco, riunisce, per la curatela di Julia Bryan-Wilson, una sessantina di lavori realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento.
Articolato in nove sale del secondo piano, il percorso espositivo presenta, nello specifico, collage e assemblage scultorei, insieme ad alcuni pezzi iconici come le sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, le sculture bianche, tra le quali l’installazione multipla a colonna «Dawn’s Presence – Three» (1975), e rari lavori dalle tonalità color oro come «The Golden Pearl» (1962).
Il pubblico potrà così approfondire i tratti salienti del processo creativo dell’artista, oltre al suo interesse per materiali non convenzionali come legno grezzo, metallo, cartone, carta vetrata e pellicola di alluminio.
Per maggiori informazioni: louisenevelsonvenice.com.

Didascalie delle immagini: «Persistence», mostra di Louise Nevelson alle Procuratie di Venezia per la 59esima Biennale d'arte. Foto di Lorenzo Palmieri. Courtesy: Louise Nevelson Foundation


A Venezia un capolavoro di Giorgione: il «Ritratto di giovane» del Museo di belle arti di Budapest
Arriva dal Museo di belle arti di Budapest il nuovo ospite speciale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il «Ritratto di giovane» di Giorgione, al suo ritorno nella città lagunare dopo più di duecento anni. Il museo sul Canal Grande, dove è in corso la grande mostra del contemporaneo Anish Kapoor (ne abbiamo parlato al link https://foglidarte.blogspot.com/2022/04/anish-kapoor-venezia-gallerie-accademia-.html, ndr) offre, dunque, un'occasione in più ai turisti della Biennale per attraversare le sue porte e lasciarsi avvolgere dalla bellezza. 
Il prestito, che rientra in un progetto di scambi internazionali che la realtà diretta da Giulio Manieri Elia sta portando avanti negli ultimi anni, rappresenta un’occasione importante per ammirare un’opera di straordinaria qualità accanto ad altri capolavori del pittore veneto presenti nel museo veneziano: la «Sacra Conversazione», la «Vecchia», la «Tempesta», il «Concerto» e la «Nuda». Il ritratto è collocato, a partire dal 31 marzo, proprio in sala VIII, al primo piano, dove sono esposti gli altri lavori del maestro di Castelfranco in collezione.
Il dipinto, realizzato intorno al 1503, è «una delle poche opere superstiti di Giorgione - sottolinea László Baán, direttore generale del museo di Budapest-, proviene dalla collezione dell'unico patriarca veneziano di origine non italiana, l'ungherese Giovanni Ladislao Pyrker, vissuto nel XIX secolo, e grazie alla sua generosa donazione è entrato a far parte del patrimonio nazionale ungherese». Vi è raffigurato un uomo giovane, vestito di un'ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana, con scriminatura al centro, ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie. Il volto ovale è girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù. Gli occhi sono grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.
Sotto il profilo compositivo e stilistico il lavoro si ricollega strettamente alla «Vecchia». Dunque, l’esposizione dei due dipinti affiancati sulla stessa parete innescherà probabilmente ulteriori riflessioni in merito alla ipotesi, avanzata da parte della critica, che la tela oggi a Budapest costituisse «il coperto […] depento con un’homo con una veste de pelle negra» che accompagnava la «Vecchia», secondo quanto indicato nell’inventario Vendramin del 1601.
Roberta Battaglia, curatrice delle collezioni del Quattrocento e Cinquecento alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, afferma, inoltre, che «la proposta di interpretare il ritratto come esempio di contemplazione e ascesi neoplatonica si addice alla dimensione interiore del personaggio cui concorre anche la qualità astratta e ideale della luce. L’incarnato del volto risalta sulla massa compatta della chioma scura, contraddistinta da una insolita bicromia, che ha fatto supporre la presenza di una reticella oppure l’utilizzo di una tintura per schiarire le bande laterali dei capelli, secondo la moda per lo più femminile del tempo».
Dóra Sallay, curatrice della Pittura italiana (1250-1500) al museo di Budapest, sottolinea, infine, che il dipinto «si distingue tra i ritratti rinascimentali anche per il suo soggetto enigmatico: l'espressione assorta del giovane sconosciuto, il gesto che indica un sentimento profondo e la serie di emblemi difficilmente decifrabili dipinti sul parapetto hanno dato origine a innumerevoli interpretazioni e colpiscono tutti noi con la forza del loro mistero».
Per maggiori informazioni: gallerieaccademia.it.

...E poi...
A Venezia il rosso e il nero di Anish Kapoor- Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano - «Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni 

sabato 30 aprile 2022

«On fire», alla Fondazione Cini di Venezia il fuoco dialoga con l’arte contemporanea

Non ha forma, peso e densità. È immateriale e naturalmente fuggevole, eppure scalda, brucia, scoppia, illumina, risplende, distrugge e crea. È un elemento vivo. È, per usare le parole del saggista e giornalista James Henry Leigh Hunt (Southgate, Middlesex, 1784 - Putney 1859), «il più tangibile dei misteri visibili». Il fuoco è, tra i quattro elementi naturali, quello che più ha affascinato il mondo dell’arte, dove ha assunto le funzioni e i significati più diversi, ora di accessorio narrativo, ora di  medium  creativo, ora di presenza sacrale, simbolo di purificazione, rigenerazione e nuovi inizi.
Dal fuoco della redenzione che scalda il Bambino in tante Adorazioni dei pastori alle eruzioni vulcaniche che caratterizzano molti dipinti di area napoletana, dall’immancabile candela che rischiara i notturni di George de La Tour al falò della convivialità presente nel quadro «Upa, upa» di Paul Gauguin, pittori e scultori hanno traghettato il fuoco, quale elemento figurativo, nel Novecento, il secolo delle sperimentazioni e delle performance.
Le Avanguardie del secondo Dopoguerra hanno, quindi, scritto un nuovo capitolo di questa storia millenaria: dagli anni Cinquanta in poi, gli artisti sono, infatti, riusciti ad appropriarsi degli effetti sia distruttivi che generatori del fuoco, impiegandolo su diversi materiali, e hanno usato questo elemento naturale come medium per innovare il loro stesso linguaggio pittorico e plastico.
A questa storia guarda la mostra «On Fire», a cura di Bruno Corà, allestita fino al 24 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore, negli spazi della Fondazione Giorgio Cini, e promossa con la galleria Tornabuoni in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Ventisei opere, tra cui diversi capolavori inediti o raramente mostrati al pubblico, suddivise in sei sezioni, documentano l’uso del fuoco come strumento di combustione dei materiali o come presenza viva con i propri effetti sensoriali, talvolta spettacolari, o, infine, come traccia pittorica attraverso il fumo della combustione.
Ad aprire il percorso espositivo, studiato per exempla, è Yves Klein, artista che fu attratto dall'aspetto dialettico del fuoco, simbolo di distruzione e rigenerazione, vita e morte, bene e di male. «Il fuoco – affermava - è per me il futuro senza dimenticare il passato. È la memoria della natura. È dolcezza, il fuoco ‘è dolcezza e tortura’. È il focolare e l'apocalisse. È un piacere per il bambino sapientemente sedutosi vicino al camino; punisce, tuttavia, ogni disobbedienza quando si vuole giocare troppo da vicino con le sue fiamme. È benessere e rispetto. È un dio tutelare e terribile, buono e cattivo». Nacquero da queste considerazioni le quattro «Peinture de feu» esposte, ovvero le «Antropometrie» degli anni Sessanta, ultima fase della ricerca dell'artista.
Ispirazione creativa e formazione scientifica si sposano, invece, nell’uso del fuoco fatto da Alberto Burri. «Per molto tempo ho voluto – annotava, a tal proposito, l’artista - approfondire il modo in cui il fuoco consuma, comprendere la natura della combustione e come tutto possa vivere e morire nella combustione per formare un'unità perfetta». La fiamma ossidrica dava all’artista umbro la possibilità di imprimere buchi, grinze e strappi, proprio come una cicatrice, alle materie che trattava – inizialmente carta, poi legno e plastica – anche grazie al lavoro manuale. «Nulla - raccontava Alberto Burri - è lasciato al caso. Quello che faccio qui è il tipo di pittura più controllato e controllabile...Bisogna controllare il materiale e questo si ottiene padroneggiando la tecnica».
Mentre per Armand Pierre Fernandez, in arte Arman, punto di partenza per l’uso del fuoco nella sua pratica artistica fu l’opera «Fauteuil d'Ulysse», realizzata negli anni Sessanta, con l'aiuto di Martial Raysse, per una mostra al Museo Stedeljik di Amsterdam. L'idea di questo lavoro, presente nella rassegna veneziana, venne all'artista durante una visita a una discarica, dove vide una poltrona stile Luigi XV che stava bruciando in cima a un mucchio di spazzatura. Da quest’opera principia una serie di combustioni con mobili eleganti e strumenti musicali che venivano consumati dal fuoco prima di essere stabilizzati dall'introduzione di resina. Distruggere un oggetto e farlo rivivere in forma nuova è, dunque, lo scopo del lavoro di Arman con il fuoco.
Dal Noveau Réalisme si passa, quindi, all’Arte povera con Pier Paolo Calzolari, le cui opere sono realizzate fin dall’inizio con materiali in costante conversazione tra loro, umili e provenienti dai contesti semi-industriali urbani o elementi naturali. Tra questi ci sono il fuoco, il legno, ma anche rottami, oggetti quotidiani e tubi al neon. In «Mangiafuoco» la pittura dialoga con la vitalità mutevole della materia, ovvero il fuoco soffiato sulla tela. «Il mio scopo - affermava l’artista - era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela».
Due lavori caratterizzano, poi, la presenza di Jannis Kounellis in mostra: «Margherita del fuoco» (1967), prima sua opera che fa uso della fiamma ossidrica e della bombola del gas, e «Senza titolo», una doppia lastra di ferro solcata da sette cannelli di rame, dai quali fuoriescono altrettante fiamme alimentate a gas, incorniciata da una sequela di grossi coltelli conficcati su panetti di piombo.
A chiudere il percorso espositivo è un’enorme biblioteca senza libri di Claudio Parmiggiani, realizzata in situ con il fumo e la fuliggine della combustione. L’opera, che pone al centro il tema della memoria, fa parte del ciclo delle «Delocazioni», «uno spazio vuoto di percezioni fisiche – si legge nella nota stampa -, dove però lo spettatore ha la sensazione di penetrare in un luogo abitato. L'assenza di oggetti esposti in precedenza rende i muri ancora più chiari; non c'è più che la loro traccia fuligginosa da vedere».
L’intero percorso espositivo dà sostanza alle parole di Gaston Bachelard: «l'alta dignità delle arti del fuoco deriva dal fatto che le loro opere portano il segno più profondamente umano, il segno dell'amore primitivo. (…) Le forme create dal fuoco sono modellate, più di ogni altra, come bene suggerisce Paul Valéry: 'a forza di carezze'».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alberto Burri, Rosso Plastica M3, 1961, Plastica, combustione su tela, 121,5 x 182,5 cm. ©Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri; [Fig. 2] Yves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 250 x 130 cm. © Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [fig. 3] ves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 142 x 303 cm.© Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [ig. 4] Jannis Kounellis, Margherita di Fuoco, 1967, Stella di ferro con fiamma ossidrica. diam. 150 cm. ©Claudio Abate, Roma; [fig. 5] Claudio Parmiggiani, Solo la terra oscura, 2020. Fumo e fuliggine su tavola, 240x1824cm. Foto Agostino Osio-Alto Piano. Courtesy Fondazione MAXXI

Informazioni utili
On Fire. Isola di San Giorgio Maggiore, Sala Carnelutti e Piccolo Teatro -  Venezia, Italia. Orari: aperto tutti i giorni (tranne il mercoledì), dalle 11 alle 19. Ingresso gratuito. Sito web: www.cini.it. Fino al 24 luglio 2022