ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 21 giugno 2017

A Roma Boldini e la femme fatale della Belle Époque

Senti il nome di Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 - Parigi, 1931) e pensi subito a un monde perdu, quello della Belle Époque, fatto di abiti sontuosi e fruscianti, di ventagli civettuoli e di ombrelli parasole dal fascino d’antan, di donne piene di grazia e gusto, di salotti carichi di cultura e frivolezza, di gioia di vivere e di fiducia ottimistica nel futuro. L’artista ferrarese, il più grande e prolifico pittore italiano residente a Parigi nell’Ottocento, amato da intellettuali come Proust e dall'eccentrica Colette, ha consegnato al mondo dell’arte meravigliosi e palpitanti ritratti di alcune delle personalità più in voga del tempo, dal compositore Giuseppe Verdi all’antiquario Thomas Smith, dalla bellissima contessa de Rasty, immortalata voluttuosa nel letto o in abito da sera, all'altrettanto splendida madame Blumenthal.
Con il suo elegante tratto di matita e con la sua inconfondibile pennellata «a frusta», costruita con rapidi e sicuri colpi di pennello simili a sciabolate, Giovanni Boldini è, poi, conosciuto per aver cristallizzato nei colori -a olio e pastello- l’«attimo fuggente», l’istante irripetibile, facendoci quasi intuire il fruscio delle pieghe di vestiti in velluto o voile, il galoppare veloce di un cavallo, la musica di un’orchestra in un teatro, il chiacchiericcio e le risa in un bistrot parigino, il sentimento che si nasconde dietro lo sguardo malinconico di una donna. E sono loro, le donne, le grandi protagoniste della produzione dell’artista: committenti, amanti e modelle, talvolta seminude, talaltra opulentemente vestite, delle quali egli coglieva le suggestioni erotiche, la spregiudicatezza, l’intelligenza fiera, la consapevolezza del fascino maliardo o le ben salde virtù morali che ne facevano mogli e madri fedeli.
Interprete sapiente delle aspettative e dei gusti di una clientela d’élite e, con essi, dell’esprit di un’epoca felix e perduta, Giovanni Boldini è con oltre cento delle sue opere più mondane e spensierate, provenienti da prestigiosi musei internazionali come l’Orsay di Parigi, l’Alte Nationalgalerie di Berlino, il Musée des Beaux-Arts di Marsiglia e gli Uffizi di Firenze, al centro della retrospettiva allestita fino al 16 luglio a Roma, negli spazi del Complesso monumentale del Vittoriano.
A completare il percorso espositivo, che vede la curatela di Tiziano Panconi e Sergio Gaddi, sono una trentina di tele firmate da artisti a lui coevi, altrettanto validi interpreti di quell’epoca, da Telemaco Signorini a Giuseppe De Nittis, da James Tissot (di cui è esposta l’elegante tela «La dama con l’ombrello») a Federigo Zandomeneghi.
Di sala in sala, accanto alle ricerche en plein air “al soldo” del potente mercante internazionale Adolphe Goupil (in mostra «Marchesino a Versailles» del 1876, «Place Clichy» del 1874 e «Lo strillone» del 1878 ca), si potranno ammirare i ritratti delle affascinanti ereditiere madame Veil-Picard, madame Seligman, madame Fortuny, madame Montaland e mademoiselle De Nemidoff, elegantissime nei loro abiti sontuosi e fruscianti, con acconciature perfette e gioielli di notevole valore.
Tra le «Divine», per usare il termine con cui Giovanni Boldini appellava tutte le donne passate nel suo atelier, ci sono anche la cilena Emiliana Concha de Ossa, nipote del diplomatico e scrittore Ramòn Subercaseaux, Josefina Alvear Errázuriz, moglie dell’ambasciatore argentino a Parigi, e lady Colin Campbell, il cui ritratto arriva a Roma direttamente dalla National Portrait Gallery di Londra.
Non mancano lungo il percorso espositivo, di cui rimarrà documentazione in un catalogo edito dalla casa editrice milanese Skira, i ritratti di Rita De Acosta Lydig, seduta su una sedia, con gli occhi negli occhi dei visitatori e abbigliata con un abito rosato arricchito di pizzi di cui era collezionista, di madame Remy Salvator, appoggiata allo schienale di una sedia, e di  madame Helleu, sdraiata sulla spiaggia di Deauville e protetta da un parasole bianco, entrambe assorte nei propri pensieri, così come la donna ritratta ne «La tenda rossa», una delle opere più importanti esposte in questa mostra.
Su tutte loro spicca donna Franca Florio, con la grande tela realizzata tra il 1901 e il 1924, di cui si parla tanto in questi giorni perché, sostengono alcuni, l'esposizione romana potrebbe essere l’ultima occasione per vederla dal vivo. Il capolavoro di Boldini è, infatti, stato battuto all'asta all'inizio di maggio ed è stato aggiudicato da un privato che ha sbaragliato anche la concorrenza del Comune di Palermo, i cui cittadini avevano attivato una campagna di crowdfunding con l’hashtag #RiportiamoacasaFranca.
A commissionare a Giovanni Boldini il ritratto di Franca Florio, donna di singolare fascino e bellezza che Gabriele D’Annunzio definì «l’unica, una creatura che svela in ogni suo movimento un ritmo divino» e Guglielmo II appellò con il soprannome di «stella d'Italia», fu suo marito Ignazio, erede di una delle più importanti famiglie imprenditoriali siciliane.
Il primo ritratto realizzato aveva una scollatura vertiginosa e metteva a nudo il décolleté e parte dei seni. Ignazio Florio non gradì affatto la scelta del pittore, giudicò l'opera troppo sensuale e provocatoria e non la pagò. Boldini si rimise al lavoro eseguendo una seconda versione del dipinto, decisamente più casta, alla quale nel 1903 si aprirono addirittura le porte della Biennale di Venezia.
A distanza di anni il pittore, su richiesta della stessa donna Franca, riprese la prima versione del ritratto, conservata da sempre nel suo atelier, realizzando il dipinto nella sua forma definitiva, quella nota a tutti. In seguito alla rovina finanziaria della famiglia Florio la tela passò, tra il 1927 e il 1928, nelle mani del barone Maurice de Rothschild, che la portò in America; ritornò sul mercato nel 2005, quando fu battuta da Sotheby's e acquisita dalla Società Acqua Marcia, oggi al centro di una proceduta giudiziaria che ha visto mettere all’asta i beni di sua proprietà.
Alla mostra romana si lega anche la presentazione di un carteggio inedito del pittore composto da una quarantina di lettere scritte dal febbraio all’aprile del 1889, prevalentemente a Telemaco Signorini, che sono state di recente portate alla luce da Loredana Angiolino e Tiziano Panconi. Un'occasione, la lettura di questa corrispondenza, anche per scoprire l'ironia e la sagacia dell'artista ferrarese, noto per aver interpretato ottimamente -scriveva lo storico dell’arte Bernard Berenson- «la massima eleganza muliebre di un’epoca [...] fin troppo rivestita dagli artifizi dei sarti e delle modiste, e figurativamente legata a pose ambigue, tra il salotto e il teatro».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Boldini, «Ritratto di Donna Franca Florio», 1901-1924. Olio su tela, 221x119 cm; [fig. 2] Giovanni Boldini, «Ritratto di Giuseppe Verdi seduto», 1886. Olio su tela, 122x87 cm. Casa di Riposo per Musicisti-Fondazione Giuseppe Verdi; [fig. 3] Giovanni Boldini, «Il vestito da ballo (signora che cuce; Signora bionda in abito da sera interno con giovane intenta a cucire)», 1889 ca. 4 3 1904 ca. Olio su tavola, 27x35 cm 220x150cm. Collezioni d'Arte Fondazione Cariparma, donazione Renato Bruson; [fig. 4] Vittorio Matteo Corcos, «Castiglioncello»,1910. Olio su tela, 133x72 cm. Collezione privata; [fig. 5] Giovanni Boldini, «Ritratto della danzatrice spagnola Anita De La Feria», 1901. Olio su tela, 54,5x42 cm. Collezione privata 

Informazioni utili
Giovanni Boldini. Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, via di S. Pietro in Carcere - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30-20.30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto gruppi € 10,00, ridotto bambini € 6,00, per tutte le altre tariffe si consiglia di consultare il sito del Vittoriano. Informazioni e prenotazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 16 luglio 2017. 

martedì 20 giugno 2017

«Anime. Di luogo in luogo», Boltanski, Bologna e la memoria che si fa futuro

È uno degli artisti contemporanei più famosi al mondo ed è, senza dubbio, quello che, più di chiunque altro, ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria. Il suo nome è legato strettamente anche alla città di Bologna per la quale, nel 2007, ha realizzato un’imponente e drammatica installazione in ricordo della tragedia di Ustica, che vuole essere luogo di esercizio della memoria e dell'impegno per la ricerca della verità.
A dieci anni di distanza da quell’appuntamento Christian Boltanski, uno tra gli interpreti più sperimentali e innovativi del nostro tempo, torna protagonista nella città emiliana grazie a un articolato progetto, ideato da Danilo Eccher, studioso che nel 1997 aveva curato per la sede espositiva di Villa delle Rose «Pentimenti», la prima personale italiana dell'artista francese, all’interno della quale era esposta anche l’opera «Les regards», oggi visibile in un nuovo allestimento nella collezione permanente del Mambo, che riproduce su sottili fogli di poliestere le fotografie dei volti di partigiani e partigiane che compongono il Sacrario della Resistenza di piazza Nettuno.
«Anime. Di luogo in luogo» è il titolo dell’iniziativa, che si compone di diversi momenti complementari in cui l’interazione tra arte contemporanea, tessuto urbano e società si sviluppa intorno ai temi della memoria e del trascorrere del tempo inteso come ineluttabile passaggio tra la vita e la morte.
Un’ampia mostra antologica al Mambo - Museo d'arte moderna di Bologna, uno spettacolo teatrale al teatro Arena del Sole, un'installazione presso l'ex bunker polveriera nel Giardino Lunetta Gamberini e un progetto speciale all'interno dell'ex parcheggio Giuriolo sono i quattro volti di un medesimo lavoro, nato in linea con altre iniziative speciali che, in passato, hanno reso omaggio all'opera di autori come John Cage, Gianni Celati, Romeo Castellucci e Pier Paolo Pasolini accomunati da un significativo rapporto con Bologna.
La scelta di omaggiare Christian Boltanski assume una pregnanza di particolare rilievo simbolico per la concomitante ricorrenza di alcuni anniversari che incrociano la storia di Bologna con quella di importanti istituzioni culturali: dieci anni dalla fondazione del Mambo e del Museo per la Memoria di Ustica, trentasette anni dalla strage di Ustica, quaranta anni dalla nascita di Emilia-Romagna Teatro Fondazione. È, dunque, con una priorità urgentemente avvertita che questo progetto intende radicarsi nel patrimonio storico, civile e culturale della città, generando una fertile relazione tra memoria e contemporaneo, perché la memoria viva è una memoria che continua a interrogarci.
A tal proposito Danilo Eccher afferma, parlando del titolo del progetto: «Anima è un termine che, al singolare e nelle sue molteplici declinazioni, si riferisce al principio vitale dell’uomo. Al plurale, il termine rimanda alla collettività, alle storie dei singoli individui e alla Storia ma non manca di lasciare una prospettiva immaginaria per proiettare il presente nel futuro, trasmettendo un fiducioso senso di continuità».
Nucleo centrale dell'intero progetto sarà la mostra antologica allestita, dal 26 giugno al 12 novembre, al Mambo, con oltre venti installazioni dell’artista. L’ordinamento delle opere ripercorre la poetica di Boltanski da metà anni Ottanta fino gli anni più recenti e si articola in sale che affrontano i temi su cui si è concentrata con intensa continuità la sua ricerca: la scomparsa, il rapporto dialettico fra vita e morte, la fragilità della memoria e del ricordo, la scommessa contro l'ineluttabilità dell'oblio, il senso di tragicità intrinseco alla storia. L'imponente Sala delle Ciminiere, cuore del museo e dell'intero percorso espositivo, sarà occupata dalla struttura labirintica dell’installazione ambientale «Regard-Eyes»: immagini sfocate di volti anonimi stampate in bianco e nero su un tessuto trasparente di grande formato provenienti dall'archivio fotografico personale dell’artista che, come conturbanti presenze fantasmatiche, il visitatore è invitato ad attraversare abbandonandosi al flusso del tempo e della memoria.
Al centro della sala apparirà la straniante preziosità di «Volver», una forma piramidale alta oltre tre metri interamente ricoperta da coperte isotermiche dorate, materiali che richiamano le drammatiche immagini dei primi soccorsi prestati ai migranti. Il dialogo stabilito da Boltanski tra le due opere sembra suggerire un’immanente vicinanza tra le presenze/assenze di quei volti, di cui sopravvive solo uno sguardo evanescente, e i migranti, odierni fantasmi senza nome, per la comune privazione della storia e dell’identità individuali.
Al concetto della transitorietà dell'esistenza umana e della ricostruzione di tracce di vita quotidiana sarà ispirata anche l’installazione visibile dal 26 giugno giugno nell'ex bunker polveriera del Giardino Lunetta Gamberini. La costruzione militare di origine ottocentesca, prima di essere chiusa per motivi di sicurezza, negli ultimi anni era divenuta un rifugio improvvisato di sconosciuti senza tetto, forse migranti disperati, ancora impossibilitati a comprendere il significato della parola accoglienza. Scelto per il suo valore emblematico, il bunker diventa per l'artista uno spazio ideale dove evocare i corpi di mute presenze, attraverso un'opera creata ad hoc.
Sempre a fine mese inaugurerà l'installazione performance «Ultima», frutto della collaborazione di Boltanski con lo scenografo Jean Kalman e il compositore Franck Krawczyk, che trasforma la sala principale del teatro Arena del Sole, rivelandone inedite dimensioni espressive. La creazione, visibile dal 28 al 30 giugno, è pensata come attraversamento di uno spazio, di un luogo fortemente evocativo abitato da oggetti, voci, accadimenti sonori in uno scenario creato dalla combinazione di elementi emotivamente coinvolgenti per quanto semplici ed essenziali.
Nel mese di settembre ci sarà, invece, «Take me (I'm yours)», che vede Boltanski nel ruolo di curatore di un inusuale esperimento di arte popolare che trasforma lo spazio dell'ex parcheggio Giuriolo in un contesto di arte diffusa in cui gli spettatori sono invitati a interagire con l'arte o ad appropriarsene. Artisti affermati e giovani emergenti saranno invitati a realizzare multipli e oggetti da scambiarsi e donare al pubblico, in una visione ludica e ironica dei processi di creazione di valore delle opere d'arte, che cerca di esplorarne modalità di diffusione e distribuzione alternative alle leggi del mercato.
Completa il progetto l’intervento di arte pubblica «Billboards», con cinque immagini di partigiani e partigiane che compongono il Sacrario della Resistenza di piazza Nettuno. Le fotografie, personalmente selezionate dall’artista e riprodotte su numerosi tabelloni pubblicitari di vario formato, sono istallate lungo le principali strade periferiche della città. Creando impreviste discontinuità visive e di senso nel panorama urbano, questi sguardi rianimati interrogano la nostra consapevolezza del passato, attivando un processo di rammemorazione collettiva, che diviene investimento sul futuro.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Christian Boltanski, Chance - Biennale di Venezia, 2011; [fig. 2] Christian Boltanski, Réserve, Fête de Pourim. Scatole di metallo, fotografie, lampade / metal boxes, frames, lamps. © C. Boltanski; [fig. 3] Christian Boltanski, Monumenta - Paris, 2010. Dimensioni ambientali / ambiental dimensions. © C. Boltanski; [fig. 4] Christian Boltanski, Regards - Zurich, 2001. © C. Boltanski; [fig. 5] Christian Boltanski, Animitas (blanc), 2017. Video con sonoro / video with sound, 16/9, HD. © C. Boltanski

Informazioni utili
I luoghi del progetto speciale
A proposito di Ustica - Installazione permanente. Museo per la Memoria di Ustica, via di Saliceto, 3/22 - Bologna;
Anime. Di luogo in luogo. - Mostra antologica. MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna, via Don Minzoni, 14 - Bologna;
Billboards - Affissioni a Bologna;
Ultima. Spettacolo teatrale. Arena del Sole, via Indipendenza, 44 - Bologna;
Installazione. Ex bunker polveriera Giardino Lunetta Gamberini, via Pelizza da Volpedo - Bologna;
Take me (I'm yours) - Progetto speciale. Ex parcheggio Giuriolo, via Giuriolo, 3 - Bologna.


lunedì 19 giugno 2017

Venezia, alla Cini i «Ritratti di Luciana» firmati da Gentilini

Si arricchisce di una nuova importante acquisizione l’Istituto di storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Giovedì 15 giugno è stato siglato l’atto che sancisce l’ingresso nella raccolta lagunare del corpus grafico dei «Ritratti di Luciana» di Franco Gentilini (1909-1981), che raccoglie venti ritratti della moglie Luciana Giuntoli Gentilini realizzati dall’artista tra il 1970 e il 1981. Per l’occasione la Saletta espositiva della Biblioteca della Manica Lunga presenterà, fino al prossimo 14 luglio, una mostra con una selezione di questi lavori.
Questo corpus grafico è la testimonianza dell’ultima e intensa stagione dell’artista faentino, dal matrimonio del 1970 fino alla morte nel 1981. In questi dieci anni, Gentilini ha periodicamente effigiato la moglie in disegni che la ritraggono negli atteggiamenti più vari; si tratta, talvolta, di disegni preparatori per dipinti, più spesso opere autonome nate per il puro piacere del disegno, inteso come strumento per intessere un dialogo ancora più profondo all’interno della coppia, fra il pittore e la sua modella.
La costanza con cui Gentilini ritrae Luciana è sintomo di una frequentazione assidua presso lo studio del pittore, sebbene molti disegni abbiano l’aspetto di un’impressione momentanea tracciata in momenti diversi e non necessariamente nel raccoglimento dello studio. Questi ritratti offrono l’occasione di verificare la grande versatilità dell’artista nel padroneggiare tecniche e registri stilistici diversi, e di fonderli al contempo entro una matrice stilistica inequivocabilmente riconoscibile. Si va infatti dallo schizzo a penna o a matita al foglio di grandi dimensioni curato e rifinito come un dipinto. Del resto, Gentilini aveva acquisito grande dimestichezza col mezzo grafico grazie al lungo tirocinio come illustratore durante le collaborazioni con «Quadrivio», «L’Italia Letteraria», «La Fiera Letteraria», esperienze che hanno sollecitato in lui l’elaborazione di mezzi per una restituzione rapida e sintetica di scene narrative desunte dalla letteratura; pratica che tornerà cogente nella produzione per i libri illustrati. Il disegno, dunque, in tutta la carriera di Gentilini ha un ruolo non secondario, anzi contribuisce a pieno titolo all’elaborazione di un mondo poetico e alla messa a punto di soluzioni espressive diversificate.
Quello di Franco Gentilini è un disegno inizialmente graffiante, specialmente quando illustra la «Metamorfosi» di Kafka, e che via via si stempera in modi più soffici e gentili. Il suo, come osservava Giuseppe Appella nel 1980, è un segno «che non forza mai l’immagine pur indagandola lungamente e minuziosamente nelle sue forme», ed è questo che lo rende, sempre secondo il critico romano, «solenne e popolare, grandioso e ordinario, sensuale e licenzioso, altero e dichiarato, capriccioso e gaio, ameno e frizzante». In ogni caso il disegno ha un ruolo centrale per il fatto che tutta la sua pittura si fonda sulla linea, sulla definizione di profili fluidi nati senza staccare mai la penna o la matita dal foglio: è la linea, infatti, a definire i volumi delle forme, successivamente chiarite dal chiaroscuro.
La carrellata dei ritratti di Luciana mostra il dispiegarsi della gamma di possibili modulazioni dello stile di Gentilini sotto il profilo grafico e, soprattutto, la sua capacità di padroneggiare mezzi tecnici differenti, rifacendosi a modelli storici e senza venir meno alla propria vocazione stilistica: l’uso del pastello e della sanguigna, per esempio, di volta in volta rimanda a esempi dei maestri del Seicento o dell’Ottocento, a una tendenza verso il disegno di sapore pittorico e cromaticamente sensibile. Oppure, il disegno a penna, qui e là sottolineato da qualche indicazione di chiaroscuro a tratteggio, mostra il coesistere di un secondo registro stilistico più netto, ma che al tempo stesso evidenzia una grande fluidità di mano e spontaneità di segno. In entrambi, però, quella morfologia sintetica del volto, quel modo netto di tratteggiare la fisionomia con pochi tratti arcaizzanti, fa da motivo conduttore costante che si ravvisa sotto il tratteggio o il chiaroscuro, dando compattezza e coerenza a un nucleo di opere su carta altrimenti eterogeneo.
Milena Milani, nel 1971, raccontando di aver visto più volte Gentilini intento a disegnare, non nascondeva di aver «ammirato e invidiato la purezza delle linee, quella straordinaria capacità di essere ironico e nello stesso tempo drammatico, l’atmosfera rarefatta dove gli oggetti, le nature morte acquistano un peso persino ossessivo. Mi piacciono le donne disegnate, che sono anch’esse, come gli oggetti, venute fuori da un mondo che ci appartiene, pur essendo metafisico».

Informazioni utili
«Ritratti di Luciana». Fondazione Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 18.00, ultimo ingresso alle ore 17.45. Ingresso libero. Informazioni: tel. 041.2710306, e-mail arte@cini.it. Sito internet: www.cini.it. Fino al 14 luglio 2017.

venerdì 16 giugno 2017

Alighiero Boetti tra Lugano e Venezia

È la storia di un’amicizia cementata dai colori e dalle forme della pittura quella che va in scena a Lugano, negli spazi del Masi - Museo d’arte della svizzera italiana. Al centro del percorso espositivo, che vede la curatela di Bettina Della Casa, ci sono Alighiero Boetti (1940–1994) e Salvo (1947–2015), due fra le figure più originali della scena artistica italiana della seconda metà del Novecento, che iniziarono la loro attività sul finire degli anni Sessanta a Torino, città in quel periodo teatro di particolare fermento artistico e intellettuale, e che lì, dal 1969 al 1971, condivisero lo studio in corso Principe Oddone 88.
«Vivere lavorando giocando», questo il sottotitolo dell’esposizione tratto da una citazione di Salvo sul suo rapporto lavorativo e amicale con Alighiero Boetti, ripercorre attraverso centocinquanta opere la storia di un’avventura in cui «giocare con l’arte era – per usare le parole degli organizzatori- attività rigorosa, avvincente ed irrinunciabile».
L’esposizione principia dal finire degli anni Settanta, periodo di particolare rinnovamento della Torino dell’Arte povera, allora animata da spazi vitali e innovativi quali le gallerie Sperone, Notizie e Christian Stein. In quegli anni Alighiero Boetti è orientato verso una costante riformulazione della sua identità d’artista: l’idea di autorialità, di messa in scena del soggetto nel suo raddoppiarsi, moltiplicarsi o perdersi è ossessivamente presente nella sua ricerca. Parallelamente il tempo, inteso sia come oggetto di riflessione sia come attiva forza creatrice, diviene motivo di sfida e confronto costante. Nello stesso periodo prende avvio la fascinazione per l’«ordine e disordine» dei fenomeni della realtà indagati dall’artista alla ricerca di un sistema di regole, leggi, criteri ordinatori che, applicati a parole e immagini, dettino la configurazione dell’opera su spazi bidimensionali.
Per Salvo quegli stessi anni rappresentano il momento di affermazione della propria identità attraverso un processo di storicizzazione venato di ironia; intorno al 1973 si ha, invece, la sua virata verso una pittura figurativa intrisa di riferimenti alla storia dell’arte, scelta del tutto insolita in quella stagione di concettualismo dominante.
Il percorso espositivo continua con una sezione intitolata «Infinita varietà del tutto», nella quale si mettono a fuoco gli sviluppi successivi delle rispettive ricerche condotte ormai in modo completamente autonomo. A partire dal 1972, anno del trasferimento di Alighiero Boetti a Roma, rimane tra i due artisti una comune adesione a temi quali l’identità, il viaggio o la morte, ma è la concezione stessa della superficie bidimensionale nell’uno e della pittura nell’altro a dividerli irrimediabilmente. Salvo, da metà degli anni Settanta, si dedica al mezzo pittorico in modo totalizzante, mentre Alighiero Boetti si orienta, sebbene non esclusivamente, verso la pratica concettuale della proliferazione e della delega assegnando cioè ad assistenti, collaboratori e artigiani, a volte a lui sconosciuti, la realizzazione delle opere, spesso concepite in serie, cicli o varianti. Entrambi aprono la strada a una molteplicità di linguaggi e tecniche offrendo un fondamentale contributo alla riflessione concettuale degli anni Sessanta e Settanta del Novecento; ciò li rende ancora oggi importanti figure di riferimento per le generazioni di artisti post-concettuali del ventunesimo secolo.
L’esposizione è completata da un focus allo Spazio -1. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati sul clima artistico e culturale di Torino tra gli anni Sessanta e Settanta/b>, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e Mario Merz solo per fare qualche esempio.
Ad Alighiero Boetti dedica una mostra anche la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che, nei primi giorni di apertura della Biennale d’arte, propone «Minimum / Maximum», a cura di Luca Massimo Barbero.
Attraverso ventidue opere, che coprono un periodo di circa tre decenni, il visitatore viene invitato ad analizzare un tema specifico della poetica boettiana, per certi versi inedito, quale quello del rapporto tra il formato minimo e massimo.
Il percorso espositivo prende le mosse, nella sala Carnelutti, con il confronto tra il più grande e il più piccolo (1966) «Mimetico», e prosegue con le due opere selezionate per la serie «Biro», il grande dittico «Mettere al mondo il mondo» (1972-73) e il piccolo «Ritratto di Giorgio Colombo». Si passa poi ai «Bollini» con l’imponente, e ancora poco conosciuta al pubblico, mappa «Estate 70»: venti metri di carta da parati grezza, quadrettata a matita, sulla quale l’artista ha incollato migliaia di adesivi colorati a formare combinazioni sempre maniacalmente diverse. Gli fa da contraltare «Senza titolo» del 1968, dove i bollini sono ugualmente protagonisti, ma con dimensioni ridotte (70 x 100 centimetri).
In mostra è rappresentata anche la serie «Alternando da uno a cento e viceversa» con l'opera più piccola (1979), una tecnica mista su carta quadrettata intelata, e il grande kilim del 1993 di quasi tre metri di lato.
Un ulteriore confronto vede protagonista il «Storia naturale della moltiplicazione», con la combinazione di dodici elementi da una parte e il singolo modulo dall’altra, entrambi del biennio 1974-75.
L’ultima parte della sala è, quindi, riservata a due serie di grande fascino e impatto: gli «Aerei», con il grande trittico del 1989 (inchiostro e acquarello su carta intelata di 3 metri di lunghezza complessivi) e il piccolo del 1983 (biro su carta, 23x50), e due «Lavori postali». Il maximum della serie è un’opera composta da settecentoventi buste affrancate e timbrate suddivise in sei pannelli (1972), mentre il minimum è composto da sei buste (1970).
Fra la prima e la seconda sala è in esposizione il documentario Niente da vedere Niente da nascondere, realizzato nel 1978 da Emidio Greco in occasione della retrospettiva dedicata a Boetti alla Kunsthalle di Basilea, che alterna immagini della mostra svizzera a momenti nello studio romano dell’artista, importante perché ridà testimonianza diretta delle parole dell'artista.
Il percorso espositivo prosegue nella sala Piccolo Teatro con il confronto tra i rari «Ricami» monocromi -il grande «Titoli» (1978) e il piccolo «Ordine e disordine »(1989)- e, quindi, con i ricami «Tutto e Mappe», con due grandi formati ciascuno dei quali di quasi 6 metri di lunghezza.
Infine la seconda sala ospita due opere del ciclo delle «Copertine»: il volume «1984» che contiene duecentosedici fotocopie xerox rilegate e «Copertine (Anno 1984)», monumentale lavoro costituito da dodici quadri, ciascuno per un mese dell’anno, nei quali sono state ridisegnate a matita su carta e a grandezza naturale complessivamente duecentosedici copertine delle più importanti riviste italiane e straniere del tempo, secondo un ordinamento cronologico. Scriveva nel 1984 Boetti: «In quell’anno le immagini erano milioni. Oggi, forse qualche centinaio, poi rimarrà solo questa copia sbiadita di un tempo coloratissimo».
Da questa serie ha preso spunto il progetto «Colore=Realtà. B+W=Astrazione (a parte le zebre)», nato da un’idea di Hans Ulrich Obrist, direttore artistico delle Serpentine Gallery di Londra, e di Agata Boetti, che riflette sul tema della fotocopia.
L'esposizione riunisce per la prima volta un insieme di opere eseguite con la fotocopiatrice nei diversi momenti della carriera dell’artista: da alcune opere concettuali e metodiche della fine degli anni Sessanta, come «Nove Xerox Anne Marie» (1969), «Autoritratto» (1971) e l’enigmatico «Dossier Postale» (1969-70), a opere legate alla profusione e alla rappresentazione di informazione cartacea dell’inizio degli anni Novanta. Protagonisti del progetto sono in particolare I «15 libri rossi-111», quindici volumi contenenti ciascuno centoundici fotocopie Xerox, dei quali è possibile scoprire interamente il contenuto grazie alla riproduzione e all’allestimento a parete di tutti i 1.665 A4 contenuti nei volumi.
Al centro della sala dedicata alle fotocopie, i visitatori sono, inoltre, invitati a utilizzare una vera e propria fotocopiatrice, seguendo le regole del gioco appositamente create dall’artista messicano Mario Garcia Torres per rendere omaggio ad Alighiero Boetti, e avranno così a disposizione 11.111 fogli di carta rossa per fotocopiare qualsiasi cosa vogliano.

Didascalie delle immagini
[Fig . 1] Alighiero Boetti, Oggi è il diciannovesimo giorno sesto mese dell’anno mille novecento ottantotto all’amato Pantheon (Today it's the 19th day 6th month in the year 1988 at the beloved Pantheon), 1988. Ricamo su tela (625 quadrati),  106 x 115 x 2,8 cm. Collezione Colombo, Milano Photo: Giorgio Colombo, Milano; [fig. 2] Salvo, 57 pittori italiani, 1975. Olio e matita su tavola,  95,4 x 79 cm Eredi Colnaghi Photo: Agostino Osio, Milano; [fig. 3] Alighiero Boetti e Salvo a Vernazza, 1969. Photo: Anne Marie Sauzeau; [fig. 4] Alighiero Boetti, Mappa, 1989-1994. Ricamo su tessuto, 254 x 588 cm. Firenze, Collezione Roberto Casamonti. Courtesy, Tornabuoni Arte; [fig. 5] Alighiero Boetti, Aerei, 1989. Inchiostro e acquarello su carta intelata, cm 150 x 3000. Parigi, Collezione Carmignac; [fig. 6] Veduta della mostra veneziana alla Fondazione Cini

Informazioni utili
Boetti/Salvo. Vivere lavorando giocando. LAC - Lugano Arte e Cultura, piazza Bernardino Luini, 6 - Lugano. Orari: martedì–domenica, ore 10:00–18:00; giovedì aperto fino alle ore 20:00; lunedì chiuso. Ingresso: intero chf 15.-, ridotto chf 10.- (AVS/AI, over 65 anni, gruppi, studenti 17-25 anni), gratuito 16 anni e ogni prima domenica del mese. Informazioni: +41(0)588664230 oinfo@masilugano.ch. Sito internet: www.masilugano.ch. Fino al 27 agosto 2017.

Alighiero Boetti. Minimum /Maximum. Fondazione Giorgio Cini - Isola di San Giorgio (Venezia). Orari: 11.00-19.00; chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Informazioni:  tel. 041. 2710230 o arte@cini.it. Sito web: www.cini.it. Fino al 12 luglio 2017.

giovedì 15 giugno 2017

Da Boetti a Pistoletto, le mostre della Fondazione Cini durante la Biennale

Sono quattro i progetti espositivi che l’Isola di San Giorgio Maggiore ha messo in cantiere per i primi mesi di apertura della Biennale d’arte. Si inizia con un evento collaterale della cinquantasettesima edizione della Mostra internazionale d’arte: «Yesterday/Today/Tomorrow: Traceability is Credibility», un progetto dell’artista irlandese Bryan Mc Cormack che racconta l’odissea dei rifugiati.
Cuore del progetto, visibile fino al prossimo 13 agosto, è la visualizzazione della crisi europea dei migranti e l’avvio di un programma di ricerca per la raccolta, conservazione e interpretazione di questi dati visivi.
L'artista, trascorrendo più di un anno in decine di campi in tutta Europa, ha lavorato con centinaia di profughi di diverse nazionalità chiedendo loro di realizzare tre disegni distinti con delle penne colorate: uno della vita passata («Yesterday-Ieri»), uno della vita presente («Today-Oggi») e uno di come si immaginano la vita futura («Tomorrow-Domani»). I disegni così raccolti costituiscono dei blocchi visivi che formano il cuore dell’installazione.
Il progetto vuole dare una voce a questi rifugiati anche tramite i social media. Ogni giorno verranno caricate su Facebook, Instagram e Twitter tre immagini dei disegni realizzati dai rifugiati. In questo modo l’artista vuole sensibilizzare il mondo alla crisi dei migranti eliminando le barriere linguistiche e culturali.
Poco distante è visibile una nuova scultura site-specific dell'artista americana Pae White: «Qwalala». Si tratta di un muro curvo, lungo 75 metri e alto di 2,4 metri, realizzato con oltre tremila lingotti di vetro colati a mano dall’azienda veneta Poesia Glass Studio.
Ciascun mattone è unico, frutto delle conformazioni imprevedibili e variabili proprie del processo di produzione artigianale. Circa la metà dei mattoni è in vetro trasparente mentre i restanti 1.500 spaziano tra una gamma di ventisei colori, risultato di una tecnica per cui ogni mattone contiene un effetto tempesta: un turbinio di colori, pur rimanendo trasparente. In questo progetto i singoli mattoni rappresentano i moduli di un caos contenuto. L'artista combina i mattoni per comporre ciò che da lontano sembra un modello pittorico astratto ma che, a un esame più attento, rivela mondi inaspettati di particolari. I tenui blu, verdi, rosa, grigi e marroni della tavolozza sono tratti dai colori utilizzati nell’arte vetraria romana del primo secolo creati dalla presenza di zolfo, rame, manganese e altri metalli e minerali.
Il progetto rientra nell’iniziativa «Le stanze del vetro» che, in questi mesi, propone anche la mostra «Ettore Sottsass: il vetro», a cura di Luca Massimo Barbero. L’esposizione presenta più di duecento pezzi, in gran parte provenienti dalla collezione di Ernest Mourmans e molti dei quali mai esposti al pubblico, secondo un allestimento innovativo disegnato da Annabelle Selldorf. Si tratta di una novità assoluta: è la prima volta che viene realizzata una mostra interamente dedicata alla produzione dell’architetto italiano nel campo dei vetri e dei cristalli; per l’occasione è stato pubblicato anche il primo compendio delle le sue opere in vetro, edito da Skira.
Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini, cura anche la mostra «Alighiero Boetti: Minimum/Maximum», realizzata con la collaborazione dell’Archivio Alighiero Boetti e di Tornabuoni Art. L’esposizione presenta il risultato di un processo inedito di selezione e confronto: quello tra il formato minimo e massimo di opere dei cicli più rappresentativi dell’artista, focalizzando così uno dei temi che meglio rappresentano l’operatività creativa dell’artista torinese. All’interno del percorso sarà compreso un progetto speciale, a cura di Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti, incentrato sul tema della fotocopia.
All’isola di San Giorgio è visibile, infine, anche il progetto ideato da Michelangelo Pistoletto per la cinquantasettesima edizione della Biennale di Venezia. La mostra, concepita per gli spazi della Basilica di San Giorgio Maggiore e le adiacenti Sala del Capitolo e Officina dell’Arte spirituale, riflette sul destino dell’uomo e l’urgente necessità di un cambiamento sociale radicale.
«Suspended Perimeter – Love Difference», una serie di specchi posizionati in circolo, apre la carrellata di opere esposte fino al prossimo 26 novembre a Venezia. Tra di esse, oltre agli autoritratti del periodo giovanile e alla celebre «Venere degli stracci», si può vedere, nella Sala del Capitolo, «Il Tempo del Giudizio»: le quattro religioni più diffuse nel mondo - Cristianesimo, Buddismo, Islamismo, Ebraismo - sono indotte a riflettere ciascuna su se stessa, come momento di radicale auto-confessione. Ciascuna religione è rappresentata da un elemento simbolico posto davanti a uno specchio: una statua di Buddha, un tappeto per la preghiera rivolto verso la Mecca, un inginocchiatoio. Fa eccezione l’Ebraismo che si presenta come specchi a forma di tavole della legge.
Le varie opere esposte mettono in luce la genesi dell’opera di Pistoletto e dell’immagine come identificazione fenomenologica dello spazio-tempo, accompagnandoci fino alle opere più recenti dove l'artista continua a lavorare con l’immaginazione e a configurare uno scenario che si apre verso il futuro, lasciando ancora una volta aperto quel flusso «tridinamico» del tempo che include inevitabilmente passato, presente e futuro.

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