Diffusa in un momento storico come quello del secondo Dopoguerra, dove la fotografia trovava sempre più spazio sui rotocalchi patinati -da «L'Espresso» a «L'Europeo», da «Epoca» a «Il Mondo»- ma anche in testate di carattere culturale, a partire dalla raffinata rivista «Il Politecnico», diretta da Elio Vittorini e impaginata da Albe Steiner, «Ferrania» si distinse subito per non essere un mero bollettino aziendale, ma un «veicolo di pubbliche relazioni», un prodotto di alto profilo culturale anche grazie all’illuminata direzione di Guido Bezzola, cattedratico di letteratura italiana, e di Alfredo Ornano, fotografo e grande esperto di chimica.
Su quelle pagine, che lo storico della fotografia Italo Zannier definì «una specie di Camera Work italiana», scrissero autori del calibro di Giuseppe Turroni, Ugo Casiraghi, Morando Morandini, Folco Quilici, Dino Formaggio, solo per citarne qualcuno. L'impaginazione e la direzione artistica potevano, invece, contare sull'esperienza di Luigi Veronesi, fotografo e pittore astrattista, che diede alla rivista -come a tutte le pubblicità dell’azienda Ferrania- un’impronta di straordinaria modernità.
Sin dai primi numeri, il periodico dedicò ampio spazio alla fotografia in bianconero (la prima copertina a colori è del 1955 in contemporanea con la comparsa del sottotitolo «Rivista mensile di fotografia e cinematografia») pubblicando sia portfolio di grandi autori internazionali come Édouard Boubat, Brassaï, Izis e Otto Steinr sia opere di bravi fotoamatori, alcuni dei quali, come Mario De Biasi, Cesare Colombo, Gianni Berengo Gardin, Fulvio Roiter, si sarebbero poi imposti come professionisti.
La scoperta di nuovi talenti era strettamente legata al lancio di bandi fotografici, base per la creazione del prestigioso archivio dell’azienda Ferrania, un patrimonio di centodieci mila immagini (tra lastre, cartoline fotografiche, negativi, stampe vintage e riproduzioni), acquisito negli anni Sessanta da 3M.
Tirata in tremila e cinquecento copie per fascicolo nell’invariato formato A4 (24 x 30 centimetri) di quaranta pagine su carta patinata, «Ferrania» si caratterizzò, nel corso degli anni, per una struttura organizzata in una successione di articoli di natura critica, tra saggi, recensioni e profili degli autori. Le ultime pagine del periodico erano, invece, dedicate a schede monografiche relative a personalità artistiche del passato. Non mancavano, poi, consigli tecnici e suggerimenti sugli obiettivi, ovvero articoli che permettevano ai fotoamatori di conoscere i nuovi prodotti dell’azienda milanese.
Vicina all’estetica crociana, cara a una delle firme più attive della rivista - quella di Giuseppe Cavalli, sperimentatore della cosiddetta tecnica high-key e firmatario del celebre «Manifesto della Bussola» -, la rivista era attenta anche al mondo del cinema, che raccontava da un punto privilegiato visto che l'azienda Ferrania forniva le pellicole ai più grandi registi italiani, da Federico Fellini a Pier Paolo Pasolini.
Questa ossatura editoriale venne mantenuta fino all’ultimo numero, uscito nel dicembre 1967. Con il consueto annuario del meglio della fotografia dell’anno, pubblicato a partire dal 1957, «Ferrania» chiudeva i battenti, ma il suo stile – ricorda Roberto Mutti- «lasciava un’importante eredità con cui ancora oggi si fanno i conti».
È, dunque, prezioso il lavoro fatto dalla Fondazione 3M, istituzione culturale permanente, snodo di divulgazione e formazione, dove scienza e ricerca, arte e cultura, discipline economiche e sociali, vengono approfondite, tutelate, promosse e valorizzate, nella consapevolezza dei valori d'impresa e della cultura dell'innovazione.
Si deve, infatti, a questo prestigioso ente italiano, con sedi a Roma e Milano, la digitalizzazione di tutti i numeri della rivista «Ferrania». Il progetto, che è stato realizzato in collaborazione con la Scuola normale superiore di Pisa, permette così, con un semplice clic, di sfogliare e di consultare la rivista comodamente da casa. Un’ottima occasione, questa, per gli studiosi (ma anche per i semplici appassionati di fotografia) nei giorni del secondo lockdown della cultura, con le biblioteche chiuse e la necessità di affidarsi solo a Internet (e alla propria biblioteca personale) per le ricerche e gli studi.
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