«Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerarietà […] il coraggio, l'audacia, la ribellione […] il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della vittoria di Samotracia». Con questa dichiarazione di intenti, pubblicata il 20 febbraio del 1909 sul giornale francese Le Figaro e ristampata poco dopo sulla rivista milanese Poesia, lo scrittore Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d'Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) dava inizio all'avventura di uno dei più noti movimenti d'avanguardia del XX secolo: il Futurismo.
Presupposto teorico di questo gruppo, votato al mito del progresso e a quello della macchina, le cui alterne vicende segnarono profondamente la storia culturale del nostro Paese all'inizio del XX secolo, fu la volontà di modificare radicalmente non solo i vari settori delle cosiddette arti maggiori e di quelle applicate (pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, musica, teatro e letteratura), ma anche i diversi aspetti dell'esistenza pratica, ossia l'intero sistema sociale. Tra i campi d'intervento della «rivoluzione» futurista non poteva, dunque, mancare il mondo dei fornelli, le cui tradizioni vennero stravolte a favore di inusuali accostamenti di gusti e di strane combinazioni di alimenti, spesso dagli sfrenati cromatismi.
Un iniziale tentativo di sovvertire usi e abitudini relativi ai piaceri del palato venne sperimentato dagli artisti avanguardisti con la Cena a rovescio, che si tenne al Politeama Rossetti di Trieste il 12 gennaio 1910, in occasione della prima delle tante serate propagandistiche che il movimento marinettiano organizzò nei trent'anni della sua storia, e dove vennero servite - cominciando dal caffè per terminare con l'antipasto - portate dai nomi polemici e astrusi che, in realtà, di nuovo avevano ben poco come i Grumi di sangue in brodo, l'Arrosto di mummia con fegatini di professore e la Marmellata di gloriosi defunti.
Nei primi anni Dieci l'uso di vivande futuriste ricorse anche in altre occasioni, tra cui la più nota è la cena organizzata il 9 marzo del 1913 alle Venete, trattoria romana di via Campo Marzio amata da Pellegrino Artusi per i suoi saltimbocca, dove vennero portate in tavola pietanze come i Trafiletti con poemi d'Auro d'Alba, il Contro-Carrà di vitello con salsa Russola, i Panini Soffici e il Tim-Tim-Balla alla vaniglia, il tutto accompagnato da Boccioni di vino, in onore degli artisti che quella stessa sera si erano cimentati al teatro Costanzi in uno spettacolo inneggiante allo schiaffo e al pugno, ossia alla lotta politica e alla guerra.
Qualche mese dopo il banchetto capitolino, il 1° settembre del 1913, uscì sulla rivista francese Fantasio lo scritto La cuisine futuriste dello chef Jules Maincave, prima esplicita dichiarazione di rottura con la tradizione culinaria, dove si legge l'invito ad attaccare le «due formidabili Bastiglie della cucina moderna: le misture e gli aromi», e dove viene presentata la proposta, allora innovativa, di miscelare gli alimenti con liquidi abitualmente inutilizzati nella preparazione delle vivande come le essenze di rosa, violetta, mughetto, lillà e verbena, in modo da procurare sensazioni gustative nuove e sorprendenti.
A questo documento programmatico fece seguito il 9 maggio del 1920 il manifesto Culinaria futurista, pubblicato sulla rivista Roma futurista da una non meglio identificata Irba futurista, per la quale il rinnovamento gastronomico equivaleva a rompere con il «noiosissimo e passatista ordinamento» nella
successione delle vivande, con il servizio di «porcellana bianca con la riga bleu e d'oro, tanto caro ai borghesi» e con le «vivande che sembrano annoiarsi sull'uniformità dei piatti pedantescamente uguali», facendo ridere di gioia la tavola con «la diversità dei rosso-verdi-giallo-azzurro dei piatti grandi-piccoli-ovali-quadri-tondi».
Una vera e propria campagna per l'affermazione di una tavola avanguardista, con teorie e proposte concrete, prese, però, avvio soltanto il 28 dicembre del 1930, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblicò sulla Gazzetta del Popolo di Torino il Manifesto della cucina futurista, scritto che venne rilanciato nel gennaio successivo sulla Cucina italiana di Umberto Notari.
La pubblicazione del documento programmatico fu anticipata, il 15 novembre del 1930, da una serata al ristorante Penna d'oca di Milano, ritrovo dei più noti e affermati giornalisti lombardi del tempo, in cui lo scrittore di Alessandria d'Egitto rese nota la propria vibrante sfida contro la pastasciutta, definita con espressioni enfatiche e dispregiative quali «assurda religione gastronomica», «alimento amidaceo (…) che si ingozza e non si mastica», «palla e rudere che gli italiani portano nello stomaco come ergastolani e archeologi», «vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti e pessimisti», in nome di una «cucina chimica» che dimentichi il «quotidiano mediocrista dei piaceri del palato» attraverso l'utilizzo di «nuove miscele apparentemente assurde».
Oltre all'eliminazione delle tagliatelle e dei maccheroni, cibi «antivirili» e «antiguerrieri», Filippo Tommaso Marinetti predicò l'abolizione della forchetta e del coltello a favore della riscoperta del «piacere tattile prelabiale»; auspicò la creazione di «bocconi simultanei e cangianti»; incoraggiò l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi; e invitò al consumo di riso, carne e verdure.
Ciò che, però, suscitò maggior interesse del suo manifesto fu la crociata contro gli spaghetti, a cui venne dato ampio spazio sulla stampa, dove si fronteggiarono pareri contrari e favorevoli: La cucina italiana aprì un'inchiesta accogliendo interventi di esponenti della cultura e di illustri medici del tempo; altri giudizi trovarono una tribuna su Il Giornale della Domenica di Roma, la Gazzetta del Popolo di Torino, il Secolo XIX di Genova e, persino, sul New York Times e sul Chicago Tribune; mentre alcuni giornali umoristici come il Guerin Meschino e il Marc'Aurelio si sbizzarrirono con vignette e battute.
Le polemiche infiammarono anche gli stessi sodali del gruppo: non tutti erano d'accordo nel mettere al bando «un piatto per cui l'Italia poteva menar vanto nel mondo». Il poeta Farfa definì, per esempio, i ravioli «lettere d'amore in busta color rosa»; mentre i futuristi liguri scrissero sulla rivista Oggi e Domani, nel primo numero del 1931, una lettera-supplica a Filippo Tommaso Marinetti affinché risparmiasse nella sua crociata contro la pasta almeno le trenette al pesto.
In questo clima di rivolta, la sera dell'8 marzo del 1931 aprì a Torino la Taverna del Santopalato, un locale di proprietà del ristoratore Angelo Gioachino che aveva «lo scopo preciso di passare dalla teoria alla pratica nella polemica futurista» attraverso un programma tecnico e di rinnovamento del gusto e delle abitudini alimentari degli italiani, realizzato con l'invenzione di nuove vivande. Il banchetto inaugurale vide l'aeropittore Fillia e il critico d'arte futurista Paolo Alcide Saladin in gara con i cuochi Piccinelli e Borghese nella preparazione del complesso menù della serata, in cui vennero serviti piatti dai nomi curiosi come l'Antipasto intuitivo, il Brodo solare, il Carneplastico, il Mare d'Italia e il Pollofiat.
Tra il febbraio del 1931 e il marzo del 1932, il movimento futurista portò avanti la propria crociata contro la pastasciutta, con una serie di conferenze in parecchie città italiane e straniere come Savona, Cuneo, Trieste, Brescia, Budapest, Sofia e Tunisi e con una serie di banchetti dimostrativi che toccarono le città di Parigi, Novara, Chiavari e Bologna, intorno ai quali fiorirono numerosi aneddoti. Stando a quanto racconta lo stesso Filippo Tommaso Marinetti, nel libro La cucina futurista, le donne aquilane uscirono dalla loro usuale apatia per firmare una solenne lettera-supplica a favore della pasta, a Napoli si fecero cortei popolari in difesa dei vermicelli, il piatto amato da Pulcinella, e su molti giornalisti scandalistici comparirono dei fotomontaggi in cui era immortalato il padre del Futurismo impegnato a ingozzarsi di spaghetti.
La storia di questi due anni di cucina avanguardista, all'insegna della sorpresa e della teatralità, venne pubblicata nel 1932 dalla Casa Treves, l'attuale Sonzogno, con un ricco corredo di lettere, di articoli, notizie sui grandi pranzi futuristi completi di menù e di ricette, nonché di un formulario futurista per ristoranti e bar, ribattezzati da Filippo Tommaso Marinetti e da Fillìa - autori del volume - «quisibeve», oltre che da un piccolo dizionario, in cui i termini relativi alla ristorazione erano stati riscritti in modo da abolire ogni parola straniera: il dessert era diventato il «peralzarsi», il cocktail la «polibibita», il picnic il «prestoalsole», il menù la «listavivande» e il sandwich il «traidue».
Con la pubblicazione di questo libro venne definitivamente codificato il regno di una gastronomia che, abbandonati i tempi medio-lunghi di cottura a fuoco lento e tutti i cibi complessi da cucinare, puntava sulla carne poco cotta, sugli accostamenti arditi e sconvolgenti, sul disordine nella presentazione delle
portate, su «miscugli non conformisti» come il dolce-salato e il cotto-crudo, su bocconi «simultanei», in cui si concentravano molteplici sapori da gustare in pochi attimi, sull'invenzione di nuove vivande ispirate all'originalità plastica e coloristica più che alla gradevolezza e alla commestibilità.
L'esperienza futurista non segnò, comunque, la svolta gastronomica desiderata dai suoi ideatori: la Taverna del Santopalato ebbe vita breve, gli aerobanchetti si esaurirono nell'indifferenza generale e le ricette «antipassatiste» non fecero presa sulle massaie, essendo più espressione artistica e appagamento cerebrale che non soddisfazione del gusto. Figlia del proprio tempo nell'esaltazione del nazionalismo e della guerra (lo documentano gli echi bellici o patriottici di pietanze come il Pollo d'acciaio e il Golfo di Trieste), ma figlia anche di un passato culinario glorioso che ha le proprie radici nella Roma Imperiale e nel Rinascimento dove si usava condire i piatti con petali di rosa, mosto o miele, la cucina di Marinetti e sodali è stata riscoperta solo in anni recenti, con l'avvento della nouvelle cuisine, come dimostrano il continuo ricorso ad alimenti esotici (carne di cammello, formaggio d'Olanda, noccioline, datteri, ananas, tamarindo, frutta candita, miele e zabaione), l'uso di accostare sapori tra loro distanti (datteri e acciughe o carne e banana) e, soprattutto, l'attenzione per l'aspetto pittorico e scultoreo delle portate, cosicché – diceva Martinetti – tutte le persone «abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d'arte».
Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Modello di listavivande (menù) della Taverna del Santopalato di Torino; [fig. 4] Disegno di Marialuisa de Romans per la copertina del volume La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (edizioni Marinotti, 1998); [fig. 5] Interno della Taverna del Santopalato di Torino, primo ristorante futurista italiano; [fig. 6 ] Filippo Tommaso Marinetti in cucina; [ fig. 7] Marinetti al ristorante Biffi di Milano mentre mangia un piatto di pastasciutta, 1930 ca. [ presunto fotomontaggio]
Bibliografia essenziale
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, s.d. [ma: 1932]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi, [1986]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Viennepierre, Milano 2007 (ristampa: 2009)
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista: un pranzo che evitò un suicidio, Milano, C. Marinotti, 1998
Claudia Salaris, Cibo futurista: dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, Stampa Alternativa /Nuovi equilibri, Roma 2000
Maria Salemi, La cucina futurista. La cucina Liberty, Firenze, Libriliberi, 2003
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
giovedì 7 gennaio 2010
mercoledì 6 gennaio 2010
Da Torino a Salerno, «Luci d’artista» per le feste
E' una notte dai mille colori quella che Torino sta vivendo in questo inizio 2010. Per il dodicesimo anno consecutivo, al tramonto del sole e fino all’una di notte, il capoluogo piemontese si trasforma, infatti, in un museo a cielo aperto. L'occasione è offerta dalla nuova edizione di Luci d'artista, iniziativa nata nel 1998 da un'idea dell'amministrazione comunale sabauda, di concerto con la Regione Piemonte, che trasforma le tradizionali luminarie natalizie in un evento artistico capace di rinnovare il volto della città, dal centro storico alla periferia. Ed è proprio all'entrata sud del capoluogo piemontese che si trova la prima delle quindici opere con cui grandi firme dell’arte contemporanea celebrano, quest'anno, la magia del Natale. Si tratta di Luce Fontana Ruota di Gilberto Zorio, una stella a cinque punte, fonte di energia e forma emblematica, che gira come un mulino sollevando, nelle acque del laghetto Italia '61, cascate e spruzzi illuminati da potenti fotocellule.
Il percorso espositivo, oltre a quest’opera, propone altri dodici lavori già noti al grande pubblico: dalla gioiosa e caleidoscopica Regno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime, un giardino incantato, dalle cromie forti e intense, con cui Nicola De Maria ridisegna il volto di piazza san Carlo, alla spettacolare installazione Piccoli spiriti blu di Rebecca Horn, con cerchi di luce capaci di donare un aspetto surreale e onirico, quasi da astronave in volo, alla chiesa di santa Maria al Monte dei Cappuccini.
Quest’opera, formata da una serie di panelli trasparenti e di luce azzurra, allieta la vista anche di chi si ritrova ai Murazzi del Po, fulcro della movida torinese, dove l'artista americano Joseph Kosuth presenta le sue scritte luminose al neon per Doppio passaggio (Torino), un lavoro che –scrisse Franco Fanelli – propone «due citazioni di altrettanti genii loci, Italo Calvino e Friedrich Nietzsche, il filosofo che proprio a Torino avvertì i primi sintomi della pazzia».
Il punto di vista migliore per ammirare quest’installazione, le cui frasi sono montate in modo speculare, è il ponte verso la chiesa della Grande Madre di Dio, dalla cui scalinata si può vedere anche Il volo dei numeri del compianto Mario Merz, che mette sulla Mole Antonelliana, sede del Museo nazionale del cinema, un sottile filo di luce rossa, che corre lungo uno spigolo della cupola. Solo arrivando fin sotto l'edificio si scopre che quella strana insegna al neon è in realtà una sequenza di numeri: 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89. È la cosiddetta serie di Fibonacci, un crescendo numerico in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti.
Partendo da qui ci si può spostare in via Po, dove Giulio Paolini ha allestito Palomar, una successione di forme astronomiche e geometriche che termina con la sagoma di un acrobata. Quest’opera è una vera e propria meraviglia per gli occhi così come le Cosmometrie di Mario Airò a Palazzo Carignano e il coloratissimo Tappeto volante di Daniele Buren nell’antica piazza delle Erbe (oggi conosciuta come piazza Palazzo di Città). Da qui si intravede il suggestivo intervento di Luigi Stoisa per via Garibaldi, Noi, nel quale due figure contrapposte rosse, una femminile e l'altra maschile, sono sospese nel cielo, quasi a dire che «il Natale più bello siamo noi, uomini e donne, uniti in un solo e unico pensiero, mente e corpi illuminati da una luce penetrante».
Poco lontano, a Porta Palazzo, contesto urbano in cui maggiormente si concentrano e si incontrano diverse etnie e religioni, Michelangelo Pistoletto ha posto la sua installazione Love difference - Amare le differenze, dove questa frase di apertura all’altro, al diverso da noi, appare scritta in trentanove lingue differenti. A chiudere il percorso tra le “vecchie" meraviglie luminose che rendono ancora più magica l'atmosfera invernale di Torino, tutte visibili fino a domenica 10 gennaio, si trovano le creature sospese nel vuoto dell'opera Volo su di Francesco Casorati in via Roma, gli ideogrammi al neon di Qingyun Ma per Neongraphy alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, e le frasi di Domenico Luca Pannoli sull'amore nel quartiere della Crocetta (corso De Gasperi, via Colombo e via Piazzi).
Questa edizione della manifestazione torinese, realizzata grazie al contributo di Fondazione Crt, Gruppo Iride, Compagnia San Paolo, Camera di Commercio e Ferrovie dello Stato, rimarrà, però, impressa nella mente per le sue due novità: i giochi di luci blu, bianche e rosse dell’opera L'energia che unisce si espande nel blu del torinese Marco Gastini alla Galleria Subalpina, storico passaggio al coperto tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto, e il progetto Mosaico di Enrica Borghi in via Lagrange, centocinquanta pannelli costituiti da una struttura in alluminio ai cui lati sono posizionati fondi di bottiglia forati ed uniti tra loro da fascette autobloccanti. L'opera vuole essere un omaggio agli antichi decori realizzati all'interno del Duomo di Salerno e intende sottolineare la bellezza e le luci del Mediterraneo, luogo di scambio di merci, di profumi e di brusio di gente. Ed è proprio nella città campana che, da quattro anni, si ha, grazie alla collaborazione con il Comune di Torino, una nuova Luci d’artista. Tema di questa edizione, in programma fino a domenica 10 gennaio, è Il giardino incantato e le figure del mito, grazie al quale viene ricreato nelle strade del centro storico e della periferia un mondo da favola, popolato da fate, draghi, unicorni, maghi, cavallucci marini, pesci e fenici, ma anche da cieli stellati, angeli, alberi, rami luminosi e una grande slitta di Babbo Natale, carica di doni.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Mario Merz, Il volo dei numeri – Luci d’artista, Torino; [ fig. 2] Daniel Buren, Tappeto volante – Luci d’artista, Torino; [fig. 3] Rebecca Horn, Piccoli spiriti blu – Luci d’artista, Torino; [fig. 4] Marco Gastini, L'energia che unisce si espande nel blu– Luci d’artista, Torino; [fig. 5] Enrica Borghi, Mosaico – Luci d’artista, Torino; [fig. 6] Un’opera di Luci d’artista: Il giardino incantato e le figure del mito, Salerno 2009.
Per saperne di più
Luci d'artista 2009 su Contemporary Art Torino Piemonte
Luci d’artista 2009 su Scatto – Il fotoblog della città di Torino
Luci d’artista 2009 sul sito del Comune di Torino
La cartina di Luci d'artista 2009 a Torino
Luci d’artista 2009 sul sito del Comune di Salerno
Vedi anche
Enrica Borghi e i suoi lavori con materiali di scarto
Il percorso espositivo, oltre a quest’opera, propone altri dodici lavori già noti al grande pubblico: dalla gioiosa e caleidoscopica Regno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime, un giardino incantato, dalle cromie forti e intense, con cui Nicola De Maria ridisegna il volto di piazza san Carlo, alla spettacolare installazione Piccoli spiriti blu di Rebecca Horn, con cerchi di luce capaci di donare un aspetto surreale e onirico, quasi da astronave in volo, alla chiesa di santa Maria al Monte dei Cappuccini.
Quest’opera, formata da una serie di panelli trasparenti e di luce azzurra, allieta la vista anche di chi si ritrova ai Murazzi del Po, fulcro della movida torinese, dove l'artista americano Joseph Kosuth presenta le sue scritte luminose al neon per Doppio passaggio (Torino), un lavoro che –scrisse Franco Fanelli – propone «due citazioni di altrettanti genii loci, Italo Calvino e Friedrich Nietzsche, il filosofo che proprio a Torino avvertì i primi sintomi della pazzia».
Il punto di vista migliore per ammirare quest’installazione, le cui frasi sono montate in modo speculare, è il ponte verso la chiesa della Grande Madre di Dio, dalla cui scalinata si può vedere anche Il volo dei numeri del compianto Mario Merz, che mette sulla Mole Antonelliana, sede del Museo nazionale del cinema, un sottile filo di luce rossa, che corre lungo uno spigolo della cupola. Solo arrivando fin sotto l'edificio si scopre che quella strana insegna al neon è in realtà una sequenza di numeri: 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89. È la cosiddetta serie di Fibonacci, un crescendo numerico in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti.
Partendo da qui ci si può spostare in via Po, dove Giulio Paolini ha allestito Palomar, una successione di forme astronomiche e geometriche che termina con la sagoma di un acrobata. Quest’opera è una vera e propria meraviglia per gli occhi così come le Cosmometrie di Mario Airò a Palazzo Carignano e il coloratissimo Tappeto volante di Daniele Buren nell’antica piazza delle Erbe (oggi conosciuta come piazza Palazzo di Città). Da qui si intravede il suggestivo intervento di Luigi Stoisa per via Garibaldi, Noi, nel quale due figure contrapposte rosse, una femminile e l'altra maschile, sono sospese nel cielo, quasi a dire che «il Natale più bello siamo noi, uomini e donne, uniti in un solo e unico pensiero, mente e corpi illuminati da una luce penetrante».
Poco lontano, a Porta Palazzo, contesto urbano in cui maggiormente si concentrano e si incontrano diverse etnie e religioni, Michelangelo Pistoletto ha posto la sua installazione Love difference - Amare le differenze, dove questa frase di apertura all’altro, al diverso da noi, appare scritta in trentanove lingue differenti. A chiudere il percorso tra le “vecchie" meraviglie luminose che rendono ancora più magica l'atmosfera invernale di Torino, tutte visibili fino a domenica 10 gennaio, si trovano le creature sospese nel vuoto dell'opera Volo su di Francesco Casorati in via Roma, gli ideogrammi al neon di Qingyun Ma per Neongraphy alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, e le frasi di Domenico Luca Pannoli sull'amore nel quartiere della Crocetta (corso De Gasperi, via Colombo e via Piazzi).
Questa edizione della manifestazione torinese, realizzata grazie al contributo di Fondazione Crt, Gruppo Iride, Compagnia San Paolo, Camera di Commercio e Ferrovie dello Stato, rimarrà, però, impressa nella mente per le sue due novità: i giochi di luci blu, bianche e rosse dell’opera L'energia che unisce si espande nel blu del torinese Marco Gastini alla Galleria Subalpina, storico passaggio al coperto tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto, e il progetto Mosaico di Enrica Borghi in via Lagrange, centocinquanta pannelli costituiti da una struttura in alluminio ai cui lati sono posizionati fondi di bottiglia forati ed uniti tra loro da fascette autobloccanti. L'opera vuole essere un omaggio agli antichi decori realizzati all'interno del Duomo di Salerno e intende sottolineare la bellezza e le luci del Mediterraneo, luogo di scambio di merci, di profumi e di brusio di gente. Ed è proprio nella città campana che, da quattro anni, si ha, grazie alla collaborazione con il Comune di Torino, una nuova Luci d’artista. Tema di questa edizione, in programma fino a domenica 10 gennaio, è Il giardino incantato e le figure del mito, grazie al quale viene ricreato nelle strade del centro storico e della periferia un mondo da favola, popolato da fate, draghi, unicorni, maghi, cavallucci marini, pesci e fenici, ma anche da cieli stellati, angeli, alberi, rami luminosi e una grande slitta di Babbo Natale, carica di doni.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Mario Merz, Il volo dei numeri – Luci d’artista, Torino; [ fig. 2] Daniel Buren, Tappeto volante – Luci d’artista, Torino; [fig. 3] Rebecca Horn, Piccoli spiriti blu – Luci d’artista, Torino; [fig. 4] Marco Gastini, L'energia che unisce si espande nel blu– Luci d’artista, Torino; [fig. 5] Enrica Borghi, Mosaico – Luci d’artista, Torino; [fig. 6] Un’opera di Luci d’artista: Il giardino incantato e le figure del mito, Salerno 2009.
Per saperne di più
Luci d'artista 2009 su Contemporary Art Torino Piemonte
Luci d’artista 2009 su Scatto – Il fotoblog della città di Torino
Luci d’artista 2009 sul sito del Comune di Torino
La cartina di Luci d'artista 2009 a Torino
Luci d’artista 2009 sul sito del Comune di Salerno
Vedi anche
Enrica Borghi e i suoi lavori con materiali di scarto
mercoledì 21 ottobre 2009
«Sovrana eleganza»: la moda di Capucci in scena al Castello di Bracciano
«Uno storico potrebbe descriverli come “soffici corazze” del Medioevo. Un botanico potrebbe vederli come corolle giganti dalle quali si irradiano petali di seta in toni orientali. Un matematico commenterebbe indubbiamente sulle drammatiche forme geometriche impiegate nel disegno». Non ci sono parole migliori di quelle usate da Germano Celant, in un numero di Interview del 1991, per descrivere gli abiti di Roberto Capucci (Roma, 1930), uno dei più grandi maître couturier italiani, le cui creazioni sartoriali trascendono la funzione di mera copertura del corpo per diventare meraviglie degli occhi, curiose costruzioni in tessuto, che sembrano far proprio l'aneddoto di Oscar Wilde: «O si è un'opera d'arte o la si indossa».
Ne dà prova la mostra Sovrana eleganza, curata dallo stesso stilista e allestita, fino alla prossima domenica 13 dicembre, nell’area museale di uno dei manieri più maestosi d’Europa, il quattrocentesco Castello Odescalchi di Bracciano, i cui responsabili si sono occupati per l’occasione anche del restauro di un’opera della collezione: un prezioso dipinto raffigurante Cristina di Svezia in abiti regali, la cui azione conservativa ha restituito al pubblico la ricchezza e la magnificenza delle sete, dei gioielli, delle perle che incorniciano la sovrana.
Tra il secondo piano dell’ala nobile, il loggiato e l’antica sala del guardaroba, in un suggestivo dialogo con lo sfarzo dei velluti e broccati dei grandi ritratti e le armi lucenti in acciaio della raccolta del museo laziale, sessantasei abiti-sculture, che all'esuberanza delle forme coniugano la vivacità cromatica, raccontano la vicenda creativa del maestro romano, che ha fatto proprio il motto di Friedrich Schiller, lo stesso prescelto da Gustav Klimt a commento di un suo celebre dipinto, Nuda veritas: «se quello che fai o crei non piacerà alle folle, cerca di deliziare i pochi. È un errore voler piacere a tutti».
Sin dal 1951, anno della sua prima sfilata a Firenze per iniziativa del marchese Giovanni Battista Giorgini, Roberto Capucci ha, infatti, prodotto abiti sofisticati, magici che nulla hanno a che fare con la serialità e la riproducibilità, con i diktat dell'industria della moda. Le raffinate e pregevoli creazioni del sarto-artista che ha vestito, tra le tante, Silvana Mangano, Esther Williams, Valentina Cortese e il premio Nobel Rita Levi Montalcini sembrano anzi inespugnabili e inabitabili fortezze con le loro spirali vertiginose, i multiformi ventagli, gli ingombranti pannelli multicolori e le macchinazioni sartoriali di enfasi barocca. Eppure i vestiti dell'archivio Capucci, frutto di centinaia e centinaia di ore di lavoro, sono stati indossati almeno una volta; hanno fatto, anche solo per pochi istanti, sognare a una donna di essere la regina di una favola a lieto fine.
Sensazione da fiaba sarà anche quella provata da chi entrerà nei prossimi mesi al Castello di Bracciano, trasformato per l’occasione in una coloratissima e magica «wunderkammer», stanza delle meraviglie, in cui organze satinate, rasi, lamè e sete -«studi di forme e di colore», come afferma lo stesso stilista- discorrono silenziosamente tra loro per raccontare mezzo secolo di couture.
Tra l’altro, sfilano in mostra sette abiti da sposa, uno rosso donato dal museo Fortuny di Venezia, il vestito Fuoco con il volume del plissé verso l’alto, gli abiti-scultura «a scatola» della fine degli anni Cinquanta e quelli ispirati ai capitelli corinzi. Tratto distintivo di questa esposizione è, però, lo studio dei rapporti di Roberto Capucci con le altre arti, in primis la musica e il teatro. Ecco così che in un’ala del castello, nella sezione conclusiva del percorso espositivo della mostra, si ritrovano a sorpresa le note di Armando Trovajoli per la commedia musicale Vacanze Romane, andata in scena nel 2004 al teatro Sistina di Roma e tratta dal celebre film di William Wyler che aveva come indimenticabile protagonista l’icona della moda sofisticata e dello stile, Audrey Hepburn. Mentre nella sala della Loggia fanno mostra di sé venticinque disegni di costumi teatrali, fino ad ora inediti e presentati in catalogo da Luca Ronconi. Bozzetti, questi, pensati non per una specifica produzione, ma nati da un esercizio creativo e tesi a illustrare il desiderio del sarto-artista di misurare il proprio caleidoscopico immaginario con le potenzialità espressive e comunicative dell’abito, che diviene costume quando usa la propria forma e la propria materia per descrivere un carattere e costruire un personaggio.
Il tutto concorre a dimostrare come Roberto Capucci abbia guardato ai grandi maestri del Rinascimento, Beato Angelico e Benozzo Gozzoli, Carpaccio e Tiziano, meditandone il senso del colore, i volumi delle stoffe e le architetture degli abiti. Ne emerge, dunque, il ritratto di uno stilista anticonformista, capace di dar luogo a una meravigliosa sinfonia di colori, a un grande affresco dall'opulenza rinascimentale, a uno stile inconfondibile che «come un verso di Dante o Shakespeare -scriveva Francesco Alberoni, nel 1990- si riconosce in mezzo a tutti gli altri».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] 1984, Parigi Ambasciata d’Italia. Abito-scultura in crepe seta rosso, maniche in gazaar multicolori effetto petali. Loggia Corte d’Onore Castello Odescalchi di bracciano. Foto: Claudia Primangeli; [fig. 2] 1992, Berlino Teatro Schauspielhaus. Abito scultura taffetas verde scuro vari colori nel motivo a farfalla. Giardino del granaio Castello Odescalchi di Bracciano. Foto: Claudia Primangeli; [fig. 3] 1984, Parigi Ambasciata d’Italia. Abito-scultura in crepe seta rosso, maniche in gazaar multicolori effetto petali. Loggia Corte d’Onore Castello Odescalchi di Bracciano – Foto: Claudia Primangeli; [fig. 4] 1992, Berlino Teatro Schauspielhaus. Abito scultura taffetas nero e bianco sovrapposizioni multicolori – Saloni del Piano Nobile Castello Odescalchi di Bracciano – Foto: Claudia Primangeli; [fig. 5] Abito scultura con corpino in stile capitello corinzio:Foto: Claudia Primangeli.
Informazioni utili
Sovrana eleganza. Castello Odescalchi, piazza Mazzini, 14 - Bracciano (Roma). Orari: da martedì a domenica, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 17. Biglietti: intero € 7.00, riduzione per gruppi € 5.00. Catalogo: Allemandi, Torino. Infoline: tel. 06.99802379. Web Site: www.odescalchi.it. Fino al 13 dicembre 2009.
Ne dà prova la mostra Sovrana eleganza, curata dallo stesso stilista e allestita, fino alla prossima domenica 13 dicembre, nell’area museale di uno dei manieri più maestosi d’Europa, il quattrocentesco Castello Odescalchi di Bracciano, i cui responsabili si sono occupati per l’occasione anche del restauro di un’opera della collezione: un prezioso dipinto raffigurante Cristina di Svezia in abiti regali, la cui azione conservativa ha restituito al pubblico la ricchezza e la magnificenza delle sete, dei gioielli, delle perle che incorniciano la sovrana.
Tra il secondo piano dell’ala nobile, il loggiato e l’antica sala del guardaroba, in un suggestivo dialogo con lo sfarzo dei velluti e broccati dei grandi ritratti e le armi lucenti in acciaio della raccolta del museo laziale, sessantasei abiti-sculture, che all'esuberanza delle forme coniugano la vivacità cromatica, raccontano la vicenda creativa del maestro romano, che ha fatto proprio il motto di Friedrich Schiller, lo stesso prescelto da Gustav Klimt a commento di un suo celebre dipinto, Nuda veritas: «se quello che fai o crei non piacerà alle folle, cerca di deliziare i pochi. È un errore voler piacere a tutti».
Sin dal 1951, anno della sua prima sfilata a Firenze per iniziativa del marchese Giovanni Battista Giorgini, Roberto Capucci ha, infatti, prodotto abiti sofisticati, magici che nulla hanno a che fare con la serialità e la riproducibilità, con i diktat dell'industria della moda. Le raffinate e pregevoli creazioni del sarto-artista che ha vestito, tra le tante, Silvana Mangano, Esther Williams, Valentina Cortese e il premio Nobel Rita Levi Montalcini sembrano anzi inespugnabili e inabitabili fortezze con le loro spirali vertiginose, i multiformi ventagli, gli ingombranti pannelli multicolori e le macchinazioni sartoriali di enfasi barocca. Eppure i vestiti dell'archivio Capucci, frutto di centinaia e centinaia di ore di lavoro, sono stati indossati almeno una volta; hanno fatto, anche solo per pochi istanti, sognare a una donna di essere la regina di una favola a lieto fine.
Sensazione da fiaba sarà anche quella provata da chi entrerà nei prossimi mesi al Castello di Bracciano, trasformato per l’occasione in una coloratissima e magica «wunderkammer», stanza delle meraviglie, in cui organze satinate, rasi, lamè e sete -«studi di forme e di colore», come afferma lo stesso stilista- discorrono silenziosamente tra loro per raccontare mezzo secolo di couture.
Tra l’altro, sfilano in mostra sette abiti da sposa, uno rosso donato dal museo Fortuny di Venezia, il vestito Fuoco con il volume del plissé verso l’alto, gli abiti-scultura «a scatola» della fine degli anni Cinquanta e quelli ispirati ai capitelli corinzi. Tratto distintivo di questa esposizione è, però, lo studio dei rapporti di Roberto Capucci con le altre arti, in primis la musica e il teatro. Ecco così che in un’ala del castello, nella sezione conclusiva del percorso espositivo della mostra, si ritrovano a sorpresa le note di Armando Trovajoli per la commedia musicale Vacanze Romane, andata in scena nel 2004 al teatro Sistina di Roma e tratta dal celebre film di William Wyler che aveva come indimenticabile protagonista l’icona della moda sofisticata e dello stile, Audrey Hepburn. Mentre nella sala della Loggia fanno mostra di sé venticinque disegni di costumi teatrali, fino ad ora inediti e presentati in catalogo da Luca Ronconi. Bozzetti, questi, pensati non per una specifica produzione, ma nati da un esercizio creativo e tesi a illustrare il desiderio del sarto-artista di misurare il proprio caleidoscopico immaginario con le potenzialità espressive e comunicative dell’abito, che diviene costume quando usa la propria forma e la propria materia per descrivere un carattere e costruire un personaggio.
Il tutto concorre a dimostrare come Roberto Capucci abbia guardato ai grandi maestri del Rinascimento, Beato Angelico e Benozzo Gozzoli, Carpaccio e Tiziano, meditandone il senso del colore, i volumi delle stoffe e le architetture degli abiti. Ne emerge, dunque, il ritratto di uno stilista anticonformista, capace di dar luogo a una meravigliosa sinfonia di colori, a un grande affresco dall'opulenza rinascimentale, a uno stile inconfondibile che «come un verso di Dante o Shakespeare -scriveva Francesco Alberoni, nel 1990- si riconosce in mezzo a tutti gli altri».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] 1984, Parigi Ambasciata d’Italia. Abito-scultura in crepe seta rosso, maniche in gazaar multicolori effetto petali. Loggia Corte d’Onore Castello Odescalchi di bracciano. Foto: Claudia Primangeli; [fig. 2] 1992, Berlino Teatro Schauspielhaus. Abito scultura taffetas verde scuro vari colori nel motivo a farfalla. Giardino del granaio Castello Odescalchi di Bracciano. Foto: Claudia Primangeli; [fig. 3] 1984, Parigi Ambasciata d’Italia. Abito-scultura in crepe seta rosso, maniche in gazaar multicolori effetto petali. Loggia Corte d’Onore Castello Odescalchi di Bracciano – Foto: Claudia Primangeli; [fig. 4] 1992, Berlino Teatro Schauspielhaus. Abito scultura taffetas nero e bianco sovrapposizioni multicolori – Saloni del Piano Nobile Castello Odescalchi di Bracciano – Foto: Claudia Primangeli; [fig. 5] Abito scultura con corpino in stile capitello corinzio:Foto: Claudia Primangeli.
Informazioni utili
Sovrana eleganza. Castello Odescalchi, piazza Mazzini, 14 - Bracciano (Roma). Orari: da martedì a domenica, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 17. Biglietti: intero € 7.00, riduzione per gruppi € 5.00. Catalogo: Allemandi, Torino. Infoline: tel. 06.99802379. Web Site: www.odescalchi.it. Fino al 13 dicembre 2009.
Iscriviti a:
Post (Atom)