ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 5 agosto 2014

«Re Lear»: lotta per il potere e conflitto generazionale in William Shakespeare

La bramosia del potere, il conflitto fra generazioni, l’opportunismo adulatorio celato da amore, i tormenti della gelosia e della lussuria, l’incapacità di leggere l’alfabeto del cuore e di comprendere i silenzi, la precarietà della vita, l’inettitudine dell’uomo a discernere gli inganni del mondo, la discrepanza tra realtà e apparenza: sono molti, e attuali, i temi che tessono la trama di «Re Lear», tragedia in versi e prosa scritta da William Shakespeare intorno al 1605 e rappresentata per la prima volta il 26 dicembre 1606 nel palazzo di Whitehall, alla presenza di re Guglielmo I.
La storia che fornisce l’intreccio principale affonda le radici nell’antica mitologia britannica, in un racconto leggendario risalente all’VIII secolo a.C., ovvero al periodo antecedente alla fondazione di Roma, narrato nel XII secolo da Geoffrey of Monmouth nella sua «Historia anglicana» e, in seguito, trattato da Raphael Holinshed nel libro «The Second Booke of the Historie of England» (1577), da Edmund Spencer nel secondo volume del poema cavalleresco «The Faerie Queene» (1596) e nella raccolta di narrazioni «The Mirror for Magistrates» (1559), una vera e propria miniera di soggetti per i tragediografi elisabettiani.
William Shakespeare attinse a queste fonti e al coevo dramma anonimo «The True Chronicle Historie of King Lear» (1605), che si chiudeva però con il lieto fine, per organizzare la trama della sua tragedia, una vicenda ricca di situazioni e di sentimenti riconducibili alla contemporaneità tanto è vero che, negli anni Sessanta, il polacco Jan Kott ha azzardato un parallelismo con Samuel Beckett e il suo Teatro dell’assurdo.
A scatenare il dramma è la decisione del sovrano britannico di abdicare in favore delle tre figlie sulla base di un love test, ovvero di una gara d’amore verbale. Con calcolo macchiavellico e malcelata ipocrisia, le sorelle Regan e Gonerill ricorrono alla finzione retorica richiesta dal padre per ottenere il potere; Cordelia, personaggio sentimentale più che politico (come ebbe a dire Giorgio Strehler), non si sottomette a questo rito, si sente incapace di esprimere a parole il proprio profondo sentimento filiale e, temendo di immiserire e rendere volgare ciò che prova, si limita a dire: «O mio sfortuna: non riesco a sollevare il peso del mio amore fino alle labbra; amo vostra Maestà secondo il nostro vincolo, né più né meno».
Irritato, il re non riconosce l’affetto senza riserva della giovane figlia, la «migliore» e la «più cara», e la ripudia, revocando la dote già promessa e permettendole di lasciare per sempre l’Inghilterra a fianco del re di Francia, che l’ha chiesta in sposa. È l’inizio di un dramma a tinte fosche, nel quale dominano violenza, tradimento e morte. Re Lear ha, infatti, ben presto modo di scoprire l’ingratitudine e la meschinità di Regan e Gonerill, che lo privano di ogni traccia di antico potere fino a lasciarlo, alla fine del secondo atto, solo, all’addiaccio, senza miglior rifugio di una capanna contadina e in balia della tempesta. Rendendosi conto di essere stato vittima di un errore di valutazione nei confronti di Cordelia, il sovrano impazzisce per il dolore e trova solo nella «pazienza» e nella «pena» della figlia minore, ritornata in Inghilterra con l’esercito francese per riportare l’ordine nel suo Paese natale, il balsamo per curare le ferite del suo cuore e il senso di vuoto che si è impadronito della sua anima. Ma il destino avverso avrà la meglio.
Alla vicenda principale (main plot) si intreccia, come era pratica corrente per molti drammaturghi dell’epoca, una trama secondaria (sub-plot), che incide fortemente sulla prima e che contribuisce a far risaltare i vari momenti della narrazione. La storia di re Lear si riflette, infatti, specularmente in quella del conte di Gloucester e dei suoi due discendenti, il diabolico Edmund e il virtuoso Edgar, che William Shakespeare trasse dal romanzo «Arcadia» di Philip Sidney (1590) e che fece propria raccontando la vicenda di un vecchio cieco tradito dal figlio illegittimo, disposto a tutto pur di impadronirsi del casato, e salvato da quello buono, vittima di una menzogna ed eroe positivo della tragedia, la cui dirittura morale si esplica nella battuta conclusiva, monito alla coscienza dell’uomo di ieri e di oggi: «Noi dobbiamo accettare il peso di questo triste tempo. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire».
Poche sono le rappresentazioni che «Re Lear» può contare nella storia dello spettacolo, tanto è vero che Jan Kott, nel suo illuminante saggio «Shakespeare nostro contemporaneo» (1961), ha scritto che la tragedia del Bardo fa l’effetto di «un’immensa montagna che tutti ammiriamo, ma che nessuno ha voglia di scalare troppo spesso». A ciò ha senz’altro contribuito il giudizio romantico e post-romantico sull’«irrappresentabilità» dell’opera, espresso da Charles Lamb, Henry James e molti altri. In realtà, -stando a quanto afferma Agostino Lombardo nell’introduzione all’edizione Garzanti del 2002- «Re Lear» può dirsi «l’opera più teatrale di William Shakespeare, e ciò nel senso che in essa il linguaggio del drammaturgo raggiunge la sua più alta, e specifica, intensità ed espressività». La parola è, infatti, qui fortemente legata all’azione scenica, come ben comprese Giorgio Strehler nel suo allestimento del 1972, quando definì il testo del Bardo una tragedia che si «inteatra».
Il linguaggio è, dunque, in questo lavoro l’oggetto stesso della rappresentazione. Si pensi alla figura del Fool -personaggio non presente nelle fonti, ma tutt’altro che raro nel teatro del tempo- che è parola personificata, metafora incarnata della follia di re Lear, coscienza del proprio errore di giudizio e addirittura alter ego di un altro personaggio. Non a caso Giorgio Melchiori, nell’introduzione del 1976 all’edizione pubblicata nella collana «I Meridiani» di Mondadori, scrive: «il Fool è la dimostrazione della straordinaria maturità di Shakespeare come uomo di teatro: in una vicenda che comporta necessariamente l’assenza della figura femminile per tutta la parte centrale del dramma […], il Fool compensa e sostituisce l’assenza dell’eroina […]. Sulla scena del Globe Theatre (il teatro di Londra, dove recitò la compagnia del noto drammaturgo elisabettiano, ndr) lo stesso ragazzo poteva assumere i due ruoli […] e l’identificazione fra i due si manifesta nelle parole di Lear stesso quando alla fine rientra in scena portando in braccio il corpo del ragazzo-Cordelia, giovane corpo asessuato dalla morte».
Con questa tragedia il teatro è, dunque, non solo cronaca del tempo o specchio della natura, ma strumento per capire e conoscere l’individuo, microcosmo di inaudita complessità, le cui azioni si intrecciano con le forze del bene e del male presenti nella realtà. Ecco così che in  «Re Lear» trova un senso ancora più intenso e ricco un’espressione nota del Bardo: «Tutto il mondo è un palcoscenico».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Johann Heinrich Füssli , «Re Lear caccia Cordelia» («Re Lear», Atto I, Scena I), 1784-1790. Toronto, Art Gallery of Ontario; [fig. 2] William Dyce, «Re Lear e il Matto nella tempesta» («Re Lear», III, 2), c. 1851. Edimburgo, National Gallery of Scotland; [fig. 3] James Barry, «Re Lear piange la morte di Cordelia» («Re Lear», V, 3), 1786-88.  Londra, Tate; [fig. 4] James Barry, «Re Lear piange la morte di Cordelia» («Re Lear», V, 3), 1774. Dublino, The John Jefferson Smurfit Foundation. 

domenica 3 agosto 2014

«Smens», una rivista di parole in legno e xilografie originali

È il 1997 quando l’associazione artistico-culturale «Nuova Xilografia» edita a Torino il primo numero di «Smens», una pregevole rivista semestrale, a tiratura limitata, stampata su carta di cotone e con torchio a braccia, i cui testi sono composti a caratteri di piombo e le cui illustrazioni sono xilografie originali incise su tavolette di legno.
Nell’epoca della prepotente affermazione dei supporti digitali, una pubblicazione interamente realizzata a mano come questa, che ripropone una fabbricazione editoriale dal sapore antico e che fa dell’appassionata cura per i dettagli la propria cifra stilistica, è di per sé speciale. Ma il valore aumenta notevolmente quando si scorrono i nomi di poeti, studiosi, filosofi, scrittori e artisti che, negli anni, hanno collaborato alla realizzazione di queste pagine dalla tecnologia artigianale e raffinatissima, nate dall’idea bizzarra, ma vincente di due talentuosi incisori piemontesi definiti da Bruno Quaranta «radicali e siderei»: Gianfranco Schialvino e Gianni Verna.
Per undici numeri e sette anni, dal 1997 al 2004, le parole di Gianfranco Ravasi, Nico Orengo, Mario Rigoni Stern, Federico Zeri, Roberto Sanesi, Elena Loewenthal, Vittorio Sgarbi, Mario Luzi e molti altri hanno così incontrato il segno grafico di alcuni tra i più bravi xilografi del mondo come Barry Mosere, Leonard Baskin, Evgenij Bortnikov, Jean Marcel Bertrand, Ugo Nespolo, Emanuele Luzzati e Salvo, dando vita ad un’avventura editoriale fuori dal tempo, «superbamente inutile», come si disse in occasione dell’uscita del primo numero presentato al Musée d’art modern ed d’art contemporain di Liegi.
Questa storia rivive, da venerdì 8 agosto a domenica 7 settembre, nelle Sale monumentali della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia nella mostra «La xilografia in rivista», ideata e curata da Gianfranco Schialvino e Gianni Verna.
Conservati in vetrinette nel vestibolo della cinquecentesca Libreria Sansoviniana (nome, questo, derivato dall’ideatore del progetto, Jacopo Sansovino), i volumi di «Smens» raccontano una storia giocata fra la contrapposizione tra due tesi, due concetti opposti: bene e male, bianco e nero, sacro e profano, verità e menzogna, sogno e realtà, alfa e omega. Tra le splendide illustrazioni riprodotte, si ritrovano anche ristampe di pregevoli lavori di Fortunato Depero, Felice Casorati e Lorenzo Viani, a dimostrazione di quanto un'arte apparentemente facile, dove tutto è fatto con elementi semplici come un coltello, un pezzo di legno, un po’ di inchiostro e carta, abbia bisogno di grandi artisti per parlare il linguaggio della poesia e del bello, per lasciare un segno nel cuore del lettore.
Una rivista speciale, dunque, «Smens», nel cui primo numero vedeva volare fuori dalle sue pagine una gazza ladra: «monogama, ciarliera, seriamente curiosa, bianca e nera con un’insondabile pennellata di blu, elettrico come un fondo marino, una parete di ghiaccio», ricorda Gianfranco Schialvino nel catalogo della mostra veneziana stampato in seicento copie dalle officine della Grafica Santhiatese. Si racconta, nella tradizione orientale, che il richiamo di questo uccello annunci sempre una visita, un giro di carte e di destino, una novità. E sicuramente inedito è stato l’ingresso di «Smens» nel panorama editoriale italiano, una rivista che –ricordano dalla Marciana- «fa da monito e memoria della conoscenza della fabbrica del libro, un oggetto che ha segnato la storia dell’uomo e ne è stato uno degli elementi più importanti per la sua evoluzione ed emancipazione».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Copertina della rivista «Smens» n. VII, dedicata al tema «Sogno e realtà»; [fig. 2] Copertina della rivista «Smens» n. II, dedicata al tema «Il bene e il male»; [fig. 3] Gianni Verna, «Cabana», xilografia per la rivista «Smens»

Informazioni utili
«La xilografia in rivista». Biblioteca nazionale Marciana – Sale monumentali, piazzetta San Marco – Venezia. Orari: lunedì-venerdì, ore 8.00-19.00; sabato, ore 8.00-13.30. Ingresso(biglietto Musei di piazza San Marco): intero € 16,00, ridotto € 10,00 (ragazzi da 6 a 14 anni, studenti dai 15 ai 25 anni, accompagnatori di gruppi di ragazzi o studenti, cittadini over 65 anni, personale del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, titolari di Carta Rolling Venice, soci Fai), gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia, bambini da 0 a 5 anni, portatori di handicap con accompagnatore, guide autorizzate e interpreti turistici che accompagnino gruppi o visitatori individuali, per ogni gruppo di almeno 15 persone. Informazioni: tel. 041.2407211 o biblioteca@marciana.venezia.sbn.it. Sito internet: http://marciana.venezia.sbn.it. Da venerdì 8 agosto a domenica 7 settembre 2014.

venerdì 1 agosto 2014

«To be or not to be», l'arte concettuale di Giulio Paolini in mostra a Londra

«To be or not to be, that is the question»: è certamente una delle frasi più celebri della drammaturgia mondiale di tutti i tempi. Scritta da William Shakespeare nell'«Amleto», all'inizio del soliloquio del principe danese posto in apertura della prima scena del terzo atto, la battuta è diventata nell'immaginario collettivo metafora di un interrogativo esistenziale.
A quattrocentocinquanta anni dalla nascita dello scrittore inglese, poeta tra i più romantici e scrittore che ha saputo mettere nero su bianco le dinamiche sociali e politiche del suo tempo, il «dubbio amletico» diventa argomento per una mostra grazie a Giulio Paolini (Genova, 1940), esponente di spicco dell'avanguardia concettuale italiana che si è affermato all'attenzione del pubblico internazionale insieme ad altri artisti della sua generazione legati al movimento poverista quali Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.
L'autore di opere come «Giovane che guarda Lorenzo Lotto»(1967), «Cariatidi» (1980) e «Contemplator enim» (1991) propone, infatti, a Londra per tutta estate, negli spazi della prestigiosa Whitechapel Gallery, una rassegna dal titolo «To be or not to be», nella quale sono allineati ventuno lavori, realizzati tra gli anni Sessanta e oggi, che indagano le relazioni tra l'opera, lo spazio espositivo, l'autore e lo spettatore.
L'esposizione -curata da Bartolomeo Pietromarchi e Daniel F. Herrmann, Eisler curator e head of curatorial studies della galleria britannica- è già stata presentata in versione ridotta al Macro di Roma lo scorso inverno e si configura come la prima antologica dedicata oltre Manica all'artista genovese, ormai da tempo residente a Torino, dove nel 2004 ha anche fondato, insieme con la moglie Anna, una fondazione dedicata alla promozione e allo studio della sua opera.
Per Giulio Paolini, autore che vanta diverse partecipazioni a Documenta di Kassel (1972, 1977, 1982 e 1992) e alla Biennale d’Arte di Venezia (1979, 1976,1984,1993, 1997 e 2013), l'opera non esiste soltanto nell'hic et nunc, non termina cioè nel momento in cui la si realizza, ma al contrario porta con sé l'eco di tradizioni precedenti. Da questa considerazione è nato, sul finire degli anni Sessanta, l'interesse dell'artista per le esperienze pittoriche e scultoree dei grandi del passato, per la storia del dipingere e dello scolpire, per i metodi e i materiali di chi ha trovato posto nei più importanti musei del mondo. Un interesse, questo, che si è espresso attraverso la citazione, ovvero l'uso di calchi in gesso di sculture classiche e di riproduzioni di maestri antichi quali Chardin, Lorenzo Lotto e Diego Velázquez. Così Giulio Paolini ha reso vivo il suo pensiero secondo il quale «un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore».
Comune denominatore tra i lavori esposti nella mostra londinese -di cui rimarrà documentazione in un catalogo edito da Macro/Quodlibet Edizioni,con saggi dei due curatori e di critici quali Gabriele Guercio e Barry Schwabsky- sono tracce e indizi dell'autore, che si estendono dall'autoritratto a motivi metonimici quali l'occhio e la mano, fino alla dimensione progettuale dello studio d'artista.
Nella Gallery 1, è allineata un’ampia raccolta di opere storiche, intorno a «Essere o non essere» (1994-95): una scacchiera di tele al suolo che rimanda all'ininterrotto processo di creazione e decostruzione dell'opera. Tra i lavori di maggior rilievo esposti si trovano «Giovane che guarda Lorenzo Lotto» (1967), riproduzione in dimensioni reali di un ritratto del 1505 di Lorenzo Lotto, e «Académie 3» (1965), un olio su tela caratterizzato da un gesto pittorico a mano libera che cade alle spalle dell'artista fotografato mentre è intento a dipingere. Nella stessa sala è anche visibile «Delfo» (1965), un autoritratto fotografico di Giulio Paolini, a braccia conserte e con lo sguardo nascosto da un paio di occhiali scuri, che guarda lo spettatore da dietro il telaio di una grande tela.
Nelle gallerie 8 e 9 sono, invece, in mostra una serie di lavori a carattere teatrale, che focalizzano l'attenzione sul processo creativo che si svolge al tavolo di lavoro dell'artista. «Big Bang» (1997-98) propone, per esempio, uno studiolo in miniatura, con tele preparate e fogli accartocciati sparsi tutt'intorno come corpi celesti orbitanti intorno al nucleo centrale. Mentre «Contemplator enim» (1992) è una complessa struttura in plexiglas, con l'immagine di valletti settecenteschi che offrono allo spettatore il profilo di ipotetici quadri.
La mostra si conclude con «L’autore che credeva di esistere (sipario: buio in sala)» (2013), opera che evoca uno studio d’artista, con un piano di lavoro costellato di disegni, fotografie e progetti, e una proiezione di immagini a parete.
Un percorso, dunque, interessante quello selezionato per il pubblico di Londra, dove Giulio Paolini ritorna dopo oltre trent'anni dalla sua ultima personale in Gran Bretagna, portando il visitatore alla scoperta del suo universo immaginifico, un mondo colto e onirico, in bilico tra passato e presente, che invita a riflettere sul senso dell'arte di ieri e di oggi. (sam)

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giulio Paolini, «Essere o non essere» [«To Be or Not to Be»], 1994-95. Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino. © Giulio Paolini; [Fig. 2] Giulio Paolini, «Contemplator enim» (dettaglio), 1992.Collezione dell'artista.© Giulio Paolini; [fig. 3] Giulio Paolini, «Photofinish», 1993-1994. Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino. © Giulio Paolini. 

Informazioni utili
«Giulio Paolini: To be or not to be». Whitechapel Gallery, 77-82 Whitechapel High Street, London E1 7QX.Orari: martedì - domenica,  ore 11.00 - 18.00, giovedì, ore 11.00 - 21.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. + 44.(0)20.75227888, info@whitechapelgallery.org. Sito internet: whitechapelgallery.org. Fino al 14 settembre 2014.