ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 22 ottobre 2019

Leonardo500, in mostra a Milano «La Vergine delle Rocce del Borghetto»

È un’occasione da non perdere quella offerta dalla Fondazione Orsoline di San Carlo a Milano. In occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario leonardesco, la congregazione religiosa fondata da sant’Angela Merici apre le porte della sua sede davanti alla basilica di sant’Ambrogio, e più precisamente la chiesa di san Michele del Dosso, e rende accessibile al pubblico «La Vergine delle Rocce del Borghetto» (1517-1520).
L’opera, eccezionalmente visibile previa prenotazione e con speciali visite guidate rese possibili grazie al contributo del Creval – Credito Valtellinese, è una tempera a olio su tela di Francesco Melzi, che il pubblico ha potuto vedere solo un’altra volta: nel dicembre 2014, a Palazzo Marino, accanto alla «Madonna Esterhazy» di Raffaello.
Il quadro è una copia fedele della prima versione del celebre dipinto leonardesco, quella conservata al Louvre (ne esiste un’altra versione, visibile alla National Gallery di Londra), ma, a differenza dell’originale, è realizzata su tela rettangolare e non su tavola centinata.
Raffaella Ausenda, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione, racconta che «sono rarissimi i dipinti oggi conservati in prestigiose collezioni d’arte, considerati dagli studiosi specialisti copie coeve d’alta qualità formale del capolavoro leonardesco entrato nella collezione dei re di Francia. Se ne contano soltanto tre e, anche confrontandola con le altre, «La Vergine delle Rocce del Borghetto» le supera: è assolutamente straordinaria nella perfetta misura dell’opera, nel materiale pittorico e nella qualità del disegno delle figure. Nella loro posizione, nella cura nel panneggio e, soprattutto, nella fine bellezza dei loro dolcissimi volti, il modello leonardesco resta vivo».
Nella versione in mostra a Milano la scena si svolge all’aperto, davanti a rocce che formano un’abside di architettura naturale. Al centro è inginocchiata la vergine Maria con la testa reclinata, che poggia la mano destra sulle spalle di San Giovannino e porge la sinistra in avanti, sopra il capo di Gesù bambino, benedicente e rivolto verso Giovanni. L’arcangelo Gabriele adolescente, inginocchiato dietro Gesù, gli accompagna dolcemente la schiena e, rivolgendosi verso gli osservatori, indica Giovanni.
I primi studi sul dipinto sono stati fatti da Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti leonardesco, e sono stati pubblicati nel catalogo della mostra «Leonardo da Vinci – scienziato, inventore, artista», organizzata nel 2000 dal Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quell’occasione il dipinto è stato considerato databile all’inizio del Cinquecento e attribuito con quasi certezza a Francesco Melzi, nobile lombardo, raffinato pittore, intimo compagno di Leonardo dal 1510 e con lui in Francia dal 1517 al 1519, anno della morte del maestro. Il nome del Melzi è celebre in qualità di esecutore testamentario di Leonardo e per aver riportato in Lombardia, prima del 1523, tutti i manoscritti e gli «Instrumenti et portracti circa l’arte sua e l’industria de’ pictori».
Gli studi di Carlo Pedretti hanno potuto anche contare sui risultati del restauro di pulitura e conservazione dell’opera avviato nel 1997, insieme all'analisi dei colori e della tela realizzata dal Dipartimento di Fisica del Politecnico e agli esami fotoradiografici del Laboratorio fotografico della Soprintendenza. Grazie a questo lavoro si è potuto ipotizzare che «La Vergine delle Rocce del Borghetto» sia una copia realizzata da un discepolo, forse sotto l’occhio vigile del maestro, alla presenza del dipinto oggi conservato a Parigi.
La radiografia, la riflettografia e l’analisi chimica delle materie hanno, poi, fatto emergere una qualità fisica dei colori riconducibile alla tecnica pittorica scientifica leonardesca, in cui l’uovo, alcuni oli e collanti sono usati sapientemente per creare un preciso risultato cromatico sia nel tono sia nell’effetto luminoso della pittura.
L’uso della tela farebbe, infine, ritenere che il dipinto, fu probabilmente eseguito in Francia per essere, poi, trasportato, magari seguendo un volere del maestro: «[…] a Leonardo -afferma, infatti, Carlo Pedretti in una lettera del 1999- non sarebbe dispiaciuto che una buona e fedelissima copia rientrasse a Milano […]».
Come «La Vergine delle Rocce del Borghetto», arrivata in Lombardia, sia passata dalla famiglia di Francesco Melzi alla famiglia Belgiojoso, che nell'Ottocento donò la tela all'oratorio di Santa Maria dell’Assunta, nella «viuzza del Borghetto», ancora non è noto.
Mentre certa è la storia successiva: nel 1986 l’oratorio fu acquistato dalla Congregazione Orsoline di San Carlo, che lo inglobò in un edificio scolastico. Mentre in epoca recente la tela è stata spostata dalla collocazione originaria, nella chiesa del collegio di viale Majno angolo via Borghetto, alla chiesa di San Michele sul Dosso, interna al convento di via Lanzone, dove è ora visibile.
Oggi per i milanesi e gli appassionati di Leonardo da Vinci è, dunque, possibile ammirare in piazza Sant'Ambrogio una straordinaria versione cinquecentesca del capolavoro leonardesco, una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici incentrata sul tema dell’Immacolata Concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, commissionata a Leonardo dalla basilica di San Francesco grande, una delle chiese più importanti della città. Una composizione, carica di mistero, che incanta con il suo sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti, evidenziati da un raffinato contrasto tra luci e ombre.

Didascalie delle immagini
Francesco Melzi (attribuito), «Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (Vergine delle Rocce del Borghetto)», 1517-1520. Tempera e olio su tela, 198 x 122 cm. Milano, San Michele sul Dosso, Congregazione Suore Orsoline | Dipinto intero e particolari

Informazioni utili 
La Vergine delle Rocce del Borghetto. Chiesa di San Michele del Dosso - Congregazione delle Suore Orsoline di San Carlo, via Lanzone, 53 – Milano. Visite guidate: da lunedì a venerdì, ore 16.30 e 17.30; sabato, ore 10.00 e 11.30, ore 15.00 e 17.30; domenica, ore 15.00 e 17.30 | prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima a prenotazioni@verginedellerocce-mi.it (partecipanti minimo 3- massimo 15) | la visita avviene esclusivamente con guida e ha una durata di mezz’ora | sono organizzabili visite in inglese e giapponese su richiesta a info@verginedellerocce-mi.it. Ingresso: intero € 8,50, over 65 € 5,00, gratuito sotto i 12 anni, classi scuole (fino a 25 alunni) € 25,00. Sito web: verginedellerocce-mi.it. Fino al 31 dicembre 2019.

lunedì 21 ottobre 2019

«Ond'evitar tegole in testa!», sette secoli di assicurazione in mostra a Parma

È una storia che ha origini antiche e un primato tutto italiano. Furono, infatti, i mercanti genovesi e fiorentini del Trecento, per garantire un più sicuro sviluppo dei loro commerci, a dare vita al fenomeno assicurativo. I primi strumenti contrattuali noti riguardavano la spedizione di merci via mare verso l’Estremo Oriente. Questi viaggi erano, infatti, considerati pericolosi sia per l’impossibilità di prevedere con sufficiente anticipo l’arrivo di una tempesta sia per la presenza di pirati e corsari sulle rotte mercantili.
Il timore di perdere i guadagni ottenuti da questi commerci portò così i mercanti trecenteschi a inventare il «contratto assicurativo», un accordo scritto che trasferiva il rischio della perdita di un carico o della stessa nave ad altri che fossero disposti a prenderlo su di sé al fine di ottenere, a loro volta, un’analoga copertura per le loro spedizioni.
La polizza più antica, stilata da un notaio genovese, porta la data del 18 febbraio 1343 ed è proprio questa ad aprire il percorso espositivo della mostra «Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione», allestita nelle sale dell’APE Parma Museo, l’innovativo centro culturale e museale ideato e realizzato da Fondazione Monteparma nel cuore della città ducale.
L’esposizione, curata da Marina Bonomelli e Claudia Di Battista, presenta, nello specifico, duecentottanta pezzi, databili tra il Medioevo e i giorni nostri, tra cui quaranta testi antichi, ventisei polizze assicurative, centoventi targhe incendio prodotte negli ultimi due secoli e novantaquattro manifesti di compagnie italiane e straniere, realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’70 del Novecento.
Il percorso espositivo, che allinea materiale proveniente interamente dalla Fondazione Mansutti di Milano, si snoda seguendo due temi ben definiti.
La prima parte ricostruisce la storia dell’assicurazione negli ultimi settecento anni, presentando, tra l’altro, un focus sulla spinosa questione dell'usura: teologi e canonisti del Trecento e Quattrocento discussero, infatti, molto sulla moralità della polizza assicurativa.
A prova di questa stagione vi è il «De contractibus et usuris», un manoscritto su pergamena di San Bernardino da Siena, databile intorno al 1470, e in contrapposizione un trattato del teologo Konrad Summenhart che, al contrario di San Bernardino, pone sul medesimo piano l'aleatorietà del contratto assicurativo e la scommessa, quest'ultima condannata dalla Chiesa.
La mostra allinea anche opere sulla legislazione e sulla storia del diritto delle assicurazioni, tra cui il «Libro del Consolato de’ marinari» nell’edizione veneziana del 1549 e in quella olandese del 1704, il «Tractatus De assecurationibus» nella rara prima edizione del lusitano Pietro Santerna (1552) e il «De mercatura» di Benvenuto Stracca (1622).
Molto interessante è anche l’«Ordonnance de la Marine», promulgata da Luigi XIV nel 1681. Tra le sue norme vi è, ad esempio, quella che vieta l’assicurazione sulla vita delle persone, ma dà la facoltà di assicurare la vita degli schiavi che erano trattati alla stessa stregua delle merci trasportate sulla nave.
Un altro tema fondamentale dello sviluppo assicurativo è legato agli studi sul calcolo della probabilità e a quelli di matematica attuariale, come documenta l’«Ars conjectandi» di Jakob Bernouilli, pubblicato postumo a Basilea nel 1713.
La seconda parte della mostra segue, invece, l’evoluzione stilistica della grafica pubblicitaria assicurativa, attraverso manifesti, stampati nell'arco di oltre un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso.
Questi lavori regalano all'esposizione un valore artistico di grande impatto, oltre a rappresentare un filone a sé stante nell'ambito del mondo assicurativo, di cui costituiscono una testimonianza originale e fuori dal comune.
Le opere provengono in primis da Italia e Francia, dove il fenomeno della cartellonistica ha raggiunto livelli significativi, e a seguire da Svizzera, Belgio e Olanda; non mancano, però, esemplari provenienti anche da Germania, Spagna, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tra le firme più illustri, ritroviamo i triestini Marcello Dudovich e Leopoldo Metlicovitz insieme al loro maestro e mentore Adolf Hohenstein, il parmigiano Erberto Carboni, i romani Adolfo Busi e Gino Boccasile e persino Umberto Boccioni, in mostra con un raro manifesto. Tra gli artisti più recenti, ci sono, invece, i nomi di Savignac, Colin, Seneca, Piaubert e Ugo Nespolo, al quale è riservata una sezione con un originale e colorato omaggio al matematico svizzero Jakob Bernoulli e al suo teorema, conosciuto oggi come la legge dei grandi numeri.
Molte sono, inoltre, le curiosità disseminate lungo il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. Tra queste, c’è la polizza che Ernest Hemingway stipulò contro l’incendio e i cicloni per la sua casa cubana all’Havana, la «Finca La Vigìa», che aveva acquistato nel 1939 per 12.500 dollari e nella quale scrisse due capolavori della letteratura del Novecento come «Per chi suona la campana» e «Il vecchio e il mare».
Tra i pezzi da vedere si segnala anche la polizza che Marilyn Monroe stipulò contro il rischio d’incidenti automobilistici pochi mesi prima della sua morte.
Molto singolare è, infine, anche l'assicurazione sulla vita sottoscritta nel 1959 da Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, proclamato Santo l’anno scorso, con cui la compagnia, in caso di morte del cardinale in qualsiasi epoca dovesse avvenire, si impegnava a pagare agli eredi il capitale di un milione di lire.
Un percorso, dunque, articolato e completo quello della mostra in corso a Parma, che documenta l'evoluzione del settore assicurativo e il suo volto più artistico.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Manifesto di Briot per la Amicale des Mobilisés de l'Assurance, Parigi, 1933; [fig. 2] Manifesto di L. Edel per la Cassa mutua cooperativa italiana per le pensioni, Torino, 1895; [fig. 3] Manifesto della compagnia svizzera Zürich, Parigi, 1892; [fig. 4] Manifesto di U. Boccioni per la compagnia svizzera Helvetia, Milano, ca. 1914; [fig. 5] Manifesto di E. Carboni per la compagnia italiana La Cremonese, Parma, 1924

Informazioni utili 
«Ond'evitar tegole in testa! Sette secoli di assicurazione». Ape Parma Museo, via Farini, 32/a – Parma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.30. Biglietti: intero € 8,00; ridotto € 5,00 (over 65, persone diversamente abili e loro accompagnatori, gruppi di almeno 10 unità); ingresso gratuito scuole, under 18, studenti e personale dell’Università di Parma, guide turistiche e giornalisti. Informazioni: tel. 0521.2034; info@apeparmamuseo.it. Sito internet: www.apeparmamuseo.it; www.storiadelleassicurazioni.com. Fino al 15 gennaio 2020.

venerdì 18 ottobre 2019

Arezzo, Mimmo Paladino omaggia Piero della Francesca

«Piero della Francesca per me è una fonte inesauribile di scoperte. La sua capacità di creare forme dalla luce, spazio dalla matematica, colore dal grigio, la sua iconicità quasi araldica, sono un costante punto di riferimento, quasi una regola». Così Mimmo Paladino (Paduli - Benevento, 19 dicembre 1948), uno dei principali esponenti della Transavanguardia, parla del suo amore per il pittore e matematico di Montevarchi, una delle personalità più emblematiche del Rinascimento italiano, le cui opere colpiscono per l’attento uso della prospettiva, frutto di accurati studi geometrici come dimostra la celebre tavola «La flagellazione di Cristo» (1460), conservata a Urbino.
Per Mimmo Paladino le opere dell’artista rinascimentale sono state fonte di ispirazione non solo a livello estetico, ma anche metodologico e teorico. Piero della Francesca è stata, infatti, una delle figure del passato che più hanno contato nella formazione del maestro di Benevento e con la quale lui ha intrattenuto un dialogo costante in tutta la sua ricerca artistica.
Ad approfondire il rapporto tra i due artisti, in un elegante gioco di rimandi tra antico e contemporaneo, è la mostra diffusa «La regola di Pietro», allestita ad Arezzo, per la curatela di Luigi Maria Di Corato. Sono oltre cinquanta le opere selezionate per questo omaggio, che si articola in ben sei sedi espositive: la Galleria comunale d’arte contemporanea, la Fortezza medicea, la Basilica di San Francesco, la sala di Sant’Ignazio, la chiesa di San Domenico e Porta Stufi.
L'omaggio, pur svolgendosi e dipanandosi per tutta la città, non chiama mai direttamente in causa il maestro a livello formale, ma si risolve nel manifestare una condivisione di valori, come l’incontro tra tradizione e modernità, tra razionalità ed emozione, tra luce, forma e colore, tra idealizzazione, astrazione, simbolo e realtà.
L’arte di Paladino fonda le sue radici nella grande tradizione figurativa e filosofica italiana. Questa passione lo ha spesso portato a riscoprire le culture più diverse, alla ricerca di un confronto con gli archetipi, le matrici iconiche, le tradizioni fondanti che, dalle civiltà pre-romane al Rinascimento, hanno costellato il pensiero mediterraneo.
I due nuclei centrali della rassegna - che vede protagonista proprio la pittura e che presenta opere tridimensionali nella loro naturale vocazione pittorica - sono la Galleria comunale d’arte contemporanea e la Fortezza Medicea.
Nella Galleria è accolta una selezione di trentaquattro dipinti, tra cui opere celebri come due grandi quadri della serie «Il principio della prospettiva» (1999) e il lavoro «Senza titolo» (2018), un polittico inedito di sei elementi.
Si trovano, inoltre, in mostra una serie di cinque sculture del nucleo «Architettura», realizzate in materiali vari dal 2000 al 2002, e «Stele», una fusione in alluminio del 2000.
Al centro del percorso, che si chiude con una sala video nella quale viene ripercorso l’impegno di Mimmo Paladino in ambito cinematografico, si segnala la spettacolare istallazione «Scarpette», del 2007, realizzata con ben più di centoottanta scarpe e uccellini in ghisa che si trasformano in un basso-rilevo di ben sessantaquattro metri quadri.
Nella piazza antistante la Galleria -sulla quale si affaccia la basilica di San Francesco, che conserva al suo interno le «Storie della Vera Croce»- campeggia un grande obelisco votivo. L’opera, alta oltre venti metri, è intitolata «De Mathematica» e si ispira ai Gigli di Nola, macchine processionali a spalla, oggi patrimonio Unesco. Formata da numeri assemblati tra loro, quest'opera è un «monumento temporaneo» alla matematica, ma anche alla vocazione proto-scientifica dell’Umanesimo per la ricerca dell’esattezza, di cui i trattati di Piero della Francesca sono un celebre manifesto.
Per la Fortezza sono state selezionate, invece, un nucleo di opere monumentali capaci di innescare una tensione drammatica non comune con la scabra natura degli spazi. Il percorso comincia con la recentissima «Senza titolo», del 2018, composta da bronzo ed acqua, opera che il pubblico ha potuto vedere esposta solo a Napoli nel mese di dicembre 2018. La mostra prosegue, quindi, con «Zenith», dodecaedro stellato in alluminio del 2001, per poi continuare con un’opera degli anni Ottanta. Si tratta di «Senza titolo», un carro di bronzo del 1988, che trasporta venti teste, preziosi trofei di un corteo apotropaico che conducono all’interno della fortificazione.
Tra le altre sculture-pittoriche monumentali, spiccano i nove elementi di «Vento d’acqua», opera in bronzo del 2005, già esposta al Museo di Capodimonte di Napoli. Ci sono, inoltre, lungo il percorso espositivo anche i giganteschi «Specchi ustori» del 2017, un grande tavolo che ospita ben cinquanta piccoli bronzi e tre nuovissime sculture a figura intera sempre «Senza titolo», annidate nelle segrete della fortezza.
Completano il percorso altre tre tappe fondamentali. Nella chiesa di San Domenico c’è la grande croce in foglia d’oro «Senza titolo» del 2016. A Porta Stufi è possibile vedere un’installazione di grande suggestione, nella quale diciotto vessilli policromi collocati sulle mura -«Bandiere», opera del 2003 in alluminio- sembrano segnalare un antico trofeo lasciato sul selciato: «Elmo», una delle opere più note dell’artista, un bronzo del 1998, esposto nei maggiori musei del mondo, che qui, imbelle, accoglie i visitatori in arrivo o in partenza ricordando i fasti di un passato non ancora remoto. Mentre nella chiesa sconsacrata di Sant’Ignazio è possibile ammirare l’istallazione «Dormienti», tra le opere più note e amate di Mimmo Paladino, realizzata con Brian Eno nel 1999 per la Roundhouse di Londra e qui riproposta in un nuovo allestimento.
L’istallazione rimanda a diverse fonti indirette di suggestione, dai calchi di Pompei ad alcune figure etrusche, ma è soprattutto ispirata ai disegni realizzati da Henry Moore nei rifugi anti-aerei di Londra, nei quali sono rappresentate figure rannicchiate e indifese, intente a proteggersi dal terrore dei bombardamenti tedeschi.
Una citazione a parte merita, infine, «Suonno. Da Piero della Francesca» (nell'ultima foto) del 1983, opera esposta nella Galleria comunale d’arte contemporanea. Si tratta di un omaggio alle «Storie della Vera Croce», nella cappella Maggiore della Basilica di San Francesco. Qui prende forma la «Regola di Piero», a cui ha voluto rendere omaggio Mimmo Paladino. Qui -ricorda Luigi Maria Di Corato- l’artista toscano «ha cercato di fondere in un’unica visione punti di vista apparentemente lontani tra loro: la solidità concreta di Massaccio e la luce diafana dell’Angelico, l’astratta geometricità di Brunelleschi e il virtuosismo prospettico di Paolo Uccello, la rarefazione di Domenico Veneziano e la precisione ottica dei fiamminghi».
Qui il maestro beneventano ha preso ispirazione per creare il suo linguaggio figurativo in bilico tra presente e passato, geometria e plasticità, concettuale e corporeo. Perché -come dice Franco Battiato nel suo ultimo brano, «Torneremo ancora» - «nulla si crea, tutto si trasforma».

Informazioni utili 
«Mimmo Paladino. La regola di Piero». Sedi espositive: Fortezza Medicea - Galleria Comunale d'Arte Contemporanea - Ex-Chiesa di Sant’Ignazio - Basilica di San Francesco - Chiesa di San Domenico - Porta Stufi, Arezzo. Orari: dal martedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; giorno di chiusura il lunedì. Biglietti: 5,00 euro (ridotto 3,00 euro per gli over 65); ingresso gratuito per i minori di 14 anni | i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive della Galleria comunale d’arte contemporanea e della Fortezza Medicea. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.fondazioneguidodarezzo.com | www.laregoladipiero.wordpress.com. Fino al 31 gennaio 2020. Prorogata al 30 giugno 2020.