Trentotto immagini che parlano di un’amicizia, quella tra David Bowie e Masayoshi Sukita: si potrebbe riassumere così la mostra «Heros» che l’azienda ThinkDesign propone, in prima nazionale svizzera, negli spazi della galleria d’arte Dip contemporary art di Lugano, inaugurata nel 2016 per volontà di Michela Negrini.
L’artista londinese e il maestro giapponese della fotografia, uno dei più importanti della scena cinematografica e musicale di New York, si conobbero nel 1972 dopo un concerto; all’epoca la superstar britannica, camaleonte del pop che ha influenzato lo stile per diverse generazioni, era nel suo periodo «Ziggy Stardust» e già stregava il pubblico col suo carisma ineguagliato. Ad assediarlo c’erano centinaio di fotografi e giornalisti. «Quando toccò a me – ricorda Masayoshi Sukita- ho pensato semplicemente: stappiamo una bottiglia di vino e rilassiamoci». Nacque così un’amicizia durata oltre quarant’anni, che nel corso dei decenni si è palesata in immagini uniche ed estremamente personali.
Masayoshi Sukita non solo immortalò in maniera molto personale le innumerevoli metamorfosi di David Bowie, creando tra l’altro la leggendaria copertina dell’album «Heros», ma fino alla prematura morte dell’artista lo seguì anche in momenti molto privati nei quali, privo di trucco e abiti di scena, appare estremamente avvicinabile e vulnerabile. L’artista poté, infatti, godere di una vicinanza con Bowie che la superstar non concesse mai a nessun altro fotografo.
La mostra fotografica di Lugano presenta, inoltre, David Bowie in tutta la sua capacità di metamorfosi come una delle più grandi icone pop del secolo e come persona colta nella sua quotidianità, lontano da qualsiasi eccentricità.
«Bowie era una persona profonda, e io lo mostro in tutte le sue sfaccettature», afferma Sukita aggiungendo: «in ogni sua fase è stato sempre completamente se stesso».
Lo stilista John Richmond, che oltre a Bowie ha vestito e veste Mick Jagger, Rod Stewart e altre icone della musica, impreziosisce l’evento con la sua nuova collezione realizzata in collaborazione con il marchio Mantero. L’esposizione si concluderà con uno spettacolare omaggio a Bowie al Casinò di Campione d’Italia, che rivisiterà varie pietre miliari della vita dell’artista.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] © Photo by Sukita, Watch That Man III, 1973; [Fig. 2] © Photo by Sukita, Starman, 1973
Informazioni utili
«Heros». Galleria d’arte Dip contemporary art, via Dufour, 21 (ang. Via Vanoni) - 6900 Lugano (Svizzera). Orari: dal martedì al venerdì, dalle ore 10.30 alle ore 18.30. Ingresso libero. Imformazioni: info@dipcontemporaryart.com, tel. +41 (0)919211717. Siti internet:
http://think-design.ch/david-bowie-lugano/ o http://dipcontemporaryart.com. Fino al 26 aprile 2017.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
martedì 4 aprile 2017
lunedì 3 aprile 2017
Antoniazzo Romano e Montefalco, un artista e la sua città
I Musei vaticani sono di nuovo protagonisti a Montefalco. Dopo la straordinaria mostra dello scorso anno dedicata alla Madonna della Cintola di Benozzo Gozzoli, al Complesso museale di San Francesco si racconta un’altra bella pagina della storia del borgo umbro nel Rinascimento mettendo a confronto -sempre grazie alla curatela di Antonio Paolucci, direttore dell’istituzione capitolina- due preziose pale di Antoniazzo Romano, al secolo Antonio di Benedetto degli Aquili. Una di queste opere, il trittico della «Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro», proviene da Roma ed è appena stata sottoposta a restauro nei laboratori del Musei vaticani.
La tela, usualmente conservata nella Pinacoteca della Basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma, fu realizzata dall’artista umbro tra gli anni 1488-1490 per commemorare l’unificazione del monastero benedettino con la congregazione di Santa Giustina a Padova, avvenuta nel 1426.
Le figure dei santi, ampie e monumentali, sono riconoscibili dagli attributi e spaziate con equilibrio in un ideale semicerchio: i santi Pietro e Paolo -l’uno con le chiavi del Regno, l’altro con la spada del martirio- affiancano la Vergine Maria seduta su un seggio, con le mani giunte, in atto di adorare il Bambino, accanto a San Benedetto, con la Regola e il pastorale, e Santa Giustina, trafitta dal pugnale e con la palma del martirio.
Il linguaggio è addolcito, con ombre e luci modulate in passaggi morbidi e volti di malinconica dolcezza, che ricordano lo stile peruginesco. «Eppure -afferma Antonio Paolucci- la gravità e la solennità dei moduli antichi sopravvivono intatte. Il San Paolo, con lo spadone e il libro ben in vista e la dilatata imponenza del vasto panneggio, non rinuncia affatto al suo ruolo di principe degli Apostoli, latore della sacralità romana evocata dal suo stesso nome».
Il fondo oro, simbolico richiamo alla luce divina, era stato nascosto nel XVIII secolo dipingendovi sopra un paesaggio, come si scoprì durante il restauro effettuato nel 1963. Quell’oro del dipinto romano brilla, ora, accanto alla pala «San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino», proveniente dalla chiesa di Santa Illuminata di Montefalco e dal 1907 custodita nella Pinacoteca cittadina.
L’opera fu realizzata nel 1430-35 per la cappella di Santa Caterina nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma su committenza del cardinale portoghese Jorge Costa. Giunse a Montefalco nel 1491, grazie all’intervento di Frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani della congregazione lombarda.
In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei Santi raffigurati sulla tavola, di cui il restauro dà testimonianza: Santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in Santa Illuminata, coprendone la ruota del martirio; Sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di quello agostiniano al fine di trasformarlo in San Nicola da Tolentino. L’unico Santo non modificato fu San Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello.
Anche in questo caso l’artista non rinuncia al fondo d’oro su cui si stagliano tre figure, come le ha definite Antonio Paolucci, luminose e maestose di verosimiglianza plastica, anatomica e fisionomica, ognuna con i suoi attributi iconografici puntigliosamente esibiti.
Le due tavole in mostra sono testimonianze di incomparabile bellezza, accomunate dalla provenienza romana delle chiese d’origine, dalla forma quadrangolare della pala di gusto rinascimentale e dall’impiego dello stesso cartone preparatorio per le figure di Santa Caterina/Sant’Illuminata e Santa Giustina. Per la prima volta insieme, consentono di approfondire lo studio di Antoniazzo Romano, il più grande pittore romano della seconda metà del Quattrocento.
Le due opere, per certi aspetti vicine, presentano anche interessanti diversità che permettono di comprendere meglio la ricca e sfaccettata personalità di Antoniazzo Romano, grande artista del Rinascimento famoso per le sue palpitanti figure di santi stagliati su abbaglianti fondi oro.
Mentre la tavola romana guarda, per esempio, alla lezione peruginesca, quella di Montefalco sembra far proprio il linguaggio rinascimentale nel suo aspetto più specificatamente urbinate, mediato dal contatto col Melozzo, con il quale l’artista decorò alcuni ambienti dell’antica biblioteca nel Palazzo vaticano negli anni 1480-81. Ecco così che trova conferma quello che ha scritto Antonio Paolucci: «Quello che di buono trovava /…/ egli (Antoniazzo Romano, ndr) lo recepiva di buon grado e lo traduceva nella sua metrica solenne, nella affabilità di un discorso figurativo fondato su pochi schietti principi: chiarezza narrativa, evidenza iconica, continuità con la tradizione, eloquio misurato, nobile senza sussiego, popolare senza volgarità».
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 4] Antoniazzo Romano, San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino. Montefalco Complesso Museale di San Francesco. Foto © Comune di Montefalco, [fig. 3]Antoniazzo Romano, Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro . Roma , Basilica di S. Paolo fuori le mura - Pinacoteca. Foto © Musei Vaticani
Informazioni utili
Antoniazzo Romano e Montefalco. Complesso museale di San Francesco, via Ringhiera umbra, 6 - Moltefalco (Perugia). Orari: tutti i giorni, ore 10.30-18.00. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00 (da 18 a 25 anni; convenzionati TCI); omaggio fino a 17 anni, giornalisti accreditati, soci ICOM, residenti. Visite guidate: tutti i giorni, ore 11, 12 e 15.30; € 3,00 oltre il costo del biglietto. Per informazioni e prenotazioni: Sistema Museo, 199.151.123 (dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00 e il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00, escluso festivi), callcenter@sistemamuseo.it; Museo di Montefalco, tel. 0742 379598, montefalco@sistemamuseo.it. Sito web: www.museodimontefalco.it. Fino al 7 maggio 2017.
La tela, usualmente conservata nella Pinacoteca della Basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma, fu realizzata dall’artista umbro tra gli anni 1488-1490 per commemorare l’unificazione del monastero benedettino con la congregazione di Santa Giustina a Padova, avvenuta nel 1426.
Le figure dei santi, ampie e monumentali, sono riconoscibili dagli attributi e spaziate con equilibrio in un ideale semicerchio: i santi Pietro e Paolo -l’uno con le chiavi del Regno, l’altro con la spada del martirio- affiancano la Vergine Maria seduta su un seggio, con le mani giunte, in atto di adorare il Bambino, accanto a San Benedetto, con la Regola e il pastorale, e Santa Giustina, trafitta dal pugnale e con la palma del martirio.
Il linguaggio è addolcito, con ombre e luci modulate in passaggi morbidi e volti di malinconica dolcezza, che ricordano lo stile peruginesco. «Eppure -afferma Antonio Paolucci- la gravità e la solennità dei moduli antichi sopravvivono intatte. Il San Paolo, con lo spadone e il libro ben in vista e la dilatata imponenza del vasto panneggio, non rinuncia affatto al suo ruolo di principe degli Apostoli, latore della sacralità romana evocata dal suo stesso nome».
Il fondo oro, simbolico richiamo alla luce divina, era stato nascosto nel XVIII secolo dipingendovi sopra un paesaggio, come si scoprì durante il restauro effettuato nel 1963. Quell’oro del dipinto romano brilla, ora, accanto alla pala «San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino», proveniente dalla chiesa di Santa Illuminata di Montefalco e dal 1907 custodita nella Pinacoteca cittadina.
L’opera fu realizzata nel 1430-35 per la cappella di Santa Caterina nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma su committenza del cardinale portoghese Jorge Costa. Giunse a Montefalco nel 1491, grazie all’intervento di Frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani della congregazione lombarda.
In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei Santi raffigurati sulla tavola, di cui il restauro dà testimonianza: Santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in Santa Illuminata, coprendone la ruota del martirio; Sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di quello agostiniano al fine di trasformarlo in San Nicola da Tolentino. L’unico Santo non modificato fu San Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello.
Anche in questo caso l’artista non rinuncia al fondo d’oro su cui si stagliano tre figure, come le ha definite Antonio Paolucci, luminose e maestose di verosimiglianza plastica, anatomica e fisionomica, ognuna con i suoi attributi iconografici puntigliosamente esibiti.
Le due tavole in mostra sono testimonianze di incomparabile bellezza, accomunate dalla provenienza romana delle chiese d’origine, dalla forma quadrangolare della pala di gusto rinascimentale e dall’impiego dello stesso cartone preparatorio per le figure di Santa Caterina/Sant’Illuminata e Santa Giustina. Per la prima volta insieme, consentono di approfondire lo studio di Antoniazzo Romano, il più grande pittore romano della seconda metà del Quattrocento.
Le due opere, per certi aspetti vicine, presentano anche interessanti diversità che permettono di comprendere meglio la ricca e sfaccettata personalità di Antoniazzo Romano, grande artista del Rinascimento famoso per le sue palpitanti figure di santi stagliati su abbaglianti fondi oro.
Mentre la tavola romana guarda, per esempio, alla lezione peruginesca, quella di Montefalco sembra far proprio il linguaggio rinascimentale nel suo aspetto più specificatamente urbinate, mediato dal contatto col Melozzo, con il quale l’artista decorò alcuni ambienti dell’antica biblioteca nel Palazzo vaticano negli anni 1480-81. Ecco così che trova conferma quello che ha scritto Antonio Paolucci: «Quello che di buono trovava /…/ egli (Antoniazzo Romano, ndr) lo recepiva di buon grado e lo traduceva nella sua metrica solenne, nella affabilità di un discorso figurativo fondato su pochi schietti principi: chiarezza narrativa, evidenza iconica, continuità con la tradizione, eloquio misurato, nobile senza sussiego, popolare senza volgarità».
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 4] Antoniazzo Romano, San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino. Montefalco Complesso Museale di San Francesco. Foto © Comune di Montefalco, [fig. 3]Antoniazzo Romano, Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro . Roma , Basilica di S. Paolo fuori le mura - Pinacoteca. Foto © Musei Vaticani
Informazioni utili
Antoniazzo Romano e Montefalco. Complesso museale di San Francesco, via Ringhiera umbra, 6 - Moltefalco (Perugia). Orari: tutti i giorni, ore 10.30-18.00. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00 (da 18 a 25 anni; convenzionati TCI); omaggio fino a 17 anni, giornalisti accreditati, soci ICOM, residenti. Visite guidate: tutti i giorni, ore 11, 12 e 15.30; € 3,00 oltre il costo del biglietto. Per informazioni e prenotazioni: Sistema Museo, 199.151.123 (dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00 e il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00, escluso festivi), callcenter@sistemamuseo.it; Museo di Montefalco, tel. 0742 379598, montefalco@sistemamuseo.it. Sito web: www.museodimontefalco.it. Fino al 7 maggio 2017.
venerdì 31 marzo 2017
Gioachino Rossini, un compositore tra note e fornelli
A nove anni pizzicava le corde della viola e strimpellava vari strumenti a tastiera, tra cui la spinetta. A dieci anni era in grado di cavarsela in molte discipline musicali come il canto, l’accompagnamento al clavicembalo e la trascrizione degli spartiti. A undici anni iniziava gli studi di composizione e, intanto, cantava e suonava in chiese e teatri. A quattordici anni si iscriveva alle classi di violoncello e contrappunto del neonato Liceo musicale di Bologna; si aggregava come cantore all’Accademia filarmonica felsinea e scriveva la sua prima opera, «Demetrio e Polibio», che sarebbe rimasta per qualche anno nel cassetto. È la storia di un uomo dotato di un talento straordinario e precoce quella di Gioachino Rossini, apprezzato compositore ottocentesco noto per opere famose come «Il barbiere di Siviglia» e il «Gugliemo Tell», nato a Pesaro il 29 febbraio 1792 da una famiglia di modesti musicisti.
Il papà, Giuseppe Rossini, suonava la tromba e il corno nella banda cittadina. Gli amici lo chiamavano «Vivazza» per quel suo carattere sempre allegro e tendente alla burla, ma anche per le sue veraci origini romagnole.
La mamma, Anna Giudarini, era una bella ragazza che cuciva cappelli e che, grazie alla sua voce dolce e piena di grazia, si esibiva nei teatri minori di opera buffa come cantante lirica «a orecchio».
Con l’arrivo a Bologna, datato intorno al 1798, il compositore ebbe la fortuna di trovarsi a vivere in una delle maggiori città musicali del tempo ed è qui che si accostò per la prima volta alle musiche di due grandi autori tedeschi, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn, le cui partiture erano ancora difficilmente reperibili in Italia, tanto da guadagnarsi il soprannome di «tedeschino».
Poco dedito agli studi ufficiali e incapace di sopportare le regole, Gioachino non completò mai gli studi al Liceo musicale di Bologna, ma le sue idee erano così fresche e innovative che, a soli diciotto anni, nel 1810, riuscì a debuttare con una sua opera, «La cambiale di matrimonio», nel prestigioso teatro San Moisè di Venezia. Fu l’inizio di una brillante carriera, che vide la sua musica dinamica, trascinante e di facile ascolto accogliere i favori del pubblico, anche se non mancò qualche insuccesso. È il caso de «Il turco in Italia», accolto con freddezza dagli appassionati del teatro alla Scala nel 1814, e dell’opera «Il signor Bruschino» (1813), le cui repliche furono totalmente annullate, ma la cui ouverture continua a far parlare di sé per il caratteristico percuotere ritmico degli archi dei violini sul leggio.
Dal 1810 al 1829 Gioachino Rossini compose quarantuno opere, a tamburo battente, con un ritmo di cinque o sei l’anno (con un «rallentando» negli ultimi anni della sua vita).
Già l’anno dopo il debutto veneziano andava in scena a Bologna un altro suo lavoro: «L’equivoco stravagante». E ben presto la fama del compositore pesarese si diffuse oltre i confini nazionali grazie a due opere come il «Tancredi», le cui arie più famose venivano addirittura cantate per le strade, e «L’Italiana in Algeri», della quale i giornali scrissero che alla ‘prima’ gli spettatori stavano quasi per soffocare dal ridere e per la quale Stendhal parlò di «follia organizzata e completa».
Nel 1815 Gioachino Rossini si trasferì a Napoli su invito di Domenico Barbaja, importante impresario del teatro San Carlo, e vi rimase fino al 1822. Appena arrivato nella città partenopea compose «Elisabetta Regina d’Inghilterra», opera che ebbe grande successo grazie anche alla magistrale interpretazione della bella cantante spagnola Isabella Colbran, con cui il compositore si sarebbe sposato sette anni dopo. Fu un periodo molto intenso, che vide il maestro pesarese scrivere anche per altri teatri. Basti pensare che, tra il 1816 e il 1817, videro la luce due delle sue opere più celebri: «Il barbiere di Siviglia» per il teatro Argentina di Roma (1816) e «La Cenerentola» per il teatro Valle di Roma (1817). In questi anni vennero scritti anche lavori come «La gazza ladra» (1817), «Mosè in Egitto» (1818), «La donna del lago» (1819) e «Maometto II» (1820).
Il compositore si trasferì, quindi, a Londra, ma vi rimase pochi mesi preferendo spostarsi a Parigi, dove gli avevano offerto la direzione del Thèâtre des Italiens. Lì compose «Il viaggio a Reims» (1825), la sua ultima opera in lingua italiana, e il «Guglielmo Tell», con cui lanciò un nuovo genere musicale detto grand-opèra, basato su soggetti storici e caratterizzato da spettacolari effetti scenici, balletti e grandi cori. Il debutto di questo lavoro si ebbe la sera del 3 agosto 1829. Il successo fu strepitoso e il compositore fu premiato con la Legione d’Onore, una delle massime onorificenze del Governo francese. Malgrado ciò Gioachino Rossini decise di ritirarsi dalle scene. Non compose più opere, ma continuò a scrivere per piacere sonate e composizioni per pianoforte, oltre a musiche sacre come lo «Stabat Mater» (1841) e la «Petit Messe Solennelle» (1863).
Al momento del ritiro il compositore pesarese aveva trentasette anni. Sarebbe morto trentanove anni dopo, il 3 novembre 1868, nella sua villa di Passy, vicino a Parigi.
La decisione di ritirarsi sorprese tutti i suoi amici e ammiratori che non riuscivano a spiegarsene il motivo. Ma non c’è da sorprendersi: Gioachino Rossini era un personaggio dalle mille sfaccettature: era suscettibile e collerico, ma anche ironico e spiritoso; amava la buona tavola e l’ozio, ma era anche un infaticabile lavoratore quando si trattava di comporre un’opera. Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Era talmente ossessionato dal buon mangiare che quando Richard Wagner si recò da lui a Parigi, Rossini continuò per tutta la visita ad alzarsi per andare a controllare un capriolo sul fuoco. Ed era un ghiottone così raffinato da essere sempre alla ricerca di cibi speciali che si faceva portare dai diversi paesi d’origine: da Gorgonzola il formaggio, da Milano il panettone, da Siviglia il prosciutto e così via. La sua passione per il buon cibo era così grande che a chi gli chiedeva se avesse mai pianto, rispondeva sorridendo: «sì, una volta in barca quando mi è caduto nel lago uno stupendo tacchino farcito con i tartufi. Quella volta ho proprio pianto».
Per il mondo della musica è noto non solo per alcune sue opere immortali, ma anche per aver inventato il «crescendo», un procedimento compositivo che consisteva nel ripetere in maniera ossessiva, e a intensità crescente, un modulo melodico-armonico inserendo gradualmente nuovi strumenti a ogni ripetizione.
Le sue spoglie riposano nella Basilica di Santa Croce a Firenze, definita da Ugo Foscolo «il Tempio dell’Itale glorie», perché al suo interno sono conservate le tombe di grandi personaggi italiani come Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei e Vittorio Alfieri.
Per saperne di più
Gaia Servadio, «Gioachino Rossini. Una vita», Feltrinelli, Milano 2015;
Lina M. Ugolini, Piano pianissimo, forte fortissimo, Rueballu, 2015;
Monica E. Lapenta, «A cena con Giachino Rossini», Babetta's World, Baltimora 2012;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma. Il teatro e le sue storie», Edizioni Curci, Milano 2009;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Recitar cantando ovvero come accostare i bambini all’opera lirica attraverso il teatro», Erga edizioni, Genova 2006;
Giorgio Paganone, «Insegnare il melodramma. Saperi essenziali, proposte didattiche», Pensa MultiMedia, Lecce –Iseo 2010;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Il barbiere si Siviglia – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2012;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Figaro qua, Figaro là», Vallardi, Milano 2014 (le immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – Il barbiere di Siviglia», Curci, Milano 2010;
Isabella Vasilotta (a cura di), «Rossini. Ascoltando Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e Guglielmo Tell», Sillabe, Livorno 2015
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «La Cenerentola – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2009;
Cristina Pieropan, «La Cenerentola», Nuages, Milano 2010;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – La Cenerentola di Rossini», Curci, Milano 2015.
Il papà, Giuseppe Rossini, suonava la tromba e il corno nella banda cittadina. Gli amici lo chiamavano «Vivazza» per quel suo carattere sempre allegro e tendente alla burla, ma anche per le sue veraci origini romagnole.
La mamma, Anna Giudarini, era una bella ragazza che cuciva cappelli e che, grazie alla sua voce dolce e piena di grazia, si esibiva nei teatri minori di opera buffa come cantante lirica «a orecchio».
Con l’arrivo a Bologna, datato intorno al 1798, il compositore ebbe la fortuna di trovarsi a vivere in una delle maggiori città musicali del tempo ed è qui che si accostò per la prima volta alle musiche di due grandi autori tedeschi, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn, le cui partiture erano ancora difficilmente reperibili in Italia, tanto da guadagnarsi il soprannome di «tedeschino».
Poco dedito agli studi ufficiali e incapace di sopportare le regole, Gioachino non completò mai gli studi al Liceo musicale di Bologna, ma le sue idee erano così fresche e innovative che, a soli diciotto anni, nel 1810, riuscì a debuttare con una sua opera, «La cambiale di matrimonio», nel prestigioso teatro San Moisè di Venezia. Fu l’inizio di una brillante carriera, che vide la sua musica dinamica, trascinante e di facile ascolto accogliere i favori del pubblico, anche se non mancò qualche insuccesso. È il caso de «Il turco in Italia», accolto con freddezza dagli appassionati del teatro alla Scala nel 1814, e dell’opera «Il signor Bruschino» (1813), le cui repliche furono totalmente annullate, ma la cui ouverture continua a far parlare di sé per il caratteristico percuotere ritmico degli archi dei violini sul leggio.
Dal 1810 al 1829 Gioachino Rossini compose quarantuno opere, a tamburo battente, con un ritmo di cinque o sei l’anno (con un «rallentando» negli ultimi anni della sua vita).
Già l’anno dopo il debutto veneziano andava in scena a Bologna un altro suo lavoro: «L’equivoco stravagante». E ben presto la fama del compositore pesarese si diffuse oltre i confini nazionali grazie a due opere come il «Tancredi», le cui arie più famose venivano addirittura cantate per le strade, e «L’Italiana in Algeri», della quale i giornali scrissero che alla ‘prima’ gli spettatori stavano quasi per soffocare dal ridere e per la quale Stendhal parlò di «follia organizzata e completa».
Nel 1815 Gioachino Rossini si trasferì a Napoli su invito di Domenico Barbaja, importante impresario del teatro San Carlo, e vi rimase fino al 1822. Appena arrivato nella città partenopea compose «Elisabetta Regina d’Inghilterra», opera che ebbe grande successo grazie anche alla magistrale interpretazione della bella cantante spagnola Isabella Colbran, con cui il compositore si sarebbe sposato sette anni dopo. Fu un periodo molto intenso, che vide il maestro pesarese scrivere anche per altri teatri. Basti pensare che, tra il 1816 e il 1817, videro la luce due delle sue opere più celebri: «Il barbiere di Siviglia» per il teatro Argentina di Roma (1816) e «La Cenerentola» per il teatro Valle di Roma (1817). In questi anni vennero scritti anche lavori come «La gazza ladra» (1817), «Mosè in Egitto» (1818), «La donna del lago» (1819) e «Maometto II» (1820).
Il compositore si trasferì, quindi, a Londra, ma vi rimase pochi mesi preferendo spostarsi a Parigi, dove gli avevano offerto la direzione del Thèâtre des Italiens. Lì compose «Il viaggio a Reims» (1825), la sua ultima opera in lingua italiana, e il «Guglielmo Tell», con cui lanciò un nuovo genere musicale detto grand-opèra, basato su soggetti storici e caratterizzato da spettacolari effetti scenici, balletti e grandi cori. Il debutto di questo lavoro si ebbe la sera del 3 agosto 1829. Il successo fu strepitoso e il compositore fu premiato con la Legione d’Onore, una delle massime onorificenze del Governo francese. Malgrado ciò Gioachino Rossini decise di ritirarsi dalle scene. Non compose più opere, ma continuò a scrivere per piacere sonate e composizioni per pianoforte, oltre a musiche sacre come lo «Stabat Mater» (1841) e la «Petit Messe Solennelle» (1863).
Al momento del ritiro il compositore pesarese aveva trentasette anni. Sarebbe morto trentanove anni dopo, il 3 novembre 1868, nella sua villa di Passy, vicino a Parigi.
La decisione di ritirarsi sorprese tutti i suoi amici e ammiratori che non riuscivano a spiegarsene il motivo. Ma non c’è da sorprendersi: Gioachino Rossini era un personaggio dalle mille sfaccettature: era suscettibile e collerico, ma anche ironico e spiritoso; amava la buona tavola e l’ozio, ma era anche un infaticabile lavoratore quando si trattava di comporre un’opera. Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Era talmente ossessionato dal buon mangiare che quando Richard Wagner si recò da lui a Parigi, Rossini continuò per tutta la visita ad alzarsi per andare a controllare un capriolo sul fuoco. Ed era un ghiottone così raffinato da essere sempre alla ricerca di cibi speciali che si faceva portare dai diversi paesi d’origine: da Gorgonzola il formaggio, da Milano il panettone, da Siviglia il prosciutto e così via. La sua passione per il buon cibo era così grande che a chi gli chiedeva se avesse mai pianto, rispondeva sorridendo: «sì, una volta in barca quando mi è caduto nel lago uno stupendo tacchino farcito con i tartufi. Quella volta ho proprio pianto».
Per il mondo della musica è noto non solo per alcune sue opere immortali, ma anche per aver inventato il «crescendo», un procedimento compositivo che consisteva nel ripetere in maniera ossessiva, e a intensità crescente, un modulo melodico-armonico inserendo gradualmente nuovi strumenti a ogni ripetizione.
Le sue spoglie riposano nella Basilica di Santa Croce a Firenze, definita da Ugo Foscolo «il Tempio dell’Itale glorie», perché al suo interno sono conservate le tombe di grandi personaggi italiani come Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei e Vittorio Alfieri.
Per saperne di più
Gaia Servadio, «Gioachino Rossini. Una vita», Feltrinelli, Milano 2015;
Lina M. Ugolini, Piano pianissimo, forte fortissimo, Rueballu, 2015;
Monica E. Lapenta, «A cena con Giachino Rossini», Babetta's World, Baltimora 2012;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma. Il teatro e le sue storie», Edizioni Curci, Milano 2009;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Recitar cantando ovvero come accostare i bambini all’opera lirica attraverso il teatro», Erga edizioni, Genova 2006;
Giorgio Paganone, «Insegnare il melodramma. Saperi essenziali, proposte didattiche», Pensa MultiMedia, Lecce –Iseo 2010;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Il barbiere si Siviglia – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2012;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Figaro qua, Figaro là», Vallardi, Milano 2014 (le immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – Il barbiere di Siviglia», Curci, Milano 2010;
Isabella Vasilotta (a cura di), «Rossini. Ascoltando Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e Guglielmo Tell», Sillabe, Livorno 2015
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «La Cenerentola – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2009;
Cristina Pieropan, «La Cenerentola», Nuages, Milano 2010;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – La Cenerentola di Rossini», Curci, Milano 2015.
giovedì 30 marzo 2017
Giorgio Morandi e Tacita Dean, un dialogo tra artisti in mostra a Mantova
Che cosa accade quando un’artista guarda e incorpora nel proprio lavoro quello di un altro artista, magari distante da sé nello spazio e nel tempo? Che opportunità viene offerta al pubblico quando questa inclusione si fa a sua volta opera d’arte? Sono queste due domande a fare da filo rosso alla mostra «Giorgio Morandi e Tacita Dean. Semplice come tutta la mia vita», allestita a Mantova, negli spazi del Centro internazionale d’arte e di cultura di Palazzo Te, per la curatela di Massimo Mininni e Augusto Morari e con il supporto di Cristiana Collu.
L’esposizione mette a confronto, fino al prossimo 4 giugno, i film «Day for Night» e «Still life», che l’artista inglese ha realizzato nel 2009 nello studio bolognese del pittore, e una raccolta di circa cinquanta opere del maestro novecentesco: dipinti, disegni, acquarelli e grafiche, concessi da importanti musei e collezioni private, che illustrano la sua ricerca relativa alla natura morta nel periodo dal 1915 al 1963.
L’intero percorso espositivo, che si apre con una ricostruzione in grandezza naturale dello studio dell’artista, mette in luce il legame tra due artisti, raccontando non solo la linfa che alimenta il lavoro di Tacita Dean, ma facendo anche splendere la contemporaneità del lavoro di ricerca sviluppato per tutta la vita -con pazienza, attenzione e sensibilità- da Giorgio Morandi.
L’artista inglese si sofferma sugli oggetti dell’universo poetico del maestro bolognese e sulle tracce lasciate su un piano dalle basi degli oggetti stessi, tracce composte dalla matita del pittore che calcolava, centrava, affiancava, spostava, ricollocava, aggregava, insisteva, con un’attenzione matematica, sperimentale, priva di casualità plausibilmente in rapporto con le ore del giorno, le luci, i colori dell’aria.
Partendo dagli oggetti cari a Morandi - bottiglie, lumi, caffettiere, tazze, porcellane e vetri -, il processo di creazione artistica attivato dall’osservazione e dalla meditazione sulle cose è il punto di incontro dei lavori dei due artisti. I film di Tacita Dean esprimono l’intuizione della necessità di guardare alle cose e alle tracce involontarie del processo della pittura. La sua opera non è un documentario: non antologizza Morandi, non analizza il suo contesto e il suo tempo, ma lo guarda con semplicità e permette allo spettatore di sperimentare come il suo lavoro sia ben vivo nel presente.
Le nature morte di Giorgio Morandi esposte nello spazio delle Fruttiere mostrano come l’elaborazione del colore nelle sue composizioni si sia arricchita sino a raggiungere gli ultimi raffinatissimi accordi dei toni più alti. Forme, cromie e valori spaziali sono associati a una musica di luce: la luce e l’ombra, presenti nelle stanze abitate dal pittore, sono appunto alla base della sua espressione grafica e coloristica.
Tacita Dean ci restituisce con chiarezza nei suoi lavori le atmosfere e gli ambienti morandiani: le ombre delle bottiglie, dei vasi appaiono in una pallida penombra. I film raccontano un mondo limitato, polveroso, dimesso e domestico, dove cose umili affiorano in una luce fioca e rendono magiche le stanze, il carattere del luogo e l’arte di Morandi. Si avverte che l’artista si è soffermata a indagarle, cercando di scoprire la rigorosa ricerca di quel mondo plastico, di quel vedere e sentire per volumi e parallele, di quel comporre con chiarezza l’ordine con il quale Morandi procedeva nel misurare e disporre gli oggetti, qualità sostanziali nelle nature morte che metteva in scena.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giorgio Morandi, Natura morta con brocca e bottiglia, 1921; [Fig.2] Giorgio Morandi, Natura morta, 1921
Informazioni utili
«Giorgio Morandi e Tacita Dean. Semplice come tutta la mia vita». Museo civico di Palazzo Te, viale Te, 19 – Mantova. Orari: fino a sabato 25 marzo 2017 – lunedì, dalle ore 13.00 alle ore 18.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.00 alle ore 18.30 (ultimo ingresso alle ore 17.30) | da domenica 26 marzo 2017 - lunedì, dalle ore 13.00 alle ore 19.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.00 alle ore 19.30 (ultimo ingresso 18.30). Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 8,00, ridotto studenti € 4,00 (visitatori tra i 12 e i 18 anni, studenti universitari). Informazioni: tel. 0376.323266. Sito web: www.centropalazzote.it. Fino al 4 giugno 2017.
L’esposizione mette a confronto, fino al prossimo 4 giugno, i film «Day for Night» e «Still life», che l’artista inglese ha realizzato nel 2009 nello studio bolognese del pittore, e una raccolta di circa cinquanta opere del maestro novecentesco: dipinti, disegni, acquarelli e grafiche, concessi da importanti musei e collezioni private, che illustrano la sua ricerca relativa alla natura morta nel periodo dal 1915 al 1963.
L’intero percorso espositivo, che si apre con una ricostruzione in grandezza naturale dello studio dell’artista, mette in luce il legame tra due artisti, raccontando non solo la linfa che alimenta il lavoro di Tacita Dean, ma facendo anche splendere la contemporaneità del lavoro di ricerca sviluppato per tutta la vita -con pazienza, attenzione e sensibilità- da Giorgio Morandi.
L’artista inglese si sofferma sugli oggetti dell’universo poetico del maestro bolognese e sulle tracce lasciate su un piano dalle basi degli oggetti stessi, tracce composte dalla matita del pittore che calcolava, centrava, affiancava, spostava, ricollocava, aggregava, insisteva, con un’attenzione matematica, sperimentale, priva di casualità plausibilmente in rapporto con le ore del giorno, le luci, i colori dell’aria.
Partendo dagli oggetti cari a Morandi - bottiglie, lumi, caffettiere, tazze, porcellane e vetri -, il processo di creazione artistica attivato dall’osservazione e dalla meditazione sulle cose è il punto di incontro dei lavori dei due artisti. I film di Tacita Dean esprimono l’intuizione della necessità di guardare alle cose e alle tracce involontarie del processo della pittura. La sua opera non è un documentario: non antologizza Morandi, non analizza il suo contesto e il suo tempo, ma lo guarda con semplicità e permette allo spettatore di sperimentare come il suo lavoro sia ben vivo nel presente.
Le nature morte di Giorgio Morandi esposte nello spazio delle Fruttiere mostrano come l’elaborazione del colore nelle sue composizioni si sia arricchita sino a raggiungere gli ultimi raffinatissimi accordi dei toni più alti. Forme, cromie e valori spaziali sono associati a una musica di luce: la luce e l’ombra, presenti nelle stanze abitate dal pittore, sono appunto alla base della sua espressione grafica e coloristica.
Tacita Dean ci restituisce con chiarezza nei suoi lavori le atmosfere e gli ambienti morandiani: le ombre delle bottiglie, dei vasi appaiono in una pallida penombra. I film raccontano un mondo limitato, polveroso, dimesso e domestico, dove cose umili affiorano in una luce fioca e rendono magiche le stanze, il carattere del luogo e l’arte di Morandi. Si avverte che l’artista si è soffermata a indagarle, cercando di scoprire la rigorosa ricerca di quel mondo plastico, di quel vedere e sentire per volumi e parallele, di quel comporre con chiarezza l’ordine con il quale Morandi procedeva nel misurare e disporre gli oggetti, qualità sostanziali nelle nature morte che metteva in scena.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giorgio Morandi, Natura morta con brocca e bottiglia, 1921; [Fig.2] Giorgio Morandi, Natura morta, 1921
Informazioni utili
«Giorgio Morandi e Tacita Dean. Semplice come tutta la mia vita». Museo civico di Palazzo Te, viale Te, 19 – Mantova. Orari: fino a sabato 25 marzo 2017 – lunedì, dalle ore 13.00 alle ore 18.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.00 alle ore 18.30 (ultimo ingresso alle ore 17.30) | da domenica 26 marzo 2017 - lunedì, dalle ore 13.00 alle ore 19.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.00 alle ore 19.30 (ultimo ingresso 18.30). Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 8,00, ridotto studenti € 4,00 (visitatori tra i 12 e i 18 anni, studenti universitari). Informazioni: tel. 0376.323266. Sito web: www.centropalazzote.it. Fino al 4 giugno 2017.
mercoledì 29 marzo 2017
Teatro Manzoni di Busto Arsizio, ad aprile il pranzo è servito in scena
Si apre all’insegna della solidarietà il mese di aprile del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio. Sabato 1° aprile, alle ore 21, la sala di via Calatafimi ospiterà la compagnia amatoriale «I ragazzi dell’altro ieri» di Magenta con la commedia brillante «Mistero a Villa Gaia», per la drammaturgia e la regia di Francesco Cuccaro.
L’appuntamento teatrale, che gode del patrocinio dell’Amministrazione comunale, si propone di raccogliere fondi a favore del progetto «Borsa di studio Guatemala», un’iniziativa di solidarietà rivolta ai ragazzi in età scolare nata dall’esperienza di alcuni giovani dell’oratorio «San Filippo Neri» di Busto Arsizio nel centro «Manos Amigas», situato nel Sud America, nella campagna di San André Itzapa, tra Città del Guatemala e Antigua. Il costo del biglietto per questo spettacolo, per il quale sarà disponibile anche un servizio di baby sitting, è fissato ad euro 10,00 per l’intero ed euro 5,00 per il ridotto, riservato ai bambini fino ai 12 anni.
All’insegna del sorriso sarà anche l’altro appuntamento teatrale in cartellone nella sala di via Calatafimi per queste prime settimane primaverili. Venerdì 21 aprile, alle ore 21, la stagione «Mettiamo in circolo la cultura», inserita nel cartellone cittadino «BA Teatro», si chiuderà, infatti, con lo spettacolo «Bedda Maki – Come reSUSHItare il ristorante e vivere felici» (biglietti da € 30,00 a € 23,00, in vendita al botteghino da venerdì 14 aprile).
Il testo drammaturgico, scritto da Chiara Boscaro e Marco Di Stefano, ha vinto la quarta edizione del concorso «Una commedia in cerca d'autori», con il quale il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio prosegue la propria collaborazione con la Bilancia Produzioni, realtà che gestisce il teatro Martinitt di Milano e il teatro de’ Servi di Roma, e con altre sale di comunità del territorio come il cine-teatro Cristallo di Cesano Boscone, la Sala Argentia di Gorgonzola e il teatro San Rocco di Seregno.
Cinque giovani e talentuosi attori professionisti -Roberta Azzarone, Caterina Gramaglia, Franco Mirabella, Lorenzo Parrotto e Arturo Scognamiglio- porteranno il pubblico tra i tavoli del ristorante «La Tonnara di Toni», un locale siciliano a Milano che, per sconfiggere la crisi, cerca di trasformarsi in un’azienda di ristorazione particolarmente all’avanguardia, dove i capisaldi della gastronomia isolana vengono trasformati in piatti sushi-fusion.
Con uno stile comico e fluido, lo spettacolo, sapientemente diretto da Roberto Marafante, porta così il pubblico alla scoperta di tanti temi attuali: dai «problemi mai risolti tra il nostro nord e il nostro sud» alla crisi delle attività commerciali, dalla «spasmodica ricerca del nuovo ‘a tutti i costi’» all’improbabile culto del mondo degli chef e molto altro.
Ricco è anche il cartellone della rassegna «Mercoledì d’essai – Stagione 2016/2017», promossa dal cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio nell’ambito del progetto «Sguardi d’essai – Sale cinematografiche culturali a Busto Arsizio». Quattro i film in agenda per questo mese di aprile, con l’usuale doppia programmazione alle ore 16 e alle ore 21.
Si inizia mercoledì 5 aprile con «Non c’è più religione» di Luca Miniero, commedia incentrata sull'incontro-scontro fra diverse etnie e relative confessioni, che vede nel cast Claudio Bisio, Alessandro Gassmann e Angela Finocchiaro. Sarà, quindi, la volta, nella giornata di mercoledì 12 aprile, del film «Il viaggio di Fanny» di Lola Doillon, vincitore dell'ultimo Giffoni Film Festival, nel quale si racconta la storia vera di Fanny Ben-Ami, oggi 86enne, che nel 1943 riuscì a portare, senza adulti, un gruppo di bambini come lei dalla Francia alla Svizzera, fuggendo all’esercito tedesco.
Mercoledì 19 aprile l’atmosfera si tingerà dei colori dell’Oscar con «La la land» di Damien Chazelle, interpretato da Ryan Gosling ed Emma Stone, film che si è aggiudicato sette Golden Globe, la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile alla settantatreesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il premio del pubblico al Toronto International Film Festival e sei statuette alla notte degli Oscar, tra cui quelle per la miglior regia e la miglior colonna sonora. «La storia -si legge nella sinossi- è quella di due sognatori che cercano la fama a Los Angeles, si incontrano e si innamorano: sono un'aspirante attrice che si sente sola nella città caotica e un carismatico e sfacciato pianista jazz che impara a sue spese la difficoltà di conciliare una relazione amorosa e la carriera».
A chiudere la programmazione per questa edizione di «Mercoledì d’essai» sarà, nella giornata di mercoledì 26 aprile, la commedia «Mister Felicità» di Alessandro Siani, con Diego Abatantuono e Carla Signoris, che racconta la storia di un giovane napoletano, residente in Svizzera, che si finge assistente del dottor Gioia, un mental coach specializzato nel motivare le persone e nel far ritrovare loro l’ottimismo per affrontare le avversità della vita.
Tutte le proiezioni del cineforum saranno corredate da schede di approfondimento; all’appuntamento pomeridiano, pensato specificatamente per il pubblico della terza età, seguirà sempre un momento conviviale con tè e dolci. Le schede e i trailer dei film in programmazione -comprese le prime visioni, il cui calendario viene diffuso ogni giovedì- sono consultabili sul sito www.cinemateatromanzoni.it. Nel mese di aprile la sala di via Calatafimi ospiterà, inoltre, nella serata di venerdì 7 aprile, alle ore 21, l’associazione «La mia voce ovunque» con lo spettacolo «Io, padrona di me stessa», per le coreografie di Elisa Valentino, Lucia Urgese, Alessio Campanelli ed Angelica Masla. Il costo del biglietto per questo appuntamento, presentato da Massimo Brugnone e patrocinato dal Comune di Busto Arsizio, è fissato ad euro 5,00; per informazioni è possibile contattare Monica Guanzini al numero 347.8148673.
Per maggiori informazioni sulla programmazione della sala è possibile contattare il numero 339.7559644 o lo 0331.677961 (negli orari di apertura del botteghino e in orario serale, dalle ore 20.30 alle ore 21.30, tranne il martedì) o scrivere all’indirizzo info@cinemateatromanzoni.it.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Una scena del film «Il viaggio di Fanny» di Lola Doillon [figg.2, 3, e 4] Una scena del film «La la land»[fig. 5] Immagine promozionale dello spettacolo «Bedda Maki – Come reSUSHItare il ristorante e vivere felici»
Informazioni utili
www.cinemateatromanzoni.it
L’appuntamento teatrale, che gode del patrocinio dell’Amministrazione comunale, si propone di raccogliere fondi a favore del progetto «Borsa di studio Guatemala», un’iniziativa di solidarietà rivolta ai ragazzi in età scolare nata dall’esperienza di alcuni giovani dell’oratorio «San Filippo Neri» di Busto Arsizio nel centro «Manos Amigas», situato nel Sud America, nella campagna di San André Itzapa, tra Città del Guatemala e Antigua. Il costo del biglietto per questo spettacolo, per il quale sarà disponibile anche un servizio di baby sitting, è fissato ad euro 10,00 per l’intero ed euro 5,00 per il ridotto, riservato ai bambini fino ai 12 anni.
All’insegna del sorriso sarà anche l’altro appuntamento teatrale in cartellone nella sala di via Calatafimi per queste prime settimane primaverili. Venerdì 21 aprile, alle ore 21, la stagione «Mettiamo in circolo la cultura», inserita nel cartellone cittadino «BA Teatro», si chiuderà, infatti, con lo spettacolo «Bedda Maki – Come reSUSHItare il ristorante e vivere felici» (biglietti da € 30,00 a € 23,00, in vendita al botteghino da venerdì 14 aprile).
Il testo drammaturgico, scritto da Chiara Boscaro e Marco Di Stefano, ha vinto la quarta edizione del concorso «Una commedia in cerca d'autori», con il quale il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio prosegue la propria collaborazione con la Bilancia Produzioni, realtà che gestisce il teatro Martinitt di Milano e il teatro de’ Servi di Roma, e con altre sale di comunità del territorio come il cine-teatro Cristallo di Cesano Boscone, la Sala Argentia di Gorgonzola e il teatro San Rocco di Seregno.
Cinque giovani e talentuosi attori professionisti -Roberta Azzarone, Caterina Gramaglia, Franco Mirabella, Lorenzo Parrotto e Arturo Scognamiglio- porteranno il pubblico tra i tavoli del ristorante «La Tonnara di Toni», un locale siciliano a Milano che, per sconfiggere la crisi, cerca di trasformarsi in un’azienda di ristorazione particolarmente all’avanguardia, dove i capisaldi della gastronomia isolana vengono trasformati in piatti sushi-fusion.
Con uno stile comico e fluido, lo spettacolo, sapientemente diretto da Roberto Marafante, porta così il pubblico alla scoperta di tanti temi attuali: dai «problemi mai risolti tra il nostro nord e il nostro sud» alla crisi delle attività commerciali, dalla «spasmodica ricerca del nuovo ‘a tutti i costi’» all’improbabile culto del mondo degli chef e molto altro.
Ricco è anche il cartellone della rassegna «Mercoledì d’essai – Stagione 2016/2017», promossa dal cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio nell’ambito del progetto «Sguardi d’essai – Sale cinematografiche culturali a Busto Arsizio». Quattro i film in agenda per questo mese di aprile, con l’usuale doppia programmazione alle ore 16 e alle ore 21.
Si inizia mercoledì 5 aprile con «Non c’è più religione» di Luca Miniero, commedia incentrata sull'incontro-scontro fra diverse etnie e relative confessioni, che vede nel cast Claudio Bisio, Alessandro Gassmann e Angela Finocchiaro. Sarà, quindi, la volta, nella giornata di mercoledì 12 aprile, del film «Il viaggio di Fanny» di Lola Doillon, vincitore dell'ultimo Giffoni Film Festival, nel quale si racconta la storia vera di Fanny Ben-Ami, oggi 86enne, che nel 1943 riuscì a portare, senza adulti, un gruppo di bambini come lei dalla Francia alla Svizzera, fuggendo all’esercito tedesco.
Mercoledì 19 aprile l’atmosfera si tingerà dei colori dell’Oscar con «La la land» di Damien Chazelle, interpretato da Ryan Gosling ed Emma Stone, film che si è aggiudicato sette Golden Globe, la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile alla settantatreesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il premio del pubblico al Toronto International Film Festival e sei statuette alla notte degli Oscar, tra cui quelle per la miglior regia e la miglior colonna sonora. «La storia -si legge nella sinossi- è quella di due sognatori che cercano la fama a Los Angeles, si incontrano e si innamorano: sono un'aspirante attrice che si sente sola nella città caotica e un carismatico e sfacciato pianista jazz che impara a sue spese la difficoltà di conciliare una relazione amorosa e la carriera».
A chiudere la programmazione per questa edizione di «Mercoledì d’essai» sarà, nella giornata di mercoledì 26 aprile, la commedia «Mister Felicità» di Alessandro Siani, con Diego Abatantuono e Carla Signoris, che racconta la storia di un giovane napoletano, residente in Svizzera, che si finge assistente del dottor Gioia, un mental coach specializzato nel motivare le persone e nel far ritrovare loro l’ottimismo per affrontare le avversità della vita.
Tutte le proiezioni del cineforum saranno corredate da schede di approfondimento; all’appuntamento pomeridiano, pensato specificatamente per il pubblico della terza età, seguirà sempre un momento conviviale con tè e dolci. Le schede e i trailer dei film in programmazione -comprese le prime visioni, il cui calendario viene diffuso ogni giovedì- sono consultabili sul sito www.cinemateatromanzoni.it. Nel mese di aprile la sala di via Calatafimi ospiterà, inoltre, nella serata di venerdì 7 aprile, alle ore 21, l’associazione «La mia voce ovunque» con lo spettacolo «Io, padrona di me stessa», per le coreografie di Elisa Valentino, Lucia Urgese, Alessio Campanelli ed Angelica Masla. Il costo del biglietto per questo appuntamento, presentato da Massimo Brugnone e patrocinato dal Comune di Busto Arsizio, è fissato ad euro 5,00; per informazioni è possibile contattare Monica Guanzini al numero 347.8148673.
Per maggiori informazioni sulla programmazione della sala è possibile contattare il numero 339.7559644 o lo 0331.677961 (negli orari di apertura del botteghino e in orario serale, dalle ore 20.30 alle ore 21.30, tranne il martedì) o scrivere all’indirizzo info@cinemateatromanzoni.it.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Una scena del film «Il viaggio di Fanny» di Lola Doillon [figg.2, 3, e 4] Una scena del film «La la land»[fig. 5] Immagine promozionale dello spettacolo «Bedda Maki – Come reSUSHItare il ristorante e vivere felici»
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